La categoria degli Atti di liberalità comprende quegli atti nei quali l’impoverimento di un soggetto si accompagna all’arricchimento in favore di un altro.

donazioni - natura contrattuale

Il codice civile definisce la donazione all’art. 769 come "il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione", configurandosi dunque quest’ultima, come unico contratto della categoria delle liberalità ad essere disciplinato dal codice civile.

Dalla definizione codicistica si desume la natura contrattuale della donazione: a tutela del principio di intangibilità della sfera giuridica altrui, infatti, il legislatore ha configurato lo schema di tale istituto come contratto, ritenendo necessario l'incontro delle volontà delle parti per il perfezionamento e per la produzione degli effetti giuridici.


Gli elementi essenziali delineati dal legislatore sono due:
►►►  uno di tipo soggettivo. L'elemento soggettivo, infatti, si compone dello spirito di liberalità del donante, consistente nella volontà consapevole (animus donandi) di arricchire un altro soggetto a discapito del proprio patrimonio, e della volontà del donatario di accettare tale arricchimento.

►►►  l’altro di tipo oggettivo. Si configura quale incremento materiale del patrimonio del donatario in conseguenza del correlativo depauperamento del donante.

 

 

donazioni indirette


L’ art. 809 del codice civile disciplina invece gli atti di liberalità diversi dalle donazioni, tradizionalmente definiti come Donazioni indirette.
Tali atti,
pur distinguendosi dallo schema del tradizionale contratto di donazione, vi si accostano tuttavia sotto il profilo dell’effetto, poiché l’animus donandi che anima l’autore dell’atto consiste nell’intento di effettuare un’attribuzione patrimoniale cui però non corrisponde un proprio interesse economico, sebbene la sostanziale differenza consista nel fatto che nell’ambito delle donazioni indirette la liberalità coincide con il risultato dell’atto (il donante pone in essere un atto che solo di riflesso arreca il gratuito beneficio), mentre nelle donazioni dirette la liberalità costituisce la causa tipica dell’atto.

La riconduzione di un atto nel novero delle donazioni indirette incide naturalmente, dal punto di vista pratico, sulla scelta della disciplina applicabile, che attingerà solo in parte alle disposizioni dettate in materia di donazioni dirette: se (in relazione alle cd. donazioni indirette) risulta infatti indiscutibile l’applicazione di alcune disposizioni proprie del contratto di donazione,
come quella concernente la riduzione delle donazioni per integrare le quote spettanti ai legittimari
ovvero la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine o di sopravvenienza di figli
ed infine la collazione (per la quale dovrà prendersi in considerazione, ai fini del computo della quota disponibile, il donatum comprensivo tanto delle donazioni dirette quanto di quelle indirette), è altrettanto vero però, che si sfugge al formalismo tipico del contratto di donazione (diretta), come stabilito più volte dalla dottrina e dalla giurisprudenza in differenti orientamenti, tra cui si ricorda in particolare la sentenza numero 7480 del 25/03/2013. La sentenza trae spunto da una vicenda conflittuale tra una donna e l’ex convivente di suo padre, erede di quest’ultimo. Il motivo di conflitto tra le due è rappresentato dal fatto che l’attrice, ritenendosi erede dell’allora convivente della convenuta e ritenendo altresì che i due avessero comprato insieme un immobile quando i due erano conviventi, chiede in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il pagamento in proprio favore della metà del valore di un preteso fitto da calcolare secondo la normativa sull’equo canone , dal momento che il proprio diritto di comproprietà le era pervenuto per successione mortis causa. La convenuta risponde affermando che l’immobile era stato pagato completamente con il proprio denaro, dato che l’allora convivente, nonché padre dell’attrice, non aveva alcuna disponibilità economica. Afferma inoltre che la cointestazione dell’immobile nei confronti dell’uomo era dovuta a semplici ragioni sentimentali e che in ogni caso doveva essere ritenuta una donazione nulla per più ragioni, tra cui il non essere stata redatta alla presenza di testimoni come richiesto dalla legge; in difetto del consenso del beneficiario; per illiceità del motivo. La convenuta, a sostegno della posizione di unica proprietaria dell’immobile, adduce la circostanza che i proventi utilizzati ai fini dell’acquisto derivavano da attività di prostituzione da quest’ultima svolte e che l’allora convivente essendo consapevole e avendo sfruttato i guadagni della donna, aveva posto in essere un comportamento costituente reato. Alla luce di ciò, la donna richiedeva la restituzione delle somme provenienti da tale attività. In concomitanza al rigetto della domanda attrice, la convenuta richiede al giudice altresì l’accertamento della propria esclusiva proprietà. La domanda riconvenzionale di quest’ultima viene rigettata dal Tribunale di Roma, il quale dispone che l’immobile costituisce quota di eredità nei confronti dell’attrice. Proposto gravame contro il provvedimento, anche la Corte di Appello rigetta l’impugnazione. Tralasciando gli aspetti meramente processuali, la questione di diritto sulla quale la Corte si sofferma finisce con l’essere la chiave di volta con la quale il caso viene risolto. Viene osservato che, secondo la stessa prospettazione dell’attuale ricorrente, l’intestazione in favore dell’allora convivente di una quota pari alla metà dell’immobile al momento dell’acquisto del bene, doveva essere qualificata una donazione, per cui è infondata la tesi della ricorrente in ordine alla pretesa nullità di tale donazione indiretta per l’illiceità della causa: il fatto che il denaro impiegato per l’acquisto provenisse dall’attività di prostituzione della ricorrente non influisce sull’atto, in quanto attinente a una fase pregressa rispetto la donazione, frutto dello spirito di liberalità con il quale l’attuale ricorrente intese beneficiare l’uomo all’epoca convivente. Dato che in questo caso si è in presenza di una donazione di tipo indiretto non sono da accogliere le censure della convenuta nel primo processo circa una nullità della donazione. Questo perché per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico in quanto l’articolo 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’articolo 769 c.c. (Donazioni), non richiama l’art. 782 c.c. che prescrive l’atto pubblico per la donazione. Il ricorso deve quindi essere rigettato.
Quella degli atti di liberalità appare una categoria dai confini ancora indubbiamente incerti, anche a causa dell’assenza di specifiche indicazioni normative e della diversità di soluzioni prospettate in merito ai singoli atti dalla dottrina e dalla giurisprudenza.

Si evince, infatti, un’evidente eterogeneità di atti con cui nella prassi è possibile attuare lo scopo di arricchimento per liberalità. Parte della dottrina (Gatt) ritiene sussistente da un punto di vista ontologico la categoria delle liberalità non donative, e che sia compito degli operatori del diritto, sulla base dell’art. 12 delle Preleggi, interpretare i dati normativi, individuando i singoli atti che ne fanno parte e lasciando così emergere le particolarità di ciascuna tipologia sulla base del profilo effettuale, consistente nell’arricchimento del destinatario a prescindere della causa tipica del negozio posto in essere concretamente dalle parti. Proseguendo la nostra analisi, tra i diversi tipi di atti che potrebbero integrare ipotesi di donazioni indirette, si ricordano:


-Atti di natura contrattuale, si pensi alla figura del contratto a favore di terzi (art.1411 e ss), attraverso il cui meccanismo è possibile che si verifichi una donazione indiretta con arricchimento di un terzo estraneo all’accordo(sempre che ricorra l’interesse della parte stipulante), ovvero la figura del Negotium mixtum cum donatione, che fa riferimento a quelle ipotesi in cui, in un solo negozio, che può apparire di liberalità o come atto a titolo oneroso, siano insieme frammisti elementi dell’una e dell’altra categoria (es. chi vende un bene immobile per un prezzo intenzionalmente molto inferiore a quello altrimenti realizzabile). Al riguardo citiamo la sentenza 30.06.2014 N.14799 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che riguarda il tema del negozio misto con donazione e delle differenze che intercorrono tra questa figura e la simulazione relativa. La vicenda inizia nel 2000 quando una donna cita in giudizio la figlia e l’ex-marito di quest’ultima affinché fosse dichiarata non più sussistente la causa del (preteso) negozio di donazione indiretta relativa ad un immobile che alcuni anni prima, mediante compravendita, la madre della sposa aveva ceduto ai due coniugi per puro spirito di liberalità. La casa era stata venduta per una somma decisamente inferiore al reale valore dell’immobile e, stando alla ricostruzione della parte attrice, la somma non era stata mai realmente versata in quanto la forma della compravendita era stata scelta per fini solamente fiscali. Dunque venendo meno il vincolo di matrimonio tra i due, e in subordine avendo il genero offeso e ingiuriato più volte la suocera, la donna chiedeva una revoca della donazione per ingratitudine. Il tribunale in primo grado rigettava la domanda e la donna impugnava quindi in appello. La Corte d’Appello pure rigettava le censure della donna in quanto il contratto di compravendita intervenuto all’epoca tra le parti non era, secondo la Corte territoriale, considerabile una donazione indiretta, quanto piuttosto una “simulazione relativa”, cui non poteva applicarsi la disciplina prevista dal codice all’articolo 809. Ricorreva così la parte attrice in Cassazione, deducendo che la Corte d’Appello aveva erroneamente escluso la donazione indiretta, in quanto – riportando alcune sentenze della Cassazione – la differenza tra donazione diretta ed indiretta non sarebbe consistita nella diversità dell’effetto, ma piuttosto nel mezzo: che nella donazione indiretta è un atto che pur attuando il fine stesso dell’atto impiegato (in questo caso la compravendita), realizza comunque una liberalità, e che a tal fine è sufficiente uno schema negoziale avente causa diversa e non necessariamente una pluralità di atti collegati per realizzare il fine di liberalità. La Cassazione ha rigettato tali ricostruzioni in quanto il negozio indiretto si realizza quando le parti pervengono ad una determinata finalità ulteriore, rispetto all’atto posto in essere, attraverso la combinazione di più atti REALI E NON SIMULATI, collegati tra essi. In tale modo le parti raggiungono in maniera INDIRETTA la finalità liberale, grazie al concorso di tutte le forme giuridiche impiegate, che però corrispondono al vero. Quindi Tribunale e Corte d’Appello hanno ritenuto che nel caso in questione si trattasse di una vendita simulata, con conseguenti limiti in ordine all’ammissione della prova per testi, posto che il contratto che le parti EFFETTIVAMENTE volevano porre in essere era la donazione e non la compravendita. La Cassazione ha sostenuto dunque le motivazioni del giudice di merito escludendo in particolare, che possa esserci coerenza logica tra il richiamo alla simulazione relativa (compravendita dissimulante la donazione) e negozio misto con donazione: secondo l’orientamento della Suprema Corte (vedi anche 19601/2004) il negozio misto ha una causa onerosa, ma il negozio commutativo adottato viene dai contraenti posto realmente in essere in modo che si raggiunga in via solamente indiretta una finalità diversa ed ULTERIORE, consistente appunto nell’arricchimento per puro spirito di liberalità. La vendita ad un prezzo inferiore a quello effettivo non realizza di per sé stessa un negozio misto con donazione, essendo necessario non solo una sproporzione ma anche che questa sia SIGNIFICATIVA e che inoltre la parte alienante sia consapevole di questa sproporzione e l’abbia accettata per il fine di arricchire la controparte. Di conseguenza questa interpretazione pone a carico della parte attrice l’onere della prova circa l’elemento della sproporzione e della sua piena consapevolezza con annessa volontà di accettazione . Quanto all’ipotesi della vendita mista a donazione peraltro, parte della dottrina (Gatt) ritiene si tratti di una costruzione giurisprudenziale errata , in luogo della quale invece, sarebbe più opportuno parlare di un contratto oneroso che produce un effetto liberale, nel quale quindi si manifesta sì un’attribuzione diretta tra due soggetti con arricchimento di uno dei due, ma pur sempre per una causa diversa dallo spirito di liberalità, causa coincidente con quella tipica della vendita. La dicitura corretta sarebbe dunque quella di “vendita ad effetti liberali” giacché non è coerentemente ipotizzabile una “mistione” di cause dei due negozi. Ancora è possibile citare, sempre in tema di donazioni indirette, la complessa questione della donazione di denaro finalizzata all’acquisto di immobili. Nella fattispecie citiamo la sentenza n. 21494 del 10.10.2014 in cui la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza o meno di una donazione indiretta, effettuata tramite l’acquisto di un immobile con danaro del padre, e le relative conseguenze in tema di comunione legale dei beni, ha confermato il seguente principio: in caso di donazione indiretta effettuata tramite il trasferimento di denaro da padre a figlio, per evitare che il bene acquistato costituisca oggetto della comunione legale, non è sufficiente la dichiarazione resa dal padre e riportata nell’atto notarile di compravendita, con cui lo stesso riferisce che il pagamento del prezzo viene effettuato con danaro somministrato da costui in favore del figlio. Ha inoltre affermato che:

  1. Allorquando il donante elargisca del danaro al fine di permettere al donatario di procedere con l’acquisto di un determinato bene immobile- e quindi la disposizione sia specificamente finalizzata al suddetto acquisto-, si ha una donazione indiretta dell’immobile e non del danaro impiegato per il suo acquisto;
  2. Per la validità delle donazioni indirette di un immobile non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità. Ciò in quanto l’art. 809 c.c. nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art 769 c.c., non richiama l’art. 782 che prescrive l’atto pubblico per la donazione;
  3. I beni acquisiti per effetto di una donazione indiretta devono ritenersi compresi nelle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 179 c.c., comma I, lett. b, ove è previsto che non costituiscono oggetto di comunione legale e sono beni personali del coniuge quelli acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
  4. Nella donazione indiretta, in particolare in quella realizzata attraverso l’acquisto del bene da parte di un soggetto con danaro che altro soggetto mette a sua disposizione con spirito di liberalità, l’attribuzione gratuita viene attuata con negozio oneroso che corrisponde alla reale intenzione delle parti che lo pongono in essere, e non è quindi simulato.

Tale negozio produce l’effetto che gli è proprio, ed anche quello indiretto che è l’arricchimento del destinatario, sicché non trovano applicazione per la donazione indiretta i limiti di prova testimoniale, in materia di contratti e simulazione. Ne consegue che allorquando un soggetto agisca in giudizio per richiedere la divisione di un bene acquistato dal coniuge, è onere della parte convenuta che eccepisca l’esistenza di una donazione indiretta, quello di provare i fatti su cui si fonda l’eccezione ex art. 2697 c .c. Nel caso di specie la Corte Suprema si è espressa sull’assolvimento dell’onere probatorio della convenuta, la quale sosteneva che l’immobile acquistato in costanza di matrimonio non rientrava nella comunione legale perché oggetto di atto liberalità effettuato dal padre. Al riguardo, i giudici di legittimità hanno ritenuto non sufficiente la dichiarazione resa dal padre, in sede di stipula dell’atto di compravendita, secondo cui il pagamento del prezzo veniva effettuato con denaro da questi somministrato alla figlia, a titolo di donazione manuale, per consentirle di procedere all’acquisto dell’immobile. Ciò in quanto il pagamento non era stato effettuato al momento della stipula del rogito, ma in data anteriore; di talché la relativa attestazione del notaio-che riportava la dichiarazione del donante-non è munita di fede privilegiata, in quanto relativa a fatti non avvenuti in presenza dello stesso pubblico ufficiale. Per questo motivo, non essendo state prodotte in sede di giudizio altre fonti di prova, la Corte ha ritenuto che non vi era modo di mostrare la veridicità estrinseca della dichiarazione resa nell’atto di compravendita, né della rispondenza.


-Atti unilaterali, ove si fa riferimento a tutti gli atti di rinunzia di diritti, di credito, di proprietà o diritti reali su cosa altrui, posti in essere ad opera dei titolari degli stessi, con cui si realizzi una dismissione di una situazione giuridica soggettiva, per puro spirito di arricchimento della parte che rivesta il ruolo di beneficiaria della donazione indiretta. É quel che riguarda, ad esempio, la Remissione del debito, configurabile quale atto di rinunzia da parte del creditore del rispettivo diritto di credito di cui sia titolare. Esso si prospetta, quindi, come atto abdicativo unilaterale, cui consegue un arricchimento del debitore, e l’automatica estinzione del rapporto obbligatorio. Analoga situazione si riscontra negli atti unilaterali di rinunzia ai diritti reali che, a norma dell’art.1350, potrà avvenire attraverso la forma scritta e realizzare, secondo una diffusa impostazione della dottrina, un tipico schema di donazione indiretta. Ad esempio tra gli atti di rinunzia ai diritti reali, si individua il caso dell’atto abdicativo della quota di un bene di comproprietà sul quale la Cassazione si è recentemente pronunciata nella sentenza del 25.02.2015 n.3819, stabilendo la natura di donazione indiretta della rinunzia abdicativa di una quota di comproprietà in favore degli altri comunisti. Nella fattispecie una donna aveva nel 1968 abdicato, mediante scrittura privata, alla sua quota di partecipazione su un fabbricato in favore dei suoi 5 figli. Nello stesso atto 4 di questi figli rinunciavano a loro volta alle quote di comproprietà su un altro fondo rustico, in favore del quinto fratello. Quest’ultimo, quindi, rinunciava alla sua quota di partecipazione (accresciuta per effetto della rinunzia della madre) in favore dei suoi quattro fratelli. Con altra scrittura privata dello stesso anno 1968 i quattro figli rimasti comproprietari del fabbricato, cui avevano rinunciato il quinto fratello e la madre, procedono alla suddivisione. Nel ’96, due figli di uno di questi quattro fratelli, chiedono e ottengono dalla Pretura il riconoscimento dell’usucapione quindicennale del fabbricato rurale, ma non del fondo sul quale esso sorge (ciò in forza della l. 346/1976 che consente l’usucapione quindicennale dei fondi rustici con annessi fabbricati siti in comuni montani). Due fratelli rimasti in vita citano dunque in giudizio i due nipoti, chiedendo non solo di verificare l’autenticità delle sottoscrizioni contenute nelle due scritture private concluse negli anni ‘60, ma anche la dichiarazione di esclusiva proprietà delle porzioni di fabbricato rispettivamente assegnate loro 30 anni prima. I due nipoti si costituivano in giudizio ed eccepivano la nullità: dell’atto di rinuncia della nonna alla propria quota di comproprietà del fabbricato in favore dei figli, trattandosi di una donazione non effettuata con atto pubblico; della rinuncia dello zio (quel quinto figlio che aveva rinunciato a sua volta alla sua quota per ottenere in cambio l’esclusiva proprietà del fondo rustico), trattandosi di cessione della quota a lui pervenuta in donazione dalla madre ma non ancora accettata. Il tribunale dichiarava autentiche le sottoscrizioni. Quindi i due nipoti impugnavano in appello. La Corte d’appello di Roma ha quindi affermato, rigettando il gravame, che la rinuncia di uno dei comproprietari effettuata a favore di tutti gli altri comproprietari non richiede l’atto pubblico, trattandosi di una donazione indiretta, ossia di una liberalità realizzata ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto ex articolo 782, ma soltanto la forma scritta, venendo in considerazione la rinuncia alla quota di un bene immobile. Avverso la sentenza di appello i due nipoti propongono ancora ricorso per Cassazione e col primo motivo i ricorrenti deducono che la rinuncia operata dalla nonna nella prima scrittura privata del 1968 costituirebbe una donazione diretta ex articolo 782. E in conseguenza di ciò è da considerarsi nulla per difetto del requisito di forma. Secondo la Cassazione la censura è infondata. Costituisce donazione indiretta la rinuncia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è infatti di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l’acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l’eliminazione dello stato di compressione in cui l’interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell’appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesto per quest’ultimo. Per fare un altro esempio di atti unilaterali, si ricordi infine l’adempimento del terzo, altrettanto inquadrabile nell’alveo della donazione indiretta, laddove appaia animato da un intento solutorio del debito altrui, al punto tale da realizzare in egual misura un arricchimento senza corrispettivo nella sfera giuridica patrimoniale del debitore.


-Atti a carattere non negoziale, come la costruzione o seminagione su suolo altrui fatta con intento di liberalità; o la cosciente voluta astensione di chi potrebbe interrompere in suo favore il corso dell’altrui usucapione.

liberalità d'uso


Un’altra categoria rientrante nell’ambito degli atti di liberalità, diversa dalle donazioni, riguarda le Liberalità d’uso (ex art.770, comma 2, c.c.). Esse rappresentano negozi posti in essere come consapevole adeguamento del disponente agli usi e costumi sociali in occasione di servizi resi, a causa di determinati rapporti o circostanze. Si pensi ai donativi fatti dai fornitori nelle ricorrenze festive; alla mancia che viene data a chi non avrebbe titolo per un compenso; ai doni che si usano fare nel periodo natalizio. Il movente che determina tali atti, secondo la consuetudine sociale, assume un rilievo che prevale sull’animus donandi che pure vi si accompagna: il disponente, adeguandosi agli usi, appare mosso da un prevalente animus solvendi. Essi dunque, pur configurandosi come negozi a titolo gratuito, divergono dalle donazioni a causa dell’assenza dell’elemento soggettivo (spirito di liberalità), poiché tali liberalità vengono effettuate in conformità agli usi e costumi sociali, motivo per cui, ai sensi dell’art.770 c.c., non subiscono l’applicazione delle conseguenze proprie delle donazioni, non richiedono la forma pubblica, non sono revocabili per ingratitudine o sopravvenienza di figli, né se ne terrà conto rispetto alla futura successione del donante. La qualificazione giuridica di un’elargizione come liberalità effettuata in conformità agli usi ex art. 770, comma 2 c.c., deve risultare, quindi, non solo dalla potenzialità economica del donante, ma anche in relazione alle condizioni sociali in cui si svolge la sua vita sociale, oltre che dal concreto accertamento dell’ animus solvendi, consistente nell’equivalenza economica tra servizi resi e liberalità ed, infine, dall’ effettiva corrispondenza agli usi, intesi come costumi sociali e familiari. Tali elementi emergono chiaramente in due sentenze: la prima, del 18 Giugno 2008, n. 16550, in cui il giudice di merito aveva qualificato secondo gli usi l’elargizione fatta dal donante prima di morire alla convivente more uxorio, consistente in un giroconto per acquisto titoli per 64 milioni di lire e quadri d’autore. La Corte di Cassazione cassò con rinvio tale decisione, poiché non era stata accertata e motivata l’esistenza delle condizioni qualificanti la liberalità d’uso; la seconda, la n. 51 del 2010, avente ad oggetto la cessione a titolo gratuito di un bene immobile di elevato valore in favore di una persona che per anni aveva lavorato all’interno di un’impresa commerciale al momento del suo ritiro dall’attività lavorativa, nella quale la Corte escluse che tale atto potesse configurarsi quale liberalità d’uso, ex art. 770, comma 2 c.c., affermando piuttosto che esso rappresentasse un’ autentica donazione remuneratoria ( ex art. 770, comma 1 c.c.). La liberalità d’uso, infatti, postula sia la sua effettuazione a fronte di particolari servigi apprezzati dal disponente, sia un ragionevole nesso di correlazione e proporzionalità fra servizi resi e valore del cespite donato, elemento questo che manca nei fatti di causa, così come la natura di “uso” della liberalità in questione, nel senso che la famiglia delle disponenti (nel caso di specie l’atto era stato disposto da tre sorelle, uniche azioniste della società per la quale la beneficiata aveva prestato la sua attività) non si era caratterizzata in passato per tali forme di liberalità nei confronti di soggetti “altri” che pure avevano collaborato nel loro interesse.


É importante distinguere tra atto gratuito, atto di liberalità e donazione.

Tale distinzione si mostra possibile volgendo una particolare attenzione all’elemento della causa, requisito essenziale di ogni contratto (art.1325).

Risulta pacifico asserire che la causa della donazione risieda nella liberalità; non può invece dirsi che, nell’ambito dell’atto gratuito, la liberalità possa sostituirsi come causa, e che la forma solenne richiesta sia di per sé sufficiente a rendere valida l’attribuzione gratuita di un bene. Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui un contraente trasferisca all’altro la proprietà di un bene immateriale di ingente valore, ma il contratto non preveda alcun corrispettivo al trasferimento. Non è vendita poiché manca di prezzo, né può essere donazione poiché l’alienante non dichiara di voler donare e perché tra i due contraenti intercorrono rapporti solo commerciali, pertanto non è configurabile uno spirito di liberalità. Si prospetta, in tal caso, un contratto atipico di trasferimento gratuito, nullo per mancanza di causa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. È qui evidente la funzione di protezione del contraente debole, che il requisito della causa assolve. L’atto gratuito è quindi caratterizzato da un elemento fondamentale: la natura patrimoniale dell’interesse che il disponente mira a soddisfare. Così ad esempio la remissione del debito fatta dal socio alla società non è atto di liberalità perché il socio ha un interesse patrimoniale a ridurre i debiti della propria società; la fideiussione prestata dalla società controllante a favore della controllata mira a soddisfare un interesse patrimoniale della prima e non è, pertanto, atto di liberalità. Questo elemento consente di distinguere gli atti gratuiti dalla categoria degli atti di liberalità in generale. Il concetto di liberalità, invece, esprime l’assenza di costrizione, giuridica o morale, in chi, senza corrispettivo, dispone a favore di altri di un proprio diritto o si obbliga nei suoi confronti ad una prestazione, quindi senza alcun interesse patrimoniale da parte del disponente.


Uno degli aspetti fondamentali delle donazioni indirette infine, è quello relativo all’esperimento dei rimedi pratici dei legittimari che da esse possa discendere, argomento sul quale ci si interroga di frequente, allo scopo di evitare che un atteggiamento eccessivamente elastico possa provocare un’inadeguata dilatazione applicativa del novero di tali strumenti di tutela, anche quando ciò sarebbe invece assolutamente da escludere. Potrebbero addirittura sorgere, in casi confusi, dubbi sul tipo della donazione effettuata dal de cuius, sull’oggetto di essa e conseguentemente sull’oggetto della corrispondente collazione. Che cosa succederebbe in tali casi? Per comprendere meglio quanto appena affermato, facciamo riferimento alla pronunzia della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11035 del 20 maggio 2014, rispetto alla quale il quesito che emerge da una nota alla sopracitata pronuncia è il seguente: nel caso di liberalità indiretta realizzata dall’ascendente finalizzata a far acquistare al discendente un bene immobile, nella divisione ereditaria, il discendente è obbligato alla collazione del valore dell’immobile acquistato oppure del denaro impiegato dall’ascendente per realizzare l’acquisto immobiliare in favore del discendente? Nel caso specifico della sentenza n. 11035 del 20 maggio 2014, un padre, che aveva già compiuto durante la sua vita una lunga serie di donazioni indirette in favore dei figli,acquistando con denaro proprio immobili (terreni ecc.) ed intestandoli poi ai suoi discendenti, aveva questa volta non solo intestato alle figlie un terreno, ma anche stipulato un contratto d’appalto in favore delle figlie, finalizzato alla costruzione di un fabbricato, il cui costo veniva a sua volta, sempre sostenuto dal suo stesso denaro, allo scopo di assecondare il suo interesse di beneficiare le figlie. La Corte d’Appello aveva escluso che la collazione potesse avere ad oggetto il fabbricato in quanto lo stesso sarebbe divenuto oggetto della proprietà delle figlie in virtù del principio dell’accessione. La liberalità, secondo la Corte d’Appello sarebbe stata ravvisabile con riferimento non al fabbricato, bensì al corrispettivo contrattualmente dovuto per l’appalto. La Corte di Cassazione ha invece completamente decostruito la tesi del giudizio precedente, affermando che “in tema di donazione indiretta, con riguardo alla vicenda dell’edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato a figli (a seguito di una precedente donazione indiretta), il bene donato può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato- senza che a ciò sia d’ostacolo l’operatività dei principi sull’acquisto per accessione-, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l’impiego del denaro per fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perseguito dal genitore donante.” Come di evince dalla decisione, secondo la Cassazione, è essenziale che si faccia riferimento “all’interesse a donare dello stipulante” ed “all’effetto ultimo voluto dal disponente”, per ricostruire in termini sostanziali la volontà delle parti, con la possibilità, in questo specifico caso, di ravvisare un programma negoziale perseguito dal genitore disponente, finalizzato all’impiego del denaro per donare alle discendenti il fabbricato che può essere idoneamente reputato quale oggetto di una donazione indiretta e dunque della collazione, nell’ambito della divisione ereditaria. Dall’attenta analisi emerge infatti un chiaro intento dell’ascendente di realizzare una donazione indiretta alle figlie attraverso l’accollo dei costi dell’appalto con il proprio denaro, in modo tale da realizzare mediante tale espediente negoziale, una donazione indiretta dell’edificio in favore delle discendenti. La presente sentenza pertanto, nella parte in cui si fa carico di andare ben oltre l’apparente schema di una donazione diretta del corrispettivo dovuto per l’appalto, e di ricostruire e valorizzare l’effettiva volontà delle parti , facilmente collocarsi nel filone creato dalla recente giurisprudenza sulla CAUSA IN CONCRETO DEL CONTRATTO.
In seguito a queste osservazioni fitte di riferimenti pratici, è opportuno concludere che la realtà magmatica delle donazioni indirette risulta ormai incontestabile e pienamente tangibile dal punto di vista delle relazioni tra privati, probabilmente maggiormente stimolati all'utilizzo di negozi che differiscano dalla donazione, (gravata da scomodi vincoli formalistici) e che meglio riescano a rispondere, diversamente da quest'ultima, ad esigenze di speditezza, praticità e celerità. Difficile non reputare condivisibili scelte del genere che si prospettano, legittimamente , in un contesto ordinamentale all'interno del quale si respira una generale diffidenza nei riguardi di atti conclusi per puro intento di arricchire altri soggetti, mediante uno spirito di liberalità. L'imprescindibile attenzione del legislatore verso l'incentivo dello scambio all'interno dell'economia e degli atti a titolo oneroso, ha infatti comportato un'enfatizzazione della forma dell'atto pubblico quale elemento in grado di assolvere ad una funzione suppletiva in quei contratti, come le donazioni, nei quali tale scambio come rapporto di prestazione/controprestazione risulti assente, quasi come se la rigidità formalistica debba fungere da strumento di controllo dell'intento del donante, orientato stranamente ad un impoverimento del proprio patrimonio, al solo fine di arricchire quello altrui. Ma la forma dell'atto pubblico, si sa, irrigidisce di parecchio le relazioni soggettive, così da far sorgere inevitabilmente l'esigenza tra i privati di ricorrere a tipologie di atti diversi, finalmente inquadrabili in una categoria indipendente: le donazioni indirette. La categoria si costruisce sulla base del profilo effettuale, consistente nell'arricchimento del beneficiario di tali atti, effetto che rileva a prescindere dalla causa tipica del singolo negozio posto in essere (la causa infatti va pur sempre configurata in modo oggettivo, scevra da riferimenti soggettivi) e che rappresenterà, altresì, il parametro di riferimento per l'interprete, sul quale poter plasmare l'individuazione dei rimedi spettanti ai legittimari ai sensi dell'art. 809 del codice civile. Solo ed esclusivamente in tale verso sarà possibile risolvere ogni singola ipotesi sulla base di un'accurata indagine normativa e fattuale, anche alla luce dell'art. 12 delle preleggi che impone un'interpretazione risultante dal significato delle parole e dalla connessione di esse, oltre che dall'intenzione del legislatore. Tutto, in altre parole, ferme restando le disposizioni normative esistenti, sarà rimesso all’abilità interpretativa del giudice che dovrà, attentamente e lucidamente, farsi spazio in una complessa ed intricata realtà negoziale allo scopo di riconoscere la più congrua e garantistica disciplina giuridica applicabile al singolo caso concreto.

 

 

 

 

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