La nullità del provvedimento

La nullità del provvedimento

Il dato tradizionale prevedeva una sola classe di invalidità: l’annullabilità dell’atto dovuta ad uno dei tre vizi tipici: incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Questo sostrato normativo, unito al carattere dell’inoppugnabilità dell’atto, ha costituito per certi versi un incentivo alla costruzione di un sistema monista per l’invalidità dell’atto amministrativo.
Dinanzi a questa chiusura apparente, ermeneutica, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha individuato diversi varchi, che hanno condotto ad una costruzione plurale del sistema dell’invalidità.

Infatti, fino all’emanazione della legge n. 15 del 2005 , (Nella relazione n. 3890 – 1160 – 2574 – A si legge: “l'articolo 21-septies reca la disciplina della nullità del provvedimento amministrativo. L'istituto della nullità non risulta attualmente sancito in via generale da alcuna norma di diritto positivo. L'unica norma di carattere generale espressamente diretta a definire il regime dell'invalidità amministrativa (articolo 26, testo unico delle norme sul Consiglio di Stato, articolo 3 legge istitutiva dei TAR) configura solo un regime di annullabilità e non di nullità. La disposizione, introducendo per la prima volta nell'ordinamento la disciplina generale della nullità, prevede, sulla base degli orientamenti prevalenti emersi in sede giurisprudenziale, tale forma di invalidità nei seguenti casi: mancanza degli elementi essenziali del provvedimento amministrativo; difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del giudicato; espressa previsione della legge. Si precisa inoltre che sono deferite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le questioni inerenti la nullità dei provvedimenti amministrativi per violazione o elusione del giudicato.) che ha contribuito ad un’opera di profonda riforma del diritto amministrativo, la nullità dell’atto non era disciplinata dal legislatore e la tematica della nullità veniva affrontata unicamente in ragione di specifiche norme.
I casi di nullità del provvedimento erano:
a) di natura testuale, tra le quali le piu’ rilevanti risultano quelle dettate in tema di prorogatio di organi scaduti (art. 3 del D.L. 16 maggio 1994, n. 293, convertito dalla L. 444/1994), di carenza di impegno di spesa, di assunzioni senza concorso;

b) nonché i vizi di legittimità più gravi che riguardavano l’inesistenza di un elemento essenziale ́ ́(Sandulli, I limiti di esistenza dell’atto amministrativo). Ad es. l’atto mancante dell’elemento della volontà, perché emanato dalla persona fisica dell’organo sotto coazione di violenza fisica. Ovvero, l’atto viziato da carenza assoluta di potere come causa di inesistenza che focalizzando l’attenzione sull’attribuzione del potere ed introducendo la distinzione tra carenza di potere e cattivo uso del potere stesso, ha connaturata in sè l’accettazione di un ordinamento gerarchico dei vizi.

Una tesi minoritaria era propensa ad estendere al diritto amministrativo la figura civilistica della nullità ed in particolare l’art. 1325 c.c. che prevede i requisiti del contratto e l’art. 1418 che stabilisce che la loro mancanza o illiceità o indeterminabilità dà luogo a nullità.

Ma, alla predetta tesi si opponeva quella contraria a configurare - quale uniche ipotesi di provvedimento nullo ulteriori ipotesi rispetto a quelle testualmente previste - la carenza di potere in astratto e l’incompetenza assoluta. Detta tesi individuava alcune limitate ipotesi di particolare gravità patologica in relazione alle quali invece che di nullità parlava di inesistenza del provvedimento.
L’atto nullo e l’atto inesistente differiscono proprio perché l’atto inesistente non è dotato di alcuna apparenza giuridica e non è identificabile come atto giuridico.

Nei confronti dell’atto nullo, e non di quello inesistente, è ammessa l’azione di nullità. In caso di atto nullo il privato potrà agire nei confronti dell’amministrazione in virtù dell’immedesimazione organica che la lega al funzionario, salvo che siano le norme ad escludere tale imputabilità prevedendo una responsabilità personale del funzionario che emana l’atto nullo. Nell’ipotesi di inesistenza, invece, tale rapporto viene meno e la possibilità di ottenere un risarcimento per i danni eventualmente subiti è legata solo all’azione nei confronti dello stesso funzionario, con una responsabilità che cade integralmente nel diritto civile o penale. Si pensi all’ordine illegittimo ed oralmente espresso ad una certa prestazione o dazione, dato dal

funzionario agente, con immediata riconoscibilità da parte del cittadino dell’inesistenza di un atto riferibile all’amministrazione. In questo caso l’azione penale o civile sarà unicamente rivolta verso il funzionario.

A seguito di un indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione (Corte di Cassazione SS. UU n. 1657 del 4 luglio 1949) la nozione di atto nullo è stata in parte estesa alla c.d. carenza di potere in concreto e conseguentemente il quadro complessivo delle ipotesi di nullità era rappresentato

a)dalla carenza di potere in astratto, nel caso in cui manchi il potere ovvero c’è stata l’inosservanza delle norme attributive dello stesso;
b) dalla incompetenza assoluta;
c) dalla carenza di potere in concreto, laddove, pur in presenza di un potere normativamente attribuito, non siano state rispettate altre disposizioni che limitano il suo esercizio.
L’espressione “carenza di potere” è stata coniata per la prima volta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1657 del 4 luglio 1949. In tale pronuncia si afferma che il provvedimento adottato da un’amministrazione carente di potere è inidoneo ad affievolire il diritto soggettivo in interesse legittimo, con la conseguenza che eventuali contestazioni in merito allo stesso devono essere sollevate davanti al giudice ordinario (salvo che nella peculiare ipotesi di carenza di potere in concreto per violazione o elusione di ungiudicato amministrativo, comunque attribuita alla cognizione di quest’ultimo in sede di ottemperanza).

Le Sezioni Unite della Cassazione (Cass. civ., sez. un., 19 agosto 2009, n. 18375) hanno sottolineato che, «nel caso in cui l'amministrazione adotti un qualche provvedimento in violazione od elusione del contenuto del giudicato amministrativo, non può sostenersi fondatamente che il giudice dell'ottemperanza, che rileva la violazione o l'elusione, e provvede di conseguenza, invade la sfera riservata al potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, atteso che, in ossequio al principio di effettività della tutela giuridica, il giudizio di ottemperanza, al fine di soddisfare a pieno l'interesse sostanziale del soggetto ricorrente, non può arrestarsi dinanzi ad adempimenti parziali o incompleti o a condotte addirittura elusive del contenuto della decisione del giudice amministrativo. E' appena il caso di rilevare che caratteristica principale del giudice di ottemperanza è di decidere anche nel merito e l'esistenza di poteri di decisione nel merito consente al giudice di adottare provvedimenti in luogo dell'amministrazione inadempiente, cioè di sostituirsi coattivamente al soggetto obbligato ad adempiere.» (Viene definitivamente superata la ricostruzione del Consiglio di Stato, Ad. Pl. 19 marzo 1984, n. 6 per la quale si sarebbe avuta violazione del giudicato quando il dictum giudiziale avrebbe lasciato spazio alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione in sede di rieserczio del potere: in questo caso l’atto, non essendo interamente vincolato, avrebbe dovuto essere, se non conforme ai vincoli dettati dal giudice, impugnato con l’ordinaria azione di annullamento. Al contrario, l’elusione del giudicato si sarebbe verificata in tutte le ipotesi in cui il dictum giudiziale era talmente stringente e vincolante da esaurire del tutto il potere discrezionale dell’amministrazione: in questo caso, l’atto avrebbe dovuto essere considerato nullo e il privato avrebbe potuto adire direttamente il giudice in sede di ottemperanza).

Ciò allo scopo di evitare che “qualsivoglia manifestazione del potere pubblico, ancorché esorbitante i limiti posti dall’ordinamento al medesimo, sia suscettibile di far degradare un diritto soggettivo a interesse legittimo, sottraendo spazi di giurisdizione al giudice ordinario”

Emerse, dunque, la necessità di distinguere la carenza in concreto dal cattivo esercizio del potere.
Nel primo caso si determina la violazione “delle condizioni di esistenza del provvedimento, il quale, pertanto, essendo espressione di un potere inesistente alla luce della delimitazione fissata dal legislatore, non è dotato dell’imperatività che sola spiega l’effetto degradatorio. La giurisdizione spetta allora al G.O. in quanto viene dedotto un diritto soggettivo che resiste ad un potere che non c’è.
Nelle ipotesi di violazione delle condizioni di esercizio del potere, al contrario, viene in rilievo una semplice violazione della disciplina posta dal legislatore per indirizzare il potere, comunque esistente, verso l’ottimale perseguimento del fine pubblico; di qui la giurisdizione del G.A. a fronte di un episodio di un non corretto esercizio del potere che, in quanto esistente, sortisce l’effetto dell’affievolimento”

Paradigmatica è l’ipotesi del provvedimento di esproprio emanato quando sia spirato il termine fissato dalla dichiarazione di pubblica utilità.
Se fino al 1992 la tematica della nullità veniva trattata con atecnicismo, con la decisione del Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 2/1992) furono individuate una serie di norme, la cui violazione si ritenne comportasse una forma di illegittimità “diversa” dell’atto amministrativo, definita come “illegittimità forte”.

Secondo la citata decisione, se è vero che “l’illegittimità è la qualificazione tradizionale del provvedimento non conforme a legge idoneo a ledere anche interessi particolari”, tuttavia “quando la situazione è ribaltata perché il provvedimento non conforme a legge favorisce il singolo, attribuendogli utilità che non gli spettano e lede, con effetti continuativi, principalmente interessi pubblici, la qualificazione di illegittimità, vuoi per la presumibile mancanza di soggetti legittimati all’impugnazione, vuoi per le non improbabili remore dell’autorità emanante ad esercitare i poteri di autotutela prima della convalescenza dell’atto per decorso del tempo, non è idonea allo scopo”. In tale ultima ipotesi, secondo la sentenza, “non sorprende, allora, che lo spostamento del fulcro della garanzia dal polo privatistico a quello pubblicistico dell’esercizio del potere dia luogo a quella qualificazione giuridica di “illegittimità forte”, che è la nullità in senso tecnico”. Ciò in quanto “per il provvedimento amministrativo, per il quale il principio generale è che la non

conformità a legge ne determina l’illegittimità, strutturata come annullabilità, la nullità si produce nei casi tassativamente stabiliti dalla legge”; in tal senso “illegittimità e nullità del provvedimento amministrativo appaiono come il risultato di tecniche normative fondate su piani di interessi differenti e ispirate a logiche diverse” .


Anche il giudice penale ha elaborato (al fine di definire i limiti del proprio potere di disapplicazione) una sua nozione di nullità/inesistenza dell’atto amministrativo. Già le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione (sent. n. 3/1987), nel restringere notevolmente l’ambito di esercizio del potere di disapplicazione da parte del giudice penale, tuttavia lo hanno ammesso nelle ipotesi di provvedimento rilasciato da organo assolutamente privo del potere di provvedere ovvero nel caso di atto giuridicamente inesistente o illecito. Successivamente, si è sostenuta la possibilità di sindacato incidentale da parte del giudice penale di fronte ad illegittimità dell’atto amministrativo “macroscopiche” (Cass. pen., sez. III, n. 4421/1996) ovvero “eclatanti” (Sez. III, n. 11988/1997).

Si è talora ricollegato il concetto di nullità al c. 3 dell’art. 1418 del c.c. che prevede la “nullità negli altri casi stabiliti dalla legge”, ma si obiettava che l’adozione del principio civilistico della nullità virtuale avrebbe comportato una moltiplicazione dei casi di nullità, non coerente con il sistema giuridico amministrativo che si basa su norme di natura imperativa.

Si è quindi fatta strada la consapevolezza di un sistema duale (In talune ricostruzioni dottrinarie si teorizzava un sistema ternario fondato sul annullabilità – nullità – inesistenza (Bartolini A. La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo). A partire dal 1990, il sistema si è gradualmente ricomposto su un assetto duale fondato su annullabilità e nullità. Sono state ricondotte alla nullità sia le ipotesi di carenza degli elementi essenziali, sia le ipotesi di carenza di potere (Cons di Stato V, 13 febbraio 1998, n. 166 che conformemente alla giurisprudenza amministrativa prima della novella del 2005 ha qualificato nulli i provvedimenti amministrativi sottoposti al suo scrutinio solo nei tassativi casi in cui la sanzione della nullità era espressamente prevista dalla legge, così come nel caso di assoluta carenza di potere dell’amministrazione emanante che abbia invaso la sfera di pertinenza di altra autorità)) dell’invalidità amministrativa, in cui a latere dell’annullabilità, si ritrovava una forma di invalidità ulteriore ricollegata a vizi di particolare gravità.

 

 


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