La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con la circolare n. 4 dell'8 febbraio 2016, ha fornito le linee guida per orientarsi nell'applicazione della nuova disciplina sulle collaborazioni coordinate e continuative.

 

Il 1° gennaio 2016 è entrata pienamente a regime la nuova regolamentazione relativa alle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n.81, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.144 del 24 giugno 2015.

L’articolo n.52 del decreto ha previsto l’abrogazione degli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n.276 del 2003.
La nuova disciplina, dunque, supera il contratto di lavoro a progetto e il lavoro occasionale (cfr. art. 61 D.Lgs. n.276/2003), nonché le presunzioni operanti in relazione alle altre prestazioni rese in regime di lavoro autonomo (cfr. art. 69-bis D.Lgs. n.276/2003).

 

Il legislatore ha introdotto una doppio binario in relazione alle collaborazioni:

1)  già in atto alla data di entrata in vigore del decreto (25 giugno 2015);

2)  stipulate dal 25 giugno 2015.

Al riguardo si richiamano le precedenti circolari sul tema diffuse dalla Fondazione Studi n. 13/2015 (vedi avanti) e l’approfondimento del 15 dicembre 2015 (vedi avanti).

COLLABORAZIONI IN CORSO AL 25 GIUGNO 2015

L’articolo 52 prevede che la previgente disciplina sul lavoro a progetto (ovvero gli articoli da 61 a 69-bis del D.Lgs. n.276/2003) continua ad applicarsi per i contratti già in atto alla data di entrata in vigore del decreto.
Ciò significa, in particolare, che il legislatore ha previsto una ultrattività delle norme che regolano i contratti di collaborazione coordinata e continuativa nella modalità a progetto in corso di esecuzione.

Come evidenziato dalla Fondazione Studi nella circolare n.13 del 25 giugno 2015, per i contratti a progetto già in essere è consentita la proroga, se funzionale alla realizzazione del progetto, talché risulta possibile che il contratto a progetto possa produrre effetti anche oltre l’entrata in vigore del decreto. In alternativa, è possibile concludere il contratto a progetto in scadenza per poi stipulare, con il medesimo lavoratore, un nuovo contratto di collaborazione coordinata e continuativa come consentito dalle nuove regole anche senza soluzione di continuità.

Il contratto a progetto in corso al 25 giugno 2015, ovvero quello prorogato, qualora lo fosse ancora al 1° gennaio 2016, dovrà comunque rispettare anche i requisiti indicati nell’art. 2, comma 1 del decreto (oltre a quelli dell’art. 2094 del c.c.), per non incorrere nell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (v. infra).

 

COLLABORAZIONI DAL 25 GIUGNO 2015

Dal 25 giugno 2015, è consentito stipulare i contratti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 del cpc. (cfr. art.52, comma 2, D.Lgs. n.81/2015) a tempo determinato o indeterminato.

Dal 1° gennaio 2016, tuttavia, la norma prevede che “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche alle collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui le modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche con riferimento ai tempi ai luoghi di lavoro”.

Come chiarito dalla Fondazione Studi con la circolare 13/2015, il legislatore con l’articolo 2 del D.Lgs. n.81 del 2015, interviene per contrastare l’abuso ma attraverso una modalità differente rispetto a quelle adottate in passato.

Infatti, la riforma Biagi ha cercato di intervenire valorizzando le differenti caratteristiche tra il lavoro subordinato e la collaborazione autonoma attraverso l’obbligo di indicare in contratto (e riscontrare in concreto) un risultato specifico che rappresenta una caratteristica essenziale del lavoro autonomo. Mentre, il decreto 81/2015 tende a spostare l’indice di valutazione sulle modalità organizzative adottate dall’azienda, attribuendo le medesime tutele previste per i lavoratori subordinati, anche a quelle forme di collaborazione (con o senza partita iva) che per caratteristiche di tempo e di luogo (e quindi per i profili organizzativi) sono sostanzialmente assimilabili al lavoro subordinato.

A tal fine occorre individuare quali siano le collaborazioni che, potenzialmente, rientrano nell’ambito di applicazione della nuova disciplina.

Si tratta, in particolare, delle:

  • -  collaborazioni coordinate e continuative;

  • -  collaborazioni coordinate e continuative a progetto in corso di esecuzione alla data del 25 giugno 2015 ed ancora in corso al 1° gennaio 2016;

  • -  prestazioni rese in regime di lavoro autonomo anche da titolari di partita iva.

    Se tali prestazioni presentano congiuntamente tutti gli elementi che il legislatore ha individuato (art.2, comma 1), ad esse si applica la disciplina del lavoro subordinato.

Gli elementi che debbono ricorrere sono i seguenti:
1. prestazione esclusivamente personale. Ciò sta a significare che se il  collaboratore si avvale di ulteriori collaboratori, il requisito non ricorre. Non si applicano le nuove regole di etero organizzazione nel caso in cui il collaboratore possa attuare una clausola di sostituibilità nel caso di suo impedimento a svolgere la prestazione di lavoro.

2. prestazione continuativa. Vale a dire che la stessa non deve essere caratterizzata da occasionalità e quindi l’interesse della prestazione deve essere durevole. Occasionalità, peraltro, non significa che la stessa prestazione non possa essere resa più volte ma che l’oggetto della stessa si realizzi in relazione alla singola prestazione;

3. le modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
Pertanto, non è possibile la programmazione unilaterale della prestazione in ordine ai tempi ed anche al luogo di lavoro da parte del committente in quanto tali ipotesi, ove ricorrano congiuntamente, porterebbero alla presenza dei requisiti previsti dall’articolo 2.

Viceversa, appare legittima la possibilità di fasce orarie all’interno delle quali il collaboratore, autonomamente, potrà rendere la propria prestazione nel luogo messo a disposizione del committente.
Quanto al concetto di luogo di lavoro si ritiene debba intendersi ampio. Ovvero qualsiasi luogo presso il quale il collaboratore deve rendere la prestazione, che sia nella disponibilità o comunque riferibile o individuato dal committente, anche se non coincidente con la sede aziendale.

In presenza dei requisiti indicati, che debbono ricorrere congiuntamente (ovvero, prestazione esclusivamente personale, continuativa e con modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento sia ai tempi che al luogo di lavoro), la legge dispone una presunzione di applicazione della disciplina di lavoro subordinato.

Rimane peraltro l’onere della prova a carico del lavoratore ovvero dei terzi interessati circa la sussistenza dei suddetti requisiti in quanto non dovrà essere il committente a doverne dimostrare l’assenza, anche se il legislatore, al fine di prevenire possibili rischi di errata valutazione, ha previsto la possibilità per le parti di ricorrere alla certificazione (v. infra).

LA DISCIPLINA APPLICABILE

Il legislatore utilizza una accezione ampia quanto alle conseguenze derivanti dall’applicabilità della nuova disciplina.
La sussistenza dei requisiti della etero organizzazione comporta il mantenimento del contratto di collaborazione stipulato, ma allo stesso si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Non pare semplice individuare quale sia la disciplina applicabile. A tal fine, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nella circolare n.3 dell’1 febbraio 2016, conviene che “la formulazione utilizzata dal Legislatore”, è “di per sé generica”, ma afferma che ciò significa che “ lascia intendere l’applicazione di qualsivoglia istituto, legale e contrattuale (ad es. trattamento retributivo, orario di lavoro, inquadramento previdenziale, tutele avverso i licenziamenti illegittimi ecc.), normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato.“.

In ogni caso si ritiene che le tutele riguardino il lavoratore interessato e pertanto non producano effetti ai fini aziendali. Ne consegue che le collaborazioni etero organizzate non si computano nella base occupazionale dell’azienda ogniqualvolta la norma o il contratto collettivo faccia riferimento ai lavoratori subordinati.

LE ESCLUSIONI

La nuova disciplina della etero organizzazione non trova applicazione nei casi di seguito indicati:

a)  collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. I requisiti affinché si renda applicabile l’esclusione riguardano gli agenti negoziali: occorre che il livello che abbia proceduto alla conclusione dell’accordo collettivo sia quello nazionale. Su tale aspetto si segnala altresì il chiarimento del Ministero del Lavoro con l’Interpello n.27/2015 nel quale ha confermato che “l’eventuale applicazione di un diverso contratto collettivo non impedirà l’applicazione dell’art. 2”.Da notare che il legislatore richiede che gli accordi collettivi individuino anche il requisito finalistico, ovvero che la stipula sia avvenuta in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore.

b)  collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali; il requisito soggettivo del collaboratore è che lo stesso sia iscritto all’albo professionale previsto dalla legge e che svolga attività rientrante nell’ambito della professione medesima. In questa ottica si ritiene che non rientrino nella fattispecie eventuali iscrizioni del collaboratore ad elenchi tenuti dalle camere di commercio locale;

c)  attività prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

d)  alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Su tale ipotesi, il Ministero del Lavoro, ha chiarito che debbano essere ricomprese non solo le collaborazioni coordinate e continuative rese in favore delle Associazioni sportive e delle Società sportive dilettantistiche ma anche quelle rese in favore del CONI, delle Federazioni Sportive nazionali, delle discipline associate e degli Enti di promozione sportiva (Interpello n.6/2016).

 

CERTIFICAZIONE

Il legislatore, al fine di consentire alle parti di prevenire i rischi derivanti da un non corretto inquadramento contrattuale della tipologia di lavoro che si intende avviare, ha previsto la possibilità per le stesse di richiedere la certificazione dell’assenza dei requisiti anche di etero organizzazione.

In particolare, il comma 2 dell’articolo 2, assegna alle Commissioni (ex articolo 76 del decreto legislativo n. 276 del 2003) proprio tale compito ovvero la certificazione dell’assenza dei requisiti di cui al comma 1.

La prerogativa riguarda dunque tutte le Commissioni di Certificazione istituite ai sensi della citata disposizione e, tra esse, quelle costituite presso i Consigli provinciali degli Ordini dei consulenti del lavoro, capillarmente presenti sul territorio, alle quali le parti potranno quindi rivolgersi.

Si tratta di una funzione nuova per le suddette Commissioni che si aggiunge a quelle già esistenti.

Le parti potranno chiedere anche la certificazione dell’intero contratto ai fini di valutare non solo l’assenza dei requisiti previsti dall’art.2, comma 1 citato, ma anche la conformità della tipologia contrattuale prescelta con l’effettiva modalità di svolgimento del lavoro.

E’ previsto che il lavoratore possa farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Non è escluso che anche il committente possa validamente farsi assistere da un appartenente alle medesime categorie legittimate ad affiancare il lavoratore.

Il dettato normativo ribadisce quindi il ruolo di terzietà del consulente del lavoro il quale può assistere, nel procedimento, sia il committente che il collaboratore. La certificazione potrà riguardare sia i rapporti da instaurare che quelli già instaurati.

L’articolo 79 del decreto legislativo n.276 del 2003, prevede infatti che gli effetti si producono dal momento di inizio del contratto, ove la Commissione abbia appurato che l'attuazione del medesimo è stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Come espressamente previsto dal comma 4 dell’articolo 2 del decreto, la disposizione non trova applicazione fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzo dei contratti di lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni.

In ogni caso, dal 1° gennaio 2017 è comunque fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

 

STABILIZZAZIONE

L’articolo 54 del decreto legislativo n.81 del 2015 ha previsto la possibilità di stabilizzazione agevolata dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto e di soggetti titolari di partita IVA.
I vantaggi consistono nella estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

La stabilizzazione agevolata è prevista a partire dal 1° gennaio 2016: si tratta di una norma che entra nell’ordinamento in modo permanente e dunque, il processo di stabilizzazione può essere attivato in qualunque momento salvo quanto di seguito precisato.

La stabilizzazione prevede l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale.
L’assunzione può avvenire a prescindere dalla data in cui il contratto di collaborazione coordinata e continuativa o altra tipologia per la quale è prevista la stabilizzazione, si sia concluso.

La norma infatti si limita ad affermare che i soggetti assunti siano stati già parti ma non anche che lo siano ancora al momento della stabilizzazione.

Al fine di consentire, come anzidetto, l’estinzione degli illeciti debbono essere rispettate le seguenti specifiche condizioni:

1)  i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile, o avanti alle commissioni di certificazione;

2)  nei dodici mesi successivi alle assunzioni i datori di lavoro non debbono recedere dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.

E’ previsto che vengano fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.
Pertanto non si potrà beneficiare della sanatoria nel caso la procedura di stabilizzazione venga avviata successivamente all’accesso ispettivo e quindi all’inizio dell’accertamento, come confermato anche dal Ministero del Lavoro (circ. n. 3/2016).

Come già evidenziato dalla Fondazione Studi col parere n.3 del 25 novembre 2015, l’assunzione anche se frutto di stabilizzazione ai sensi dell’articolo 54 non preclude l’accesso alle agevolazioni previste dall’articolo 1, comma 178 della legge n.208/2015.

Circolare della Fondazione Studi n. 13/2015 - COLLABORAZIONI, ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE E MANSIONI DECRETO LEGISLATIVO 15 GIUGNO 2015, N. 81  -

 

E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 144 del 24 giugno 2015 il decreto legislativo 15 giugno 2015,n. 81 (in seguito “decreto”), in vigore dal 25 giugno 2015,recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014 n. 183.

Le disposizioni innovano su diversi aspetti dei contratti di lavoro e della disciplina delle mansioni di cui al 2103 del codice civile.

Con la presente circolare la Fondazione Studi inizia l’esame tecnico delle norme al fine di fornire ai consulenti del lavoro un primo indirizzo interpretativo concentrando questo primo intervento sulla nuova disciplina delle collaborazioni, delle associazioni in partecipazione e delle mansioni.

La nuove tutele per le collaborazioni

Il decreto prevede (art. 52) che la disciplina del lavoro a progetto (artt. da 61 a 69-bis del d.lgs. 276/2003) resta vigente esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del decreto stesso.
Pertanto, a partire da tale data i nuovi rapporti in questione non dovranno più essere formalizzati come contratti a progetto ma semplicemente come collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 c.p.c. (quindi senza progetto e senza necessità di un termine finale).

Per i contratti a progetto già in essere è consentita la proroga, se funzionale alla realizzazione del progetto, tale da estendere il contratto anche oltre l’entrata in vigore del decreto. In alternativa, si potrà concludere il contratto a progetto in scadenza per poi stipulare, con il medesimo lavoratore, un nuovo contratto di collaborazione coordinata e continuativa come consentito dalle nuove regole.

Il contratto a progetto prorogato o il nuovo contratto di collaborazione effettuato nel corso del 2015, qualora si estendessero oltre il 1 gennaio 2016, dovranno rispettare anche i requisiti indicati nell’art. 2, comma 1 del decreto (oltre a quelli dell’art. 2094 del c.c.), per non incorrere nell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Proprio l’art. 2, comma 1, del decreto prevede dal 1° gennaio 2016 l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato per tutte le collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro (in base alla formulazione della norma, per determinare la riconduzione al lavoro subordinato tali requisiti devono essere tutti presenti).

Dunque al rapporto di collaborazione continuativa si applicherà la disciplina del lavoro subordinato se la prestazione sarà “esclusivamente personale” e se le modalità di esecuzione saranno organizzate dal committente anche con riferimento ai “tempi e al luogo di lavoro”.

La nuova disposizione contenuta nell’art. 2 comma 1 del decreto specifica e conferma la nozione di lavoro subordinato contenuta nell’art. 2094 c.c., enucleando gli elementi sintomatici più significativi che marcano la differenza tra le due tipologie negoziali (senza ovviamente intaccare la rilevanza del potere direttivo e di controllo come requisiti essenziali del lavoro subordinato).

I primi due elementi – cioè il carattere esclusivamente personale della prestazione e la sua continuatività – si possono riscontrare in entrambi i contratti, ma la norma sottolinea che la loro presenza è fortemente indicativa della natura subordinata del rapporto.

Più significativo, invece, appare il richiamo alle “modalità di esecuzione” delle prestazioni che nel lavoro autonomo – al di là del naturale coordinamento tra le parti – non possono essere organizzate dal committente specie per quel che concerne i tempi e il luogo di lavoro. Quindi, l’organizzazione dei tempi e del luogo di lavoro che in passato era indice sintomatico della subordinazione, con le nuove disposizioni, se riscontrata, fa scattare le medesime tutele dei lavoratori subordinati.

La nuova tutela stabilita dall’articolo 2 trova applicazione anche alle forme di collaborazione svolte da titolari di partita ivafermo restando le esclusioni di cui si dirà più avanti.

Sul piano della tecnica legislativa, si evidenzia la diversa impostazione che assume il presente decreto rispetto alla precedente riforma Biagi (che il decreto abroga).
Infatti, la riforma Biagi ha cercato di intervenire valorizzando le differenti caratteristiche tra il lavoro subordinato e la collaborazione autonoma attraverso l’obbligo di indicare in contratto (e riscontrare in concreto) un risultato specifico che rappresenta una caratteristica essenziale del lavoro autonomo. Mentre, la presente riforma tende a spostare l’indice di valutazione sulle modalità organizzative adottate dall’azienda, attribuendo le medesime tutele previste per i lavoratori subordinati, anche a quelle forme di collaborazione (con o senza partita iva) che per caratteristiche di tempo e di luogo (e quindi per i profili organizzativi) sono sostanzialmente assimilabili al lavoro subordinato.

Pertanto, possono essere ragionevolmente escluse dalla nuova disciplina quelle collaborazioni che per le loro caratteristiche risultano estranee (sotto un profilo sostanziale e non solo formale) alla organizzazione aziendale. Resta fermo che queste ultime collaborazioni autonome per essere considerate legittime devono rispettare anche i tradizionali requisiti previsti dall’art. 2094 del c.c.

Le parti del rapporto potranno richiedere alle commissioni di certificazione (art. 76 d.lgs. n. 276/2003) che venga certificata l’assenza dei requisiti dell’art. 2, comma 1, del decreto ed in particolare la mancata ingerenza sui tempi e sul luogo di lavoro da parte del committente (oltre, eventualmente, al carattere non personale e non continuativo delle prestazioni). In tal caso, scatteranno gli effetti tipici della certificazione, tra i quali l’impossibilità per i terzi (Enti) di contestare direttamente la qualificazione del rapporto (art. 79 e 80 d.lgs. n. 276/2003).

In questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro; in questo caso la norma conferma l’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà.

Le esclusioni

La riconduzione al lavoro subordinato della collaborazione “organizzata” è esclusa soltanto in quattro ipotesi(art. 2, comma 2, del decreto):

a) le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. Questa disposizione sembra assumere anche carattere ricognitivo qualora siano già presenti contratti collettivi che abbiano le caratteristiche richieste dalla disposizione;

b) le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali(dunque le professioni ordinistiche);

c) le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

d) le prestazioni di lavoro rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.

Inoltre, fino al 1° gennaio 2017 – ed in attesa del riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione – la riconduzione al lavoro subordinato prevista dall’art. 2, comma 1, del decreto non troverà applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni; fino a quella data, pertanto, le amministrazioni potranno continuare a stipulare collaborazioni coordinate e continuative secondo le norme o disposizioni di prassi vigenti (che non prevedono l’applicazione della disciplina del lavoro a progetto). Dal 1° gennaio 2017, invece, sarà fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di stipulare i contratti di collaborazione di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto, il che imporrà alle stesse amministrazioni di mettere al bando ogni forma di collaborazione non caratterizzata da modalità realmente autonome delle prestazioni di lavoro (anche per evitare la responsabilità dei dirigenti pubblici che le hanno autorizzate).

La norma di stabilizzazione

Ai sensi dell’art. 54 del decreto, a decorrere dal 1° gennaio 2016 i datori di lavoro privati che procedono alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione anche a progetto o di soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, godono di un beneficio consistente nella estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi alla eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

Tuttavia, il datore di lavoro può godere di tale beneficio a condizione:
a) che i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, del codice civile, o avanti alle commissioni di certificazione;
b) che nei dodici mesi successivi alle assunzioni lo stesso datore non receda dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo(quindi, non è consentito nei 12 mesi successivi l’assunzione il recesso per motivi economici).

Pertanto, la “stabilizzazione” delle collaborazioni autonome o delle c.d. partite IVA comporta per il datore di lavoro la sanatoria (estinzione) di tutti gli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali che potrebbero derivare dalla erronea qualificazione dei rapporti in questione. Tale sanatoria opera se il lavoratore sottoscrive un verbale di conciliazione in sede assistita avente ad oggetto ogni possibile pretesa afferente alla qualificazione del rapporto (comprese, quindi, lerivendicazioni relative alla cessazione del rapporto), e se il datore non effettua un licenziamento, salvo che per motivi disciplinari. Verificatesi queste condizioni, l’azienda rimane tutelata sia nei confronti degli Enti che del contenzioso azionabile dai singoli dipendenti.

Il superamento dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro
L’art. 53 del decreto ha innovato la nozione di associazione in partecipazione modificando il secondo comma dell’art. 2549 c.c.,
e stabilendo che se l’associato è una persona fisica il suo apporto “non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”. Dunque in base alla nuova disciplina sono vietati i contratti di associazione in partecipazione nei quali l’apporto dell’associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro, mentre quelli già in essere rimangono in vigore “fino alla loro cessazione”.

Come è noto, il contratto in esame permette ad un soggetto imprenditore, c.d. associante, di usufruire dell’apporto di un c.d. associato verso il corrispettivo di una partecipazione di quest’ultimo agli utili dell’impresa o di uno o più affari. Per effetto del vincolo associativo che si instaura fra associante ed associato, quest’ultimo partecipa al rischio dell’attività d’impresa nei limiti del proprio apporto e perciò, salvo patto contrario, risponde anche delle perdite, sebbene entro il valore dell’apporto conferito.

Inoltre, secondo l’interpretazione sinora dominante l’apporto dell’associato poteva essere di varia natura, sia patrimoniale che personale, e consistere anche in una prestazione di lavoro, mentre ora tale possibilità viene espressamente esclusa dal legislatore.

L’art. 53 del decreto, oltre a modificare il comma 2 dell’art. 2549 c.c., ha abrogato il comma 3 della norma che si occupava sempre della regolamentazione del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. In particolare, il comma 2 dell’art. 2549 c.c. disponeva che in caso di apporto di prestazione lavorativa il numero degli associati non potesse essere superiore a 3 (salvo che essi fossero legati all’associante da rapporti coniugali, di parentela o di affinità). La violazione della disposizione in esame prevedeva quale conseguenza la trasformazione di tutti i rapporti di associazione in partecipazione in lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il comma 3 dell’art. 2549 c.c. escludeva invece l’applicabilità della disciplina dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro in alcuni specifici ambiti (imprese a scopo mutualistico e rapporti tra produttori e artisti).

L’art. 55 del decreto ha poi abrogato anche l’art. 1, comma 30, della l. n. 92/2012. La norma prevedeva che i rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro instaurati o attuati senza che vi fosse un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, ovvero senza consegna del rendiconto previsto dall'articolo 2552 del codice civile, si presumevano, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La predetta presunzione si applicava, altresì, qualora l'apporto di lavoro non presentasse i requisiti di cui all'articolo 69-bis, comma 2, lettera a), del D.lgs. n. 276/2003 (disciplina anch’essa ormai abrogata).

Come detto, infine, l’art. 53 comma 2 del decreto ha stabilito che i contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro già in essere rimangono in corso fino alla loro cessazione.

In considerazione del fatto che la norma fa riferimento alle “persone fisiche”, continuano ad avere efficacia le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro laddove l’associato è rappresentato da un soggetto societario.

La nuova disciplina delle mansioni
La disciplina delle mansioni è stata rivoluzionata dall’art. 3 del decreto, che ha modificato in modo sostanziale l’art. 2103 del codice civile. Come è noto, tale disposizione prevedeva che il prestatore di lavoro dovesse essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita ovvero alle mansioni “equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Inoltre, nel caso di assegnazione a mansioni superiori per il periodo indicato dai contratti collettivi (in ogni caso non superiore a 3 mesi) il lavoratore aveva diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diveniva definitiva, tranne che nell’ipotesi di sostituzione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto.

Nello specifico, la giurisprudenza in passato con riferimento all’art. 2113 c.c. è giunta ad affermare che “il divieto di modificazione in peius opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori sicché nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali” (Cassazione, sez. lav., sent. n. 13281 del 31.5.2010.Pertanto, la giurisprudenza non si accontentava di una semplice indagine circa l’equivalenza formale delle mansioni muovendo da una valorizzazione sostanziale del concetto in esame, giungeva a valutare anche il corredo professionale del dipendente, rilevando l’illegittimità della modifica delle mansioni tutte quelle volte in cui il datore di lavoro impegnava il dipendente in attività che, pur essendo in astratto ascrivibili al livello di inquadramento delineato dal contratto collettivo, di fatto erano idonee a compromettere la professionalità acquisita, nonché lo svolgimento e l'accrescimento delle capacità professionali del dipendente (Cfr. Cassazione, sez. lav., sent. n. 4989 del 4.3.2014).

Il nuovo art. 2013 c.c. ha stabilito, invece, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, “ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Pertanto, il concetto di equivalenza professionale – che prima era riferito al patrimonio professionale del dipendente, a prescindere dal livello contrattuale e legale di inquadramento – ora è invece rimesso proprio alla disciplina del contratto collettivo, essendo consentito il mutamento delle mansioni del lavoratore tra quelle indicate nello stesso livello di inquadramento del CCNL.
Il decreto ha inoltre previsto la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore anche in pejus,
innovando totalmente la materia. Infatti, il comma 2 del nuovo art. 2103 c.c. stabilisce che in caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità del demansionamento).

Quanto riportato costituisce senz’altro una delle innovazioni più interessanti del nuovo testo normativo, in quanto, il legislatore attribuisce al datore di lavoro un potere esercitabile in modo unilaterale, prescindendo quindi dal consenso del lavoratore.

Ovviamente, tale facoltà è strettamente ancorata alla sussistenza delle modifiche agli assetti organizzativi destinate ad incidere sulla posizione del dipendente, non essendo possibile modificare unilateralmente e in modo peggiorativo le mansioni del lavoratore in assenza di tali presupposti.

Con specifico riferimento al presupposto delle variazione degli assetti organizzativi, sembra possibile sostenere, mutuando un orientamento relativo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, che quest’ultimo sarà considerato sussistente ad esempio quando la variazione venga realizzata con lo scopo di una piùeconomica gestione dell’impresa, e “decisa dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ed imponenti un'effettiva necessità di riduzione dei costi”(Cassazione, sez. lav., sent. n. 23222 del 17.10.2010).

Dal tenore letterale della norma, si evince che il demansionamento può riguardare soltanto le mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello in cui è collocato il dipendente, e comunque sempre se ciò non comporti la retrocessione in una categoria legale inferiore a quella di appartenenza ex art. 2095 c.c. (operai e impiegati; quadri, dirigenti).

È prevista altresì la facoltà per i “contratti collettivi” di indicare ulteriori ipotesi in cui possono essere assegnate mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, sempre mantenendo la medesima categoria legale. Si tratta di ipotesi che si aggiungono a quelle legali che in nessun caso la contrattazione collettiva potrà sostituire.

Per contratti collettivi si deve intendere, ai sensi dell’art. 51 dello stesso decreto, i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

In ogni caso, il legislatore ha previsto che il mutamento di mansioni in pejus debba essere comunicato per iscritto e che “il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”. Pertanto, il lavoratore assegnato a mansioni inferiori non avrà diritto a ricevere gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Ne consegue, quindi che il c.d. principio di irriducibilità della retribuzione non interesserà quelle indennità:
1) volte a compensare l'esposizione del lavoratore ad un certo rischio (Cass. n. 11021/2000);
2) relative al maggior disagio connesso allo svolgimento delle prestazioni lavorative in particolare circostanze di modo, di tempo e di luogo (Cass. n. 5721/1999);

Di norma vengono considerate indennità estrinseche l’indennità di maneggio denaro, l’indennità di disagiata residenza, etc.

In conclusione, quindi, a seguito della variazione disposta unilateralmente dal datore di lavoro (anche in peius nei casi consentiti), il lavoratore conserverà in ogni caso il livello di inquadramento in godimento al momento dell’assegnazione delle nuove mansioni nonché la relativa retribuzione, salvo le eccezioni precedentemente individuate.

Il decreto ha stabilito, inoltre, che nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c., quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della retribuzione. Dunque gli accordi in questione – a differenza del demansionamento unilaterale autorizzato dal nuovo art. 2013 c.c. – consentono la riduzione del livello di inquadramento e della retribuzione del lavoratore; affinché siano validi, però, essi devono essere stipulati nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Anche in questo caso, il lavoratore può farsi assistere da un consulente del lavoroa conferma dell’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà.

Fatte salve le ipotesi di demansionamento lecito – come detto previste dall’art. 2103 c.c. in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali (comma 2), di previsione contrattuale collettiva (comma 4), o di accordo stipulato in sede assistita (comma 6) – la norma ripropone al nono comma il vecchio principio di inderogabilità secondo cui “ogni patto contrario è nullo”. Pertanto, in mancanza delle condizioni di legge o di contratto collettivo, il consenso del lavoratore al demansionamento non è sufficiente a dare validità al relativo patto, che sarà nullo con la possibilità per lo stesso lavoratore di chiedere l’adibizione alle mansioni precedenti, le differenze retributive e l’eventuale risarcimento del danno.

Nel caso di assegnazione del lavoratore a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e tale assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi (sempre se non vi è stata la sostituzione di un lavoratore assente).

La norma – come in passato – rimette ai contratti collettivi la determinazione del periodo necessario per acquisire la promozione automatica, ma in mancanza di disciplina convenzionale il termine legale è passato da tre a sei mesi. I mesi in questione vengono espressamente definiti “continuativi”, il che però non sembra precludere la possibilità di sommare anche periodi non continuativi ove il frazionamento sia in frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto volto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione da parte del dipendente.

Infine, il comma 2 dell’art. 3 del decreto ha abrogato l’art. 6 della l. n. 190 del 1985, relativo alla categoria dei c.d. quadri intermedi. Tale norma prevedeva che “In deroga a quanto previsto dal primo comma dell'articolo 2103del codice civile, comemodificato dall'articolo 13 della legge 20maggio 1970, n. 300, l'assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori di cui all'articolo 2 della presente legge ovvero a mansioni dirigenziali, che non sia avvenuta in sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, diviene definitiva quando si sia protratta per il periodo di tre mesi o per quello superiore fissato dai contratti collettivi”.

Ormai, quindi, la disciplina delle mansioni dei quadri intermedi è ricondotta interamente nell’ambito del nuovo articolo 2103 del codice civile.

 

APPROFONDIMENTO DEL 15 DICEMBRE 2015 Linee guida per la certificazione dei contratti di collaborazione con organi Istituzionali o politici

 

1. Le ragioni delle presenti linee guida

Il D.Lgs. n. 81/2015 ha previsto il superamento del contratto di lavoro a progetto, con l’abrogazione ad opera dell’art. 52 degli articoli da 61 a 69-bis del D.Lgs. n. 276/2003.

La stessa disposizione, al comma 1 dell’art. 2, ha previsto che “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalita' di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.”

Il successivo comma 3 prevede che 3. “Le parti possono richiedere alle commissioni di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell'assenza dei requisiti di cui al comma 1. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentantedell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Il Consiglio Nazionale Ordine dei Consulenti del Lavoro, pertanto, in data 6/8/2015, ha stipulato uno specifico protocollo d’intesa con il Senato della Repubblica volto a fornire ad esso assistenza e supporto per evitare incertezze nell’applicazione delle nuove disposizioni normative anche mediante la certificazione dei contratti di collaborazione.
In ottemperanza degli impegni assunti, il Consiglio Nazionale Ordine dei Consulenti del Lavoro emana le presenti linee guida in cui sono contenuti gli elementi caratterizzanti che dovranno esser oggetto di specifico esame e verifica in sede di certificazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, siano essi in atto o di futura instaurazione.

Le indicazioni fornite sono utili anche per la verifica in sede di certificazione dei rapporti intrattenuti da organi istituzionali diverse dal Senato della Repubblica come ad esempio i rapporti di collaborazione intrattenuti presso le Regioni o Comuni.

2. Presupposti della parasubordinazione nelle collaborazioni parlamentari

Tutte le novità normative intervenute in tema di lavoro parasubordinato non hanno inciso le caratteristiche proprie di tale rapporto.
Pertanto, un rapporto di lavoro autonomo diviene lavoro parasubordinato laddove la prestazione richiesta in contratto sia continuativa, coordinata dal committente, prevalentemente personale e caratterizzata da una matrice di autonomia che possa escludere la subordinazione.

Pertanto ai fini della certificazione di un rapporto parasubordinato è in via prioritaria opportuno che sia verificata la mancanza di ordini perentori da parte del Senatore o Consigliere circa la modalità esecutiva delle attività, si immagini una collaborazione nata nel settore legale per la ricerca di elementi utili alla predisposizione di progetti di legge che preveda le modalità concrete con cui essa deve esser assolta dal collaboratore o le modalità specifiche di elaborazione del testo definitivo senza prevedere margini di autonomia per il soggetto preposto.

 

 

3. Collaborazioni in atto

L’atto di certificazione dei contratti di lavoro può riguardare rapporti in corso di svolgimento sorti nella vigenza delle disposizioni di cui D.Lgs. n. 276/2003. Pertanto, per la certificazione di tali rapporti, è necessario verificare i presupposti propri della parasubordinazione e degli elementi introdotti successivamente per la verifica della sua genuinità.

Per brevità di analisi, fermi i presupposti sin qui esaminati, che devono intendersi comunque elemento imprescindibile per la certificazione della collaborazioni coordinate e continuative, con la L. n. 92/2012 il Legislatore ha modificato diversi aspetti di tale tipologia contrattuale, tra i quali ai fini delle presenti linee guida si evidenziano: il requisito del progetto; il corrispettivo dovuto al collaboratore; l'esercizio del diritto di recesso.

4. Collaborazioni instaurate dal 25/06/2015 sino al 31/12/2015
Per le sole collaborazioni che siano state instaurate a far data dal 25/6/2015, a seguito della abrogazione delle disposizioni sopra richiamate, fermo restando la sussistenza delle caratteristiche della parasubordinzaione sopra esaminate, non è più necessario definire un progetto utile a delineare l’attività del collaboratore, così pure sono venute meno le disposizione in tema di parametrazione del compenso, ed i vincoli in tema di recesso.

Per tali rapporti, poi, si potrà procedere alla certificazione di clausole che prevedano libera recedibilità o con preavviso, come anche ipotesi di recesso per responsabilità specificamente individuate dalle parti.

5. Collaborazioni stipulate a far data dal 1/01/2016
Oltre ai parametri già esaminati nel paragrafo che precede, a far data dall’1 gennaio 2016, il legislatore ha previsto la riconducibilità al lavoro subordinato delle prestazioni le cui modalità esecutive siano organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e luoghi di lavoro.

Dunque, la verifica che dovrà eseguirsi sui rapporti che estendano la propria durata al periodo successivo al dicembre 2015, ovvero che siano avviati dopo tale periodo, impone un attenta verifica circa le modalità di organizzazione della prestazione come indicate nei contratti e come è ragionevole che siano attuate. Circa le modalità esecutive organizzate dal committente è ragionevole ritenere che visto l’ambito in cui operano le collaborazioni in esame, esse sono caratterizzate da regole o processi organizzativi stabiliti dai regolamenti interni al Senato o al Consiglio e non dai singoli Senatori o Consiglieri committenti.

Diversa è la verifica in relazione ai tempi e luogo di lavoro atteso che questi aspetti sono nella piena disponibilità delle parti.
A questo riguardo l’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 prevede espressamente la possibilità di certificare la assenza degli elementi organizzativi. Pertanto, nei casi in esame questa ipotesi di certificazione è consentita laddove le parti regolano il rapporto (sul piano formale e sostanziale) senza prevedere specifici vincoli con in riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro (congiuntamente valutati).

Pertanto, non è consentita la certificazione della collaborazione autonoma qualora dalla verifica in concreto il collaboratore sia vincolato alla presenza nelle aule del Senato in un numero stabilito di giorni della settimana nonché ad essere presente in una determinata fascia oraria definita unilateralmente dal Senatore o dal Consigliere. In questo caso, trovano pienamente applicazione le disposizioni contenuti nell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015 in ordine alla disciplina del lavoro subordinato.

La certificazione che attesta l’assenza dei requisiti organizzativi di cui al citato articolo 2 è consentita laddove invece, sia verificata una presenza presso il Senato delle Repubblica in alcuni determinati giorni della settimana, ma in fasce orarie liberamente scelte dal collaboratore, ancorché preventivamente comunicate per opportuno coordinamento al Senatore o al Consigliere, ovvero in periodi o in luoghi liberamente scelti dal collaboratore.

 

6. Successione di rapporti diversamente qualificati

Nel caso in cui il contratto di lavoro sia stato preceduto da altro rapporto di lavoro regolamentato secondo differente tipologia contrattuale per lo svolgimento della medesima attività (es. precedente rapporto di lavoro subordinato o viceversa), la Commissione dovrà verificare l’esistenza di un effettivo mutamento organizzativo. In particolare, attesa la medesima attività oggetto del contratto, dovranno rilevarsi effettivi mutamenti organizzativi, anche con riferimento alla definizione dei tempi e dei luoghi della prestazione, tali da giustificare la natura diversa della tipologia contrattuale scelta tra le parti.

 

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