Corte dei conti, Sez. giurisdizionale d'Appello per la Regione Siciliana - Sentenza n. 38 del 1 aprile 2016 -
La Sezione d'Appello della Corte dei Conti per la Sicilia ha condannato alcuni amministratori di una Provincia al risarcimento del danno derivato dall'indebita attribuzione al direttore generale ed al segretario generale dell'Ente Locale di particolari indennità per l'espletamento di funzioni già ricomprese nei compiti loro istituzionalmente assegnati, con conseguente violazione del principio di "onnicomprensività della retribuzione dirigenziale", sancito dall'art. 24 del D.L.vo n.165/2001.

Dopo un'ampia disamina dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale riguardante la giurisdizione sulle "società partecipate" da Enti Pubblici, con particolare riferimento a quelle denominate "in house providing", ha dichiarato la sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti in ordine all'azione di responsabilità amministrativa promossa dalla Procura regionale nei confronti di vari amministratori e funzionari per il risarcimento del danno patrimoniale cagionato alla società incaricata della gestione del sistema informatico della Regione Siciliana (società istituita con legge regionale e che, all'epoca dei fatti di causa, aveva un capitale posseduto in misura del 51% dalla Regione ed in misura del 49% da un socio privato di minoranza). A tal proposito, per la soluzione della "vexata quaestio" (che era stata definita nel giudizio di primo grado con il diniego della giurisdizione contabile) sono stati ritenuti applicabili i fondamentali principii recentemente introdotti a livello comunitario dalla Direttiva 2014/24/UE del 26.2.2014, da reputarsi "self executing".

 

S E N T E N Z A N.38/A/2016

nel giudizio in materia di responsabilità iscritto al n. 5438 del registro di segreteria promosso ad istanza del P.M., per la riforma della sentenza n. 793/2015, nei confronti di:
Visto l’atto introduttivo del giudizio depositato il 14 ottobre 2015.
Visti gli atti e documenti tutti del fascicolo processuale.
Uditi alla pubblica udienza del 15 marzo 2016 il relatore Consigliere Pino Zingale, il P.M. nella persona del Vice Procuratore Generale Gianluca Albo e gli avvocati Giovanni Immordino, su delega dell’avv. Attilio Luigi Maria Toscano, per C., l’avv. Cecilia Nicita per B., l’avv. Giovanni Immordino per V., gli avv.ti Carmelo Carrara e Giuseppe Cozzo per B. e, l’avv. Francesco Stallone per S. e S., l’avv. Salvatore Raimondi per D., l’avv. Stefano Polizzotto per P., l’avv. Lucia Alfieri per S. e gli avv.ti Mario Serio e Carmelo Elio Costanza per I..

F A TT O

La Procura Regionale, con atto di citazione depositato in segreteria in data 07.11.2014 e ritualmente notificato, a seguito di notizie apprese dalla stampa, conveniva in giudizio C.R., Presidente della Regione Siciliana, B.A., B.E., C.D., S.N., S.M., componenti della Giunta Regionale, V.P., Assessore alla Funzione Pubblica, D.G., Avvocato Distrettuale dello Stato, P.M., Ragioniere Generale, S.R., Dirigente del Servizio Partecipate, e I.A., Commissario Liquidatore di Sicilia e Servizi s.p.a., per essere

condannati al pagamento, secondo quote computate in base al contributo eziologico di ciascuno, della complessiva somma di € 1.063.078,50, nonché degli incrementi retributivi a maturare con il pagamento dei corrispettivi, oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali, a titolo di danno erariale patito da Sicilia e Servizi s.p.a. nonché alle spese di giudizio da liquidarsi in favore dello Stato, quale conseguenza dell'illegittimo reclutamento, con contratto a tempo determinato, nella predetta società di personale che prestava servizio presso Sicilia e Servizi Venture s.c.a.r.l., il socio privato di Sicilia e Servizi s.p.a.

La disamina degli atti del fascicolo evidenzia che il 20.12.2005 si costituiva, ai sensi dell'art. 78 della legge regionale n. 6/2001, la società mista a prevalente partecipazione pubblica denominata Sicilia e Servizi s.p.a., con capitale intestato per il 51% a Sicilia e Innovazione s.p.a. (società interamente partecipata dalla Regione Siciliana) e per il restante 49% al socio di minoranza Sicilia e Servizi Venture s.c.r.l., avente come oggetto sociale lo svolgimento delle attività informatiche di competenza dell'amministrazione regionale, ivi comprese le attività per l'attuazione della misura 6.05 del P.O.R. Sicilia 2000/2006.

Il successivo 30.06.2006, la Regione Siciliana stipulava con Sicilia e Servizi s.p.a. (in prosieguo SIeSE), Sicilia e Innovazione s.p.a. e Sicilia e Servizi Venture s.c.r.l. (in prosieguo SISEV) la convenzione quadro per la gestione delle attività informatiche di competenza dell'amministrazione regionale; con l'ulteriore convenzione del 21.05.2007, si stabiliva che Sicilia e Innovazione s.p.a si occupasse della fase di progettazione, direzione dei lavori e controllo dei progetti, mentre SIeSE s.p.a. ne avrebbe curato solo la fase di realizzazione.
La Regione a seguito della messa in liquidazione, il 26.10.2006, di Sicilia  e Innovazione, acquisiva il 51% della partecipazione azionaria in SIeSE s.p.a., affidataria delle attività di gestione e conduzione della PTI (Piattaforma Telematica Integrata), dei progetti e delle PIC (prese in carico).

Il pubblico ministero sosteneva che la suddetta società SIeSE s.p.a. potesse "qualificarsi come organo indiretto a dotazione erariale, previsto dalla legge" per una serie di ragioni.

La partecipazione maggioritaria della Regione Siciliana in SIeSE era perdurante e intangibile (artt. 9.1. e 10.1. dello Statuto), mentre il socio di minoranza, individuato con procedura di evidenza pubblica, non avrebbe potuto cedere le azioni a terzi per cinque anni dalla costituzione (art. 8), con prelazione in favore del socio pubblico allo spirare del quinquennio (art. 9) e con clausola di gradimento subordinata all'assenso del rispetto dei patti parasociali (art. 10); poi, nei citati patti parasociali era previsto che, in caso di scioglimento anticipato della società, il socio pubblico di maggioranza avrebbe avuto il diritto di riscatto coattivo della partecipazione di ogni altro socio di minoranza, riscatto coercibile in forma specifica ai sensi dell'art. 2932 c.c. (art. 6).

I rapporti tra Regione, SIeSE e SISEV erano disciplinati da apposita convenzione quadro, approvata con la delibera di Giunta n. 165 del 09.05.2007, che, tra l'altro, prevedeva la remunerazione delle attività informatiche (il fatturato era esclusivamente nei confronti della Regione Siciliana) e i controlli che l'ente territoriale poteva esercitare su SIeSE (art.10) anche durante la fase attuativa del servizio, con l'approvazione del piano operativo strategico (P.O.S., art. 13) e del piano esecutivo annuale (P.E.A., art. 14).

In ultimo, SIeSE come altre società strategiche, era sottoposta al controllo analogo prescritto dall'art. 4 del Decreto dell'Assessore all'Economia n. 1720 del 28.09.2011, che ribadiva le modalità di esercizio del controllo analogo già previsto sub 4.2 del paragrafo 6 rubricato "direttive per le società cosiddette in house" della circolare n. 5 del 06.05.2011 dell'Assessore all'Economia, denominata "atti di indirizzo per le società partecipate dalla Regione Siciliana".

Tale contesto giustificava, ad avviso del pubblico ministero, che il socio di minoranza si obbligasse "a prestare in modo continuativo alla Società il proprio know how nel campo delle attività informatiche" e, a tal fine, a fornire anche "le qualificazioni professionali necessarie".

Nonostante la gara per la scelta del socio privato fosse stata aggiudicata il 22.09.2005 alla SISEV, con successivo superamento della fase di start- up prevista in 18 mesi, non risultava, ad avviso del P.M., né una volontà della SISEV di adempiere l'obbligazione di cui all'art. 11, né della SIeSE di pretenderne l'adempimento, neanche in prossimità della fuoriuscita dalla compagine associativa del socio privato, prevista per il 22.12.2013; si manteneva, così, nel tempo una continua dipendenza tecnica di SIeSE dal socio privato SISEV fonte di continui esborsi economici per remunerare l'attività del socio privato.

Inoltre, benché nessun atto della procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato, della convenzione quadro, del piano operativo

strategico e del piano esecutivo di annuale prevedesse, per adempiere al citato art. 11, un obbligo di far transitare personale dal socio privato SISEV al socio pubblico SIeSE (e tantomeno un transito di massa) si utilizzava il termine "popolamento" per indicare il necessario transito del personale dal socio privato SISEV alla SIeSE, ritenuto strumentale all'adempimento dell'obbligazione di trasferimento del know-how.

Il cosiddetto "popolamento" costituiva, pertanto, un espediente per far transitare nella società regionale SIeSE persone protette dalla politica, assunte dal socio privato a chiamata diretta, in contrasto tra l'altro con quanto previsto dall'art. 18 del decreto legge n. 112/2008.

La Giunta Regionale, però, con delibera n. 110 del 15.03.2013 (deliberanti C., B., B., B., B., C., L.B. e V.), recependo la proposta dell'Assessore all'Economia, ribadiva "il divieto di assunzione per le società partecipate e, di conseguenza qualsiasi ipotesi di ripopolamento".

L'art. 35 della legge regionale 15 maggio 2013, n. 9, prevedeva, poi, l'istituzione presso l'Assessorato Regionale delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica, dell'Ufficio per l'attività di coordinamento dei Sistemi Informativi Regionali e l'attività Informatica della Regione e delle Pubbliche Amministrazioni Regionali; seguiva la deliberazione n. 221 del 27 giugno 2013 che istituiva il suddetto Ufficio Speciale, con compiti di gestione, manutenzione e sviluppo dei sistemi informatici, di monitoraggio dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali comunitari unitamente ai sistemi informatici relativi al fondo sviluppo e coesione, al FAS ante 2007 e al Piano azione e coesione; veniva nominato il responsabile del citato Ufficio (decreto assessoriale n. 5833 del 10 ottobre 2013), con

assegnazione di 97 unità di personale (D.D.G. n. 5958 del 18.10.2013); il ragioniere generale, dott. M.P., con le note n. 65366 e n. 65368 del 21.11.2013, comunicava, contestualmente, al Responsabile dell'Ufficio Speciale, alla SIeSE ed alla SISEV, un elenco di nove dipendenti regionali, cui venivano aggiunti altri quindici (disposizioni di servizio n. 85/2013, n. 97/2013, n. 98/2013, n. 101/2013, n. 102/2013, n. 103/2013, n. 122/2013, n. 123/2013 e n. 12412013), che avrebbero effettuato dal 25.11.2013 l'affiancamento con il personale SIeSE e SISEV in vista della cessazione della convenzione quadro di affidamento di attività informatiche prevista per il 22.12.2013; ciò al fine di garantire senza soluzione di continuità la piena funzionalità dei sistemi informativi regionali.

L’attore pubblico sosteneva che da due note, una (prot. n. 69840 del 13.12.2013) sottoscritta dal ragioniere generale (P.) e dal responsabile del servizio partecipazioni (dott.ssa S.) e l’altra (prot. n. 2981 dell’11.12.2013) sottoscritta dal commissario liquidatore di SIeSE (I.), si desumeva che in una riunione tenutasi il 10.12.2013 presso la sede sociale di SIeSE il Presidente della Regione (C.) avrebbe espresso un indirizzo per valutare se, alla scadenza della convenzione, sussistessero i presupposti tecnici e giuridici al fine di procedere al necessario processo di ristrutturazione societaria e le modalità di implementazione.

Il dott. P. e la dott.ssa S. chiedevano, pertanto, un parere (prot. n. 69839 del 13.12.2013) all’Avvocatura dello Stato di Palermo, il cui contenuto ad avviso sempre dell’organo requirente risultava giuridicamente e logicamente stridente con quanto pochi giorni prima rassegnato dal medesimo dott. P. nella precedente nota prot. 65955 del 26.11.2013 ove lo

stesso, rispondendo ai rilievi del collegio dei revisori di SIeSE, aveva sostenuto che il processo di popolamento della citata società fosse divenuto complesso a causa dei mutamenti normativi sia regionali (art. 35 della legge n. 9/2013 che imponeva l’internalizzazione del servizio informatico), sia nazionali (comma 9 dell’art. 4 del decreto legge n. 95/2012).

In particolare, P. e S. chiedevano all’Avvocatura dello Stato se la società SIeSE s.p.a. potesse procedere, in deroga al divieto di assunzioni nelle partecipate regionali, all’assunzione dei dipendenti SISEV che avevano gestito il sistema informatico e la piattaforma telematica della Regione Siciliana; in caso negativo, se dovesse trovare attuazione “la procedura di cui all’art. 57, comma 1, lett. c, del D.lgvo 12 aprile 2006 n. 163” (affidamento diretto di un servizio nei casi di urgenza).

L’avvocato distrettuale dello Stato, avv. D.G., con articolato parere (prot. n. 71243 del 20.12.2013), dopo aver considerato sia il divieto di assunzione di personale previsto dall’art. 20 della legge regionale n. 11/2010, sia l’obbligo di evidenza pubblica per il reclutamento nelle società pubbliche maggioritarie previsto dall’art. 18 del decreto legge n. 112/2008, concludeva per l’inoperatività sia del divieto legale di assunzione, sia dell’obbligo legale di evidenza pubblica, ritenendo che sulle esplicite disposizioni di legge fosse, invece, prevalente la tutela dell’esigenza occupazionale, desunta implicitamente dal comma 6 dell’art. 20 della legge regionale n. 11/2010, nonché l’acquisizione del know-how previsto nel bando di gara e individuato nel popolamento; richiamava, poi, l’art. 2112 c.c. in materia di trasferimento di azienda per giustificare la

conservazione del posto di lavoro dei dipendenti SISEV nei confronti della società cessionaria SIeSE.

Il citato parere veniva trasmesso informalmente via email al capo di gabinetto del presidente C., dott. G. S., come da quest’ultimo riferito in sede di audizione personale.

Acquisito il parere, il ragioniere generale dott. P. e il dirigente del Servizio Partecipate dott.ssa S. trasmettevano, per la relativa condivisione e impulso, all’Assessore all’Economia la “proposta delibera di Giunta regionale assorbimento ex SISEV da parte di Sicilia & Servizi SPA”; il suddetto assessore, poi, trasmetteva per competenza al Presidente della Regione ed all’Assessore per le Autonomie locali e della Funzione Pubblica la citata proposta di delibera affinché fosse quest’ultimo a pronunciarsi.

L’Assessore delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica, dott.ssa V., con nota prot. n. 5771/GAB del 15.01.2014 avente ad oggetto “proposta delibera della Giunta regionale assorbimento personale ex SISEV da parte di Sicilia & Servizi S.p.A.”, condivideva la nota di pari data dell’Assessore dell’Economia e chiedeva che l’argomento venisse inserito all’ordine del giorno dal Presidente della Regione per modificare l’ultimo comma della deliberazione n. 110/2013, comma che aveva imposto il divieto di assunzione nelle società partecipate.

La Giunta Regionale, con delibera n. 6 del 15.01.2014, con il voto favorevole di C.R., B.A., B.E., C.D., S.N., S.M., V.P., richiamando il parere dell’Avvocatura dello Stato, modificava “la deliberazione n. 110 del 15 marzo 2013 ... nell’ultima parte del dispositivo in cui risulta[va] in

contrasto con il parere dell’Avvocatura dello Stato di Palermo”, ed al contempo si “rimette[va] al liquidatore della società Sicilia e Servizi S.p.A. in liquidazione per gli adempimenti di competenza”.

Il commissario liquidatore di SIeSE, avv. I.A., con nota prot. n. 83 del 16.01.2014, comunicava al Presidente della Regione (C.) e al Direttore Responsabile del Servizio Partecipate (S.) che in considerazione del parere dell’Avvocatura dello Stato e in ottemperanza alle direttive del Governo contenute nella delibera di Giunta n. 6/2014, avrebbe avviato il processo di popolamento di SIeSE con la contrattualizzazione a tempo determinato del personale ex SISEV; quindi, procedeva all’assunzione a tempo determinato (18 mesi) di 74 dipendenti ex SISEV, con decorrenza 23.01.2014, per alcuni, e 04.02.2014, per altri, e con un periodo di prova di quattro mesi.

Il commissario liquidatore, con determina n. 1 del 04.02.2014, al fine di procedere alla verifica dell’idoneità del personale ex SISEV assunto, nominava una commissione di verifica composta dal prof. F.S., con funzioni di presidente, dal Generale di Brigata Aus. R.U. e dal Generale di Brigata Ris. D.B., entrambi con funzioni di componenti.

All’esito dei lavori della citata commissione, la SIeSE licenziava per inidoneità 17 dipendenti tra quelli reclutati da SISEV.

Il costo complessivo per l’assunzione di tale personale, tenuto conto anche dei licenziamenti intervenuti, ammontava a € 1.063.078,50 per gli esborsi sostenuti da gennaio a settembre 2014, con una proiezione del costo finale del popolamento a € 2.133.752,49 (nota della Guardia di Finanza del 10.10.2014).

Il pubblico ministero riferiva che, all'esito delle acquisizioni istruttorie, delle audizioni personali di alcuni dipendenti regionali e assessori, emergeva come le riunioni della Giunta Regionale fossero caratterizzate da improvvisazione incompatibile con la delicatezza dei problemi da affrontare; inoltre, emergeva che gli odierni convenuti inizialmente avevano voluto gestire la fuoriuscita del socio privato SIESEV secondo il divieto legale di assunzione previsto dal comma 6 dell'art. 20 della legge regionale n. 11/2010 (delibera n. 110/2013), ma dopo la messa in liquidazione di SIeSE (delibera del 23.09.2013) in ragione della perdurante inadeguatezza strutturale al raggiungimento dello scopo sociale (come da nota prot. n. 52045 del 20.09.2013 del presidente C.) avevano dovuto repentinamente rinnegare la scelta di legalità per incapacità a gestirla.

Del resto neanche la scelta di assumere il personale di SISEV era stata risolutiva perché anche dopo il reclutamento di massa operato in esecuzione della delibera della Giunta Regionale n. 6/2014, la SIeSE aveva continuato ad avvalersi dei servizi del socio privato per prestazioni da quest'ultimo valorizzate in oltre 4 milioni di euro per il periodo tra il 22.12.2013 e il 30.6.2014 (dichiarazioni B., I., nonché nota SISEV del 17.4.2014, nota della Guardia di Finanza del 10.10.2014).

L'organo requirente richiamava il quadro normativo che vietava l’assunzione di personale a tempo sia determinato che indeterminato nelle società partecipate: la delibera della Giunta Regionale n. 221 del 30.09.2008; il comma 10 dell'art. 1 della legge regionale 29 dicembre 2008, n. 25; il comma 6 dell'art. 20 della legge regionale 12 maggio 2010, n. 11, l'art. 23 della legge regionale 28 gennaio 2014, n. 5, che modificava,

dal 31.01.2014, l'art. 20 della legge regionale n. 11/2010, nel testo approvato a seguito dell'impugnativa del Commissario dello Stato che aveva ritenuto in contrasto con l’art. 97 della Costituzione la deroga al divieto legale di assunzioni per salvaguardare le esigenze occupazionali del personale delle società in liquidazione; l’art. 8 del Decreto dell’Assessore all’Economia n. 1720 del 28.09.2011; il comma 7 ter dell’art. 3 del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito in legge 30 ottobre 2013, n. 125.

Aggiungeva che l’art. 18 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, aveva esteso anche alle società a partecipazione pubblica maggioritaria l’obbligo del reclutamento del personale mediante procedura ad evidenza pubblica; richiamava, altresì, i commi 9, 10 dell’art. 4 del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, nel testo vigente sino al 31.12.2013.

A fronte di un quadro normativo chiaro, in particolare costituito dal comma 6 dell’art. 20 della legge regionale n. 11/2010 (“divieto alle società a partecipazione ... maggioritaria della Regione di, procedere a nuove assunzioni di personale sia a tempo indeterminato, sia.a tempo determinato ... salvo quanto previsto da procedure contrattuali discendenti da bandi ad evidenza pubblica, effettuati prima dell’entrata in vigore della presente legge”), il pubblico ministro, dopo avere soffermato l’attenzione sulla natura facoltativa del parere richiesto all’Avvocatura dello Stato, da cui discendeva solo l’obbligo di motivare adeguatamente nel caso di non recepimento, riteneva che le conclusioni contenute nel citato parere – secondo le quali non solo la società SieSE rientrasse nell’eccezione di cui al citato comma 6 (“procedure contrattuali discendenti da bandi ad evidenza pubblica, effettuati prima dell’entrata in vigore della presente legge”), ma anche che non fosse soggetta nel reclutamento di personale alle procedure di evidenza pubblica, mancando i requisiti della società in house, collidessero con le puntuali disposizioni normative sopra citate.

In particolare, sosteneva che nessun elemento logico e giuridico, desumibile anche dai lavori preparatori, consentisse di ritenere che la gara per la scelta del socio privato della società mista antecedente di circa 5 anni all'approvazione della legge regionale n. 11/2010, potesse neutralizzare l'univoca volontà del legislatore di contenere la spesa pubblica regionale con l'introduzione di un chiaro divieto di assunzione di personale, non potendosi ritenere che il legislatore con la suddetta eccezione ("salvo quanto previsto da procedure contrattuali discendenti da bandi ad evidenza pubblica, effettuati prima dell'entrata in vigore della presente legge") si fosse preoccupato di "garantire il livello occupazionale"; riteneva, inoltre, che l'obbligo dell'evidenza pubblica, introdotto dall'art. 18 del decreto legge n. 112/2008 (operante anche per le Regioni a statuto speciale), operasse comunque per tutte le società a prevalente partecipazione pubblica, a prescindere se in house o meno.

In ultimo, evidenziava che la paventata possibilità – sempre adombrata nel parere dell'Avvocatura dello Stato - di un contenzioso attivato da parte dei lavoratori SIESEV non trovasse alcun appiglio poiché i citati lavoratori appartenevano ad una società privata, la quale aveva solo l'obbligo di trasferimento del know-how alla società pubblica SIeSE e non anche il diritto di trasferire il proprio personale alla SIeSE perché spettava esclusivamente al socio Regione la scelta di come e se, eventualmente, strutturare SIeSE.

Per quanto riguardava il richiamo all'art. 2112 c.c., contenuto nel citato parere, disciplinante le sorti del rapporto di lavoro dei dipendenti in ipotesi di trasferimento di azienda, rinviava all'ordinanza del Tribunale di Palermo del 22.09.2014 che ne aveva escluso l'operatività, rigettando il ricorso di un ex lavoratore SISEV opinava, invece, che non potessero costituire fonte di ripensamento le due successive ordinanze del 29.10.2014 con le quali il Tribunale aveva ritenuto applicabile, invece, l'art. 2112 c.c., con conseguente statuizione di reintegro dei lavoratori licenziati, sia perché adottate verosimilmente per carenza di allegazioni delle parti di causa, sia perché nelle stesse era stato considerato provato l'obbligo contrattuale di trasferimento dell'intero personale di SISEV in SIeSE senza indicare quale norma contrattuale avrebbe previsto la coincidenza tra il concetto immateriale di know-how e il transito di tutto il personale.

Le gravi violazioni di legge sopra esposte che imponevano il divieto di assunzione e l'obbligo di attivare, comunque, la procedura di evidenza pubblica, nonché l'avvenuta assunzione "al buio" di personale di SISEV senza alcuna preventiva pianificazione e verifica nonostante l'avviato processo di internalizzazione delle attività informatiche con predisposizione di una articolata struttura regionale, costituivano ad avviso dell'organo requirente espressione di grave e inescusabile negligenza nella gestione delle risorse pubbliche riscontrabile nelle condotte degli odierni convenuti, la cui catena causale nella commissione dell'illecito era individuabile in tutte le condotte funzionali di impulso e/o di avallo del reclutamento illecito perfezionatosi con i contratti sottoscritti dal liquidatore di SIeSE il 21.01.2014 ed il 04.02.2014, condotte che non solo non avevano tenuto conto delle precedenti legittime scelte, ma che avevano recepito del tutto acriticamente il parere dell'Avvocatura dello Stato senza operare alcun approfondimento istruttorio, nonostante apparisse in contrasto con le puntuali previsioni normative.

Il pubblico ministero, dopo avere replicato analiticamente alle deduzioni difensive presentate in fase istruttoria dagli odierni convenuti (D., C., l., V., P., S.), riteneva che il danno erariale fosse pari ai costi sostenuti per il reclutamento di personale in SIeSE.

L'attore pubblico, quindi, contestava sia il danno erariale maturato con l'effettiva erogazione delle retribuzioni pari a € 1.106.078,50, sia il danno erariale che sarebbe maturato con l'erogazione periodica degli emolumenti derivanti dai contratti di assunzione già perfezionati; tenuto conto dei singoli contributi causali di ciascuno degli odierni convenuti nella causazione dell'illecito erariale, ne chiedeva la condanna nei termini di cui all’atto scritto.

I primi Giudici, dopo avere effettuato un’attenta disamina del quadro normativo e fattuale di riferimento, pervenivano alla declaratoria di difetto di giurisdizione di questa Corte con sentenza n. 793/2015.

Avverso la suddetta sentenza interponeva appello l’Ufficio del Pubblico Ministero.

Premesso il richiamo integrale del contenuto dell’atto di citazione depositato il 7.11.2014, il P.M. articolava un unico motivo di gravame sulla erronea declaratoria del difetto di giurisdizione, articolantesi in

plurimi e autonomi argomenti di censura della motivazione che si connoterebbe, innanzitutto, per un vizio metodologico di fondo: la condivisione delle tesi difensive solo apparentemente confrontate con le allegazioni attoree.

In primo luogo, la natura legale di SIeSE determinerebbe la conseguente insensibilità della fattispecie concreta in esame ad una applicazione formale delle direttrici giurisprudenziali fissate dalla c.d. sentenza Rordorf in poi per radicare la giurisdizione contabile sulle società in house.

La tecnica motivazionale della sentenza di primo grado sarebbe incentrata sul confronto letterale del contenuto dello Statuto di SIeSE con i criteri fissati dalla c.d. sentenza Rordorf (SS.UU 26283/2013) e dalla conforme giurisprudenza sino ad oggi succedutasi, agevolmente riprodotta e comparata con lo statuto di SIeSE nelle memorie difensive.

Non ravvisando una sovrapponibilità dei principi della sentenza Rordorf con il contenuto dello statuto di SIeSE vigente al momento della condotta contestata ai convenuti, i Giudici di primo grado, aderendo alle eccezioni difensive, avrebbero, pertanto, ritenuto che il danno subito dalla SIeSE dal contestato reclutamento illecito di personale non fosse un danno erariale, bensì un danno al patrimonio di una società a partecipazione pubblica ma non in house.

Ricorda Il P.M. che, nell’atto di citazione, la SIeSE è stata definita organo indiretto a dotazione erariale per rimarcarne il suo concreto status di longa manus o articolazione dell’Amministrazione regionale, poiché la società regionale SIeSE per legge svolgeva una funzione pubblica intestata all’Amministrazione, per legge era autorizzata a farlo con le forme della società a partecipazione pubblica, e per legge era tenuta ad operare solo per l’Amministrazione regionale e sotto i ferrei controlli dell’Amministrazione regionale; non sarebbe stato, quindi, coniato alcun “tertium genus” insensibile alla giurisdizione contabile come, per comprensibili esigenze motivazionali, ritenuto, invece, dal Collegio di prime cure.

La disciplina dell’informatizzazione contemplata nel D.Lvo 39/1993, prevedeva, come regola generale, che le amministrazioni provvedessero “di norma con proprio personale alla progettazione, allo sviluppo ed alla gestione dei propri sistemi informativi automatizzati” (art. 2, comma 1 D.Lvo 39/1993), salva la motivata affidabilità a terzi (art. 2, comma 2), affidamento che in ogni caso manteneva ferma in capo all’amministrazione la responsabilità “dei progetti di informatizzazione e del controllo dei risultati” nonché “la titolarità dei programmi applicativi” (art. 2, comma 3).

Non occorrerebbe indugiare, quindi, per affermare che nell’Amministrazione moderna la funzione informatica è una funzione strategica e pertanto vi è un interesse specifico del legislatore a prevedere la gestione diretta della funzione da parte dell’Amministrazione medesima o mediante un organo indiretto (alias: longa manus) dell’Amministrazione, legittimato a svolgere la delicata funzione sotto il serrato controllo della medesima Amministrazione.

La scelta fatta dal legislatore siciliano sarebbe stata quella di avvalersi della facoltà prevista dalla legislazione nazionale di esternalizzare la funzione affidandola ad un organo indiretto dell’Amministrazione regionale e da essa strettamente e direttamente controllato.
L’articolo 78 L.R. 3 maggio 2001 nr. 6 prevedeva, infatti, che per “lo svolgimento delle attività informatiche di competenza delle amministrazioni regionali, ivi comprese quelle necessarie per l'attuazione della misura 6.2.1. - Reti e servizi per la società dell'informazione del P.O.R. Sicilia 2000-2006.” la Regione si avvalesse “di una apposita struttura societaria, con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa, che opera secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento  dei sistemi informativi”.
La partecipazione azionaria della struttura societaria, prevista   “interamente” regionale nel testo originario del citato art. 78 L.R. 6/2001, sarebbe divenuta “prevalente” regionale per le modifiche apportate dall’art. 15 L.R. 10 dicembre 2001 nr. 21.

Già una lettura logica e serena delle norme sopra indicate consentirebbe, secondo il P.M., di affermare che la società mista affidataria della funzione informatica sarebbe un organo indiretto dell’Amministrazione, poiché è lo stesso legislatore che prevede la sostituzione dell’Amministrazione con la società pubblica nella titolarità della delicata funzione.

Non solo, ma sarebbe stato lo stesso legislatore regionale ad esplicitare la natura pubblica della società regionale, (comma 1 dell’art. 78 LR 6/2001) equiparata alle amministrazioni pubbliche previste dall’art. 1 comma 1 D.lvo 39/93; tale equiparazione non sarebbe casuale ma logica conseguenza della delicata funzione che l’organismo societario svolge surrogandosi al personale dell’Amministrazione (art. 2, comma 1 D.Lvo

39/1993) e “con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa.” (comma 1 art. 78 L.R. 6/2001).

Pertanto, come già rassegnato nell’atto di citazione, ha ribadito il P.M. che sarebbe già la stessa legge a qualificare la società mista come pubblica amministrazione, proprio in virtù del richiamo, da parte del comma 1 dell’art. 78 LR 6/2001, della norma nazionale, l’art. 1. Comma 1, D.Lvo 39/1993, che denomina “amministrazioni” gli organi e gli enti destinatari del decreto medesimo.

Nella sentenza impugnata, l’esplicita equiparazione legale della società regionale alla pubblica amministrazione sarebbe stata sottovalutata ricorrendo alla tecnica, utilizzata nelle memorie difensive, della decontestualizzazione dell’argomento di parte attrice.

I Giudici di prime cure, infatti, hanno precisato che la legge non qualifica la società mista pubblica amministrazione, e che “l’equiparazione non avviene... sulla natura pubblica ma sullo svolgimento delle attività informatiche”; la precisazione rivelerebbe, secondo il P.M. la difficoltà del Collegio di superare la prospettazione attorea, e finirebbe per incorrere in un vizio logico-giuridico.

Non si comprenderebbe, infatti, se la facoltà di affidare a terzi l’esercizio della delicata funzione informatica era già prevista dal legislatore nazionale (art. 2, comma 2 D.Lvo 39/1993), per quale ragione il legislatore regionale avrebbe dovuto specificare ai soli fini “dello svolgimento delle attività informatiche” (pag.65 motivazione) l’equiparazione della società regionale incaricata dell’informatica, alle “Amministrazioni” di cui al comma 1 dell’art. 1 D.Lvo 39/93.

Se invece di decontestualizzare l’equiparazione fatta dal comma 1 dell’art. 78 LR 6/2001 della società regionale alle amministrazioni di cui al comma 1 dell’art. 1 D.Lvo 39/93, sostiene il P.M., il Collegio di prime cure avesse valutato unitariamente l’impianto normativo, avrebbe colto che l’equiparazione, voluta dal legislatore regionale, della società regionale alle “amministrazioni”, finiva per corroborare, in capo alla società mista regionale di cui al comma 1 dell’art. 78 LR 6/2001, le finalità squisitamente pubblicistiche assegnate all’utilizzazione dei sistemi informativi dal comma 2 dell’art. 1 D.Lvo 39/93: “a) miglioramento dei servizi; b) trasparenza dell'azione amministrativa; c) potenziamento dei supporti conoscitivi per le decisioni pubbliche; d) contenimento dei costi dell'azione amministrativa.”.

Quindi, la previsione legale della società regionale per promuovere e gestire i sistemi informativi regionali e la sua equiparazione legale alle “Amministrazioni” farebbe ricadere la SIeSE, in quanto longa manus dell’Amministrazione regionale per l’adempimento di una funzione legale strategica, nell’ambito delle società pubbliche di fonte legale (Cass. SS.UU. 27092/09; 15594/2014), pacificamente soggette alla giurisdizione contabile sia dalla giurisprudenza più restrittiva (Cass. SS.UU. 26806/2009), sia dalla più recente giurisprudenza che ha considerato le società in house articolazioni dell’Amministrazione proprietaria (Cass. SS.UU. 26283/2013).

Quindi, richiamando quanto già rassegnato nell’atto di citazione nel paragrafo su “Natura e Funzione di SIeSE” (v. amplius, pagg. 18 e ss. atto citazione), il P.M. ha ribadito che la giurisdizione contabile sulla SIeSE si radica in quanto società di fonte legale e come tale svincolata dai requisiti formali della società in house, poiché:

a) è la legge regionale che prevede l’affidamento delle attività informatiche della Regione alla società mista;

b) è la legge regionale che qualifica quale pubblica amministrazione la società mista per lo svolgimento delle attività informatiche;

c) la SIeSE, come qualsiasi articolazione dell’amministrazione regionale, opera solo per la Regione;

d) la provvista di SIeSE deriva unicamente dai corrispettivi regionali per la remunerazione della convenzione quadro e dei progetti affidati al di fuori della convenzione quadro; gli elementi sub c), d) risultano confermati anche dai più recenti accertamenti della GdF che ha specificato come il 100% del fatturato di SIeSE sia nei confronti della Regione Siciliana (nota GdF del 10.10.2014, aff. 478);

e) l’attività di SIeSE è regolamentata dalla Convenzione quadro con la Regione e dagli atti a valle (POS-piano operativo strategico e PEA-piano esecutivo annuale) approvati anche dalla Regione, ed è sottoposta ai controlli tecnici (del CSIR-organo tecnico della Regione) e funzionali (del Dipartimento Bilancio- Servizio Partecipate della ragioneria generale) della Regione medesima.

L’incisivo sistema di regolamentazione-controllo appena descritto ed espressivo di una costante ingerenza della Regione anche nella pianificazione e nella esecuzione dell’attività della società, sarebbe stato integrato dal controllo giuridico, come sottolinea il P.M., mediante l’assemblea dei soci ove il voto della Regione è prevalente su quello del socio di minoranza, con il conseguente potere di nominare il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale, organo di controllo.

Avrebbe, quindi, errato il Collegio nel valutare la giurisdizione con i parametri della società in house, essendo SIeSE una società pubblica di fonte legale e dalla stessa legge regionale equiparata alle “Amministrazioni”.

Per di più, il P.M. ha rilevato che, al pari delle altre società strategiche della Regione Siciliana, SIeSE è sottoposta al controllo analogo prescritto dall’art. 4 D.A. (Economia) 1720 del 28.9.2011 (pagg. 7 e ss. aff. 260), che ha ribadito le modalità di esercizio del controllo analogo già previsto (pag. 9 e ss. aff. 262), sub 4.2 del paragrafo 6 “direttive per le società cosiddette “in house” della circolare nr. 5 dell’Assessore all’Economia del 6.5.2011, denominata “atti di indirizzo per le società partecipate dalla Regione Siciliana”.

Sul punto risulterebbe poco comprensibile la sostanziale negazione del controllo analogo su SIeSE che il Collegio rassegna in sentenza, nonostante sia stato provato documentalmente, secondo il P.M., che il Servizio Partecipate del Dipartimento regionale al Bilancio svolgesse il controllo analogo anche su SIeSE e che il medesimo Servizio aveva richiesto al liquidatore I. i contratti di assunzioni oggetto di contestazione per effettuare il controllo analogo (v. pagg. 67 e 68 atto di citazione e atti specificamente richiamati).

Inconferente, inoltre, risulterebbe, secondo il P.M., il richiamo alla sentenza di Appello 385/2013 relativa all’ AST, società regionale in mano pubblica avente quale oggetto sociale il trasporto di persone o cose.

In disparte l’erroneo richiamo in motivazione alla istituzione della società per azioni AST con legge regionale 7/1947, sarebbe proprio il confronto delle norme di riferimento della SIeSE, sopra analizzate, e dell’AST (riportate nella citata sentenza 385/2013) che dimostrano la diversità ontologica tra una società regionale per il trasporto di persone e cose, l’ AST, e l’organo espressione della funzione informatica della Regione siciliana, la SIeSE.

Rivelerebbe, infine, ulteriore difficoltà motivazionale, il richiamo dai Giudici di prime cure operato “in ultimo e del tutto marginalmente” (pag. 72 motivazione) alla circostanza che prima del decreto Bersani lo statuto di SIeSE non prevedesse limiti all’erogazione dei servizi in favore dei privati.

In disparte che le condotte contestate operano nel regime post decreto Bersani, ancora una volta l’argomento rassegnato in sentenza esprimerebbe, nella prospettazione dell’appellante, l’esigenza di rimuovere la fonte legale della società regionale, fonte legale che prevedeva nel testo di legge la Regione come unico cliente di SIeSE, in quanto, ai sensi del citato articolo 78 LR 6/2001, la “struttura societaria” doveva agire “con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa, che opera secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi”, essendo stato pure accertato che SIeSE ha fatturato solo al suo unico cliente: la Regione siciliana, unica fonte di provvista finanziaria.

Il P.M., poi, ha lamentato la erronea applicazione alla SIeSE in liquidazione delle direttrici giurisprudenziali fissate dalla c.d. sentenza

Rordorf.
La esplicita equiparazione legale di SIeSE all’Amministrazione

consentirebbe, per le ragioni sopra esposte sub a), di radicare la giurisdizione contabile a prescindere dalla giurisprudenza sulle società in house.

Osserva il P.M. come le violazioni degli obblighi di servizio contestate ai convenuti, sono state consumate durante il periodo in cui la società, la SIeSE, era stata posta in liquidazione dal socio pubblico di maggioranza (v. verbale assemblea del 23.9.2013, all. 15, nota GdF del 7.7.2014, aff. 126; pag. 14 atto di citazione).

Quindi, avendo l’assemblea straordinaria del 23.9.2013 deliberato lo scioglimento anticipato e immediato della società ai sensi dell’art. 2484 co. 1 n. 6 cod. civ. e la nomina del Dott. I. quale liquidatore (aff. 127), non vi sarebbe stato spazio alcuno per richiamare la necessità della partecipazione pubblica totalitaria richiesta dalla giurisprudenza della Cassazione per radicare il potere integrale di gestione del socio pubblico.

A seguito della delibera di scioglimento immediato della società e nomina del liquidatore, delibera iscritta anche nel registro delle imprese per gli effetti di cui all’art. 2484 comma 3 cod. civ., la SIeSE era stata sciolta e doveva essere liquidata, e il liquidatore, secondo il P.M., altro non sarebbe stato che un incaricato di pubblico servizio attributario della esclusiva missione pubblica di liquidare la società regionale.

Ed allora una applicazione logica al peculiare status della SIeSE, società in liquidazione, dei criteri della sentenza Rordorf testualmente riportati nella sentenza impugnata, avrebbe dovuto indurre, secondo il P.M., il Collegio di primo grado a ritenere:
• che gli effetti di pieno controllo sulla società ancorati dalla Cassazione alla partecipazione pubblica totalitaria, nella fattispecie concreta in esame erano soddisfatti dallo status di società in liquidazione, gestita dal liquidatore nominato dal socio pubblico con la specifica e predeterminata missione di liquidare la società;

• che nella fattispecie concreta in esame il reclutamento di massa illecito è stato realizzato ben oltre la data (il 22.12.2013) in cui la Regione era obbligata pattiziamente a divenire socio unico totalitario; la circostanza che la Regione avesse ritardato l’acquisizione del 49% delle azioni di SIeSE in mano al privato, acquisizione avvenuta solo in data il 26.3.2014 (a popolamento di massa ultimato: n.d.r.) dimostra ulteriormente che la società in liquidazione era totalmente in mano pubblica anche se non acquisiva la titolarità del capitale di minoranza;

• il requisito della previsione statutaria della prevalenza dell’attività in favore del socio privato, nel caso di SIeSE è ben più pregnante perché è la stessa legge a prevedere che SIeSE operasse esclusivamente in favore della Regione (art. 78 LR 6/2001 cit: “con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa..”), e risulta anche dimostrato dalle acquisizioni istruttore che SIeSE fatturava solo alla Regione Siciliana, suo unico cliente;

• il requisito dell’assoggettamento a forme di controllo analogo diverse dai controlli civilistici, non solo sussisteva, essendo SIeSE sottoposta alle serrate modalità di controllo analogo previste in dettaglio nel decreto e nella circolare assessoriale sopra indicate e richiamate

nell’atto di citazione (v. pagg. 67 e 68 atto di citazione e atti specificamente richiamati), ma la SIeSE era pattiziamente e per legge sottoposta agli “.... indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi” (art. 78 LR 6/2001,cit.), e pertanto soggetta ad una ingerenza sulla propria attività continua e totale della Regione che approvava sia il Piano Operativo Strategico (POS), sia il Piano Esecutivo Annuale (PEA) della SIeSE, ed inoltre sottoponeva SIeSE ai controlli tecnici (del CSIR-organo tecnico della Regione) e funzionali (del Dipartimento Bilancio- Servizio Partecipate della ragioneria generale) della Regione medesima.

In conclusione, avendo i Giudici contabili di prime cure erroneamente ritenuto insussistente la propria giurisdizione, declinandola in favore del Giudice Ordinario, il P.M. ha chiesto che in accoglimento del gravame la Sezione di Appello affermi la giurisdizione della Corte dei conti, con conseguente riforma della sentenza impugnata e rinvio degli atti, ai sensi dell’art. 105 RD 1038/1933, alla Sezione di primo grado per il giudizio di merito, in diversa composizione.

Si è costituito in giudizio il dott. M.P., rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Polizzotto, con memoria depositata il 28 novembre 2015.

L’appellato ha sostenuto che, contrariamente a quanto affermato dall'attore pubblico nell'atto di appello, i Giudici di prime cure avrebbero correttamente dichiarato il difetto di giurisdizione sulla controversia azionata dalla Procura regionale della Corte dei Conti, ritenendola di spettanza "dell'Autorità giudiziaria ordinaria competente per territorio e per materia", sul presupposto che SIeSE, all'epoca dei fatti oggetto del

giudizio non possedeva i requisiti della società in house elaborati dalle Sezioni Unite e, pertanto, il danno cagionato dalla società non è stato ritenuto di natura pubblicistica.

Orbene, la contestazione relativa alla natura pubblica di SIeSE all'epoca dei fatti, appare, secondo l’appellato, priva di ogni fondamento atteso che la figura di "organo indiretto a dotazione erariale" descritta dal Procuratore non troverebbe riscontro alcuno nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, né in quella contabile.

Come chiarito dal Collegio nella sentenza impugnata, tale figura corrisponderebbe ad un "tertium genus" tra l'ente pubblico e la società in house non riconosciuto dalla giurisprudenza e, pertanto, non applicabile a SIeSE.

Non potrebbe, dunque, sostenersi la natura pubblica di SIeSE dal momento che il comma 1 dell'art. 78 della regionale n. 6/2001 non qualifica l'organismo societario de quo come pubblica amministrazione ma lo equipara "per gli effetti di cui al decreto legislativo 12 febbraio 1993, n. 39, alle pubbliche amministrazioni previste dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo medesimo" (amministrazioni autonome dello Stato ed enti pubblici non economici nazionali) che detta norme in materia di sistemi informativi automatizzati.

Correttamente, dunque, i Giudici di prime cure avrebbero chiarito che l'equiparazione di SIeSE ad una P.A. "non avviene, pertanto, sulla natura pubblica ma sullo svolgimento delle attività informatiche e del resto non si comprenderebbe come una società di capitali, con partecipazione del privato nella misura del 49%, che per statuto ha scopo di lucro ed è governata con criteri imprenditoriali, possa qualificarsi come pubblica amministrazione, mancando tra l'altro ogni possibilità di porre in essere gli atti autoritativi che connotano peculiarmente gli enti di cui al comma 1 del decreto legislativo n. 39/1993 (amministrazioni autonome dello Stato ed enti pubblici non economici nazionali); inoltre, non potrebbe ritenersi, comunque, che un organismo societario regionale possa essere qualificato come amministrazione autonoma dello Stato o come ente pubblico non economico nazionale...Né per la società in questione, partecipata solo in prevalenza dalla Regione Siciliana (51%), viene in rilievo quel particolare statuto legale che ha consentito alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di riconoscere la giurisdizione contabile nei confronti di società per azioni con partecipazione totalitaria dello Stato, riconoscendone la natura sostanziale di enti pubblici, quali la R.A.I. s.p.a. (ordinanza n. 24092/2009), l'E.N.A.V. s.p.a. (ordinanza n. 5032/2010), l'A.N.A.S. s.p.a. (sentenza n. 15594/2014).

Nelle suddette fattispecie, infatti, avrebbero acquistato rilevanza una serie di indici, tra i quali la partecipazione totalitaria dello Stato, l'esercizio di poteri autoritativi e la sottoposizione al controllo della Corte dei conti, che non si rinvengono nella SIeSE, nonostante la costituzione della stessa sia stata prevista dall'art. 78 della legge regionale n. 6/2001".

Secondo l’appellato, oltre a non poter essere qualificata quale "organo indiretto a dotazione erariale", SIeSE, all'epoca dei fatti, non poteva neppure essere considerata come società in house, bensì come società mista per azioni, partecipata nella misura prevalente del 51% dalla Regione Siciliana e nella restante misura del 49% dal socio privato SISEV.

28

Fino al 26 marzo 2014, infatti, la Regione Siciliana ha detenuto la partecipazione maggioritaria (per il tramite della società a totale partecipazione pubblica Sicilia e Innovazione S.p.A), di conseguenza, fino a tale data, il 49% del capitale sociale è stato detenuto dal socio privato, ossia dalle società AtosOrigin Italia s.p.a. (poi Engineering.It s.p.a,) e Accenture s.p.a.

Sarebbe, dunque, pacifico che all'epoca dei fatti contestati, SIeSE non fosse qualificabile neppure come società in house, perché effettivamente partecipata al 49% da socio privato.

Ricorda l’appellato come, ai fini della sussistenza della giurisdizione contabile, la suprema Corte di Cassazione (ex multis n. 26283/2013, n. 26936/2013 e n. 5491/2014) abbia puntualizzato che "la società può essere definita "in house", allorchè vi sia contemporanea presenza di tre requisiti:
1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale;
3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile".

Ebbene, non vi sarebbe dubbio che la contemporanea sussistenza dei requisiti appena elencati difettava totalmente in capo a SIeSE all'epoca dei fatti contestati, dal momento che, come più volte riferito la partecipazione

della Regione in SIeSE non era totalitaria ma solo maggioritaria, più precisamente nella misura del 51%; tale circostanza escluderebbe di per sé e in radice la possibilità di qualificare in house la società in questione (in tal senso si sarebbe anche pronunciata da sempre la Corte di Giustizia: ex multis Sezione I, sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03; Sezione I, sentenza 6 aprile 2006, causa C- 410/04).

Rileva, inoltre, l’appellato, che, come correttamente affermato dai Giudici di prime cure, non sarebbe applicabile al caso di specie quell'indirizzo giurisprudenziale (Corte dei conti, Sezione I Centrale di Appello, sentenza n. 178/2015) che ritiene irrilevante, ai fini della qualificazione di una società per azioni come in house, una partecipazione minimale al capitale sociale da parte dei privati (nella fattispecie esaminata si trattava di una partecipazione pari a 0,03% del capitale sociale) proprio perché la partecipazione del privato al capitale sociale di SIeSE è notevolmente rilevante, precisamente il 49%.

Segnala, altresì, il P., che con sentenza n. 7177 del 26 marzo 2014 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute nuovamente sul tema della giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità per danno erariale nei confronti degli amministratori di una s.p.a. in house.

Secondo la giurisprudenza della Cassazione "la Corte dei Conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta Corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui

esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici"(in tal senso anche Cass, civ, Sez. Un. n. 22608/2014, ed ancora, Cassazione civile, Sez. Un., n. 8352 del 05/04/2013 secondo cui "La controversia riguardante l'azione di responsabilità a carico di amministratori e sindaci di una società per azioni a partecipazione pubblica, anche se totalitaria - ma la cui attività statutaria sia di svolgere un servizio in regime di concorrenza - per il danno patrimoniale subito dalla società a causa della loro condotta illecita (nella specie, pagamento di fatture, a fronte di prestazioni mai rese o eseguite in modo incompleto) appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, e non del giudice contabile, atteso che, da un lato, dette società non perdono la loro natura di enti privati disciplinati dal codice civile e, dall'altro lato, il danno cagionato dall'illecito incide in via diretta solo sul patrimonio della società, che resta privato e separato da quello dei soci; né è di ostacolo alla affermata giurisdizione la trasformazione, avvenuta dopo il pagamento delle suddette fatture, in società cosiddetta "in house").

In altri termini, la società in house si contraddistinguerebbe per la natura esclusivamente pubblica dei soci, per l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e per la mancanza di alterità tra il soggetto pubblico controllante e la struttura societaria (l'ente pubblico infatti disporrebbe esclusivamente della società in house come di una propria articolazione interna).

Invero, la Regione Siciliana solo in data 26.03.2014 e, dunque, in epoca

successiva ai fatti contestati, avrebbe acquistato il 100% del pacchetto azionario divenendo l'unica proprietaria di SIeSE; in data 18.11.2014 l'assemblea dei soci ha deliberato l'introduzione del controllo analogo con la modifica dell'art. 14 dello statuto.

Sottolinea il P. che anche la giurisprudenza, a tal proposito avrebbe ribadito che "La verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società "in house", come delineati dall'art. 113, comma 5, lett. c), del dlgs 18 agosto 2000; n. 267 (come modificato dall'art. 15, comma 1, lett. d, del dl. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni nella legge 24 novembre 2003, n. 326), la cui sussistenza costituisce il presupposto per l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società, deve compiersi con riguardo alle previsioni contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di responsabilità del P.G. presso la Corte dei conti" (Corte Cass. Civile, Sez. Unite, n. 7177 del 26 marzo 2014).

Alla luce delle siffatte argomentazioni, diversamente da quanto assume parte appellante, secondo il P. non potrebbe configurarsi, nel caso di specie, la giurisdizione del giudice contabile, tenuto conto che i requisiti che caratterizzano le società in house devono essere contemporaneamente presenti e valutati con riferimento al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita, a nulla rilevando le successive trasformazioni della società.

La carenza di giurisdizione contabile deriverebbe, nel caso di specie, dalla netta separazione tra il patrimonio societario e quello della Regione Siciliana.

Sulla base del consolidato orientamento giurisprudenziale, il difetto di giurisdizione del Giudice contabile sussisterebbe allorquando il danno sia riferibile, come nel caso in esame, al patrimonio societario di esclusiva proprietà della società; quest'ultimo va, infatti distinto dal patrimonio del socio pubblico (cfr. Cass. Civ. Sez. Unite n. 26283 del 25 novembre 2013).

Tale concetto sarebbe stato correttamente ribadito dal Collegio nella sentenza impugnata, laddove si afferma che "In conclusione, al di là degli inquadramenti dogmatici, il patrimonio di SIeSE non può ritenersi pubblico al momento delle condotte contestate a tutti gli odierni convenuti con la conseguenza che il presente giudizio esula dalla giurisdizione di questa Corte rientrando in quella ordinaria".

Con riferimento, poi, al secondo motivo di appello, secondo cui nella fattispecie non sarebbero comunque applicabili i principi della sentenza Rordorf, in quanto la società si trovava in liquidazione, tali argomentazioni, secondo il P., sarebbero totalmente destituite di fondamento atteso che la circostanza che la società fosse in liquidazione non fa venire meno la natura pubblico-privata, ossia di società mista di SIeSE.

Il fatto che la Regione abbia nominato un liquidatore, successivamente peraltro revocato perché la società è stata rimessa in bonis, non determinerebbe il venir meno del socio privato, che rimarrebbe sempre proprietario del 49% della società.

La liquidazione, invero, non sarebbe altro che una operazione con cui si concludono dei rapporti patrimoniali, senza incidere sulla natura della società e soprattutto sulla proprietà delle azioni.

In merito all'attività espletata da SIeSE e ai poteri di controllo della Regione il P. ha richiamato quanto già evidenziato in precedenza, in cui risulterebbe dimostrato che tali elementi non incidono sulla giurisdizione contabile.

L’appellato ha chiesto, quindi, conclusivamente, il rigetto del gravame.

Si è costituito in giudizio il dott. A.B., rappresentato e difeso dall’avv. Cecilia Nicita, con memoria depositata il 23 febbraio 2016.

Ricorda l’appellato che esisterebbe un principio generale del nostro ordinamento (codificato, tra l'altro, dall'art.4 della L.20.03.1975, n.70), in virtù del quale nessun ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, con la conseguenza che va esclusa la qualifica di ente pubblico di una società, se non attribuita da una espressa disposizione di. legge.

In proposito, anche la Cassazione ha avuto modo di affermare che l'art.4, L. n. 70 del 1975, "nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco" (Cass. Civ., Sez.I, 27.09.2013, n.22209).

Nella fattispecie che ci occupa, dalle specifiche disposizioni di riferimento sarebbe possibile desumere in modo chiaro ed inequivoco solo che la società costituita ai sensi dell'art.78 L.R. 6/2001 è equiparata, per gli

effetti di cui al D.Lvo 39/1993, alle "amministrazioni" di cui al medesimo D.Lvo, ma non che la stessa (SIeSE) rivesta la qualifica di ente pubblico soggetto alla giurisdizione contabile.

Inoltre, poiché il Procuratore Regionale fa ricadere SIeSE "nell'ambito delle società pubbliche di fonte legale, pacificamente soggette alla giurisdizione contabile" soprattutto sulla scorta del rinvio effettuato dal comma 1 dell'art.78. L.R. 6/2001 al comma 1 dell'art. 1 del D.Lvo 39/93, e censura la sentenza appellata poiché il Collegio di prime cure avrebbe decontestualizzato la suddetta equiparazione, l’appellato rileva che, in realtà, sarebbe l'interpretazione che tenta di dare il Procuratore all'impianto normativo di riferimento che apparirebbe "decontestualizzata".

L'art.78, L.R. 6/2001, nel prevedere che, per lo svolgimento delle attività informatiche di competenza delle amministrazioni regionali la Regione si avvalesse di una apposita struttura societaria, con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa, che operasse secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi, originariamente faceva riferimento ad una società interamente pubblica, costituita con decreto del Presidente della Regione, su proposta dell'Assessore regionale per il bilancio e le finanze. Ed è tale organismo societario che veniva equiparato dalla stessa norma, per gli effetti di cui al decreto legislativo .12 febbraio 1993, n. 39, alle amministrazioni pubbliche previste dall'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo medesimo.

Successivamente, osserva l’appellato, la misura della partecipazione azionaria della Regione in detta società veniva, dall'art.15 della L.R.

10.12.2001 n.21, modificata da "interamente" a "prevalentemente".
La Regione Siciliana, quindi, dopo aver costituito "Sicilia e Innovazione s.p.a." a totale partecipazione regionale, optava, poi, per lo strumento della società mista, scegliendo il socio privato con una procedura ad evidenza pubblica (appalto concorso), di rilevanza comunitaria, a doppio oggetto. "sia per fornire e realizzare un complesso sistema Info-telematico denominato "Piattaforma Telematica Integrata" (P.T.I. Sicilia) secondo le modalità indicate nel capitolato speciale di appalto, sia per individuare il socio privato della costituendo società mista cui affidare la gestione della citata piattaforma e lo svolgimento delle attività informatiche di

competenza delle amministrazioni regionali.
All'esito di detta gara veniva costituita, quindi, con atto del 20.12.2005, la Società "Sicilia e Servizi S.p.A." (SIeSE S.p.A.), come società mista per azioni, a prevalente partecipazione della Regione Siciliana, con capitale intestato per il 51% a "Sicilia e Innovazione S.p.A." (SIeIN S.p.A.), e per il rimanente 49% alla società consortile a responsabilità limitata. "Sicilia e Servizi Venture s.c.r.1." (SI.S.EV.).

All'atto della costituzione, pertanto, il capitale sociale di SIeSE veniva sottoscritto, per la parte pubblica, da Sicilia e Innovazione S.p.A., anziché direttamente dalla Regione.

In seguito, al fine di adeguarsi al disposto normativo di cui all'art.13 del D.L. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani), la Regione acquisiva la partecipazione azionaria che Sicilia e Innovazione deteneva in SIeSE.

Oltre alla partecipazione non totalitaria, ma maggioritaria della Regione Sicilia, SIeSE presenterebbe, secondo l’appellato, degli elementi nuovi che

la differenzierebbero sostanzialmente da SIeIN, tra cui la previsione statutaria che la società "è governata con criteri imprenditoriali ed ha scopo di lucro".

A ben guardare, quindi, SIeSE (alla data dei fatti contestati), secondo l’appellato non rispecchierebbe affatto (non avendone le caratteristiche) l'organismo societario che era stato equiparato dall'art.78, L.R. 6/2001 alle "amministrazioni" di al D.Lvo n.39/1993, per gli effetti di cui al medesimo decreto.

Tale "evoluzione" sarebbe stata rilevata anche dalla Corte dei Conti nella Relazione sulle Società partecipate, approvata con deliberazione n.414/2013/GEST del 18.12.2013.

Quanto appena evidenziato (che sottolinea le differenze tra ciò che il legislatore regionale inizialmente aveva inteso prevedere e ciò che nei fatti è stato realizzato) confermerebbe ulteriormente che l'equiparazione alle "amministrazioni" di cui all'art..1, comma 1,. Divo 39/1993 effettuata dall'art.78 L.R. 612001, nella fattispecie in esame, non potrebbe che riguardare lo svolgimento delle attività informatiche e non certamente la natura di SIeSE che non sarebbe affatto assimilabile ad una amministrazione assoggettabile alla giurisdizione contabile.

Correttamente, quindi, i Giudici di prime cure avrebbero statuito che il comma 1 dell'art. 78 della legge regionale n. 6/2001 non qualificherebbe l'organismo societario de quo come pubblica amministrazione ma lo equiparerebbe "per gli effetti di cui al decreto legislativo 12 febbraio .1993, n. 39, alle pubbliche amministrazioni previste dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo medesimo che detta norme in materia di sistemi

informativi automatizzati. Con la partecipazione del privato nella misura del 49%, che per statuto ha scopo di lucro ed è governata con criteri imprenditoriali, sarebbe escluso che possa qualificarsi come pubblica amministrazione.

Né per la società in questione, partecipata solo in prevalenza dalla Regione Siciliana (51%), verrebbe in rilievo quel particolare statuto legale che ha consentito alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di riconoscere la giurisdizione contabile nei confronti di società per azioni con partecipazione totalitaria dello Stato, riconoscendone la natura sostanziale di enti pubblici (ordinanza n. 24092/2009; ordinanza n. 5032/2010 e sentenza n. 15594/2014).

Nelle suddette fattispecie, infatti, hanno acquistato rilevanza una serie di indici, trai quali la partecipazione totalitaria dello Stato, l'esercizio di poteri autoritativi e la sottoposizione al controllo della Corte dei conti, che non si rinvengono nella SIeSE, nonostante la costituzione della stessa sia stata prevista dall'art. 78 della legge regionale n. 6/2001.

In ordine, poi, alla presunta erronea applicazione a SIeSE in liquidazione delle direttrici giurisprudenziali fissate dalla c.d. sentenza Rordorf, l'esplicita equiparazione legale di SIeSE alle "amministrazioni" di cui al D.Lvo 39/93, che consentirebbe di radicare la giurisdizione contabile, secondo l’appellato le argomentazioni svolte in proposito dal Procuratore Regionale risulterebbero assai deboli.

Secondo l’appellato sarebbe evidente che la messa in liquidazione e la nomina del Liquidatore, avvenuta in seno all'Assemblea straordinaria del 23.09.2013 con voto favorevole del socio Regione Siciliana e con il voto

contrario del socio di minoranza, non sarebbe evento tale da trasformare SIeSE in ente pubblico soggetto alla giurisdizione contabile.

Al contrario, la genesi e le caratteristiche di SIeSE S.p.A. che permangono anche alla data di adozione della delibera di Giunta n.6 del 15.01.2014, con la netta separazione del patrimonio societario da quello della Regione e la mancanza di controllo analogo, sarebbero elementi che escluderebbero la possibilità di assimilare SIeSE alle società in house e comporterebbero il difetto di giurisdizione del Giudice contabile in merito alla responsabilità per il presunto danno di cui trattasi.

Osserva l’appellato che i Giudici di prime cure hanno affrontato compiutamente la questione della configurabilità di SIeSE come società in house, al fine di verificare se, nella fattispecie in esame, il presunto danno contestato ai convenuti sia, comunque, qualificabile come "erariale", vale a dire come pregiudizio arrecato direttamente al patrimonio pubblico (in modo da giustificare l'azione di responsabilità del pubblico ministero), ovvero se, invece, debba considerarsi come danno sofferto da un soggetto privato (la società in questione), risolvendola in conformità anche alle prospettazioni difensive che l’appellato ha dichiarato di condividere.

Inoltre, osserva il B., il Collegio ha sottolineato che l'affidamento della realizzazione della PTI non è avvenuto in via diretta a SIeSE, ma a seguito di gara pubblica a doppio oggetto e che solo in epoca successiva ai fatti contestati, la Regione Siciliana ha acquistato il 100% del pacchetto azionario (26.03.2014) e ha deliberato l'introduzione del controllo analogo (18.11.2014), chiarendo, in maniera incontestabile, che il D.A. n.1720 del 28.09.2011, invocato anche nell'appello, non sarebbe idoneo né a conferire

a SIeSE la natura di società in house, né a far ritenere che la stessa fosse sottoposta a controllo analogo anteriormente all'introduzione del medesimo da parte dell'assemblea dei soci.

Sulla scorta delle superiori considerazioni l’appellato ha concluso per il rigetto del gravame.

Si sono costituiti in giudizio B.E. e C.D., rappresentati e difesi dagli avv.ti Carmelo Carrara e Giuseppe Cozzo, con memoria depositata il 25 febbraio 2016.

Gli appellati hanno ribadito, in primo luogo che l'equiparazione di cui all’art. 78, comma 1, della 1.r. n. 6 del 2001 non inciderebbe, né modificherebbe la natura privatistica della società SIeSE e del regime giuridico ad essa applicabile, ma la obbligherebbe, semplicemente, ad uniformare le proprie azioni alle regole previste in materia di gestione di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche.

Sul piano del diritto positivo, l'unico elemento che legherebbe la SIeSE alla Regione siciliana sarebbe costituito dal fatto che tale società eroga in favore della Regione stessa prestazioni di carattere meramente tecnico, strumentali all'esercizio di funzioni e servizi pubblici, svolti in via diretta ed esclusiva dalla Regione attraverso suoi uffici e organi, ma che non costituiscono esse stesse esercizio di funzioni e servizi pubblici regionali.

La SIeSe, nel rapporto in esame, in particolare, non svolgerebbe nell'interesse della Regione alcun servizio pubblico, che per sua natura dovrebbe essere rivolto alla collettività e non alla stessa Regione, ma opererebbe come un qualsiasi altro soggetto fornitore di beni e servizi alla p.a. e, come tale, non fruirebbe di finanziamenti e contributi pubblici

(ovvero, secondo la definizione adoperata dal P.M, di "dotazione erariale"), ma riceverebbe soltanto il "corrispettivo", e cioè il prezzo, delle proprie prestazioni.

Esclusa, pertanto, la possibilità di applicare nei confronti degli appellati il comma 4 dell'art. 1 della legge n. 20/1994, anche per l'assenza degli indici indicati dal Giudice di primo grado (quali la partecipazione totalitaria della Regione, l'esercizio di poteri autoritativi e la sottoposizione al controllo della Corte dei conti), non vi sarebbe alcuna ragione per non applicare, invece, nella specie i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e il giudice contabile, relativamente alle società partecipate da enti pubblici.

Secondo la giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (si vedano, per tutte, Corte Cass., Sez. un. n. 26806 del 2009 e i precedenti giurisprudenziali in essa richiamati) "quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l'agente e la pubblica amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fatto di investire un soggetto, altrimenti estraneo all'amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un'attività. Ciò senza che rilevi, né la natura giuridica dell'atto di investitura - provvedimento, convenzione o contratto - né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno

2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre conformi). L'affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull'inserimento del soggetto medesimo nell'organizzazione funzionale dell'ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l'assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886; 1 aprile 2008, n. 8409; 1 marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, 2004, n. 3351), anche se l'estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in senso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132).

Lo stesso dicasi per l'accertamento della responsabilità erariale conseguente all'illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un. 5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la responsabilità in cui può incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un'opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell'esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell'amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest'ultima (Sez. un., n. 4112/07, cit.). Nella medesima ottica, a partire

dal 2003, le Sezioni Unite hanno ritenuto che spetti alla Corte dei conti, dopo l'entrata in vigore della 1. n. 20 del 1994, art. 1, u.c., la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionari di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell'ordinaria attività imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell'espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell'amministrazione pubblica mediante un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza - si è precisato - che, nell'attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della Corte contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez. un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367).

Tali principi, hanno rimarcato gli appellati, secondo un consolidato orientamento della stessa giurisprudenza (v., tra le altre, Cass., SS.UU., n. 26906/2009; n. 4309/2010, n. 15199/2015), non si applicano nel caso delle società di diritto privato partecipate da un ente pubblico (salvo che si tratti di società cd. in house, di cui si dirà in seguito) le quali non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia

eventualmente (ma non è questo, come si è detto, il caso in esame) alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico. In tal caso, la giurisdizione contabile sussiste soltanto nel caso di un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, come nell'ipotesi di danno all'immagine o dell'azione di responsabilità che trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio, mentre spetta al giudice ordinario la giurisdizione nel caso, come quello in esame, in cui l'azione di risarcimento riguardi danni arrecati al patrimonio di una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. E quest'ultimo principio vale a maggior ragione nel caso in esame, nel quale sono stati citati in giudizio per danno arrecato al patrimonio della società partecipata in misura maggioritaria dalla Regione siciliana anche i componenti della Giunta regionale, che non sono né amministratori né

dipendenti della società stessa.
Alla luce delle considerazioni che precedono gli appellati hanno  affrontato la questione della verifica della sussistenza dei requisiti perché la SIeSE possa qualificarsi società in house.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno più volte affermato, infatti, che la giurisdizione sull'azione di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite dei dipendenti, salvo alcune particolare ipotesi nelle quali la veste giuridica della società rappresenti un mero schermo di copertura di una struttura amministrativa pubblica, può spettare solo al giudice ordinario, in quanto l'autonomia patrimoniale di essa esclude ogni rapporto di servizio tra agente ed ente pubblico danneggiato e "impedisce di configurare come erariali le perdite che restano esclusivamente della società, che è regolata nel caso come ogni altro soggetto sovrapersonale di diritto privato" (fra le varie S.U. 22.1.2015 n. 1159; 7.1.2014 n. 71; S.U. 25.3.2013 n. 7374; S.U. 22.12.2011 n. 23829).

Recentemente, la Corte di cassazione ha ribadito (S.U. n. 22609/14) che la Corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dalla Procura presso la Corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, così dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di

controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. In sostanza, secondo la Corte di cassazione, può dirsi superata l'autonomia della personalità giuridica rispetto all'ente pubblico e quindi la società può essere definita in house allorché vi sia contemporanea presenza di tre requisiti:
1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale;
3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile (Cass. 5491/2014). Al fine di dirimere le controversie sul punto, le Sezioni Unite (S.U. n. 7177/14), - recependo l'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia Europea sin dalle decisioni C 26/03 Stadt Halle, C 29/04 e C 410/04) - hanno avuto anche occasione di chiarire che: "La verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società in house, come delineati dall'art. 113, comma 5, lett. c), del d.lgs 18 agosto 2000, n. 267 (come modificato dall'art. 15, comma 1, lett. d, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni nella legge 24 novembre 2003, n. 326), la cui sussistenza costituisce il presupposto per l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società, deve compiersi con riguardo alle previsioni contenute nello

statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di responsabilità del P.G. presso la Corte dei conti."

Nella specie, come ha osservato il Giudice di primo grado e mostra di condividere l’appellato, al momento dello svolgimento dei fatti oggetto di contestazione, unico momento rilevante al fine che qui interesserebbe, lo statuto di SIeSE prevedeva:

a) solo una partecipazione maggioritaria pubblica, non inferiore al 51 per cento e, di fatto, il 49% delle azioni era detenuto da SISEV, società di diritto privato;

b) la possibilità, sia pure con limitazioni, di trasferire la títolarità delle azioni in capo al socio di minoranza a terzi nel caso di mancato esercizio da parte della Regione del diritto di prelazione; c) la possibilità di svolgere ulteriori attività meramente commerciali, industriali e finanziarie, mobiliari e immobiliari.

Conseguentemente, Sicilia e Servizi s.p.a., secondo gli appellati, non potrebbe neppure essere considerata società in house ai fini che qui interessano, con la conseguenza che i suoi amministratori, e a maggior ragione i componenti della Giunta Regionale che non hanno alcun potere di gestione della società privata, non sarebbero soggetti alla giurisdizione contabile.

In ordine alla carenza del requisito del controllo analogo, va osservato che non si rinvengono, nel caso di SIeSE, le caratteristiche di un rapporto che determina da parte dell'amministrazione controllante un assoluto

potere di direzione, di coordinamento e supervisione dell'attività del soggetto partecipato, e che riguarda l'insieme dei più rilevanti atti di gestione del medesimo.

A ciò si aggiunga che SIeSE non ha mai ricevuto dalla Regione Siciliana contributi di sorta per il proprio funzionamento ordinario, bensì il corrispettivo delle prestazioni rese e che l'affidamento del servizio non è avvenuto in via diretta, ma a seguito di gara pubblica a doppio oggetto. Infine, la circostanza che SIeSE fosse in quel momento in liquidazione è irrilevante ai fini della sua qualificazione giuridica, perché la messa in liquidazione della società, a parte la sostituzione degli organi societari con il commissario liquidatore, non determina alcuna mutazione della natura e del regime giuridico previsto dal codice civile e dalle norme pubblicistiche in tema di società partecipate.

Per le considerazioni che precedono gli appellati hanno chiesto il rigetto del gravame.

Si è costituito in giudizio C.R., rappresentato e difeso dall’avv. Attilio Toscano, con memoria depositata il 3 marzo 2016.

L’appellato ha ribadito come nella specie, all'epoca dei fatti, la SIeSe fosse una società mista, partecipata in misura prevalente dalla Regione Siciliana.

Ad avviso dell’appellato, secondo pacifica giurisprudenza delle Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione: «il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non sarebbe idoneo a configurare anche una ipotesi di ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: perché non implicherebbe alcun danno erariale, bensì, unicamente, un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nell'unico patrimonio sociale» (Cass., SS.UU. civili, 19/12/2009, n. 26806).

La Regione Siciliana, ha rimarcato l’appellato, non avrebbe mai erogato alcun conferimento, contributo e/o finanziamento continuativo e/o occasionale a favore di SIeSE, a maggior ragione per le assunzioni effettuate e per le quali è causa, ma si sarebbe da sempre limitata a pagare le prestazioni per servizi effettivamente resi.

Sarebbe, poi, pacifico, secondo l’appellato, che all'epoca dei fatti contestati la SIeSE non fosse qualificabile come società c.d. in house perché effettivamente partecipata al 49% da un socio privato, circostanza che non consentirebbe l'estensione della giurisdizione contabile in base ad altro noto insegnamento delle Sezioni Unite civili di cui alla sentenza 25/11/2013 n. 26283 (vds. da ultimo. Cass. SS.UU. civili. 26/04/2014 n. 7177 e 24/10/2014 n. 22609).

Secondo l’appellato inconferente sarebbe il richiamo del P.M. alla sentenza delle SS.UU. civili 22/12/2009 n. 27092 perché si riferisce a società statale a totale partecipazione pubblica e concessionaria di pubblico servizio (RAI S,p.A.) il cui statuto, peraltro, è soggetto a regole legali sui generis e, come rilevato dalla successiva sentenza delle SS.UU.

civili 22/12/2011 n. 28330, «La RAI è poi sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte della detta Commissione parlamentare (art. 50) e alla verifica dell'adempimento dei compiti affidata all'Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni (art. 48), nonché al controllo della Corte dei Conti (ai sensi della L. n. 259 del 1958, art. 2, trattandosi di ente "cui lo Stato contribuisce in via ordinaria" e, dal 2010, a seguito del D.P.C.M 10 marzo 2010, ai sensi dell'art. 12 della stessa legge, configurandosi, con riguardo alla intervenuta recente fusione sopra richiamata, la fattispecie tipica dell'apporto statale al patrimonio in capitale»).

L’appellato, poi, contesta la tesi del P.M. secondo cui la SIeSE sarebbe un organo indiretto della Regione siciliana a dotazione erariale.

Deporrebbero in senso decisamente contrario, all'epoca dei fatti contestati:

1) la partecipazione pubblica non totalitaria;
2) l'esercizio di attività non strettamente pubblicistiche (servizi informatici);
3) le caratteristiche desumibili dallo statuto tra le quali spiccano: la possibilità di cedere azioni o di costituire diritti sulle stesse anche a privati (art. 8); la mera facoltà di esercitare il diritto di prelazione degli altri soci in caso di cessione di quote azionarie (art. 9); la mancata previsione di disposizione che imponga la nomina di un consiglio di amministrazione a maggioranza di designazione dell'ente;

4) l'equiparazione di SIeSE alle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1. comma 1, del D. Lgs. n. 39/1993 limitatamente agli "effetti" di cui al medesimo D. Lgs. (ex art. 78, comma 1, L.R. n. 6/2001 e ss. mm. e ii.).

L'effetto non è cioè quello di far diventare SIeSE una pubblica amministrazione, con tutto ciò che ne discenderebbe, ma quello di imporre alla società a partecipazione pubblica gli stessi standard qualitativi nella progettazione, nello sviluppo e nella gestione dei sistemi informativi automatizzati.

Alle considerazioni sopra esposte sarebbe necessario aggiungere, secondo l’appellato, come le Sezioni Unite della Corte suprema di Cassazione abbiano riaffermato, da ultimo, la giurisdizione del Giudice ordinario in relazione alle controversie aventi ad oggetto presunti danni economici subiti da società il cui capitale non sia detenuto integralmente da una pubblica amministrazione e che non presentino i caratteri dell'in house providing.

La sentenza n. 5848 del 24 marzo 2105 delle Sezioni Unite apparirebbe, ad oggi, risolutiva in senso negativo dell'affermata giurisdizione del Giudice contabile.

Per i suesposti motivi, pertanto, l’appellato ha concluso per il rigetto del gravame.

Si è costituita in giudizio V.P., rappresentata e difesa dagli avv.ti Giuseppe e Giovanni Immordino, con memoria depositata il 4 marzo 2016.

L’appellato ha eccepito l’infondatezza dell’appello.

Secondo l’appellato il giudice di primo grado avrebbe esattamente applicato i principi espressi nella c.d. sentenza Rordorf (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25-11-2013, n. 26283) confermati successivamente sia dalle SS.UU. (ex plurimis: Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 24-03-2015, n. 5848; SS.UU 24 ottobre 2014 n. 22608; SS.UU. 26/03/2014 n. 7177; Sez.

un. n. 27993 del 2013) che dalla stessa giurisprudenza contabile. L’appellato fa rilevare che, intanto, ed il rilievo sarebbe troncante, la società cui si riferisce l'art. 78 più volte citato, risulta in origine costituita

con il previsto decreto presidenziale e denominata "Sicilia e innovazione". Sarebbe "Sicilia e innovazione" (e non Sicilia e Servizi) il soggetto societario cui si riferisce la norma e che, con esclusiva funzione di servizio e secondo gli indirizzi strategici governativi, risulta in origine affidato un delicato compito di avviare l'informatizzazione, come dimostrano le apposite convenzioni trilatere ab inizio sottoscritte fra Sicilia e- innovazione, SEeSE e SIeSEV, e volte a disciplinare lo sviluppo dei rapporti contrattuali destinati a garantire la predisposizione, lo sviluppo e

l'attuazione materiale dei progetti di informatizzazione.
Orbene, secondo l’appellato, esulava dalle competenze del legislatore

regionale attribuire uno statuto speciale ad una determinata società, vertendosi in materia di "ordinamento civile" e di diritto privato, di esclusiva competenza statale.

In altri termini, una norma regionale non avrebbe potuto essa stessa stabilire speciali forme societarie tali da attribuire ab origine una natura peculiare e derogatoria alle regole del codice civile alla società in questione tale da farla assurgere — per legge — "ad organo indiretto a dotazione erariale quale longa manus o articolazione dell'Amministrazione regionale".

Proprio in subiecta materia – osserva l’appellato – la Corte Costituzionale ha chiarito che "Le disposizioni che prevedono, tra l'altro, per le società a capitale pubblico o misto costituite o partecipate dalle

amministrazioni pubbliche regionali o locali il divieto di detenere partecipazioni in altre società o enti, di operare per soggetti diversi dagli enti territoriali soci o affidanti rientrano nella competenza esclusiva del legislatore statale in materia di ordinamento civile, poiché funzionali alla definizione dei confini tra l'attività amministrativa e l'attività d'impresa, soggetta alle regole del mercato. nonché nella competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, in quanto finalizzate ad eliminare distorsioni della concorrenza stessa" (Corte Costituzionale 1 agosto 2008 n. 326; cfr. anche Corte Costituzionale 23 luglio 2013 n. 229; sentt. n. 29 del 2006, 401, 438 del 2007, 51, 159, 326 del 2008).

In altri termini, non potrebbe essere (neppure astrattamente) una norma regionale ad "equiparare" tout court la società in questione alle "amministrazioni" e/o ad attribuire alla stessa un peculiare e speciale statuto giuridico, in quanto il legislatore regionale non avrebbe neppure potuto farlo, a meno di non invadere, con una norma incostituzionale, la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e tutela della concorrenza.

Osserva, poi, l’appellato, che all'epoca dei fatti asseritamente produttivi del danno erariale (e cioè le assunzioni da parte del Liquidatore di SIeSE) la società era partecipata solo al 51% dalla Regione Siciliana (peraltro tramite la società Sicilia e Innovazione SpA) e per il restante 49% dal socio privato Sicilia e Servizi Venture S.c.r.l., società interamente privata.

La Regione Siciliana ha detenuto fino al 26 marzo 2014 soltanto la partecipazione maggioritaria per il tramite della società a totale partecipazione pubblica Sicilia e Innovazione S.p.A. (che, a sua volta, in

forza dell'art. 78 L.R. 6/2001, prevedeva una "partecipazione azionaria posseduta prevalentemente dalla Regione" e non "esclusivamente" dal socio pubblico, non escludendo la partecipazione di soci privati e soggetti terzi).

Fino a tale data (26.3.2014), quindi, il 49% del capitale sociale è stato detenuto dal socio privato, costituito dalle società AtosOrigin Italia s.p.a. (poi Engineering.lt s.p.a.) e Accenture s.p.a..

A tal proposito l’appellato ricorda come, di recente, in fattispecie asseritamente identica, è stato chiarito che "Non sussiste la giurisdizione della Corte dei conti per una azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società, nel caso in cui la società stessa non abbia i requisiti per potere essere considerata "in house", tenuto conto del fatto che, come si desume dalla statuto sociale, con riferimento al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita: a) emerge l'assenza del requisito relativo al capitale, poiché lo statuto prevedeva solo una partecipazione maggioritaria pubblica, cioè che i soci di diritto pubblico dovessero detenere il capitale in misura non inferiore al 51% e non totalitariamente" (Corte di. Cassazione, Sez. Unite Civili - sentenza 24 ottobre 2014 n. 22608).

Sarebbe, quindi, pacifico il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti nel caso che ci occupa (cfr. anche Cassazione civile, sez. un., 26/03/2014 n. 7177).

La giurisprudenza Europea avrebbe ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (si vedano le sentenze della Corte di giustizia 10 settembre 2009, n. 573/07. Sea, e 13 novembre 2008, n. 324/07, Coditel Brabant), e nel medesimo senso si sarebbe espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/IO ed 8970/09); va pure aggiunto che occorre sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari.

Nel caso che ci occupa non solo non era inibita la presenza di soci privati, ma questi erano ampiamente presenti nella società con quote del 49%. Tanto basterebbe per escludere che Sicilia e Servizi fosse una società in house.

A nulla, poi, varrebbe affermare che le presunte "violazioni degli obblighi di servizio contestate ai convenuti" sarebbero state "consumate durante il periodo in cui la società, SIeSE era stata posta in liquidazione dal socio pubblico di maggioranza" in quanto tale affermazione, secondo l’appellato, confermerebbe la correttezza della decisione di primo grado, in quanto ammette che in tale periodo vi era un socio di minoranza circostanza incompatibile con la natura "pubblica" e/o in house di SIeSE).

Ed infatti, "la verifica dei requisiti propri della società in house - la cui esistenza occorre sia consacrata nello statuto sociale e costituisce, come detto, il presupposto per l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società - deve esser svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita" (Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 24-03-2015, n. 5848; SS.UU. 26/03/2014 n. 7177; Sez. un. n. 27993 del 2013).

L’appellato, ancora, contesta in modo vibrato l'affermazione secondo cui il liquidatore altro non sarebbe stato che "un incaricato di pubblico servizio".

La liquidazione volontaria deliberata dall'Assemblea dei Soci in data 23.9.2013 ai sensi dell'art. 2484 comma 6 c.c. è un atto di autonomia privata, e quindi avente natura assolutamente privatistica, al pari della nomina del liquidatore.

La stessa liquidazione volontaria dimostrerebbe l'esatto contrario, atteso che se fosse vero che si fosse in presenza di una società pubblica di fonte legale equiparata (in toto) alle Amministrazioni, allora sarebbe evidente che per poter procedere alla liquidazione della stessa sarebbe stata necessaria una norma regionale (uguale e contraria), per i limiti costituzionali di riserva di legge applicabili all'organizzazione amministrativa (cfr. anche art. 4 L. n. 70/75).

Se una legge regionale ha creato tale "organo indiretto a dotazione erariale, quale articolazione dell'Amministrazione regionale" soltanto una legge regionale poteva porre il medesimo organo in liquidazione.

Ed invece, la liquidazione volontaria è stata deliberata in forza delle ordinarie norme stabilite dal codice civile (art. 2484 comma 6 c.c.) per tutte le società per azioni (a partecipazione pubblica o meno), sicché è evidente che SIeSE ha operato in regime di diritto privato, al pari di tutte le normali s.p.a..

Il liquidatore (nominato dai soci e in forza delle norme previste dall'atto costitutivo o dallo statuto) non sarebbe affatto "incaricato di pubblico servizio" ma avrebbe esclusivamente responsabilità civilistiche nei

confronti dei soci e non svolge affatto "un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione" ai sensi dell'art. 358 c.p., in quanto svolge attività di diritto privato tout court.

Anche nei casi in cui fosse nominato non dai soci (come nel caso che ci occupa) ma dal giudice (in caso di disaccordo o su istanza di una delle parti o negli altri casi previsti dalla legge) il relativo provvedimento giudiziale è un "atto di "gestione di interessi" a carattere sommario e semplificato" a tal punto che "in base all'art. 2487 c.c., comma 4, la nomina dei liquidatori può sempre essere revocata dall'assemblea ovvero dal tribunale qualora in quest'ultimo caso, sussista una giusta causa" (Cassazione civile, sez. I, 29/05/2009, n. 12677).

Si tratta, quindi, evidentemente di un soggetto che in alcun modo potrebbe essere considerato un "incaricato di pubblico servizio" né tantomeno sussisteva alcuna "missione pubblica di liquidare la società" atteso che la missione era semmai "privata" (in primo luogo la salvaguardia del patrimonio societario) e condivisa dal socio privato (ancora presente con azioni pari al 49% e che aveva tutto l'interesse a salvaguardare sia il valore delle proprie azioni che il patrimonio societario).

Incomprensibile, ancora, viene definita dall’appellato l'affermazione secondo cui SIeSE avrebbe potuto operare "solo per la Regione".

Non sarebbe vero che — almeno all'epoca della sua costituzione, ma anche secondo il suo statuto — SIeSE potesse operare solo per la Regione, e d'altronde la circostanza che il "100% del fatturato di SIeSE sia nei confronti della Regione Sicilia" (dato accertato dalla GdF in data

10.10.2014 e cioè dopo la fuoriuscita del socio privato) non proverebbe alcunché, essendo pacificamente consentito a qualsiasi società di operare esclusivamente con un unico "cliente".

Rimarca, poi, l’appellato il fatto che le Sezioni Unite della Cassazione abbiano costantemente ribadito che per poter affermare la giurisdizione contabile sia necessario ("sempre") che "lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari" (Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25-11- 2013, n. 26283), mentre risulterebbe per tabulas che solo in data 26.3.2014 "la Regione è diventata l'unica proprietaria di SIeSE ", che le assunzioni sono avvenute prima di tale data, dal momento che i dipendenti sono stati assunti, in parte, con decorrenza 23.1.2014 e, in parte, con decorrenza 4.2.2014 e che, pertanto, alla data delle assunzioni asseritamente illegittime la SIeSE era 'al 49% in mano del socio privato e che, pertanto, il Liquidatore doveva dar conto delle proprie scelte di gestione anche e soprattutto a tale socio.

Sicché sarebbero proprio le "peculiarità della fattispecie concreta in esame" che escluderebbero che possa radicarsi la giurisdizione del giudice contabile, tenuto anche conto che è stato più volte ribadito che la sussistenza di tutti i requisiti che devono "contemporaneamente" essere presenti per ipotizzare i caratteri propri della società "in house" devono essere valutati "con riferimento al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita", sicché le successive trasformazioni non rileverebbero in alcun modo ai fini che ci occupano.

Quanto all'equiparazione della società in questione alle

"Amministrazioni" di cui al comma 1 dell'art. 1 del D.Lgs n. 39/93, l’appellato fa rinvio, illustrandola, alla motivazione sul punto del Giudice di prime cure, che dichiara di condividere, sottolineando come per la società in questione, partecipata solo in prevalenza dalla Regione Siciliana (51%), non viene in rilievo quel particolare statuto legale che ha consentito alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione di riconoscere la giurisdizione contabile nei confronti di società per azioni con partecipazione totalitaria dello Stato, riconoscendone la natura sostanziale di enti pubblici.

In buona sostanza, la costituzione della società avrebbe espressamente e chiaramente assoggettato la stessa a tutte le regole delle società per azioni.

Secondo l’appellato, ancora, nessuna contestazione verrebbe mossa dall'appellante al capo della sentenza che avrebbe escluso la sussistenza di un controllo analogo (introdotto invece in data 18.11.2014 con la modifica dell'art. 14 dello statuto e quindi in epoca successiva ai fatti contestati e all'acquisizione, da parte della Regione Siciliana, del 100% del pacchetto azionario).

Tale circostanza (di assoluta rilevanza ai fini dell'individuazione del plesso munito di giurisdizione) e l'asserita assenza di contestazioni e/o critiche da parte della Procura, da un lato, esimerebbe la difesa dal dover indugiare oltre sul punto e, dall'altro, confermerebbe la correttezza della statuizione impugnata.

Né tantomeno la sussistenza di una forma di controllo "analogo" potrebbe trarsi dai meccanismi che sono stati previsti con atto amministrativo assessoriale per tutte le partecipate regionali (che quindi dovrebbero essere tutte in house!), mentre è chiaro che il "controllo" svolto

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dal servizio del dipartimento è espressione dell'ordinario potere di interferenza conseguente alla posizione di socio, mentre è pacifico che le caratteristiche del controllo analogo siano ben più pressanti e specifiche, come peraltro ex post (e per effetto della progressiva trasformazione in house sopravvenuta ai fatti) attuato successivamente con la creazione di apposito Comitato.

Per i suesposti motivi l’appellato ha concluso per il rigetto del gravame.

Si è costituito in giudizio D.G., rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Raimondi, con memoria depositata il 4 marzo 2016.

Ha eccepito l’infondatezza dell'appello in relazione al dedotto difetto di giurisdizione del giudice contabile.

Ha osservato l’appellato che, oltre ancora alla stessa data in cui si sarebbero concretizzate le contestate assunzioni del Liquidatore, atti e fatti assertivamente produttivi del danno erariale, la società Sicilia e Servizi S.p.A. era partecipata al 51% dalla Regione Siciliana, mentre il restante 49% del capitale sociale si intestava alla consortile costituita tra le aggiudicatarie della gara a doppio oggetto celebrata nel 2006, denominata Sicilia e Servizi Venture S.c.r.l., partecipazione pubblica diventata totalitaria solo dal 26 marzo 2014 in poi.

E' quindi con quella decorrenza, e con la materiale cessione per atto pubblico (richiesto ob substantiam dai principi generali) delle quote già del socio privato in SIeSE, che alla Regione si intesta la titolarità esclusiva del capitale sociale, con quanto è possibile dedurne in termini di corretta qualificazione giuridica del fenomeno e, quindi, di derogatorio riconoscimento di una giurisdizione contabile sulle scelte attribuite ad una

società con parziale capitale pubblico.
Ciò posto, sarebbe da escludere che SIeSE all'epoca dei fatti oggetto di  contestazione si potesse connotare come espressione di in house providing, con la conseguenza che sarebbe pure da escludere ogni ipotetico margine atto a far ritenere sussistente la giurisdizione della Corte dei conti sul rapporto de quo.

A tal proposito l’appellato rimanda a copiosa giurisprudenza della Cassazione (già qui richiamata con riferimento alle difese fin qui esaminate).

A fronte del rigore ermeneutico della Cassazione, il P.M., secondo l’appellato, valorizzerebbe il tema, smentito anch'esso dal Collegio di prime cure, concernente l'astratta possibilità di qualificare SIeSE come una "società pubblica di fonte legale e dalla stessa legge regionale equiparata alle Amministrazioni".

A tal proposito l’appellato ha ribadito che nessuna connessione esisterebbe tra l'organismo societario citato dall'art. 78 e SIeSE soggetto di puro diritto privato, nato, con partecipazione maggioritaria regionale, ma come tipica fattispecie attuativa del fenomeno tipizzato del partenariato pubblico privato istituzionale, dagli esiti di una gara "a doppio oggetto" (volta cioè alla contestuale selezione dei soci "professionali" ed all'acquisizione dei progetti di strutturazione e organizzazione della Piattaforma Informatica regionale, da realizzare nel quinquennio di durata del contratto sociale), e che sarebbe agevole obiettare che quella disposizione ha solo previsto che in ambito siciliano organizzazione e vigilanza sullo svolgimento delle attività informatiche,

contenutisticamente riconducibili a quanto previsto dal decreto legislativo del 1993, fossero affidate non ad uffici dell'organizzazione burocratica, ma ad altro soggetto societario, con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa, ab initio identificato nella in house Sicilia e Innovazione.

Ben altro ruolo e funzione avrebbe svolto, di contro, l'appaltatrice del servizio, ovvero SIeSE s.p.a., nella cui "vigilanza tecnica e organizzativa" è successivamente subentrato l'apposito Ufficio, costituito dall'art. 35 L.R. 9 del 2013.

Ne conseguirebbe che non sarebbe affatto possibile concludere che a SIeSE potesse sotto alcun profilo riconoscersi natura di "organo indiretto" e di "amministrazione a struttura societaria", piuttosto che, semplicemente e intuitivamente, di appaltatore per la fornitura dei servizi informatici, aggiudicatasi con gara a doppio oggetto e celebrata allo scopo.

Ad ogni modo siffatte circostanze non condurrebbero a ritenere che la società di cui la Regione si è avvalsa potesse qualificarsi in house, visto che essa, in primo luogo, difettava dell'essenziale e indispensabile requisito individuato dalle sezioni unite, vale a dire la "natura esclusivamente pubblica dei soci".

Per completezza di argomenti, poi, l’appellato rileva come, contrariamente a quanto afferma l'appellante, non potrebbe mai essere (neppure astrattamente) una norma regionale ad "equiparare" tout court la società in questione alle "amministrazioni", e/o ad attribuire a questo soggetto di diritto privato un peculiare e speciale statuto.

A simili conclusioni il legislatore regionale non sarebbe mai potuto

arrivare, a meno di invadere, con norma a tal punto incostituzionale, la competenza statale in tema di ordinamento civile e tutela della concorrenza (Corte Costituzionale 01 agosto 2008 n. 326; cfr. anche Corte Costituzionale 23 luglio 2013 n. 229; sentt. n. 29 del 2006, 401, 438 del 2007, 51, 159, 326 del 2008).

Decisivo, ancora, sarebbe pur sempre, secondo l’appellato, che la società, all'epoca dei fatti, non era neanche sottoposta ad alcuna forma di controllo analogo (introdotto dal 18.11.2014 attraverso una modifica dell'art. 14 dello statuto, e pertanto, con assoluta certezza, in epoca successiva ai fatti contestati e all'acquisizione, da parte della Regione Siciliana, del 100% del pacchetto azionario).

La circostanza che nessun controllo "analogo" esistesse sarebbe dimostrata, altresì, dal fatto che determinati meccanismi, invocati oggi dalla Procura, ma previsti con atto amministrativo assessoriale per tutte le partecipate regionali (che quindi in tesi dovrebbero essere considerate tutte in house!), il "controllo" svolto dal servizio del dipartimento é espressione dell'ordinario potere di interferenza conseguente alla posizione di socio, mentre é pacifico che le caratteristiche del controllo analogo siano ben più pressanti e specifiche, come ex post (e per effetto della progressiva trasformazione in house sopravvenuta ai fatti) attuato con la creazione di apposito Comitato.

Per tali motivi l’appellato ha concluso per il rigetto del gravame.

Si è costituito in giudizio l’appellato I.A., rappresentato e difeso dagli avv.ti Mario Serio e Carmelo Elio Costanza, con memoria depositata il 4 marzo 2016.

Secondo l’appellato i Giudici di prime cure avrebbero seguito un percorso argomentativo del tutto immune da vizi logici, giuridici o anche di ricostruzione fattuale dei termini della vicenda, attentamente esaminata, per escluderne la rilevanza ai fini della negata giurisdizione propria.

L’appellato ha richiamato la più recente giurisprudenza del Giudice regolatore della giurisdizione che ha ribadito due punti fermi, sui quali si sarebbe esattamente basata anche la sentenza impugnata e, cioè, che per valutare se sussista la giurisdizione della Corte dei Conti occorrerebbe avere riguardo alle situazioni di fatto e di diritto esistenti "al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di re- sponsabilità del p.m. presso la Corte dei conti" (Cass, Sez. un., 26-3-2014 n. 7177).

Ancora: "La corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità degli organi sociali per i danni cagionati al patrimonio della società solo quando possa dirsi superata l'autonomia della personalità giuridica rispetto all'ente pubblico, ossia quando la società possa definirsi in house, per la contemporanea presenza di tre requisiti: 1) il capitale sociale sia integral- mente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con

modalità ed intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile (Cass. Sez. Un., 10-3-2014 n. 5491).

L'appello ometterebbe di considerare, poi, che nessuna norma ha mai attribuito alla società in esame natura pubblicistica e che la suggestiva nozione di "organo indiretto a dotazione erariale" sfuggirebbe alla bipolare partizione effettuata dalle Sezioni Unite della Corte Suprema in sede di ripartizione di giurisdizione.

Altrettanto viene sottolineato con riguardo alla triplice condizione giustificatrice dell'inclusione delle società "in house providers " nell'area della giurisdizione contabile: l'appello non terrebbe conto che, anche da questo punto di vista, manca qualunque appiglio a sostegno della tesi e non si, curerebbe di smentire l'accurata disamina che ha portato i primi Giudici a statuire nel senso che non uno degli elementi costitutivi potesse dirsi ricorrente.

L'appello trascurerebbe del tutto che, sebbene il paradigma organizzativo delle società "in house" vada desunto dal modello societario, di esse non può parlarsi come di società di capitali intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse proprio (Cass. SU 25, novembre 2013 n. 26283). Egualmente, l'appellante avrebbe completamente omesso di considerare che, per essere attratta nell'orbita giurisdizionale contabile, SIeSE avrebbe dovuto sempre alla stregua del medesimo orientamento giurisprudenziale appena citato collocarsi esclusivamente all'interno dell'ente pubblico, costituendone una "longa manus": ed invero, era carente rispetto ad esso qualsiasi alterità soggettiva, oltre che il perseguimento di

fini di lucro. Circostanze, queste, assolutamente incompatibili, con quelle affioranti nella fattispecie concernente la vita ed il funzionamento di una società di capitali, anche privati, cui non era preclusa l'apertura al mercato.

Ancora, l'impugnazione si sottrarrebbe del tutto alla dimostrazione, resa imperativa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che SIeSE avesse della società in senso civilistico solo la forma esteriore, costituendo, in effetti, mera articolazione della pubblica amministrazione da cui promana.

Viene confutato anche l’ulteriore argomento secondo il quale si avrebbe nella specie giurisdizione contabile a causa della qualità soggettiva (pubblicistica) del liquidatore della società,che avrebbe addirittura assunto le vesti di incaricato di pubblico servizio. Ora, a prescindere che una siffatta tesi — incentrata sul rilievo decisivo attribuito alla condizione giuridica dell'agente – si porrebbe, secondo l’appellato, in rotta di collisione con l'insegnamento giurisprudenziale che, a fini di ripartizione giurisdizionale, fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate, sulle risorse finanziarie adoperate e sul rapporto di servizio tra agente e pubblica amministrazione (Cass. SU 19 dicembre 2009 n. 26806), sarebbe da notare che la costruzione muoverebbe da una lettura contraria ad ogni logica civilistica dei compiti assegnati e della figura disegnata al liquidatore dall'art.2487 c.c.

Si tratterebbe di un ufficio di diritto privato, quando, come nel caso di specie, conferito, all'interno di una società di capitali disciplinata dal codice civile, in nessun caso convertibile in un munus publicum.

Da ciò la richiesta conclusiva di rigetto dell’appello.

Si è costituita in giudizio S.R., rappresentata e difesa dall’avv. Girolamo Rubino, con memoria depositata il 7 marzo 2016.

La difesa della S. ha ripercorso le tesi argomentative dei primi giudici, facendole proprie, rimarcando i riferimenti alla giurisprudenza di legittimità già sopra richiamata e finalizzata a negare, nel caso di specie, la giurisdizione di questa Corte, sia sotto il profilo della impossibile qualificazione della società come “in house”, sia con riferimento all’attribuzione della definizione di organo indiretto e, quindi, di ente pubblico strictu sensu, sia, infine, con riferimento alle argomentazioni sviluppate dal P.M. in ordine allo status liquidatorio della società in oggetto al fine di inferirne la totale appartenenza alla Regione.

Ha chiesto, conclusivamente, il rigetto del gravame.

Si è costituita in giudizio S.N., rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Stallone, con memoria depositata l’11 marzo 2016.

L’appellata ha contestato che sulla società SIeSE venisse esercitato il c.d. "controllo analogo.

Ha ricordato, a tal proposito, le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione abbiano ritenuto condizione necessaria (ma non sufficiente), perché possa affermarsi l'esistenza di una società a controllo analogo, il fatto che le sue azioni "... non possono per statuto appartenere neppure in parte a soci privati" (n. 5848/2015).

Osserva l’appellata che si tratterebbe di un insegnamento consolidato, persino risalente, ormai pacificamente fatto proprio da tutte le Giurisdizioni, se non altro perché il portato di rigidi principi più volte riaffermati dalla Corte di Giustizia (la natura di società in house, come è noto, consente alla P.A. di disporre affidamenti in favore della società derogando alla rigida disciplina delle direttive e del codice degli appalti).

In specie, seppur in sede di controllo, sarebbe pacifico l'orientamento del Giudice contabile, ad avviso del quale una società si può definire legittimamente in house ove abbia "capitale totalmente pubblico (anche appartenente a pluralità di soci, purché lo statuto ne inibisca la cessione a terzi privati)." (ex multa, Piemonte, sez. controllo, n. 159/2014), in ciò coerente alle conclusioni del Consiglio di Stato, ad avviso del quale "... sul punto è quindi applicabile il principio stabilito dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella sentenza 3 marzo 2008, n. 1, secondo cui anche una partecipazione di minoranza di un soggetto privato al capitale di una società in mano pubblica "esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi" (par. 8, nel quale viene richiamata anche la pertinente giurisprudenza della Corte di Giustizia UE)." (sez. V, n. 5079/2014).

Nello stesso senso si sarebbe, altresì, altresì espresso il giudice Europeo il quale, nella sentenza 19 giugno 2014, C-574/12, Centro Hospitalar de Setúbal EPE, avrebbe ribadito che "la partecipazione privata al capitale di società asseritamente in house comporta, da un lato, una deviazione rispetto al fine pubblico cui questa dovrebbe tendere (come già statuito nella richiamata pronuncia 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, par.par. 49 e 50) e, dall'altro lato, un indebito beneficio concorrenziale per il socio privato conseguente agli affidamenti disposti in via diretta dall'amministrazione partecipante".

Stante la partecipazione di privati al capitale sociale di SIeSE sarebbe, perciò, da escludere che questa possa essere classificata come società in house, almeno fino a quando l'intera partecipazione sia stata acquisita dalla Regione Siciliana (condizione quest'ultima che non è comunque sufficiente ex se, per affermare l'esistenza di un controllo analogo).

Ricorda, poi, l’appellata, che la Regione siciliana non ha alcuna potestà legislativa sui rapporti di diritto comune, cosa che la onera a operare in subiecta materia, nel rispetto delle prescrizioni generalmente vigenti.

Ne discende che il subentro della Regione siciliana non ha luogo alla data fissata nei patti parasociali, ma alla data - anteriore o posteriore che sia rispetto a quella prevista da tali patti - in cui l'effetto traslativo si verifica. Tale effetto si è prodotto solo il ventisei marzo 2014, data in cui con atto di cessione di azioni, la SISEV ha ceduto la propria partecipazione alla regione siciliana.

Dunque, alla data di adozione della delibera n. 6/2014, SIeSE permaneva nella condizione di società mista costituita mediante gara a doppio oggetto, non essendo una società in house.

La difesa della Sha, poi, sviluppato dei motivi relativi al merito della citazione in giudizio, dei quali, tuttavia, si tralascia di riferire in quanto l’oggetto del presente gravame risulta circoscritto alla verifica della sussistenza o meno della giurisdizione contabile.

Ha chiesto, in conclusione, il rigetto del gravame.
Si è costituita in giudizio S.M., rappresentata e difesa dall’avv.

Francesco STALLONE, con memoria depositata l’11 marzo 2016, sviluppando motivi sostanzialmente sovrapponibili a quelli della S.N. e

chiedendo il rigetto del gravame.
Ha replicato il P.M. con memoria depositata il 4 marzo 2016,  sottolineando come, nell'atto di appello, la giurisdizione contabile, negata dal giudice di prime cure, andrebbe, invece, ritenuta sussistente in base a due principali motivi:

1) la natura legale di SIeSE, per legge attributaria della funzione informatica regionale al servizio esclusivo della regione medesima ed equiparata dalla legge medesima alle "amministrazioni";

2) lo status di società in liquidazione di SIeSE, ove i poteri erano incentrati sul liquidatore nominato dal Presidente della regione per liquidare la società, e l'obbligo convenzionale di acquisire la partecipazione totalitaria pubblica non oltre il 22.12.2013, con conseguente non sovrapponibilità alla peculiarità della fattispecie concreta dei criteri della sentenza Rordof dettati per le società in house vitali, cioè operanti per il raggiungimento dello scopo sociale (e non per la liquidazione).

In ordine alla riconducibilità di SIeSE nell'ambito delle società pubbliche di fonte legale, sostenuta nella domanda attorea e articolata nei motivi di appello, il P.M. ha ripercorso il dato normativo a partire dal D.lvo 39/1993 che individua la funzione informatica (progettazione, sviluppo e gestione dei sistemi informativi automatizzati) come una funzione tipica dell'Amministrazione da svolgere con personale dell'Amministrazione (art. 2, comma 1 Dlvo 39/1993), salvo la motivata possibilità di affidamento a terzi (art. 2 comma 2), sotto direttiva, responsabilità e titolarità dei sistemi in capo all'Amministrazione (art. 2 comma 3).

Secondo la Procura Generale, la legge regionale assegnerebbe all'organismo societario, che poi diverrà SIeSE, non l'affidamento del servizio sporadico, ma l'affidamento completo della funzione informatica che il legislatore nazionale in prima battuta riservava all'Amministrazione; quindi, l'equiparazione che il comma 1 dell'art. 78 LR 6/2001 fa di SIeSE alle "amministrazioni" di cui al comma 1 dell'art. 1 D.Lgs 39/1993, non sarebbe una equiparazione neutra o insignificante, bensì una equiparazione che si giustifica per l'attribuzione dell'intera funzione che, per legge, spetta all'Amministrazione.

Pertanto SIeSE sarebbe Amministrazione non per un refuso asistematico del legislatore regionale, ma perché intestataria della funzione strategica informatica che spetta all'Amministrazione, a nulla rilevando l'assenza di poteri autoritativi che non è presupposto indefettibile, laddove l'organo è intestatario per legge della funzione, e non di un singolo servizio, e laddove è la stessa legge ad equiparare la società alle Amministrazioni.

Per completezza argomentativa ha soggiunto il P.M., come, in un recente parere, intervenuto dopo la proposizione dell'atto di appello, l'ANAC, interpellata dall'OLAF sugli affidamenti milionari e diretti al socio privato SIeSEV fatti da SIeSE, abbia senza esitazione affermato, anche per il periodo in cui la partecipazione regionale era prevalente, la soggezione di SIeSE agli obblighi di evidenza pubblica, ritenendone determinante proprio la equiparazione legale alla pubblica amministrazione ( "... in quanto costituita ai sensi del richiamato art. 78 1.r. 6/2001 ed equiparata ex lege ad una pubblica amministrazione..." (parere ANAC del 21.10.2015, riversato in atti).

Ha sottolineato, poi, il P.M., come la carenza di partecipazione totalitaria alla data del reclutamento di massa non possa avere, nella fattispecie concreta in esame, efficacia esimente dalla giurisdizione contabile, sia perché SIeSE era in liquidazione e, pertanto, il controllo della società non dipendeva più dalla espressione nel CDA delle quote di partecipazione, ma dall'aver il presidente della Regione nominato un liquidatore che doveva liquidare la società, sia perché l'obbligo convenzionale da parte della regione di acquisire la partecipazione totalitaria dopo il 22.12.2013, faceva divenire giuridicamente irrilevante il mantenimento della quota minoritaria del socio privato SIeSEV, rimasto estraneo al processo decisionale da cui è scaturito l'illegittimo reclutamento di massa, e riconducibile ad una sequenza squisitamente amministrativa: richiesta parere - parere avvocatura distrettuale - delibera di giunta che in base al parere dell' avvocatura rinnegava il già statuito divieto di popolamento - esecuzione del reclutamento di massa da parte del liquidatore di SIeSE.

Il P.M. ha, infine, ribadito quanto già rassegnato nell'atto di appello in ordine alla circostanza che una applicazione logica al peculiare status della SIeSE, società in liquidazione, dei criteri della sentenza Rordorf testualmente riportati nella sentenza impugnata, avrebbe dovuto indurre il Collegio di primo grado a ritenere che gli effetti di pieno controllo sulla società ancorati dalla Cassazione alla partecipazione pubblica totalitaria, nella fattispecie concreta in esame erano soddisfatti dallo status di società in liquidazione, gestita dal liquidatore nominato dal socio pubblico con la specifica e predeterminata missione di liquidare la società; che nella fattispecie concreta in esame il reclutamento di massa illecito è stato

realizzato ben oltre la data (il 22.12.2013) in cui la Regione era obbligata pattiziamente a divenire socio unico totalitario; la circostanza che la Regione avesse ritardato l'acquisizione del 49% delle azioni di SIeSE in mano al socio privato, acquisizione avvenuta solo in data il 26.3.2014 (a popolamento di massa ultimato: n.d.r.), dimostra ulteriormente che la società in liquidazione era totalmente in mano pubblica anche se non acquisiva la titolarità del capitale di minoranza; il requisito della previsione statutaria della prevalenza dell'attività in favore del socio privato, nel caso di SIeSE fosse ben più pregnante perché è la stessa legge a prevedere che SIeSE operasse esclusivamente in favore della Regione (art. 78 LR 6/2001 cit: "con unica ed esclusiva funzione di servizio per la Regione stessa..'), e risulta anche dimostrato dalle acquisizioni istruttore che SIeSE fatturava solo alla Regione Siciliana, suo unico cliente; il requisito dell'assoggettamento a forme di controllo analogo diverse dai controlli civilistici, non solo sussisteva, essendo SIeSE sottoposta alle serrate modalità di controllo analogo previste in dettaglio nel decreto e nella circolare assessoriale sopra indicate e richiamate nell'atto di citazione (v. pagg. 67 e 68 atto di citazione e atti specificamente richiamati), ma la SIeSE era pattiziamente e per legge sottoposta agli ".... indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi.' (art. 78 LR 6/2001,cit.), e pertanto soggetta ad una ingerenza sulla propria attività continua e totale della Regione che approvava sia il Piano Operativo Strategico (POS), sia il Piano Esecutivo Annuale (PEA) della SIeSE, ed inoltre sottoponeva SIeSE ai controlli tecnici (del CSIR-organo tecnico della Regione) e funzionali

(del Dipartimento Bilancio- Servizio Partecipate della ragioneria generale) della Regione medesima.

Alla pubblica udienza del 15 marzo 2016 il P.M. e le parti private rappresentate hanno diffusamente illustrato i contenuti degli atti scritti, confermando le domande ed eccezioni ivi formulate.

D I RI T T O

L’oggetto dell’odierno gravame e della pronuncia richiesta a questa Corte d’Appello sono circoscritti alla verifica, o meno, della giurisdizione contabile in ordine alla domanda di merito formulata dal P.M., già negata dai Giudici di prime cure.

Si tratta, in estrema sintesi, di un’azione di responsabilità formulata dalla Procura contabile per un asserito danno erariale provocato da una serie di soggetti, in parte legati da rapporto di servizio con la SIeSE s.p.a. medesima (soggetto danneggiato) ed in parte legati da rapporto di servizio con altre pubbliche amministrazioni, che avrebbero concorso, a vario titolo, a determinare l’illegittima assunzione (vietata dalla legge) di alcuni soggetti presso la SIeSE suddetta.

Il tema delle «società pubbliche» si colloca al confine tra diritto pubblico e diritto privato.

Questa forma di esercizio dell’impresa pubblica, divenuta vincente rispetto a quelle dell’impresa-organo e dell’impresa-ente pubblico economico, ha assunto dimensioni imponenti che hanno enfatizzato la difficoltà del legislatore di stabilirne una razionale regolamentazione, rendendo le società pubbliche «il campo dei diritti speciali e dei diritti singolari».

«Società pubbliche» è, tuttavia, locuzione dal significato incerto, riferibile a fattispecie assai diverse, che spaziano da quella in cui lo Stato o altri enti pubblici detengono la totalità delle partecipazioni di una società di capitali, ovvero una partecipazione di controllo, a quelle delle società sottoposte ad una particolare influenza da parte del primo o dei secondi, in virtù di una relazione contrattuale o anche in ragione dell’attribuzione ai medesimi della nomina di uno o più amministratori, indipendentemente dalla titolarità di partecipazioni azionarie.

Un’ulteriore classificazione distingue, all’interno di questo genus, tra «società di mercato» e società «semi-amministrazioni», ripartite, a loro volta, in ulteriori figure.

Le norme del codice civile, nonostante le proporzioni assunte dal fenomeno dell’azionariato pubblico già nel 1942, riconducevano le società latu sensu pubbliche nel novero di quelle di diritto comune, stabilendo l’applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale anche agli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale. Questa disciplina era frutto di una concezione che aveva inteso privatizzare il potere economico dello Stato, allo scopo di realizzare un’efficiente iniziativa economica pubblica, privilegiando un modello caratterizzato dalla direzione politica del processo economico, ma anche dal rispetto del mercato e delle sue leggi. La scelta di tale modello comportava l’irrilevanza della natura giuridica dell’azionista, con il risultato, sottolineato nella relazione al codice civile, che la disciplina comune della società per azioni deve applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto

norme speciali non dispongano diversamente.
A partire dalla fine degli anni ottanta, la scelta di tale strumento è  divenuta una costante del legislatore nella prospettiva della riorganizzazione dell’amministrazione pubblica e nella ricerca di modelli che potessero garantire efficienza ed economicità» . Tuttavia, l’intento di mantenere una ”sacca” di privilegio, «in deroga ai fondamentali principi della concorrenza tra imprese e della trasparenza», piuttosto che «l’impatto del diritto comunitario e l’affermarsi dell’idea del mercato pienamente aperto alla concorrenza», hanno contribuito al crescente impiego delle società di capitali per l’esercizio di attività economiche prima affidate ad aziende autonome dello Stato o ad enti pubblici economici, ovvero ad aziende municipalizzate.

All’interno della categoria assai ampia delle società pubbliche, in considerazione degli sviluppi rilevanti ai fini del riparto della giurisdizione, rilevano, per quanto qui ci riguarda, le c.d. “società in house”, espressione che identifica una modalità dell'autoproduzione pubblica realizzata non mediante un servizio "interno" alla P.A., bensì attraverso un ente distinto da questa controllato (da sola o congiuntamente ad altre P.A.) o mediante un rapporto contrattuale con altri soggetti pubblici.

La nozione è stata elaborata dalla Corte di giustizia a partire dalla nota sentenza resa nel caso Teckal , che affermò:
a) per l’applicabilità della procedura di gara «basta, in linea di principio, che il contratto sia stato stipulato, da una parte, da un ente locale e, dall'altra, da una persona giuridicamente distinta da quest'ultimo» e cioè da «un ente distinto da essa  sul piano formale e autonomo rispetto ad essa»;
b) diversamente può accadere «solo nel caso in cui, nel contempo, l'ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano». Il principio, in seguito, è stato riferito anche alle procedure di attribuzione degli appalti pubblici di lavori e di servizi e, in presenza di determinati presupposti, anche la modifica di un contratto di appalto in corso può costituire nuova aggiudicazione.

Nonostante la carenza di una definizione e di una disciplina generale, la locuzione in house identifica, quindi, una gestione riconducibile allo stesso ente affidante o alle sue articolazioni, perciò diversa sia dall’appalto dei servizi (caratterizzato dall’esecuzione della prestazione da parte dell’appaltatore in favore dell’ente pubblico), sia dalla concessione (in cui il concessionario svolge la prestazione in sostituzione dell’ente pubblico). In buona sostanza, si tratta di un modello organizzativo in virtù del quale, nonostante la distinta soggettività giuridica, è l’ente pubblico che svolge direttamente l’attività.

Secondo la Corte di giustizia, il «controllo analogo» postula l’esistenza di un controllo congiunto : strutturale e sull’attività. Il requisito manca quando nel soggetto affidatario vi sia una partecipazione, anche minoritaria, di un soggetto privato e nel caso di «società ad economia mista», ma non nel caso di partecipazione da parte di s.p.a. che siano «a loro volta imprese comunali». E’ possibile, invece, che l’amministrazione aggiudicatrice detenga anche insieme ad altri enti pubblici l’intero capitale

della società aggiudicataria. In questa ipotesi il controllo può essere esercitato congiuntamente dalle stesse, deliberando, eventualmente, a maggioranza, ma «il controllo esercitato su quest’ultima non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell’entità in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione stessa di controllo congiunto».

Il controllo sull’attività richiede «una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti» della società . E’, quindi, insufficiente il controllo della gestione a posteriori, salvo qualora, da un canto, le pubbliche autorità verifichino «non solo i conti annuali dell'organismo considerato, ma anche la sua amministrazione corrente sotto il profilo dell'esattezza, della regolarità, dell'economicità, della redditività e della razionalità»; dall'altro, le stesse autorità siano «autorizzate a visitare i locali e gli impianti aziendali del suddetto organismo e a riferire sul risultato di tali verifiche a un ente locale che detenga, tramite un'altra società, il capitale dell'organismo di cui trattasi».

Resta escluso il controllo analogo nel caso di una s.p.a. il cui consiglio di amministrazione possieda ampi poteri di gestione esercitabili in maniera autonoma ed il cui capitale sia interamente detenuto da un’altra società per azioni, della quale è a sua volta socio di maggioranza l’amministrazione aggiudicatrice.

Nell’accertare l’esistenza dei requisiti del controllo è necessario tener conto non solo di tutte le disposizioni normative, ma altresì delle

circostanze pertinenti del caso di specie e l’eventuale obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere ad una gara d’appalto deve essere valutato, in via di principio, alla luce delle condizioni esistenti alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi.

Il controllo analogo esige che la società in house realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano, poiché un’impresa non è necessariamente privata della libertà di azione per la sola ragione che le decisioni che la riguardano sono prese dall’ente pubblico che la detiene, se essa può esercitare ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori. Occorre che le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente locale in questione, dato che entro tali limiti, risulta giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 93/36, in quanto questi ultimi sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere» e, quindi ogni altra attività deve avere «solo un carattere marginale».

Infatti, la seconda condizione posta al punto 50 della citata sentenza Teckal, in base alla quale la società aggiudicataria deve svolgere la parte più importante della sua attività con gli enti locali che la controllano, consente che questa società eserciti un’attività avente un carattere marginale con altri operatori diversi da questi enti (...) sarebbe priva di oggetto se la prima condizione di cui al punto 50 della citata sentenza Teckal fosse interpretata nel senso di vietare ogni attività accessoria, anche con il settore privato. Nel caso in cui diversi enti detengano un’impresa, la condizione relativa all’attività può ricorrere «qualora tale impresa svolga

la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo o con quell’ente, ma con tali enti complessivamente considerati.

Nell’accertare l’esistenza di detto requisito, occorre prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative, avendo riguardo al fatturato che l’impresa in questione realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante, compreso quello ottenuto con gli utenti in attuazione di tali decisioni e delle prestazioni realizzate nell’ambito di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la stessa amministrazione aggiudicatrice o l’utente delle prestazioni. Neppure è rilevante sapere chi remunera le prestazioni dell’impresa in questione, potendo trattarsi sia dell’ente controllante sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente.

Il Giudice dell’UE non indica, di regola, soglie quantitative, ma in un caso ha affermato che, quando la società realizza mediamente più del 55% della sua attività con le comunità autonome e circa il 35% con lo Stato, deve ritenersi che la parte più importante dell’attività della società di cui trattasi è realizzato con gli enti e gli organismi pubblici che la detengono.

L’impresa affidataria non deve avere acquisito una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell'ente pubblico; tale vocazione può risultare, tra l'altro: dall'ampliamento dell'oggetto sociale; dall'apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall'espansione territoriale dell'attività della società a tutta l'Italia e all'estero. Risulta parimenti ininfluente sapere su quale territorio siano

erogate tali prestazioni, essendo rilevante, nel caso di società partecipata da più enti pubblici, la limitazione dell’attività al territorio di detti enti.

La società in house non si identifica con l’organismo di diritto pubblico, risultando caratterizzata da requisiti più rigorosi: tutti gli enti in house sono organismi di diritto pubblico; non è, invece, sempre vero il contrario e la circostanza che l’affidatario dell’appalto sia qualificabile come organismo di diritto pubblico non esime dall’osservanza delle regole in tema di gara. Il requisito del controllo analogo ha maggiore pregnanza rispetto alla sottoposizione ad influenza pubblica dominante e comprende il secondo, ma non sempre avviene il contrario. L’affidatario in house, costituendo proiezione organizzativa e parte integrante dell’amministrazione controllante e affidante, a sua volta, va considerato amministrazione aggiudicatrice, cui si applica la disciplina di gara a carattere pubblicistico.

Un’ulteriore tipologia di società pubbliche, per quanto qui interessa, è costituita dalle società cc.dd. strumentali, quali individuate dall’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006 .

La locuzione identifica le società che svolgono attività rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società, con funzioni di supporto delle amministrazioni pubbliche, quindi destinata essenzialmente alla P.A., differenziandosi per questo profilo dalle società che gestiscono i servizi pubblici locali.

Secondo la Corte costituzionale, si tratta di società fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso

società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza; la disciplina che le contempla mira ad evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione.

L’art. 3, comma 27, legge 24 dicembre 2007, n. 244, stabilendo che, « Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società» non configura una categoria di società pubbliche, dato che si limita a stabilire un divieto generale di coinvolgimento delle amministrazioni pubbliche in determinate società di capitali. La norma, ha sottolineato la Corte costituzionale, mira ad evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale, al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza, scongiurando una commistione non irragionevolmente ritenuta pregiudizievole della concorrenza.

L’esame della giurisprudenza europea che ha elaborato e definito la società in house pone in luce che l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici è quello di assicurare la libera circolazione dei servizi e l’apertura dei mercati ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri.

Il diritto dell’UE, secondo la Corte di Lussemburgo, non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico.

La questione che qui rileva è conseguita alla previsione nel nostro ordinamento di una molteplicità di giurisdizioni o, meglio, di un molteplicità di giudici che, sotto profili diversi e con riferimento alle peculiarità del nostro sistema giudiziario (invero ormai diffuse anche in molti Paesi stranieri anche di common law), esercitano la giurisdizione, anche con molti ambiti di interferenza e potenziale sovrapposizione tra giudici speciali (ma sarebbe meglio dire specializzati) e giudice ordinario.

Il giudice contabile ha non di rado avuto un approccio totalizzante e, distinguendo tra società a prevalente partecipazione pubblica ovvero totalmente partecipate da enti pubblici, ha talora riqualificato la società e ne ha ritenuto tout court la natura pubblica, meritando peraltro specifica segnalazione quell’orientamento giurisprudenziale che ha differenziato le società pubbliche che svolgono attività di impresa da quelle che esercitano attività amministrativa, sostanzialmente reputando le prime assoggettate allo statuto privatistico dell’imprenditore.

La Corte dei conti, con specifico riguardo alla questione della configurabilità della responsabilità degli organi delle società ha ritenuto

irrilevante la natura privata del soggetto, in virtù del principio per cui è l’utilizzo di risorse pubbliche, indipendentemente dallo strumento (privatistico) al quale si ricorre, a costituire il presupposto necessario e sufficiente per fondare la giurisdizione della Corte dei Conti.

Di rilievo è, quindi, la giurisprudenza costituzionale, in quanto molto spesso è richiamata allo scopo di legittimare la dilatazione dei presupposti della responsabilità amministrativa per danno erariale, mediante la riqualificazione della società, soprattutto per le considerazioni contenute nella sentenza n. 466 del 1993.

Alcune argomentazioni di questa pronuncia depongono nel senso che la Corte non si sia limitata ad affermare l’applicabilità ad una società di diritto privato di segmenti di discipline pubblicistiche, ma abbia ritenuto che, in presenza di determinati indici, possa essere riqualificata, ad ogni effetto, come ente pubblico.

Altre possono, invece, indurre ad individuare la ratio decidendi nella negazione di una correlazione imprescindibile tra natura pubblica del soggetto controllato e presupposti del controllo della Corte dei conti e posto in luce la marginalità della questione della natura dell’ente. In questo senso depongono ulteriori pronunce della Corte costituzionale le quali, nell’esaminare la disciplina delle società partecipate dalle Regioni, hanno sottolineato come l’evoluzione dello Stato nell'epoca contemporanea abbia condotto ad utilizzare, soprattutto nel campo dei servizi pubblici, moduli di azione e di organizzazione propri del diritto privato, imponendo di distinguere ciò che pertiene all'area dei rapporti generali del diritto privato e ciò che concerne l'area dell'organizzazione pubblica regionale, perché soltanto il secondo segmento può essere ricondotto alla competenza delle Regioni.

Tanto comporta che, in relazione a tali società, resta ferma la competenza dello Stato per gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un'esigenza di uniformità a livello nazionale», non «esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche, che comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato e include istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica.

Per quanto qui interessa, rileva la considerazione che sono state ritenute immune da censure le norme concernenti la disciplina dei consigli di amministrazione di dette società, in quanto ricondotta all’ordinamento civile, che «comprende gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un’esigenza di uniformità a livello nazionale; [...] non è esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche; [...] comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato», nonché «istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica». Tra questi anche l’art. 4, comma 12, d.l. n. 95 del 2012, in virtù del quale «le amministrazioni vigilanti verificano sul rispetto dei vincoli di cui ai commi precedenti; in caso di violazione dei suddetti vincoli gli amministratori esecutivi e i dirigenti responsabili della società rispondono, a titolo di danno erariale, per le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati».

 

In definitiva, la Corte costituzionale ha ricondotto le norme dirette a  definire i confini tra l'attività amministrativa e l'attività d'impresa, soggetta alle regole del mercato, alla competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile e in materia di tutela della concorrenza. Dunque, le pronunce hanno ritenuto applicabili segmenti di discipline pubblicistiche in considerazione dell’attività svolta dal soggetto, senza procedere alla sua riqualificazione come ente pubblico, mantenendo ferma la competenza dello Stato in relazione a profili sintomatici della perdurante natura privata del medesimo.

Sino al 2003 l’orientamento della Corte di Cassazione era consolidato nell’affermare la giurisdizione dell’a.g.o. nelle controversie aventi ad oggetto la responsabilità per i danni recati agli enti pubblici economici dai loro amministratori e dipendenti mediante comportamenti riconducibili allo svolgimento dell’attività imprenditoriale e nell’attribuire alla Corte dei conti la giurisdizione di responsabilità in relazione ai danni prodotti nell’esercizio di attività organizzative o a carattere autoritativo. La nozione di "contabilità pubblica" individuata dalla compresenza di due elementi: l'uno soggettivo (attinente alla natura pubblica del soggetto al quale sia legato da rapporto di impiego o di servizio il soggetto agente), l'altro oggettivo (relativo alla qualificazione pubblica del denaro o del bene oggetto della gestione nell'ambito della quale si è verificato l'evento dannoso) fondava, invece, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità degli amministratori e dipendenti di enti pubblici non economici.

 

In particolare, in relazione alle strutture pubbliche preposte ad attività di produzione per il mercato e di intermediazione nello scambio, connotate  da forme di organizzazione e di gestione sostanzialmente corrispondenti a quella dell'impresa, quali gli enti pubblici economici, la Corte regolatrice distingueva tra atti inerenti all'esercizio dell'impresa ed atti connessi all'esercizio di poteri autoritativi di autorganizzazione, ovvero a funzioni pubbliche svolte in sostituzione di amministrazioni dello Stato o di enti pubblici non economici ed affermava solo per questi ultimi la giurisdizione della Corte dei conti. Il carattere tendenziale e non assoluto della giurisdizione contabile, l'autonomia in senso patrimoniale, contabile e finanziaria dell'ente pubblico economico, l'insufficienza dell’assoggettamento dell'ente pubblico economico a controlli, anche penetranti, di tipo amministrativo tali da escludere la natura privatistica dell'attività esercitata allorché essa abbia ad oggetto atti di privata autonomia, la loro distinta soggettività, il connotato dell’ imprenditorialità che li contrassegna erano stati gli elementi valorizzati a conforto del principio.

Questo orientamento fu, tuttavia, chiamato a misurarsi con il dato costituito dal fatto che la giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla responsabilità amministrativa era stata concepita con riferimento ad ipotesi particolari, interne ad un determinato assetto dell'organizzazione amministrativa italiana.

Nel corso degli anni le figure organizzative pubbliche si erano invece moltiplicate, poiché la P.A. aveva fatto frequente ricorso anche ad articolazioni di diritto privato ed era mutata la stessa nozione di attività amministrativa. Tale mutamento ha indotto a chiedersi se il fondamento di tale giurisdizione sia da ricercare nello svolgimento di attività in forme di diritto pubblico o non sia piuttosto da ancorare al perseguimento, nelle forme tanto del diritto privato quanto del diritto pubblico, di finalità pubbliche con potenziali conseguenze sui mezzi che la collettività mette a disposizione.

 

L’ordinanza delle Sezioni Unite 22 dicembre 2003, n. 19667, accolse, quindi, una nozione di P.A. comprensiva, per la prima volta, degli enti pubblici economici, estendendo l’ambito della responsabilità amministrativa per danno erariale nei confronti di amministratori e dipendenti, sul presupposto che comunque si tratta di soggetti pubblici per definizione, istituiti per il raggiungimento di fini del pari pubblici attraverso risorse di eguale natura: quel che conta non è più il quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno ma il fatto che l’evento si verifichi in danno di una P.A. L’anno successivo, in relazione alla responsabilità degli amministratori e dipendenti di società il cui capitale sia detenuto, in tutto o in parte, da una P.A., la Corte regolatrice puntualizzò che, ai fini della costituzione del rapporto con il quale soggetti privati vengono funzionalmente inseriti nell’organizzazione amministrativa e partecipano delle relative attribuzioni, si prescinde dalla natura dell’atto di investitura e dalla natura giuridica del terzo che riceve l’investitura, non occorrendo, ai fini della giurisdizione, accertare se il danno sia subito in via diretta dalla società o dall’ente pubblico-socio, ciò appartenendo al merito della domanda.

Nel 2009 l’orientamento inaugurato sei anni prima fu rimeditato.

 

Il leading case è costituito dalla sentenza delle S.U. 19 dicembre 2009, n. 26806 – confermata dalla successiva giurisprudenza, salvo qualche  eccezione favorevole ad un’accezione estensiva della responsabilità amministrativa per danno erariale – che ha escluso la giurisdizione contabile sull’azione di responsabilità degli amministratori e dei dipendenti della società a partecipazione pubblica per i danni ad essa arrecati.
I principali argomenti a conforto del principio sono così sintetizzabili:
una tale società non perde la natura di soggetto privato per il solo fatto che il suo capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico;
un rapporto di servizio può sussistere tra società ed ente pubblico, non tra quest’ultimo e gli amministratori della società;
il danno a carico della società non è erariale perché non è riferibile direttamente all’ente pubblico-socio, stante la distinta personalità giuridica e autonomia patrimoniale della società rispetto ai soci;
sul principio non incide l’art. 16-bis del d.l. n. 248 del 2007, convertito nella legge n. 31 del 2008;
quando vi sono anche soci privati, è impossibile escludere l’esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori);
non v’è rischio di lacune nella tutela dell’interesse pubblico, in quanto l’azione di responsabilità può essere esercitata anche da una minoranza qualificata nella s.p.a. (art. 2393- bis c.c.) e da ciascun socio nella s.r.l. (art. 2476, comma terzo, c.c.) e, quindi, il socio pubblico può tutelare i propri interessi, se ciò non fa l’azione del procuratore contabile, nei confronti del rappresentante dell’ente pubblico rimasto inerte. Restano nondimeno salve le situazioni specifiche, relative alle società che, avendo uno statuto giuridico speciale, sono riconducibili alle cc.dd. società legali.

Secondo questo orientamento resta ferma la giurisdizione contabile:
a) nei confronti di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione (ed è questo un danno arrecato all’ente pubblico non dall’amministratore della società ma dal rappresentante dell’ente nella società, la cui responsabilità amministrativa sorge nel rapporto contrattuale organico con l’ente pubblico e non dà luogo a particolari problemi in punto di giurisdizione, spettante alla Corte dei conti);
b) nei confronti degli amministratori e dei sindaci che, compromettendo la ragione stessa della partecipazione dell’ente pubblico, causano un danno direttamente al socio pubblico: l’azione per danno erariale davanti alla Corte dei conti concorre con l’azione individuale del socio ex artt. 2395 e 2476 co. 6 c.c., né si pongono difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati artt. 2395 e 2476, sesto comma, poiché l’una e l’altra mirerebbero al medesimo risultato.

In buona sostanza, qualora l'azione abbia ad oggetto un danno arrecato direttamente al socio pubblico sussiste la giurisdizione della Corte dei conti, risultando il criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla incidenza del danno sul patrimonio sociale ovvero su quello del socio pubblico. Qualora il danno sia stato arrecato al patrimonio sociale non sussiste un rapporto di servizio fra gli amministratori della società e l'ente pubblico socio e neppure un danno erariale inteso in senso proprio. In questa ipotesi il pregiudizio è, infatti, arrecato al patrimonio della società, unico soggetto cui compete il risarcimento, e non è conciliabile l'azione contabile con le azioni di responsabilità esercitabili dalla società, dai soci e dai creditori sociali a norma del codice civile, dalla cui esperibilità non si può prescindere.

Appare decisivo il rilievo secondo cui laddove la P.A., per l'espletamento di propri compiti istituzionali, si avvale di società di diritto privato da essa partecipate, l'esistenza di un rapporto di servizio idoneo a fondare la giurisdizione del giudice contabile può essere configurata in capo alla società, non personalmente in capo ai soggetti (organi o dipendenti) della stessa, essendo questa dotata di autonoma personalità giuridica. Inoltre, per effetto della distinta personalità e della autonomia patrimoniale della società rispetto ai propri soci (quindi, rispetto all'ente pubblico partecipante), i danni a questa cagionati dalla mala gestio degli organi sociali non integrano gli estremi del cosiddetto danno erariale, in quanto si risolvono in un pregiudizio gravante sul patrimonio della società, ente soggetto alle regole del diritto privato, non su quello del socio pubblico.

Il danno erariale può, quindi, riapparire sotto altra forma ed in capo ad altri soggetti: la circostanza che l'ente pubblico partecipante possa tuttavia risentire del danno inferto al patrimonio della società partecipata, quando esso sia tale da incidere sul valore o sulla redditività della partecipazione, può eventualmente legittimare un'azione di responsabilità della procura contabile nei confronti di chi, essendo incaricato di gestire tale partecipazione, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine d'indirizzare correttamente l'azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi perpetrati.

L’eventuale natura di organismo di diritto pubblico neppure è di ostacolo alla giurisdizione del giudice ordinario per danni infetti direttamente al patrimonio della società per azioni (nonostante la partecipazione pubblica totalitaria), trattandosi di istituti che operano su piani differenti e rispondono a diversi principi normativi ed a diverse finalità. Il primo attiene, infatti, alla disciplina di derivazione comunitaria in materia di procedure di aggiudicazione ad evidenza pubblica di appalti e quindi di scelta da parte della società del contraente privato; il secondo concerne la responsabilità amministrativa-risarcitoria dell'amministratore o del dipendente nei confronti della società.

Dopo la svolta del 2009, nell’orientamento della Corte regolatrice erano, tuttavia, emersi, soprattutto agli inizi dell’anno 2013, segnali che aprivano ad una parziale rimeditazione del principio enunciato quattro anni prima.

Il riferimento è, anzitutto, ad una sentenza del gennaio di tale anno, che aveva sottolineato come il discrimine tra le giurisdizioni (ordinaria e contabile) si sia spostato «dalla qualità del soggetto (...) alla natura del danno e degli scopi perseguiti».

Inoltre l’ordinanza S.U. 3 maggio 2013, n. 10299, che, da un canto, ha ribadito l’orientamento inaugurato nel 2009, ritenendo ininfluenti alcune norme invocate dal procuratore contabile, dall’altro ha, tuttavia, affermato che la sollecitazione da questi svolta per evidenziare che sarebbe «irragionevole che siano sottoposti alla giurisdizione contabile gli amministratori di un'azienda speciale, quelli di una società concessionaria, la giunta comunale ed i consiglieri comunali che approvano il conto consolidato e controllano la società partecipata e non anche coloro che l'hanno gestita causando direttamente un danno erariale», sollecitando una revisione di detto orientamento in relazione alle società in house, «non può trovare riscontro in questa sede, per l'assorbente ragione che lo statuto della AMT-Azienda Municipalizzata Trasporti s.p.a., allegato agli atti di causa, non evidenzia caratteristiche di tal genere».

 

Analogamente, infine, l’ordinanza S.U. 5 aprile 2013, n. 8352, non ha accolto l’obiezione che nella specie si trattava di una società in house perché la «trasformazione» era «avvenuta in epoca successiva ai fatti di causa» e l’attività della società, quale prevista dallo statuto costituiva «attività di impresa esercitate da qualsiasi categoria di società, e dirette all'erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. E da non consentire neppure di inquadrare la STA fra gli organismi di diritto pubblico presi in considerazione da queste Sezioni Unite unitamente ad altri particolari indici rivelatori dell'esercizio di funzioni amministrative allorchè è stata attribuita l'azione di responsabilità nei confronti di amministratori e funzionari di speciali società pubbliche, quali la RAI o l'ENAV, alla giurisdizione della Corte dei Conti».

Dunque, nonostante l’espressa conferma dell’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 26806 del 2009, potevano essere colti evidenti segnali favorevoli ad una nuova e diversa impostazione, almeno per le società c.d. in house.

Tali segnali erano stati colti da alcune pronunce della Corte dei conti appunto con riguardo alle società in house, per affermare la propria giurisdizione:

a) in primo luogo perché, «qualora si tratti di una società  costituita per lo svolgimento di servizi pubblici, o configurata quale longa manus dell'ente stesso, con un rapporto di compenetrazione organica tra la società e l'ente pubblico, si è in presenza di un modello organizzatorio della stessa p.a., sia pure per certi versi atipico, con la conseguenza che il danno prodotto dagli amministratori al patrimonio di quella società dovrà qualificarsi come erariale e la giurisdizione appartenere al giudice contabile», pena la possibilità di eludere la giurisdizione di responsabilità erariale, mediante la costituzione di società di capitali;
b) in secondo luogo, in quanto a favore di tale soluzione deporrebbe l’ampia nozione di organismo pubblico posta dal diritto dell’UE;
c) in terzo luogo, poiché tale conclusione sarebbe l’unica coerente con i principi costituzionali (artt. 117 e 119 Cost.) e del diritto comunitario, che valorizza l'interesse dei cittadini e delle imprese contribuenti ad una gestione delle risorse pubbliche trasparente, efficiente ed economica;
d) in quarto luogo, in quanto in tal senso rileverebbero interventi normativi recenti e meno recenti;
e) in quinto luogo, perché solo quando il danno deriva da attività industriali o commerciali non aventi finalità pubbliche non affiora nessun interesse generale, ma solo quello tipico della gestione caratteristica della società e del suo fine lucrativo e l'eventuale danno incide esclusivamente sul patrimonio della società, giustificando il riconoscimento della giurisdizione ordinaria davanti alla quale esercitare le azioni di responsabilità disciplinate dal codice civile . Ad identica conclusione si era giunti anche attraverso una sorta di rilettura della giurisprudenza delle Sezioni Unite, ovvero valorizzando talune incertezze rinvenibili in quest’ultima, oppure ritenendo che la natura pubblica o privata di una società partecipata da una pubblica Amministrazione non risiede soltanto nella forma civilisticamente assunta ma deriva essenzialmente dalla particolare e specifica tipologia dei rapporti che legano la società al soggetto pubblico.

Una società in house sarebbe appunto caratterizzata da una sostanziale immedesimazione della società stessa con la pubblica amministrazione per la quale opera, onde i relativi danni ad essa provocati sono perseguibili con l'azione contabile.

In ogni caso, a dimostrare la complessità della questione, non erano mancate pronunce che avevano aderito all’orientamento della Corte regolatrice anche in riferimento al caso delle società per le quali è configurabile il c.d. controllo analogo.

La sentenza delle Sezioni Unite 25 novembre 2013, n. 26283, affermando che spetta alla Corte dei conti la giurisdizione sull'azione di responsabilità esercitata dal P.M. contabile quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, ha quindi affermato un principio innovativo, ma in parte annunciato.

La nuova regola, sotto un certo profilo, non costituisce frutto di una vera e propria rimeditazione del precedente orientamento, in quanto ha piuttosto operato una precisazione, sia pure di pregnante importanza, per certi versi anticipata dalle pronunce che l’hanno immediatamente preceduta e forse resa difficilmente eludibile dall’involuzione dell’ordinamento, di cui la Corte ha preso atto.

Inoltre, ha anche avuto cura di stabilire, con la chiarezza possibile in questa materia, i confini della giurisdizione,  negando, senza equivoci, la validità di ricostruzioni panpubblicistiche, fondate su interpretazioni riqualificatorie della natura delle società, prive di base normativa ed in contrasto con il principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.).

La sentenza, dopo avere ripercorso e sintetizzato l’indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 26806 del 2009, afferma, infatti, che lo stesso deve essere in via generale tenuto fermo, anche alla luce della normativa sopravvenuta. La pronuncia approfondisce, poi, alcuni dei confusi interventi normativi succedutisi negli ultimi anni in tema di società a partecipazione pubblica anzitutto per negare che gli stessi abbiano dato vita ad «un sistema conchiuso ed a sé stante». Inoltre, per affermare che la congerie di frammentarie disposizioni che interessa dette società non permette di sottrarsi all’alternativa in virtù della quale, non essendo rinvenibile in nessuna norma l’eliminazione della distinzione tra ente pubblico partecipante e società di capitali partecipata e, quindi, della distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, «la giurisdizione della Corte dei conti in tema di risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di controllo al patrimonio della società potrebbe fondarsi soltanto: o su una previsione normativa che eccezionalmente la stabilisca (...) oppure sull’attribuzione alla stessa società partecipata della qualifica di ente pubblico».

L’innovativo principio enunciato è che solo quando l’azione è diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, sussiste la giurisdizione contabile, affermata con specifico ed esclusivo riferimento a queste società, senza

affatto procedere ad una riqualificazione della natura delle stesse.
In questo senso, appare importante un’ordinanza di otto mesi successiva (S.U. 11 luglio 2014, n. 15943), la quale ha ulteriormente chiarito che la giurisdizione del giudice ordinario per i danni sofferti «da un soggetto privato (appunto, la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non ai singoli soci» è «ispirata dall'esigenza di ricondurre la soluzione del problema di giurisdizione entro un quadro coerente di principi giuridici che sono a fondamento del sistema ordinamentale».
Il profilo che va tenuto ben presente è che «la disciplina speciale dettata per le cosiddette società pubbliche (...) non ha tuttora assunto le caratteristiche di un sistema conchiuso ed a sè stante, ma continua ad  apparire come un insieme di deroghe alla disciplina generale».
Queste deroghe, esaminate in dettaglio, sono state giudicate inidonee a fondare una riqualificazione che trova «un solido ostacolo nel disposto della L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 4, a tenore del quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione di un ente pubblico». Tale norma, secondo le Sezioni Unite, esprime «un principio di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la rilevanza degli effetti giuridici potenzialmente implicati nel riconoscimento della natura pubblica di un ente» e, quindi, «se in via di principio può ammettersi che un siffatto riconoscimento sia desumibile anche per implicito da una o più disposizioni di legge, occorre nondimeno che la volontà del legislatore in tal senso risulti da quelle disposizioni in modo assolutamente inequivoco», ciò che non ha ravvisato in riferimento  alle società a partecipazione pubblica» .
La conseguenza è che, «fin quando non si arrivi a negare la distinzione

stessa tra ente pubblico partecipante e società di capitali partecipata, e quindi tra la distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, la giurisdizione della Corte dei conti in tema di risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di controllo al patrimonio della società potrebbe fondarsi o su una previsione normativa che eccezionalmente lo stabilisca, quantunque si tratti di danno arrecato ad un patrimonio facente capo non già ad un soggetto pubblico bensì ad un ente di diritto privato - previsione certo possibile, ma che allo stato non appare individuabile in termini generali nell'ordinamento -ovvero sull'attribuzione alla stessa società partecipata della qualifica di ente pubblico, onde il danno arrecato al suo patrimonio potrebbe qualificarsi senz'altro come danno erariale» .

Le successive pronunce hanno dato seguito al nuovo orientamento, anzitutto negando che la partecipazione pubblica totalitaria di una s.p.a. sia sufficiente a radicare la giurisdizione della Corte in relazione all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori.

Inoltre, ribadendo e precisando che la verifica della ricorrenza dei requisiti della società in house va compiuta con riguardo alle previsioni dello statuto al momento al quale risale la condotta ipotizzata come illecita, non a quelle esistenti al momento della proposizione della domanda di responsabilità da parte del P.M. presso la Corte dei conti.

In definitiva, una volta condiviso tale principio, la sola questione che residua concerne l’accertamento dei requisiti della società in house, imprescindibili per ritenerla mera longa manus della P.A. partecipante, decisa, come è ovvio e doveroso, avendo riguardo ai principi enunciati dalla Corte di giustizia.

Secondo l’esplicitazione fornita dalla sentenza n. 26283 del 2013 e da quelle successive, occorre:
a) in primo luogo, che il capitale sociale faccia capo ad un ente pubblico, anche ad una pluralità di essi, ferma la necessità dell’inibizione statutaria alla partecipazione al capitale sociale di soci privati , salva la possibilità di non tenere conto di una tale previsione, qualora sia nulla per incompatibilità con norme speciali di carattere pubblico ed imperativo;

b) in secondo luogo, è imprescindibile la prevalente destinazione dell'attività in favore dell'ente o degli enti partecipanti alla società che, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l'attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi;

c) in terzo luogo, è necessario accertare l’esistenza del c.d. controllo analogo, che consiste nel potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica, così da non identificarsi con l'influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società, dovendo trattarsi di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell'ente con modalità e con un'intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile.

La lunga marcia verso il distacco dalle società di diritto comune sembra

così definitivamente consumata, al punto che, sottolinea la sentenza n. 26283 del 2013, «l’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario», ma «di una società di capitali intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponde un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare». In definitiva, affermano le Sezioni Unite, le società in house hanno della società di capitali «solo la forma esteriore», ma sono in realtà una longa manus della P.A. e per esse «la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva». Il risultato è l’impossibilità di distinguere la titolarità del patrimonio dell’ente pubblico e della società, risultando gli amministratori legati all’ente da un vero e proprio rapporto di servizio, con conseguente ricorrenza dei presupposti della giurisdizione della Corte dei conti sulle azioni in esame.

Le Sezioni Unite hanno, in definitiva, proceduto ad applicare segmenti di discipline pubblicistiche, senza procedere alla riqualificazione del soggetto come ente pubblico, risultato imposto dall’involuzione (piuttosto che dall’evoluzione) dell’ordinamento al punto che la società in house costituisce nel mondo giuridico un fenomeno omologo a quello identificato in fisica come “singolarità” . Ed appunto perché tale, come posto in luce da una parte della dottrina, la soluzione pure da essa imposta, comportando la prevalenza della natura dell’azionista sulla natura dell’attività, benché meritoriamente strumentale alla tutela dell’interesse pubblico, potrebbe avere conseguenze controproducenti, in quanto gli

amministratori potrebbero trovarsi di fronte ad un conflitto fra la business rule, che dovrebbe orientare la loro condotta, e la necessità di tutelarsi contro una responsabilità che, come quella erariale, non prevede l'assunzione di rischi e ha natura eminentemente sanzionatoria.

Inoltre, è difficile sottovalutare la questione della possibile lesione degli ulteriori interessi coinvolti dalla costituzione della società, facenti capo ai soggetti che hanno agito con essa, confidando nella dichiarata natura privata della stessa e nella possibilità di utilizzare tutti gli strumenti di tutela a tal fine apprestati dall’ordinamento. Anche queste società sono, infatti, iscritte nel registro delle imprese come società, non come “enti pubblici” o “semi-amministrazioni” e, dichiarata tale natura ai terzi, determinano un affidamento suscettibile di essere leso dalla soluzione in esame, restando escluso che la partecipazione totalitaria da parte dell’ente pubblico sia sufficiente a farne negare la tutela. La stessa coincidenza dell’interesse della società con l’interesse del socio pubblico neppure può poi comportare un’ulteriore alterazione della nozione di interesse sociale, non omologabile e sovrapponibile a quello del socio, neppure nel caso di possesso della totalità delle partecipazioni.

A queste preoccupazioni ed alle serie obiezioni sollevate soprattutto dagli studiosi del diritto commerciale – in parte pure ribadite dalla acuta difesa dell’I.nel presente giudizio – l’orientamento delle Sezioni Unite offre, tuttavia, una soluzione, sia perché, sottolineando l’anomalia del fenomeno, ha mantenuto fermo il pregresso principio in relazione alle società della galassia di quelle cc.dd. pubbliche non riconducibili alla “singolarità”, sia perché la deroga, per le società in house, dovrebbe ritenersi limitata al

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profilo in esame, senza involgere la questione dell’assoggettabilità della società alle procedure concorsuali.

Da ultimo, per ragioni di completezza, è opportuno sia pure soltanto accennare alla regola del riparto della giurisdizione in riferimento alle società a partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, che pone minori problemi, beninteso sotto il profilo applicativo, dato che anche in riferimento a queste sono state sollevate obiezioni.

Un breve cenno perché su di esse ci si dovrà soffermare solo là dove la SIeSE non possa essere sussunta nella categoria più generale delle società in house, seguente una gradazione logica nell’esame delle categorie giuridiche che dalla più ampia (società in house) conduce a quella via via più ristretta (società a statuto legale), per concludersi in quella a più elevata specificità (società in liquidazione).

Il riferimento è alle cc.dd. “società legali”, locuzione espressamente utilizzata dalle Sezioni Unite per identificare la «società che, perciò stesso, si pone su un piano diverso dal fenomeno negoziale previsto e disciplinato dal codice civile, ancorchè possa mutuarne, per espressa previsione di legge, una o più caratteristiche».

Questa figura è stata identificata in relazione alla Rai Radio televisione italiana s.p.a., in quanto: è caratterizzata da uno statuto assoggettato a regole legali in forza delle quali è designata direttamente dalla legge quale concessionaria dell'essenziale servizio pubblico radiotelevisivo; è sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte di un'apposita commissione parlamentare; è destinataria di un canone di abbonamento

avente natura di imposta; è compresa tra gli enti sottoposti al controllo della Corte dei conti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, nonché tenuta all'osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell'affidamento degli appalti.

Analogamente, per affermare tale natura dell'ENAV s.p.a. sono state valorizzate le circostanze che molte attività della stessa sono svolte ex lege, con oneri totalmente a carico dello Stato, essa presta un servizio pubblico essenziale, la sua gestione finanziaria è soggetta al controllo della Corte dei conti (con le modalità previste dalla legge 21 marzo 1958, n. 259), è soggetta alla legge 5 agosto 1978, n. 468 (in tema di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio).

Identica conclusione è stata affermata per l’Anas s.p.a. Per tale azienda la giurisdizione della Corte dei conti nei giudizi di responsabilità amministrativa promossi nei confronti di amministratori e dipendenti, già dichiarata in riferimento al tempo in cui aveva veste di ente pubblico economico, è stata confermata anche dopo la trasformazione in s.p.a. Peraltro, di rilievo, a conforto della negazione dell’approccio totalizzante nel senso dell’ammissibilità di una generica e generale riqualificazione come ente pubblico di un soggetto che abbia assunto una formale natura privatistica, è l’affermazione che, in sede di riparto, non occorre «definire in termini generali la natura giuridica dell'Anas s.p.a., bensì soltanto valutare se quest'ultima presenti caratteristiche specifiche tali da far ritenere che il suo patrimonio abbia conservato i connotati pubblicistici che sono l'indispensabile presupposto della giurisdizione contabile».

La pronuncia, in disparte qualche considerazione che richiederebbe un  approfondimento, ha, quindi, valorizzato la radicale esclusione «ex lege [del]la possibilità della coesistenza di un azionariato privato»; l’essere l'esercizio dei diritti sociali improntato «ad un paradigma - quello del concerto interministeriale - palesemente ispirato al modello dell'agire amministrativo, ben più che negoziale; l’attribuzione di entrate derivanti dall'utilizzazione dei beni demaniali; l’attribuzione dell’esercizio di funzioni pubbliche, alle quali è connesso anche l'esercizio di potestà autoritativa; l’assoggettamento al controllo della Corte (con le modalità previste dalla L. 21 marzo 1958, n. 259, art. 12) e la possibilità di avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato.

Ripercorso il complesso iter evolutivo della giurisprudenza di legittimità sul punto e fissati i criteri scriminati per l’individuazione del giudice munito di giurisdizione, occorre verificare se, nella fattispecie sottoposta all’esame di questa Corte, siano rinvenibili i presupposti per l’affermazione della giurisdizione contabile.

Si tratta, in buona sostanza, di verificare se con la SIeSE s.p.a. ci si trovi, all’epoca dei fatti, innanzi ad una società in house o no.

La più volte richiamata sentenza 10 – 24 marzo 2015, n. 5848 della Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, ha affermato che non è consentito mettere in dubbio che, almeno in via generale, competa al giudice ordinario la giurisdizione in ordine ad azioni di risarcimento per danni arrecati dagli amministratori a società, ancorché a partecipazione pubblica, bastando a tal riguardo osservare che tali società non si sottraggono alla disciplina dettata dal codice civile, se non espressamente derogata, come agevolmente può arguirsi dall’art. 2449 c.c. e come anche in tempi più

recenti è confermato dall’espressa indicazione contenuta nel comma 13 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 (convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135) secondo cui “per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque (alle società a partecipazione pubblica) la disciplina del codice civile in materia di società di capitali“.

L’assoggettamento di siffatte società alle regole ed ai principi civilistici vigenti in materia ha comportato non solo l’ovvia affermazione della giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle azioni sociali di responsabilità esperibili a norma degli artt. 2392 e 2393 c.c., ma anche l’esclusione della giurisdizione della Corte di conti riguardo alle azioni per danno erariale intentate dal P.M. contabile nei confronti degli organi sociali cui venga addebitato di aver arrecato danno al patrimonio della società, stante l’impossibilità di configurare l’esistenza sia di un rapporto di servizio direttamente intercorrente tra i medesimi organi della società e la pubblica amministrazione sia di un danno erariale riferibile in via diretta al patrimonio dell’amministrazione medesima (si veda Sez. un. n. 26806 del 2009 e le numerose altre pronunce conformi che vi hanno fatto seguito).

 

A diversa conclusione, quanto alla sussistenza della giurisdizione del giudice contabile, le Sezioni Unite civili della Cassazione sono, invece, pervenute nel caso di analoghe iniziative processuali del procuratore contabile nei confronti degli organi delle cosiddette società in house providing, per tali intendendosi quelle le cui azioni non possono per statuto appartenere neppure in parte a soci privati, il cui oggetto sociale prevede  un’attività da prestare prevalentemente in favore dell’ente pubblico partecipante e che, sempre in base ad apposite previsioni statutarie, sono assoggettate ad una minuziosa forma di controllo da parte del socio pubblico così da implicare una subordinazione dei suoi organi amministrativi alla volontà di quello al punto da renderle assimilabili ad una sua articolazione interna (si veda, per tutte, Sez. un. n. 26283 del 2013).

La stessa Cassazione, poi, ha affermato che se pure una società sia divenuta indiscutibilmente in house nel corso della sua esistenza, come è pacificamente avvenuto, per concorde affermazione di tutte le parti in causa, alla SIeSE s.p.a. alla data di incardinamento dell’azione di responsabilità amministrativa, di certo non lo era al tempo in cui i suoi amministratori e sindaci hanno tenuto i comportamenti dai quali scaturirebbe la responsabilità loro imputata nel giudizio di cui trattasi né al tempo in cui si è verificato il pregiudizio patrimoniale cui l’azione risarcitoria tende a porre rimedio, e ciò sarebbe sufficiente ad escludere la giurisdizione contabile, dovendo la verifica dei requisiti propri della società in house – la cui esistenza occorre sia consacrata nello statuto sociale e costituisce, come detto, il presupposto per l’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società – essere svolta avendo riguardo al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita (cfr. Sez. un. n. 27993 del 2013 e n. 7177 del 2014).

 

Ad un primo sommario e non approfondito esame, da condursi con  riferimento all’istituto dell’in house di derivazione comunitaria, sembrerebbe corretta la pronuncia dei primi giudici, ma un approfondimento del quadro normativo di riferimento conduce, invero, a conclusioni diametralmente opposte.

L’intera materia dell’in house providing è stata recentemente innovata, a livello comunitario, dalla Direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici che abroga la direttiva 2004/18/CE.

A tale direttiva può essere riconosciuta natura self executing (Consiglio di Stato, parere n. 298/2015), almeno per ciò che riguarda il profilo qui di rilievo (art.12), proprio il «contenuto incondizionato e preciso» del testo, con quelle caratteristiche di «compiutezza» che anche secondo la Cassazione (sentenza 13676/2014 delle Sezioni Unite) rendono le direttive europee «self executing», senza che si debba attenderne il recepimento da parte del legislatore italiano.

Il riconoscimento della natura self executing della direttiva assume particolare rilevanza in quanto, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo.

Se è pur vero che la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che, nel caso delle società in house, la giurisdizione debba essere ancorata alla situazione di fatto sussistente al momento dei fatti in contestazione, è altrettanto vero che in questo caso non si tratta di un mutamento negli

elementi fattuali della società (ad esempio passaggio da una società non integralmente partecipata dalla P.A. ad una interamente partecipata), ma del mutamento del quadro normativo di riferimento che potrebbe consentire di valutare quella società, già a quella data, immutata nei suoi elementi costitutivi, come “in house” e, quindi, ricadente, per le azioni di responsabilità per danno erariale, nella giurisdizione di questa Corte, valutazione che, ai sensi dell’art. 5 c.p.c. deve essere fatta alla data di esercizio dell’azione, data in cui la direttiva citata era stata già da tempo emanata.

Intanto, ai sensi del comma 1 del citato art. 12, la persona giuridica (società) va considerata in house providing - cioè, per usare un’espressione del giudice regolatore della giurisdizione, costituisce una mera articolazione della P.A. medesima - quando:

  1. a)  l’amministrazione esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi;

  2. b)  oltre l’80 % delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; e

  3. c)  nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.


Si ritiene, poi, che un’amministrazione aggiudicatrice eserciti su una  persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ai sensi della lettera a) qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice.

Per quel che riguarda il c.d. “controllo analogo” – che come già evidenziato potrebbe essere esercitato anche per interposta persona giuridica a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione – è sufficiente che l’amministrazione eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata.

Per quanto attiene gli obiettivi strategici, nel caso che qui ci occupa la società, che avrebbe subito l’allegato danno erariale, nasce per espressa volontà legislativa (art. 78 l.r. n. 6/2001) per lo svolgimento delle attività informatiche di competenza delle amministrazioni regionali, ivi comprese quelle necessarie per l'attuazione della misura 6.2.1. - Reti e servizi per la società dell'informazione del P.O.R. Sicilia 2000-2006, e di essa la Regione doveva avvalersi in via esclusiva; la predetta struttura societaria aveva quale unica ed esclusiva funzione quella di servizio per la Regione stessa, operando secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi. La relativa partecipazione azionaria, originariamente

posseduta interamente dalla Regione, fu, poi, prevista, in via maggioritaria. E’ la stessa legge regionale, quindi, che prevede che quella società dovesse operare “secondo gli indirizzi strategici stabiliti dal Governo e secondo le direttive tecniche determinate dal Coordinamento dei sistemi informativi”, dato normativo imperativo che esime il Giudice da una verifica desumibile per via fattuale della sussistenza o meno del predetto controllo, atteso che anche nell’ipotesi che esso non sia stato effettivamente operato si tratterebbe di circostanza meramente fattuale insuscettibile di alterare il quadro operativo della società che resterebbe, comunque, ancorato al quadro normativo di riferimento, senza influenza alcuna sulla possibile qualificazione giuridica della struttura societaria ma, semmai, come possibile fonte di responsabilità amministrativa per il suo  omesso esercizio, se foriero di danno erariale.
Il controllo c.d. analogo, pertanto, può ritenersi quale elemento normativamente sussistente.
Il secondo elemento è quello per cui oltre l’80 % delle attività della  persona giuridica controllata devono essere effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi.

Sul punto, non solo la norma istitutiva della compagine sociale ha previsto che la predetta struttura societaria aveva quale unica ed esclusiva funzione quella di servizio per la Regione stessa, ma lo stesso P.M. ha provato in concreto che l’unico “cliente” della società è sempre stata la Regione Siciliana.

Anche tale requisito, pertanto, può considerarsi soddisfatto.

Il terzo ed ultimo elemento è quello per cui nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportino controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

Orbene, nel caso di specie la partecipazione dei privati era prevista dalla legislazione regionale in forma minoritaria e, quindi, senza potere di controllo, tanto meno determinante, o di veto, circostanza provata pure in via di fatto allorché la messa in liquidazione di SIeSE fu deliberata con il voto favorevole del socio pubblico e quello contrario del socio privato.

In buona sostanza la partecipazione del socio privato, che nell’immettersi in tale contesto societario ben sapeva di partecipare ad una società che avrebbe svolto la sua attività all’esclusivo servizio della Regione e sotto i pressanti vincoli strategici ed operativi del Governo regionale, ha coscientemente bilanciato le pesanti limitazioni dell’autonomia negoziale privata e le alterazioni delle normali regole societarie con gli enormi vantaggi economici che sarebbero derivati (e dei quali il P.M. ha dato ampia prova) da quella partecipazione ad una struttura della quale la Regione medesima, all’epoca dei fatti, aveva l’obbligo di servirsi in via esclusiva per quel genere di servizi.

In pratica, il legislatore comunitario, non ha fatto altro che prendere atto dell’evidente necessità che per determinati settori, o per esigenze di natura finanziaria o per la necessità di uno specifico know how che la P.A. non

possiede – come nel caso di specie –, sorga la necessità di creare compagini sociali che mantenendo inalterata la loro funzionale appartenenza e dipendenza alla P.A. in senso stretto, inglobino al loro interno risorse di provenienza privatistica, purchè tali partecipazioni siano previste e consentite dalla legislazione nazionale e non si pongano in contrasto (cioè non alterino la reale natura di “in house” della società) con la normativa comunitaria.

Si tratta di società, quindi, che non per il solo fatto di inglobare dei privati, in posizione non di controllo, perdono l’attitudine ad essere considerate “in house”, ben sapendo il privato che la sua partecipazione a simili strutture societarie non risponde alla tutela della libertà negoziale (e, d’altronde, la stessa P.A. non è libera – e non lo è stata nel caso di specie – di scegliere il partner ma deve sottostare, anche per tale procedura a regole di evidenza pubblica) ma a quella dell’interesse della P.A. all’ottimale funzionamento dei propri servizi.

La società in house, pertanto, è capace di mantenere la propria caratterizzazione, alla luce della direttiva in esame, purchè finalizzata ad operare non sul mercato ma nell’interesse della P.A. e sotto stretto controllo pubblico, sia sul piano della partecipazione che operativo.

Ne consegue che, nella fattispecie qui esaminata, sussistono tutte le condizioni per considerare la SIeSE come società in house già all’epoca dei fatti (e non è senza significato che la stessa Autorità Anticorruzione l’abbia ritenuta tale nel parere riversato in atti dal P.M.) ed in quanto tale attratta nella giurisdizione contabile per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa.

Ma vi è di più, con riferimento ad un profilo che il P.M., nello sviluppare le argomentazioni del gravame, sembra avere intuitivamente colto ma non sviluppato.

L’attività in contestazione – e ciò risulta pacifico tra le parti, oltre che essere adeguatamente documentato in atti – si è interamente svolta durante il periodo in cui la società era in liquidazione.

Orbene, per giurisprudenza assolutamente pacifica, la società per azioni, regolarmente sciolta, continua a sopravvivere come soggetto collettivo, all'unico scopo di liquidare i risultati della cessata attività sociale, sicché non è consentito ai liquidatori, in virtù del richiamo operato dall'art. 2452 cod. civ. alla disciplina dettata dagli artt. 2278 e 2279 cod. civ. con riguardo alle società semplici, intraprendere nuove operazioni, intendendosi per tali quelle che non si giustificano con lo scopo di liquidazione o definizione dei rapporti in corso, ma che costituiscono atti di gestione dell'impresa sociale, che, se compiuti, sono inefficaci per carenza di potere. (Cassazione civile, sez. IV, lavoro 19 gennaio 2004).

La violazione del divieto relativo al compimento di nuove operazioni comporta la responsabilità personale e solidale tra i liquidatori per l'operazione conclusa (art. 2279 cod. civ.) e la giurisprudenza non ha esitato nel sostenere, addirittura, che l'attività esorbitante non possa essere imputata alla società, a cagione della carenza di potere dell'organo agente (Cass. Civ. Sez. III, 11393/1997; Cass. Civ. Sez. I, 3871/1968; cfr. anche Cass. Civ. Sez. Lavoro, 741/2004).

Una siffatta situazione viene a sostanziare un'ipotesi assimilabile all'eccesso di mandato.

In buona sostanza, l’attività del liquidatore – che non prevede lo svolgimento di nessun tipo di “impresa” ma solo la definizione e liquidazione dei rapporti in essere – è finalizzata alla tutela del patrimonio stesso dei soci che dal risultato della liquidazione, e dalla correttezza con la quale la medesima viene condotta, potrà o meno ricevere un diretto beneficio.

La riforma del diritto societario del 2003 è intervenuta in materia, peraltro, ampliando l'ambito dei poteri conferiti ai liquidatori, quali successori degli amministratori nella gestione sociale, disciplinandone più incisivamente poteri, doveri e le relative responsabilità nei confronti dei creditori sociali e dei soci. L'art. 2489, co. 1, cod.civ. attribuisce ora ai liquidatori il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione e non più solo quelli necessari alla liquidazione, come stabilito prima della novella del 2003 dal previgente testo dell’art. 2278, co. 1, cod. civ., fermo restando, però, il carattere conservativo e non propulsivo dell'attività dei liquidatori, in quanto vincolata alla prospettiva estintiva dell'impresa comune.

Il liquidatore deve procedere all'attività di liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare della società mediante la conversione in denaro dei beni; alla riscossione dei crediti ed alla definizione dei rapporti pendenti; all’eliminazione del passivo mediante la puntuale ricognizione dei debiti ed il loro pagamento con il ricavato del realizzo dell'attivo; compiuta la fase operativa della liquidazione, il liquidatore deve redigere il bilancio finale di liquidazione previsto dall'art. 2492 cod. civ., fondamentale documento contabile che prende in esame l'intera procedura

e con il quale il liquidatore rende conto delle operazioni svolte e della ripartizione dell'eventuale residuo tra i soci. Ai sensi dell'art. 2491, co. 2, cod. civ. i liquidatori non possono ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori sociali: l'art. 2633 cod. civ. sanziona penalmente la contraria condotta dei liquidatori. Approvato il bilancio finale di liquidazione, il liquidatore deve chiedere ai sensi dell'art. 2495, co. 1, cod. civ. la cancellazione della società dal Registro delle imprese e depositare i libri della società presso lo stesso Registro delle imprese. Nell'adempimento di queste attività, i liquidatori devono agire con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico: l'art. 2489, co. 2, cod. civ. richiama il regime di diligenza dettato per gli amministratori di società.

Come per gli amministratori, quindi, a seguito della riforma non si fa più riferimento quale modello normativo di condotta alla diligenza del mandatario, come avveniva prima della riforma, bensì alla diligenza "qualificata" o professionale.

Tutta questa attività, però, è finalizzata non alla tutela del patrimonio della società per l’esercizio dell’impresa, ma alla tutela dei patrimoni dei soci e dei creditori che da una non attenta liquidazione della società riceverebbero un danno diretto ed immediato in termini di minori pagamenti (per i creditori) o di minore accrescimento (per i soci).

Si configura, in sintesi, quel danno diretto al patrimonio dei soci che la giurisprudenza di legittimità ha sempre considerato, in ogni caso, come radicante la giurisdizione di questa Corte anche in tema di società pubbliche partecipate, a prescindere dalla loto natura di società in house.

 

Non può essere tralasciato come l’art. 2395 c.c., nel testo vigente dal 2004, preveda che le disposizioni relative all’azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori e liquidatori non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori, ed a tale azione si riconnette, funzionalmente, quella di responsabilità amministrativa del P.M. a tutela del socio pubblico per danno diretto al patrimonio di quest’ultimo, radicando la giurisdizione di questa Corte.

L'avverbio «direttamente» contenuto nell'art. 2395 c.c. non va ricollegato soltanto all'interesse tutelato dall'ordinamento, quasi fosse sinonimo di «personalmente» e mettesse in risalto l'appartenenza del diritto soggettivo leso al terzo o al socio, bensì al nesso di causalità fra azione ed evento, e pone quindi l'accento sulla direzione dell'atto lesivo, al fine di rendere tutelabile il danno cagionato direttamente e non di riflesso, cioè non necessariamente come conseguenza dell'eventuale danno arrecato al patrimonio sociale (Cass. civ., sez. I, 13 gennaio 2004, n. 269, in Impresa, 2004, 862).

La distinzione tra l'azione del socio e le altre azioni di responsabilità sta nell'espressione «direttamente danneggiati».

Il danno arrecato al patrimonio di una società in liquidazione non può non considerarsi come danno diretto per i soci in quanto immediatamente lesivo della finalità stessa perseguita dai soci con la messa in liquidazione della società ed incidente, inevitabilmente, sulle risultanze finali della liquidazione e, quindi, sul diritto del socio ad ottenere il massimo in termini di beneficio economico derivante da quest’ultima.

Anche sotto tale profilo la giurisdizione di questa Corte può e deve essere affermata.

Nell’accoglimento della domanda del P.M. sotto i profili sopra indicati, resta assorbito ogni ulteriore angolazione argomentativa, domanda ed eccezione.

Il giudizio va rimesso, in conformità alla domanda del P.M., al primo Giudice, in diversa composizione, per la prosecuzione del giudizio e la liquidazione delle spese anche per il presente grado.

P. Q. M.

La Corte dei conti - Sezione Giurisdizionale d’appello per la Regione Siciliana, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello, dichiara la giurisdizione della Corte dei conti, annulla la sentenza impugnata e rimette gli atti al primo Giudice, in diversa composizione, per la prosecuzione del giudizio.

Spese al definitivo.
Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 15 marzo 2016. L’ESTENSORE IL PRESIDENTE F.TO (Pino Zingale) F.TO (Giovanni Coppola)

Depositata in segreteria nei modi di legge Palermo,01/04/2016

Il Direttore della Segreteria

 

 

 

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