La clausola, inserita nei contratti "per la condizione e l'esercizio delle concessioni delle sorgenti di acqua minierale" e "per la locazione degli stabilimenti termali" conclusi dal comune di Fiuggi con un privato, che, attribuendogli "la piena libertà" di determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, consente al medesimo privato di bloccare tale prezzo nonostante la svalutazione monetaria, impedendo allo stesso comune di conseguire anche l'adeguamento del canone correlato al ripetuto prezzo, è contraria al principio di buona fede che, per il suo valore cogente, concorre a formare la "regula iuris" del caso concreto, determinando, integrativamente, il contenuto e gli effetti dei contratti e orientandone, ad un tempo, l'interpretazione e l'esecuzione.
la S.C., smentendo le critiche di parte della dottrina che avevano accusato la giurisprudenza di essere inidonea a sviluppare la figura della buona fede oggettiva e ad individuarne l’ambito di operatività e il sistema di funzionamento, compie il salto di qualità, riconoscendo alla buona fede funzione integrativa e correttiva del regolamento negoziale.
Analizzando la questione sottoposta al suo esame la S.C. ha affermato che “il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) ... si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 cod. civ.) e l’esecuzione (art. 1375 cod. civ.), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti é tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”. I giudici di legittimità hanno inoltre precisato che “questo è il ruolo della buona fede (in senso oggettivo)” e che essa “quindi, concorre a creare la regola iuris del caso concreto, in forza del valore cogente delle norme citate le assegnano”; trattasi di ““principio cardine” dell’ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema”, che costituisce “proprio regola di governo della discrezionalità e ne vieta quindi l’abuso”.
La pronuncia con cui la Cassazione interviene sull'affare Fiuggi è di quelle che destano l'attenzione dell'interprete, giacchè affronta due argomenti giuridici di notevole rilievo, quello della qualificazione del contratto, che sollecita una riflessione sull'autonomia del giudice pur in presenza di una diversa denominazione eventualmente adottata dalle parti, e quello dell'incidenza della buona fede sull'esecuzione del contratto.
Le argomentazioni in base alle quali i giudici di legittimità risolvono il problema qualificatorio non si discostano da quelle cosi ricorrenti nelle massime giurisprudenziali: alla pretesa ricostruzione della volonta delle parti come volta a stipulare un contratto di "locazione di beni", funzionalmente collegato a quello avente ad oggetto la coltivazione delle miniere acquifere, la Corte oppone il valore non determinante che la qualificazione attributiva delle parti stesse all'atto di autonomia privata riveste in questa fase del procedimento ermeneutico-ricostruttivo. Il nomen iuris con il quale i contraenti abbiano riassuntivamente indicato il regolamento contrattuale si profila, infatti, come un elemento non decisivo alla determinazione del senso reale da attribuire alla fattispecie realizzata, in quanto tale incapace di imporsi al giudice per orientarne, in senso per così dire obbligato, le risposte. Questi, dal canto suo, potrà procedere ad una diversa corretta qualificazione. La dottrina che più approfonditamente ha indagato quale sia l'esatto ruolo della volontà delle parti nella distinzione fra i tipi contrattuali è pervenuta alla conclusione che essa rilevi non quale tratto distintivo tra i tipi stessi, ma come criterio per la riconduzione del contratto ad un tipo. Su questo scenario sistematico si staglia la questione della distinzione tra trasferimento o affitto di azienda e trasformazione o locazione di beni non coordinati ad azienda. Respinta come erronea l'opinione espressa dalla giurisprudenza, secondo cui criterio scriminante sarebbe l'intenzione delle parti di trasferire non solo i beni, ma anche i rapporti giuridici, funzionalmente collegati all'esercizio dell'impresa, la dottrina sembra tendenzialmente orientata a considerare la fattispecie azienda come un insieme di beni organizzati, sicchè è decisivo accertare se siano stati oggetti del negozio i beni organizzati, cioè un insieme di beni oggettivamente tra loro coordinati in modo da costituire idoneo strumento per l'esercizio di un impresa. Il tema della correlazione fra autonomia privata e qualificazione del contratto si specifica, con riferimento alla particolare ipotesi dell'affitto d'azienda, nell'interrogatorio sull'opportunità e sul significato del ricorso alla volontà delle parti nell'individuazione dell'oggetto del contratto stesso. In altri termini, occorre chiedersi se l'attribuzione al complesso di beni della qualifica di azienda possa farsi dipendere dalla soggettiva rappresentazione dei contraenti o piuttosto dal dato obiettivo dell'organizzazione funzionale all'esercizio dell'impresa. La giurisprudenza pare proporre al riguardo una soluzione in un certo senso conciliativa: ad un parametro di ordine soggettivo , informato alla considerazione dei beni espressi dalle parti nel contratto, dovrebbe affiancarsi un criterio oggettivo, riferito cioè al contenuto obiettivo del contratto stesso, vale a dire al tipo e alla qualità di beni in esso dedotti. Ne consegue che la disciplina dettata per il trasferimento d'azienda dovrà applicarsi non solo quando la reale volontà delle parti si appunti su un complesso organizzato, considerandolo come azienda, ma anche quando le parti realmente non pongono come oggetto della loro volontà il trasferimento dell'azienda, e tuttavia in concreto ciò che viene alienato è veramente un'azienda. Alla riconduzione del contratto in esame nello schema della locazione di beni singoli conseguirebbe, secondo la tesi del resistente, il diritto del conduttore all'indennità prevista dall'art. 1150 c.c.. Contestata la correttezza di questa impostazione, sul presupposto che al conduttore, detentore e non possessore dei beni locati, spetterebbero semmai, le diverse e minori indennità di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c., la Corte passa ad esaminare la pretesa dell'ente Fiuggi, considerato affittuario, ad ottenere, al momento del rilascio dell'azienda, l'indennità corrispondente all'incremento di redditività conseguito dall'azienda stessa. La questione richiama il problema della definizione della nozione dia avviamento e della sua tutelabilità quale autonomo elemento costitutivo dell'azienda. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel riconoscere nell'avviamento una qualità dell'azienda, consistente nel plusvalore della stessa rispetto alla somma dei valori dei singoli beni che la compongono, idoneo ad attribuire al complesso aziendale una capacità di profitto puro. Dall'adesione alla tesi dell'avviamento come semplice qualità deriva la sua esclusione dalle "consistenze dell'inventario" e conseguentemente la non indennizzabilità ai sensi dell'art. 2561, ultimi comma, c.c.. Gli argomenti addotti a sostegno della tesi negativa sono l'uno di carattere formale, l'altro sistematico. Per un verso si rileva come il termine "consistenze" non possa che riferirsi ai beni aziendali e non alle redditività che, non potendo considerarsi un bene distinto in quanto non è autonomamente trasferibile nè gode di autonoma tutela, non si presta ad essere declinato al plurale. Per altro verso la formulazione dell'ultimo comma dell'art. 2561 definisce il diritto dell'usufruttuario e, in virtù del richiamo di cui all'art. 2562 c.c., dell'affittuario, all'indennità, che non è di puro rimborso, come nel caso dei miglioramenti e delle addizioni del conduttore, ma è rapportata all'accresciuto valore delle circostanze stesse. Proprio la formulazione esauriente della disposizione non consente di riconoscere ulteriori pretese a fine rapporto, come quelle derivanti dall'erogazione di spese che, per quanto incrementative del valore dell'azienda, non abbiano dato luogo ad un accrescimento del valore di tali consistenze.
Senza dubbio più innovativo è il decisum circa la conformità o meno al principio di buone fede del comportamento tenuto dall'affittuario durante lo svolgimento del rapporto. Il punto merita di essere sottolineato perchè segna un passo decisivo verso la definitiva accettazione della buona fede oggettiva tra le fonti di integrazione del contratto ed, in particolare, tra le fonti che consentono di inserire nel contratto un margine all'esercizio di quelle scelte discrezionali dei contraenti che sembrerebbero invece del tutto libere, o per lo meno non delimitate da alcuna regola interna al rapporto. L' applicazione della buona fede al rapporto contrattuale ha incontrato diffidenze e timori legati alla sua struttura e funzione di clausola generale che inevitabilmente trascina con se una certa indeterminatezza dei contenuti normativi cui fa riscontro la cerrelativa ampiezza dell'ambito di autonomia riservato al giudice nella sua applicazione. Di tali timori e diffidenze è espressione quell'orientamento giurisprudenziale incline ad affermare che un comportamento contrario ai doveri di lealtà, correttezza e solidarietà sociale non può essere reputato illegittimo e colposo, nè può essere fonte di responsabilità per danni, quando non concreti la violazione di un diritto altrui già riconosciuto in base ad altre norme. Tale posizione è andata sempre più assumendo toni sempre più sfumati grazie alle sollecitazioni della dottrina, la quale ravvisa nel principio richiamato lo strumento per integrare, limitare e correggere il contenuto normativo dell'obbligazione, con riferimento alle esigenze poste dallo svolgimento di essa. IL segno di questo variegato dibattito si coglie nella decisione in esame che assegna alla buona fede un'autonoma funzione di integrazione del contratto.
Svolgimento del processo
Con due contratti notarili del 5 aprile 1963 (rep. n. 3546 e n. 3547) stipulati (il primo) con la "Società per la Gestione delle Terme e delle Acque Fiuggi" e (il secondo) con la S.p.a. "Ente Fiuggi" (modificativi di un precedente contratto del 10 maggio 1960 e, a loro volta, modificati con successivi contratti del 21 dicembre 1965 e del 17 febbraio 1968), il Comune di Fiuggi trasferì alla predetta società la "conduzione e l'esercizio delle concessioni delle sorgenti di acqua minerale denominata Fiuggi e Anticolana e del Bacino idrico di alimentazione delle sorgenti stesse, delle quali il Comune era titolare"; concesse all'Ente Fiuggi, in "locazione" gli stabilimenti termali Bonifazio VIII e Anticolana, terreni e boschi adiacenti.
In prossimità della data di scadenza dei due contratti (18 maggio 1990), l'Ente Fiuggi (che aveva frattanto incorporato la società ridetta), avvalendosi delle clausole compromissorie in essi inserite, attivò il procedimento arbitrale per la risoluzione di controversie insorte tra i contraenti.
Con lodo deliberato il 28 novembre 1989 e reso esecutivo con decreto pretorile di pari data, il Collegio rigettò le reciproche domande di risoluzione dei contratti per colpa e di risarcimento dei danni, liquidò a favore dell'Ente Fiuggi (considerato non affittuario di azienda, ma conduttore di beni singoli) l'indennità, ex art. 1150 C.C., di Lit. 69.400.000.000 per "aumento di valore" del complesso locato; condannò, inoltre, il Comune al risarcimento dei danni dipendenti dal mancato rilascio dei danni dipendenti dal mancato rilascio di alcune licenze per l'esercizio del commercio e da disfunzioni della rete fognaria; dichiarò, infine, che all'Ente Fiuggi spettava il diritto di prelazione quanto ai nuovi contratti aventi per oggetto lo sfruttamento delle miniere acquifere e la conduzione degli stabilimenti annessi.
Su impugnazione del Comune, la Corte di appello di Roma, con la sentenza non definitiva del 12 novembre 1992, denunciata in questa sede, ha così deciso:
"1) in sede rescindente, dichiara la nullità del giudizio arbitrale e della sentenza impugnata;
2) in sede rescissoria:
a) dichiara legittime ed efficaci le clausole di preferenza, a favore dell'Ente Fiuggi S.p.a., contenute nei contratti n. 3546 e n. 3547 conclusi iter partes in data 5.4.1963, con gli effetti di cui in motivazione;
b) accoglie, per quanto di ragione, nei limiti e nelle condizioni precisate in motivazione, la domanda dell'Ente Fiuggi S.p.a. per il riconoscimento del valore corrispondente all'incremento della redditività dell'azienda oggetto dei contratti menzionati al punto precedente e condanna il Comune di Fiuggi al pagamento della somma relativa, quale sarà accertata nel prosieguo del giudizio;
c) rigetta tutte le altre domande proposte dal Comune di Fiuggi e dall'Ente Fiuggi;
d) dispone con separata ordinanza, per il prosieguo del giudizio;
3) convalida il sequestro giudiziario autorizzato con ordinanza del 27.8.1990 dal consigliere istruttore;
4) riserva al definito la liquidazione delle spese del giudizio".
Contro questa sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione affidato a otto motivi, resistenti, con controricorso, dall'Ente Fiuggi, che ha anche proposto ricorso incidentale sulla base di quattro motivi, cui il ricorrente principale resiste con controricorso.
Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
I due ricorsi vanno, anzitutto, riuniti (art. 335 c.p.c.).
I - Prioritario, nell'ordine logico, è l'esame del primo motivo del ricorso incidentale, con quale l'Ente Fiuggi, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 182 c.p.c., omessa e illogica motivazione su punto decisivo della controversia, censura la denunciata sentenza nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l'impugnazione del Comune, ancorché non fosse stata prodotta anteriormente alla (prima) deliberazione del dispostivo, poi revocata, la relativa autorizzazione dell'organo collegiale (acquisita solo dopo la rimessione degli atti in istruttoria) e non risultasse, quindi, provata la piena "legitimatio ad processum" del Sindaco.
A sostegno del mezzo il ricorrente ripropone argomentazioni già disattese, anche per implicito, dalla Corte del merito e dirette, in sintesi, a dimostrare che, nella situazione data, una volta deliberata la decisione senza previamente rilevare il difetto di autorizzazione, il dispositivo avrebbe potuto, si, essere revocato, ma solo per sostituirlo con altro che, tenendo conto di tale difetto, dichiarasse, pregiudizialmente, l'impugnazione inammissibile, senza sanatoria alcuna, poiché nel sistema il potere di disporre l'acquisizione dell'autorizzazione mancante deve intendersi attribuito solo al giudice istruttore nella fase di pertinenza, non anche al Collegio, che si troverebbe, diversamente, investito dalla facoltà di differire "ad libitum" la decisione della causa, in contrasto con le disposizioni degli artt. 276 e 279 c.p.c. -.
Il motivo non è fondato.
Per l'accredito delle argomentazioni riferite, il ricorrente si affida ora, in particolare, alla sentenza n. 7682-1992 di questa Corte, la quale, però, se pure caricabile del rigore preclusivo che le si attribuisce, esprime un orientamento non nuovo (Cfr. Cass. 5146-1992, Cass. 3884-1988), ma neppure unanime e, comunque, non adeguatamente confrontato con l'indirizzo più liberale, secondo cui anche il Collegio, in primo grado o in appello, può disporre, ex art. 182 secondo comma, c.p.c., l'acquisizione dell'autorizzazione non tempestivamente prodotta e al fine di restituire, quindi, gli atti al giudice istruttore (Cass. 4944-1989, Cass. 6210-1979, Cass. 1336-1968, Cass. 300-1960).
Questo indirizzo deve essere qui confermato, esplicando ulteriormente che il capoverso (applicabile in tema di autorizzazioni necessarie: Cass. 5246-1992) dell'art. 182 attribuisce al "giudice" (non al solo giudice istruttore) il potere di cui si discute senza limitazione alcuna, sicché esso, per non trascurabili esigenze di economia processuale e di corretto intendimento della funzione meramente strumentale (rispetto all'accertamento del torto o della ragione), in linea di massima, riconoscibile agli adempimenti formali, può essere esercitato fino al deposito della sentenza (che ne segna l'esistenza giuridica) e, quindi, anche successivamente alla deliberazione della medesima poi revocata per supplire all'inerzia della parte e del giudice istruttore, al quale, di conseguenza, gli atti vanno restituiti per la regolarizzazione del rapporto processuale.
Il motivo deve essere, pertanto, rigettato.
II - Ricorso principale.
Il Comune ricorrente denuncia, nell'ordine:
1) violazione dell'art. 112 c.p.c., per aver la Corte di appello riconosciuto all'Ente Fiuggi il diritto all'indennità di avviamento, ancorché non richiesta;
2) violazione e falsa applicazione degli artt. 2562 e segg. C.C., nonché motivazione contraddittoria su punto decisivo, perché il valore di avviamento, non essendo questo un bene inventariabile, ma una qualità dell'azienda, non è indennizzabile a favore dell'affittuario di quest'ultima, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte del merito, per di più contraddittoriamente, stante la inconciliabilità del concetto di "valore" con quello di "consistenza";
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. e 2697 c.c., nonché omessa e insufficiente motivazione, perché all'eventuale indennità di avviamento l'Ente Fiuggi aveva, comunque, preventivamente rinunciato nel contratto di affitto del 1963, non innovato sul punto dal successivo contratto del 1965, mentre l'indennità per i miglioramenti apportati agli immobili era stata già corrisposta e il diritto ad eventuali altre indennità era stato, del parti, pattiziamente escluso e, comunque, non provato;
4) violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi riguardanti l'uso di beni pubblici, per incompatibilità con la dichiarata indennizzabilità dell'avviamento commerciale, e omessa motivazione sul punto;
5) violazione e falsa applicazione della l. 283-1961 (sulla durata dei contratti di esercizio delle concessioni minerarie stipulanti dagli enti pubblici titolari delle medesime), per aver la Corte distrettuale affermato la sopravvivenza del diritto di prelazione originariamente pattuito a favore dell'Ente Fiuggi, pur rientrando i contratti di cui si discute fra quelli che, a stregua della legge citata, non possono avere durata superiore a venti anni;
6) violazione e falsa applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti (artt. 1362 e segg. c.c.), sulla esecuzione di buonafede (art. 1375 c.c.) e sull'adempimento (artt. 1218 e segg c.c.), omessa e insufficiente motivazione, per avere la Corte di appello ritenuto legittimo il comportamento dell'Ente Fiuggi, benché "contrario alle pattuizioni contrattuali e comunque di malafede", avendo bloccato, a partire dal 1983, il prezzo di vendita di fabbrica delle bottiglie, malgrado la sopravvenuta svalutazione monetaria e il correlato diritto del Comune (ribadito dal lodo Levi-Sandri del 21 giugno 1982, passato in giudicato) all'adeguamento del canone di affitto (a tale prezzo commisurato), rimasto, invece, fermo, ancorché il prezzo del prodotto fosse stato, nella fase di commercializzazione, corporosamente aumentato dalle società distributrici, appartenenti allo stesso gruppo di cui faceva parte la società affittuaria;
7) omessa e insufficiente motivazione, in riferimento alla transazione stipulata dalle parti nel marzo del 1983, sulla domanda del Comune diretta ad ottenere la risoluzione per inadempimento dell'altra parte e dalla Corte di appello rigettata per mancanza di prova, non essendo stati prodotti nè l'atto transattivo, nè le successive intimazioni di pagamento, ancorché l'avvenuta transazione fosse pacifica e fossero "più che notori" i decreti ingiuntivi emessi a carico dell'Ente debitore;
8) violazione e falsa applicazione degli artt. 670 segg. e 828 c.p.c., nonché contraddittoria motivazione, avendo la Corte territoriale convalidate il sequestro giudiziario del complesso termale ottenuto dall'Ente Fiuggi in corso di causa, pur essendo venuto meno, con l'annullamento della sentenza arbitrale, l'accertamento giudiziale del credito dedotto dal sequestrante, nè potendosi configurare alcuna controversia sulla detenzione dell'azienda, attesa la scadenza dei contratti, e ancor meno l'assoggettibilità alla particolare misura cautelare di beni (le sorgenti di acqua) appartenenti al patrimonio indisponibile della Regione.
III - Ricorso incidentale.
Col secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 829 c.p.c., erronea, illogica e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia: premesso che anche nell'esercizio di potestà pubbliche l'amministrazione titolare deve comportarsi in modo non da ledere situazioni soggettive pattizie meritevoli di tutela, lamenta che la Corte di appello abbia escluso la competenza arbitrale in ordine alle domande di risarcimento dei danni derivanti dal diniego della licenza di commercio e dalla disfunzioni della rete fognaria, ritenendo le pretese non riconducibili al regolamento contrattuale e, quindi, al patto compromissorio, ancorché: il Comune si fosse contrattualmente obbligato al rilascio delle licenze e il diniego fosse stato dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo; le disfunzioni della rete fognaria fossero imputabili a inosservanza dei doveri di protezione e di buona fede; la competenza, infine, si determini dalla domanda (senza riguardo alla sua fondatezza e alle eccezioni del convenuto), strutturata, nella specie, come richiesta di condanna del Comune al risarcimento dei danni (petitum) per violazione di obblighi contrattuali (causa petendi). Nella memoria il ricorrente aggiunte che l'eccezione di incompetenza degli arbitri sarebbe stata, comunque, tardivamente sollevata dal Comune, sì che la Corte di appello avrebbe dovuto disattenderla ex art. 817 c.p.c. -.
Sulle censure esposte si insiste col quarto motivo, in riferimento alle corrispondenti statuizioni di rigetto adottate dal giudice "a quo" nella fase rescissoria, deducendosi, in particolare, che anche le potestà pubbliche sono negoziabili e, dunque, che, se esercitate in modo difforme dagli impegni contrattualmente assunti o in contrasto col dovere di correttezza, la P.A. risponde dei danni che ne siano derivati all'altro contraente.
Col terzo motivo, il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 segg. e 2909 c.c.; omessa, illogica e insufficiente motivazione su punti decisivi, rimprovera alla Corte territoriale di essere pervenuta a qualificare come affitto di azienda il contratto (n. 3547) di locazione degli stabilimenti termali, anche in virtù del suo collegamento funzionale col contratto (n. 3546) avente per oggetto la coltivazione delle miniere acquifere, disattendendo la diversa qualificazione ("che può concretizzare un giudicato esterno") di vero e proprio contratto di locazione di beni che al primo sarebbe stata attribuita dalle Sezioni Unite di questa Corte (in sede di regolamento di giurisdizione) con la sentenza n. 4010 del 1975, e non tenendo conto, inoltre, della volontà delle parti, che "all'affitto di azienda non avevano mai fatto riferimento", avendo denominato il primo contratto "locazione di beni", nè avendo col secondo inteso attribuire al privato contraente il godimento di un'azienda preesistente, sì che correttamente, in relazione al rapporto locatizio, il collegio arbitrale aveva riconosciuto al conduttore per miglioramenti e addizioni l'indennità (di circa settanta miliardi) prevista dall'art. 1150 c.c. -.
IV - Quest'ultimo motivo (che conviene esaminare subito per ragioni di pregiudizialità rispetto ai primi quattro motivi del ricorso principale) è inammissibile, perché (tolto anche che l'indennità ora menzionata sicuramente non spetta al conduttore, detentore, non possessore e, quindi, legittimato, se mai, a pretendere le diverse - e minori - indennità di cui agli artt. 1592 e 1593 c.c.): in primo luogo, il preteso giudicato esterno non risulta eccepito nel giudizio di merito e, significativamente, del resto, anche in questa sede il ricorrente ne ha solo nella memoria affermato senza tentennamenti l'efficacia preclusiva, dubitativamente prospettata, invece, nel ricorso e, comunque, insindacabilmente esclusa per implicito, dalla Corte distrettuale, la quale ha, in proposito, sottolineato, tra l'altro, che la citata sentenza delle Sezioni Unite "ha avuto cura solo di evidenziare - ai fini dell'affermazione della giurisdizione ordinaria - la natura privatistica del rapporto di locazione avente per oggetto gli stabilimenti termali" senza, quindi, occuparsi "ex professo" del problema qualificatorio di cui si discute e non pregiudicato, certo, dall'adozione del termine "locazione", della quale l'affitto costituisce una sottospecie; in secondo luogo, il mezzo si esaurisce, sotto il residuo profilo, nella rappresentazione di una realtà storica tautologicamente contrapposta a quella privilegiata dal giudice "a quo" all'esito di una complessa sequenza argomentativa (diluita in non poche pagine che per brevità non si riportano) segnata da puntuali passaggi: giuridicamente corretti (per quanto attiene, in particolare, al criterio di differenziazione dell'affitto di azienda dalla locazione di beni singoli); pienamente rispettosi delle regole di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 segg. c.c. (in punto di individuazione della effettiva volontà delle parti, "senza limitarsi al senso letterale delle parole", sul quale, invece, il ricorrente insiste, segnatamente, per escludere la preesistenza dell'azienda di cui si assume originario titolare); non inficiati, infine, da incogruità logiche e, dunque, conclusivamente, sottratti al controllo di legittimità (Cfr. Cass. 6608-1983, Cass. 301-1981, Cass. 1782-1975).
Il primo motivo del ricorso principale è infondato, perché uno dei quesiti proposti agli arbitri aveva per oggetto proprio la determinazione del "valore odierno dell'avviamento" e la corresponsione della relativa indennità (ai sensi degli art. 2561 segg. c.c.), richiesta, poi, benché in subordine, anche nel giudizio di impugnazione.
Fondato, invece, è il secondo motivo.
Devesi, anzitutto, precisare che, al contrario di quanto il resistente sostiene, la Corte territoriale ha inteso attribuirgli (anche) l'indennità corrispondente al valore di avviamento dell'azienda (pur se al netto delle parti imputabili "a spese sostenute in esecuzione di specifici obblighi contrattuali e sempreché tali spese non siano confluite nel valore dei singoli componenti"), muovendo dalla dichiarata premessa che anche "l'incremento dell'avviamento si traduce in differenza di consistenze d'inventario tra l'inizio e la fine del rapporto e va, quindi, riconosciuto all'affittuario nei limiti di cui all'art. 2561 c.c." -.
Da opposto premessa muove, peraltro, la giurisprudenza consolidata, secondo la quale l'avviamento, costituendo una qualità dell'azienda, non può farsi rientrare tra le consistenze che costituiscono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, della indennizzabilità, prevista dall'ultimo comma dell'art. 2561 c.c. (solo) per gli incrementi di queste ultime prodotti dall'usufruttuario o, ex art. 2562, dall'affittuario (Cass. 4476-1981, 44944-1977, 1388-1977, 1007-1976, 680-1958, 2709-1957, 242-1955, 280-1949, 198-1944. V. anche Cass. 4009-1981. È opportuno rimarcare che Cass. 1388-1977, più volte citata da entrambe le parti, ribadisce la differenza tra avviamento e consistenze, sottolineando che, oltre all'identità, rileva anche l'aspetto qualitativo di queste ultime, senza, tuttavia, confonderlo con l'avviamento, che è qualità non di elementi singolari, ma dell'azienda nel suo complesso).
Questo indirizzo (non contraddetto da Cass. 486-1969 - citata dal difensore dell'Ente Fiuggi nella discussine orale - che, nel caso di nullità della cessione di azienda riconosce, correttamente, (perché la sua negazione comporterebbe un ingiustificato arricchimento del cedente) al cessionario il diritto al "rimborso" del valore di avviamento da lui incrementato) deve essere ora confermato per ragioni di stretto diritto positivo collegate, anzitutto, al testo dell'art. 2561 (nell'economia del quale il termine "consistenze" al plurale, non può essere riferito che agli elementi di cui l'azienda si compone, non anche alla redditività della medesima, che non si presta, ovviamente, a declinazioni pluralistiche), ma non prive di caratura sistematica, offerta dalla funzione, di regola, non retributiva, ma meramente reintegrativa (in tutto o in parte) delle indennità eventualmente spettanti al conduttore (artt. 1592 e 1593 c.c.). Il quale, quindi, salvo disposizioni o pattuizioni contrarie, restrittive o estensive, non può normalmente pretendere somme eccedenti l'importo delle spese da lui erogate e del cui risultato il locatore si sia avvantaggiato; le deroghe a questo principio devono, pertanto, considerarsi eccezionali.
Collocato in questo quadro, l'ultimo comma dell'art. 2561 esibisce note peculiari, perché: da un lato, attribuisce all'affittuario (ex art. 2562), nel superiore interesse della produzione, il diritto a un'indennità non di puro rimborso, ma commisurata all'accresciuto valore delle consistenze, derogando, così, "in melius" al principio ridetto e alle più pesanti restrizioni indotte da una rude interpretazione dell'art. 1620 (rifiutata dalla dottrina più recente); dall'altro, definisce compiutamente - e, quindi, esaurisce - l'ambito delle pretese dell'affittuario a fine rapporto espungendo quelle provenienti da erogazioni di spese che, ancorché incrementative del valore dell'azienda, non si siano tradotte in accrescimento di valore delle consistenze, come quelle dovute a interventi che abbiano potenziato l'avviamento senza confluire su queste ultime.
Così sintetizzato il fondamento razionale della normale non indennizzabilità dell'avviamento, appare superfluo indugiare sulla questione relativa alla sua inventaraibilità, pur se devesi convenire col controricorrente che non decisive, in proposito, sono le illazioni tratte dalla normale non iscrivibilità di esso nei bilanci societari, essendo questa giustificata da esigenze di tutela dei creditori che non si profilano riguardo agli inventari (di formazione giudiziale o convenzionale) correlati alla detenzione o al possesso di beni 8anche parzialmente) altrui.
Ma è facile, allora, replicare che gli inventari di questo tipo (c.d. cautelari) non si adattano al valore di avviamento, perché destinati a svolgere una funzione meramente probatoria in vista di eventuali ragioni creditorie presupposte dall'ultimo comma dell'art. 2561, ma quanto all'avviamento, di regola, non configurabili, come sopra chiarito.
Ne consegue, applicando i principi esposti alla concreta vicenda, che l'indennità di avviamento non è dovuta all'Ente Fiuggi, avendo esso solo diritto (nel caso di mancato funzionamento delle clausole di preferenza già citate) ad essere indennizzato per gli incrementi di valore delle consistenze, come sopra intese, nei limiti del regolamento pattizio e sempre che, naturalmente, non sia stato già soddisfatto del proprio credito.
Il secondo motivo del ricorso principale deve essere, quindi, accolto.
Il terzo e il quarto rimangono, di conseguenza, assorbiti.
Il quinto non è fondato: da un lato, perché il contratto n. 3547 (avente per oggetto la "locazione" degli stabilimenti) non rientra nella disciplina della legge n. 283-1961 (riguardante i contratti di coltivazioni minerarie stipulati con i terzi da enti titolari delle relative concessioni); dall'altro, perché quest'ultima fa espressamente salva la durata dei contratti in corso (art. 2), ne impedisce, alla scadenza, il funzionamento della menzionata clausola di preferenza (se non travolta dalla vicenda risolutoria di cui al motivo che segue) quanto alla stipulazione di nuovi contratti, che è, ovviamente, altra cosa dalla proroga o dal semplice rinnovo di quelli scaduti.
Il sesto motivo è fondato.
Il mezzo ripropone questioni già ampiamente dibattute nel giudizio di merito e relativamente alle quali la Corte di Appello sintetizza, conclusivamente, il proprio pensiero, con la proposizione che segue: "In definitiva, poiché dai patti contrattuali non è consentito dedurre alcun diritto in capo al Comune a che l'Ente Fiuggi aumentasse il prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie per adeguarlo alla svalutazione della moneta, nè è lecito argomentare, in presenza di specifica pattuizione che attribuisce all'Ente stesso piena libertà principalmente nel fissare i prezzi di vendita, su pretesi comportamenti attuati in spregio delle regole della correttezza e della buona fede, la domanda va rigettata, in quanto del tutto sfornita di fondamento".
Ma, ammesso che la legge pattizia attribuisse davvero l'Ente Fiuggi "piena libertà" nel determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, essa non potrebbe, comunque, ritenersi svincolata dall'osservanza del dovere di correttezza (art. 1175 c.c.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequi alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 12 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina intergativamente il contenuto agli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientare l'interpretazione (art. 1366 c.c.) e l'esecuzione (art. 1375), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio.
Se questo è il ruolo della buona fede (in senso oggettivo) e se essa, quindi, concorre a creare la "regula iuris" del caso concreto, in forza del valore cogente che le norme citate le assegnano e che, quale "principio cardine" dell'ordinamento, induttivamente estraibile dal sistema, le deve essere, in generale, riconosciuto, appare per lo meno sorprendente relegare nel "metagiuridico" (come la denunciata sentenza ha fatto, sotto l'influsso, evidente, di persistenti differenze verso il principio in esame, ancorché denunciate dalla dottrina con particolare vigore a partire dai primi anni sessanta e in parte rimosse dalla giurisprudenza più recente) l'aspettativa del Comune all'aumento del prezzo sol perché demandato a scelte pretesamente discrezionali dell'altra parte, ignorando, oltre a tutto, che la correttezza costituisce proprio regola di governo della discrezionalità e ne vieta, quindi, l'abuso, sì che non avrebbe potuto la Corte del merito esimersi dal dovere di accertare la necessaria compiutezza e logicità se la delusione di codesta aspettativa fosse o meno giustificata da un interesse antitetico - meritevole di tutela - dell'Ente Fiuggi a mantenere fermo il prezzo (in fabbrica), malgrado la sopravvenuta svalutazione monetaria e il conseguente svilimento del canone a quel prezzo commisurato.
Si legge, al riguardo, nella sentenza impugnata che il blocco del prezzo sarebbe stato suggerito da "una strategia di più ampia penetrazione nel mercato e di più vasta diffusione del prodotto, possibile solo facendo leva su incentivi a favore della società di distribuzione". Ma questa proposizione, a prima vista appagante, è, in realtà, del tutto insufficiente, dal momento che un effettivo incremento delle vendite non episodico è, con ogni evidenza, impensabile senza un concomitante contenimento del prezzo (a valle) nella successiva fase di commercializzazione del prodotto. Ora, di questa circostanza decisiva la sentenza non si è data affatto carico, ancorché il Comune avesse dedotto che l'Ente Fiuggi, mediante la traslazione dell'aumento del prezzo (più che raddoppiato) nella fase di distribuzione della merce attraverso società appartenenti allo stesso gruppo di cui faceva parte, aveva conseguito il doppi vantaggio di impedire scorrettamente l'adeguamento del canone dovuto al Comune e di lucrare ugualmente sulle vendite, dando luogo ad una sproporzionata divaricazione tra prezzo e canone contraria allo spirito dell'intesa raggiunta sul punto dalle parti e, dunque, oggettivamente incompatibile con l'agire secondo buona fede, anche se, in ipotesi, non maliziosamente preordinata, atteso che la scorrettezza rileva per sè, indipendentemente dall'"animus" dell'autore in quanto i rimedi predisposti per neutralizzarne le conseguenze hanno funzione riparatoria più che sanzionatoria.
Il sesto motivo deve essere, pertanto, accolto: dovrà, quindi, il giudice del rinvio, muovendo da non disconoscibile valore normativo del principio di buona fede, apprezzarne la rilevanza nel caso concreto, in riferimento al comportamento descritto, e adottare all'esito le congruenti determinazioni in ordine alle collegate domande di risoluzione e di risarcimento dei danni proposte dal Comune.
Non può essere, invece, accolto il settimo motivo, perché si infrange contro valutazioni probatorie e accertamenti di fatto istituzionalmente riservati al giudice del merito, non inficiati, nella specie da inadeguatezze logiche e, quindi, sottratti al sindacato di legittimità.
Quanto all'ottavo, occorre premettere che il sequestro (giudiziario) è stato chiesto e ottenuto dall'Ente Fiuggi come particolare mezzo di esercizio e di attuazione dell'eccezione di inadempimento (art. 2460 c.c.) riferita all'indennità di avviamento attribuitagli dal lodo arbitrale. Sarebbe, allora, sufficiente considerare che, venuta meno la situazione cautelanda (per effetto dell'accoglimento del secondo motivo), la misura cautelare non ha più ragion d'essere e deve, quindi, ritenersi caducata, indipendentemente dall'anomalia dell'uso che ne è stato fatto.
Conviene, tuttavia, rapidamente aggiungere che di essa difettavano "ab origine" i presupposti: in primo luogo, per non omogeneità e diacronia tra il diritto del Comune all'immediato rilascio del complesso termale alla scadenza dei contratti e l'eventuale credito del detentore, azionabile, in ipotesi, solo successivamente, in quanto subordinato, come la stessa sentenza di merito ammette, al mancato funzionamento delle clausole di preferenza e, quindi, nè esigibile, nè assistito, alla data della citata scadenza, del tasso di certezza necessario per paralizzare la pretesa "liquida" del Comune; in secondo luogo, perché tra i due crediti contrapposti non era configurabile alcun nesso di inallagmaticità (indispensabile, anche questa, per la opponibilità dell'eccezione di inadempimento da parte del contraente fedele), perché nè il diritto del Comune alla riconsegna trovava la propria giustificazione causale nel preteso obbligo di pagare l'indennità di avviamento, nè, parallelamente, l'eventuale diritto al conseguimento di quest'ultima costituiva la "causa" dell'obbligo di rilascio.
Il motivo deve essere, pertanto, accolto.
Rimangono da esaminare il secondo e il quarto motivo del ricorso incidentale.
Deve premettersi che l'asserita tardività della eccezione di incompetenza degli arbitri, è stata dedotta per la prima volta nella memoria: la questione non può essere, quindi, esaminata.
Entrambi i motivi sono, in tutte le rispettive articolazioni, privi di fondamento.
Non pertinente, anzitutto, è il richiamo al principio (incontestabile) secondo cui la competenza si determina dalla domanda. È noto, infatti, che esso esprime, precipuamente, l'esigenza di dissociare la questione di competenza da quelle relative alla fondatezza della domanda, ma sicuramente non impedisce di rilevare (d'ufficio o su eccezione di parte, secondo i casi) la incompetenza del giudice adito se dalla stessa "deductio" di cui la domanda sostanzialmente si nutre (a prescindere dalla prospettazione formale) emerge che il rapporto oggetto del giudizio è devoluto, in ragione delle sue caratteristiche oggettive, alla competenza di altro giudice, dall'attore preterita per effetto di qualificazioni errate (giurisprudenza costante: v., tra le tante, Cass. 9172-1991, Cass. 3532-1990, Cass. 6100-1988, Cass. 981-1986). Sulle quali, nella specie, la sentenza impugnata si è chiaramente espressa con motivazione diffusa, dalla quale, astraendo per ora da altre proposizioni, risulta che la Corte di Appello si è pronunciata negativamente sulla competenza del collegio arbitrale muovendo, prioritariamente, dalla premessa che i poterei pubblici non sono nogoziabili: premessa, certo, discutibile nella sua assolutezza (oltre all'esempio "storico" dei "patteggiamenti" nella materia urbanistica citato dal ricorrente, significativo è il modello di privatizzazione dei rapporti pubblicistici introdotto dall'art. 11 della l. 241-1990 attraverso le nuove figure degli accordi predeterminativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo), ma, comunque, non censurabile per violazione del principio ridetto, riguardando solo la qualificazione giuridica della situazione soggettiva rappresentata con la domanda, indipendentemente dalla fondatezza di quest'ultima e, quindi, dal merito della controversia.
E se anche la qualificazione della Corte territoriale fosse sbagliata (se anche, cioè, si dovesse accedere alla tesi della negoziabilità dei poteri pubblici), non per questo la competenza arbitrale potrebbe essere senz'altro affermata, dovendo, allora, farsi carico dell'ulteriore ragione in contrario addotta da quella Corte, che, supposta in astratto la negoziabilità dei poteri di cui trattasi, ne ha, comunque, escluso, nel caso concreto, la contrattualizzazione con argomentazioni sul piano interpretativo pienamente da condividere e sul piano sistematico parimenti corrette, non essendo, sotto il primo aspetto, enucleabile dal regolamento pattizio alcun impegno del Comune di rilasciare le licenze di commercio all'interno degli stabilimenti termali o di attivarsi per prevenire disfunzioni fognarie dannose per il funzionamento e l'immagine del complesso; nè potendo un obbligo siffatto iscriversi nell'osservanza della regola di correttezza o dei c.d. doveri di protezione, poiché la prima non è in grado di fondare obbligazioni primarie, ma solo obblighi integrativi strumentalmente connessi all'adempimento delle medesime; mentre i secondo attengono alla tutela di interessi extracontrattuali direttamente protetti da norme della stessa natura e non possono essere, quindi, evocati nè per convertire in diritto soggettivi interessi di mero fatto o legittimi, nè per il rafforzamento della protezione di quegli interessi che, come nella specie, del contratto costituiscono, invece, l'ossatura e proprio per questo non bisognosi di essere ulteriormente protetti con la imposizione di obblighi riferibili a interessi nel contratto non dedotti e, perciò, non pattiziamente tutelati.
È opportuno, peraltro, esplicitare che neppure per questa parte può fondatamente addebitarsi alla denunciata sentenza di aver violato il principio secondo cui la competenza è determinata dalla domanda, non potendo, esso, essere così largamente inteso da consentire alla parte di scegliersi senza limiti il giudice più gradito, "inventando" a questo fine criteri di collegamento fittizi sottratti a qualsiasi controllo: questo controllo, pertanto, il giudice può e deve compiere anche se involge l'esame di questioni rilevanti per la decisione di merito.
Il Collegio non ignora che su quest'ultimo punto la dottrina è divisa, ma, nell'assenza di un orientamento giurisprudenziale univoco, ritiene, preferibile la soluzione affermativa, più adatta a scongiurare il pericolo che siano stravolte le "regole del gioco" e che individuazione del giudice competente rimanga, quindi, consegnata, in definitiva, a scelte arbitrarie dell'attore.
Fatte queste precisazioni e ammesso che gli accertamenti compiuti dalla Corte territoriale in sede rescindente per la determinazione della competenza sotto il secondo aspetto non siano, in linea di principio, vincolanti per la decisione del merito nella fase rescissoria, deve, tuttavia, rilevarsi che in questa fase le risultanze degli atti sono state nuovamente prese in esame dalla Corte di appello e da essa non diversamente valutate, ma arricchite, anzi, dall'esclusione del nesso di causalità tra le denunciate disfunzioni della rete fognaria e l'asserito danno che ne sarebbe derivato all'Ente Fiuggi; sì che la statuizione di rigetto delle correlate domande risarcitori e autonomamente sorretta anche da apprezzamenti di fatto congruamente motivati e, dunque, sottratti (questa volta) al sindacato di legittimità.
Il ricorso incidentale deve essere, di conseguenza, rigettato, mentre, per effetto del parziale accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere correlativamente cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma, che si uniformerà ai principi di diritto sopra enunciati e delibererà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
p.q.m.
La Corte, riuniti i ricorsi: rigetta il ricorso incidentale, nonché il primo, il quinto e il settimo motivo del ricorso principale; accoglie il secondo, il sesto e l'ottavo; dichiara assorbiti il terzo e il quarto; cassa, correlativamente, la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Roma, 14 marzo 1994.
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