Consiglio di Stato, sez. V 27/07/2011 n. 4502 -
L'atto, con il quale il Presidente della Giunta regionale nomina un assessore, non costituisce atto politico, per esso intendendosi l'atto espressione della libertà (politica) riconosciuta dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e, quindi, liberi nella scelta dei fini, ma atto di alta amministrazione che, seppure espressione di ampia discrezionalità, è comunque soggetto, ex art. 113 cost., al sindacato giurisdizionale.
Se, sinteticamente, gli atti politici costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001, n. 340) e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge (cfr. Cass., S. U., 13 novembre 2000, n. 170), non può certo riconoscersi natura di atto politico alla nomina degli assessori, a maggior ragione dove lo Statuto ponga un vincolo, che ne costituisce parametro di legittimità, con riguardo al rispetto dell'equilibrata composizione dei due sessi.

 


 


FATTO
Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. I, con la sentenza n. 1985 del 7 aprile 2011, ha accolto il ricorso per l'annullamento del D.P.G.R.C. n. 136 del 16 luglio 2010, che, preso atto delle dimissioni irrevocabili del dott. Sica, ha nominato nella Giunta regionale il dott. Amendolara, lasciando inalterato l'evidente disequilibrio tra i sessi nella composizione della Giunta Regionale della Regione Campania.
Il TAR ha ritenuto fondato il ricorso nei limiti dell'interesse della ricorrente stessa, la quale, non essendo portatrice esponenziale dell'interesse diffuso dei cittadini di sesso femminile all'esatta osservanza della disposizione statutaria e legittimandosi all'azione soltanto in qualità di possibile aspirante all'incarico, opera unicamente a tutela del proprio interesse personale a poter concorrere alla nomina ad assessore regionale in quota femminile: pertanto, sempre secondo il TAR, l'annullamento delle nomine di tutti gli assessori (ancorché salva quella dell'esponente di sesso femminile) non sarebbe proporzionato all'interesse azionato, che è soddisfatto anche sostituendo uno solo degli assessori di sesso maschile, purché si valuti in concreto la nominabilità alla carica della interessata.
Nel merito, il TAR ha ritenuto patentemente violato l'art. 46, comma 3, dello Statuto campano che stabilisce che "il Presidente della Giunta regionale nomina, nel pieno rispetto del principio di una equilibrata presenza di donne ed uomini, i componenti la Giunta". La norma, ha aggiunto il TAR, è organica ad un intero quadro di disposizioni volto a riconoscere, garantire, valorizzare e promuovere l'uguaglianza tra i sessi.
In particolare, sostiene il TAR, tale norma si pone in armonia e agisce, quindi, da completamento a quanto disposto al riguardo dalla legge regionale 27 marzo 2009, n. 4 (legge elettorale campana), che all'art. 4, comma 3, consente agli elettori campani di esprimere nell'elezione del Consiglio Regionale due preferenze anziché una, purché per candidati di sesso diverso, pena l'annullamento della seconda preferenza, disposizione che la Corte costituzionale (sent. n. 4 del 2010) ha ritenuto legittima, poiché allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali: la legge elettorale campana, che introduce la "preferenza di genere", costituisce una misura promozionale di riequilibrio delle presenze dei due sessi in ambito politico con riferimento alla composizione del Consiglio Regionale; il citato art. 46, comma 3, dello Statuto si sostanzia in una azione positiva di riequilibrio in ambito politico delle presenze dei due sessi con riferimento, invece, alla composizione della Giunta Regionale.
Parte appellante contesta la decisione del TAR sotto vari profili: per quanto concerne la sussistenza della legittimazione attiva della ricorrente; circa la natura politica discrezionale e fiduciaria dell'atto di nomina dei componenti della Giunta regionale; per quanto riguarda l'erronea interpretazione dell'art. 46, comma 3, dello Statuto e dell'art. 51 Cost., richiamando sia la giurisprudenza amministrativa (TAR Lombardia, Milano, sent. n. 354/2011), sia la giurisprudenza costituzionale (in particolare le sentenze: n. 422 del 1995; n. 49 del 2003, dopo la legge costituzionale n. 2 del 2001; n. 4 del 2010, già citata, sulla legge Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4, ove la Consulta ha affermato che la norma regionale avrebbe semplicemente introdotto una misura promozionale compatibile con il quadro costituzionale).
Si costituiva parte appellata chiedendo il rigetto dell'appello e proponendo appello incidentale al fine di far valere la legittimazione dell'appellata con una latitudine più ampia di quella riconosciuta dall'appellata decisione del giudice di prime cure.
All'udienza pubblica del 12 luglio 2011 la causa veniva trattenuta in decisione.


DIRITTO
1.Ritiene questo Collegio, sotto il profilo della legittimazione ad agire, contestata sia dall'appellante principale che, sotto diversa forma e a diversi fini, da quello incidentale, che preliminarmente occorre chiarire che il diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende ad un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione.
Condizioni soggettive per agire in giudizio sono, pertanto, la legittimazione processuale (cd. legittimazione ad agire) e l'interesse a ricorrere.
Nel giudizio impugnatorio, dunque, può affermarsi che la prima (legittimazione ad agire) spetta a colui che afferma di essere titolare della situazione giuridica sostanziale di cui lamenta l'ingiusta lesione per effetto del provvedimento amministrativo.
La seconda (interesse al ricorso) consiste nel vantaggio pratico e concreto che può derivare al ricorrente dall'accoglimento dell'impugnativa, dovendosi postulare che l'atto impugnato abbia prodotto in via diretta una lesione attuale della posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio.
Se nessun dubbio, nella specie, sorge per ciò che riguarda l'interesse al ricorso, ed infatti nessun tipo di censura è stata elaborata con riguardo a questo specifico profilo, anche in considerazione del fatto che la stessa sentenza impugnata ben identifica l'interesse (che è strumentale a perimetrare l'effetto della decisione), interesse che coincide con la necessaria valutazione in concreto della nominabilità alla carica della ricorrente, maggiori perplessità ha destato, tra i litiganti, la questione della legittimazione ad agire, vale a dire, come già specificato, della titolarità della situazione giuridica sostanziale di cui si lamenta l'ingiusta lesione per effetto del provvedimento gravato.
Il Collegio ritiene di dover premettere che la legittimazione ad agire è una qualità giuridica che si connette all'attribuzione di una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela e che può anche derivare dalla precostituzione di uno specifico titolo di legittimazione, come accade nel caso di specie.
In sintesi, e salvo quanto si dirà più approfonditamente nel prosieguo, si deve concordare nella sostanza con l'assunto del primo giudice, che ha ravvisato un titolo di legittimazione al ricorso nella circostanza specifica, e pertinente alla sola ricorrente, dunque in questo senso differenziata, della presentazione, da parte della ricorrente stessa, dotata di titoli oggettivamente equiparabili al candidato che è stato scelto come assessore con il Decreto annullato in primo grado, di un proprio curriculum, depositato al fine specifico di ottenere una valutazione circa la sua candidatura ad assessore regionale.
Se ordinariamente tale circostanza non costituirebbe un titolo di legittimazione ad impugnare la scelta ampiamente discrezionale di nomina degli assessori della Giunta, nel caso di specie lo diventa poiché, per esplicita previsione dello Statuto regionale (previsione sicuramente non programmatica, come meglio si dirà oltre), è stato posto un vincolo specifico e stringente a tale scelta discrezionale, vincolo che consiste nel garantire un'equilibrata presenza di donne ed uomini nei componenti la Giunta. Equilibrata presenza che, pur nell'ovvia impossibilità materiale e giuridica di osservare cogentemente quote rigide predeterminate, non è palesemente riscontrabile nella composizione della Giunta regionale campana.
Infatti, qualsiasi significato giuridico si voglia attribuire all'espressione "equilibrata presenza di donne ed uomini nei componenti la Giunta", i più immediati criteri della logica rendono persuasi che tale equilibrata presenza non sussiste in radice in una Giunta che è composta da undici uomini e da una donna, come nella situazione di base da cui ha avuto origine la controversia in esame.
Dunque, in presenza di una composizione di Giunta palesemente contrastante con il dato normativo contenuto nello Statuto (e, dunque, per tale motivo, illegittima), la presentazione di un curriculum di un cittadino elettore, che aspiri alla carica di assessore e che abbia oggettivamente le caratteristiche di cultura e preparazione tecnica necessaria e sufficiente per rivestire tale delicato incarico e che sia, in particolare, di sesso femminile, evidenzia, oltre all'interesse differenziato, di cui si è detto, anche l'interesse meritevole di tutela, poiché il Presidente della Giunta, qualora la propria Giunta non assicuri, come nella specie, il rispetto della norma statutaria che impone l'anzidetta equilibrata presenza di donne ed uomini nei componenti la Giunta, non può nominare un assessore di sesso maschile, in particolare se vi sia altro candidato di sesso femminile che abbia competenze equiparabili, come nella specie.
Si deve ricordare, al riguardo, che l'art. 50, comma 3, dello Statuto della Regione stabilisce che "I componenti la Giunta regionale possono essere nominati anche al di fuori dei componenti il Consiglio fra cittadini in possesso dei requisiti di eleggibilità e di compatibilità alla carica di consigliere regionale": dunque, non vi sono limitazioni soggettive che sotto questo profilo possano essere opposte alla ricorrente in primo grado.
Opinando diversamente, come sembra fare la Regione Campania nell'appello proposto, si dovrebbe concludere, contrariamente al principio di effettività giuridica, che la norma dello Statuto regionale campano, che impone il rispetto di un principio essenziale di civiltà giuridica, promuovendo con un'azione positiva la tutela di un diritto fondamentale (che ha dignità costituzionale) come la parità uomodonna, non sulla carta, ma nella realtà sociale e, segnatamente, politica, potrebbe essere arbitrariamente disattesa, poiché non vi sarebbe nessuno strumento giuridico (per carenza di legittimazione, come sostiene la Regione Campania) per censurarne la violazione.
In questo modo, si perpetuerebbe il costume, improponibile prima sul piano culturale e civile che su quello giuridico, di affermare grandi e importanti principi di civiltà avanzata per poi disattenderli puntualmente in fase applicativa.
Si deve peraltro aggiungere che il concetto di legittimazione ad agire non è predeterminato dal legislatore ma è ed è stato quasi sempre (salvi specifici ma limitatissimi interventi legislativi) frutto dell'attività ermeneutica del giudice.
Proprio a tale proposito non si può fare a meno di ricordare che la recente sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4, lo conferma pur nel diverso settore degli appalti pubblici, laddove (par. 40 della decisione) esplicitamente asserisce che "al di fuori delle ipotesi tassativamente enucleate dalla giurisprudenza, deve restare fermo il principio secondo il quale la legittimazione al ricorso, nelle controversie riguardanti l'affidamento dei contratti pubblici, spetti esclusivamente ai soggetti partecipanti alla gara".
Astraendo dal mondo degli appalti pubblici, tale affermazione sta a significare che la legittimazione al ricorso, che ordinariamente non è definita dal legislatore, è un concetto la cui enucleazione compete esclusivamente al giudice, salvi, ovviamente, i casi specifici, ma rari, ove il legislatore interviene (nella sentenza citata si parla, infatti, di "ipotesi tassativamente enucleate dalla giurisprudenza"); enucleazione che deve avvenire sulla scorta di dati normativi e di argomentazioni giuridiche e che trova, quali unici limiti, da un lato, la non implausibilità della soluzione prescelta (limite comune a tutta l'attività interpretativa di spettanza del giudice); dall'altro, la giustificazione della soluzione prescelta sul piano delle tutele di situazioni giuridiche soggettive particolarmente rilevanti nel nostro ordinamento, come dimostra tutta l'evoluzione della giurisprudenza amministrativa in punto di tutela degli interessi collettivi, evoluzione che in questa sede appare ultroneo ricordare, vista la sua ampia notorietà tra gli studiosi del diritto.
Nel caso di specie, la necessità di tutelare il diritto fondamentale, avente dignità costituzionale, della parità uomodonna nella realtà politica è una giustificazione a tutela di una situazione giuridica che non ha, evidentemente, bisogno di altre spiegazioni.
Il problema della legittimazione ad agire, si deve aggiungere, appare oggi cruciale per gli studiosi del diritto processuale amministrativo.
In effetti, anche la migliore dottrina ha riscontrato che, attualmente, il problema è quello di rendere giustiziabili posizioni giuridiche sempre più standardizzate e sempre meno connotate di "individualismo" (almeno in riferimento al profilo del pregiudizio subito), ampliando nei limiti del possibile i confini dell'azione processuale ed estendendola, se non a tutti i cittadini, ad una pluralità di soggetti accomunati da un'identica situazione di danno (la classe), o identificati dall'appartenenza ad un particolare contesto ambientale (es. lo stesso mercato) o fisico/spaziale (es. la vicinanza a un bene ambientale compromesso o, nel caso di specie, il sesso).

La tendenza giurisprudenziale testé indicata non pare avere esaurito la propria capacità propulsiva, e mostra di poter allargare gli ambiti della sua operatività anche sotto l'impulso del diritto dell'Unione europea.
Basta limitarsi ad analizzare, con brevità di intenti, soltanto due tipologie di situazioni che manifestano una particolare pregnanza assiologica: in primo luogo, in relazione a quell'orientamento, delineatosi inizialmente nelle pronunce di alcuni TAR, e in parte recepito anche dal Consiglio di Stato (es., Consiglio di Stato, sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760), che, proprio con riguardo alla tutela degli interessi superindividuali, accoglie un nuovo criterio di riconoscimento della legittimazione ad agire, individuandolo nel principio di sussidiarietà orizzontale, ormai costituzionalizzato nell'art. 118, comma 4, Cost.: la piena valorizzazione di tale principio, vale a dire dell'apporto diretto dei singoli e delle loro formazioni sociali nella gestione diretta di attività amministrative (in modo che l'intervento pubblico assuma appunto carattere sussidiario rispetto alla loro iniziativa), impone che esso debba trovare immediata applicazione anche in sede processuale al fine di garantire, a quegli stessi soggetti cui viene rimessa l'iniziativa sul piano sostanziale, la più ampia possibilità di sindacare in sede giurisdizionale la funzione amministrativa, per ottenere un controllo sociale diffuso anche dopo il suo esercizio da parte dei poteri pubblici: per questa via si riconosce così la legittimazione ad agire in giudizio a comitati spontanei di cittadini, benché privi di significativi livelli di rappresentatività e organizzazione.
Del resto, sul piano scientifico, è stato messo in evidenza che, nel modello della cittadinanza societaria elaborato da un noto studioso delle scienze sociali, il "principale" (privato/cittadino) si qualifica non tanto come soggetto titolare di sfere di libertà da garantire e di pretese da soddisfare nei confronti dell'agente (pubblico/amministrazione), ma come vero cooperatore di quest'ultimo nella cura di interessi che non sono più oggetto di suo monopolio.
In sintesi, sembra allora che l'azione pubblica delle democrazie postmoderne tenda ad assumere come misuratore obiettivo della propria azione "il linguaggio universale degli interessi", capace di costituire un ordine cd. catallattico (o spontaneo), un coordinamento tra soggetti in cui tutti sono indotti a contribuire ai bisogni degli altri senza curarsi di loro e persino senza conoscerli.
E proprio questa esigenza di una "tutela di genere" impone al giurista di coniugare le diversità degli interessi con un che di universale, facendosi carico di esprimere un "ordine minimo della necessità" che può esser imposto per la tutela di un bene superiore.
Come ha affermato un noto studioso di scienze del diritto amministrativo "se nell'arena globale esiste una molteplicità sbalorditiva di vari regimi di diritto privato (diritti delle possibilità) che in gran parte corrispondono ad una massiccia ritirata di regimi di governo e di diritto pubblico, si registra anche un'opposta tendenza in cui il diritto globale tende ad una ricomposizione unitaria", per rispondere a imperativi e bisogni umani la cui tutela appare intrisa di universalità e non può essere limitata da confini di sorta.
Lasciando da parte le suggestioni culturali che, come detto, evidenziano un'insopprimibile tendenza all'allargamento delle situazione legittimanti a tutela del cittadino ai fini di un sempre più corretto e migliore esercizio della funzione amministrativa, si può ritornare al thema decidendum e, in specifico, alla questione della legittimazione ad agire, che è la prima ad essere stata affrontata dall'appellante e che è stata riproposta anche nell'appello incidentale.


1.1.Con riferimento all'appello incidentale, proprio la circostanza che la ricorrente in primo grado abbia agito per un proprio interesse specifico e non per un interesse collettivo (per il quale avrebbero dovuto agire, invece, associazioni femminili aventi nello statuto il fine di proteggere le condizioni di parità uomodonna), rende corretta la decisione del TAR, poiché l'accoglimento del ricorso in primo grado, proprio in ragione della legittimazione ad agire e dell'interesse ad agire di cui si è appena argomentato, deve essere limitato alla sola posizione della ricorrente.
La ricorrente, infatti, non è portatrice esponenziale dell'interesse diffuso dei cittadini di sesso femminile (come avrebbero potuto esserlo alcune associazioni, come detto), legittimandosi all'azione soltanto in qualità di possibile aspirante all'incarico a tutela del proprio interesse personale a poter concorrere alla nomina ad assessore regionale in quota femminile, tenendo presente che in presenza di una violazione già perpetrata dell'art. 46 dello Statuto regionale (principio di equilibrata presenza), come già detto, il Presidente della Regione non può, pena la violazione di legge, sostituire un assessore con un componente di sesso maschile, pur potendo prendere in considerazione tutte le candidature di sesso femminile che ritenga opportuno, purché, ovviamente, esse siano all'altezza, per preparazione professionale e curriculum, del delicato incarico (ed è questo, come detto, il titolo di legittimazione della ricorrente).
L'interesse azionato è, dunque, soddisfatto anche sostituendo uno solo degli assessori di sesso maschile, purché si valuti in concreto la nominabilità alla carica dell'interessata; tale interesse è stato leso dal D.P.G.R.C. n. 136 del 16 luglio 2010, con cui il Presidente della Giunta regionale, preso atto delle dimissioni dell'assessore Ernesto Sica, ha reintegrato il numero degli assessori, sostituendo il dimissionario con un altro componente di sesso maschile, così reiterando il disequilibrio consegnato dalla prima tornata di investiture, anziché operare nella direzione del riequilibrio della composizione dell'organo.
Conseguentemente, in accoglimento del ricorso, l'annullamento è stato correttamente limitato a quest'ultimo provvedimento.
Pertanto, riassuntivamente, il primo motivo di appello deve essere rigettato, così come deve essere rigettato il motivo di appello incidentale.


2. Il secondo motivo di appello, concernente l'inammissibilità del ricorso originario, si basa sul rilievo che l'atto di nomina dell'incarico di assessore sarebbe inquadrabile tra gli atti politici e perciò non impugnabile davanti al giudice amministrativo alla stregua degli artt. 31 T.U. sul Consiglio di Stato di cui al R. D. 26 giugno 1924, n. 1054 e. 7 C.P.A., in base ai quali il ricorso giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell'esercizio del potere politico.
Come è noto, il dibattito sulla natura e sulle caratteristiche dell'atto politico nasce in Francia nella prima metà del XIX, per poi migrare in Italia nella discussione parlamentare del disegno di legge Crispi relativo all'istituzione della IV sez. del Consiglio di Stato.
Dagli atti preparatori emerge l'idea che l'attività del Governo non risulti vincolata al controllo giurisdizionale in quanto gli atti politici "essendo essenzialmente diretti a tutelare, sì nell'indirizzo degli affari interni che nelle relazioni coi potentati stranieri, gli interessi e le necessità dello Stato, hanno con gli interessi privati dei rapporti meramente occasionali o non ne hanno alcuno". Inoltre, essendo "carente un interesse privato direttamente offeso, manca la materia del giudizio, manca la persona cui possa riconoscersi l'azione per promuoverlo".
In questa relazione, dall'attualità sconcertante, sono chiaramente enunciati tutti i nodi problematici dell'atto politico che da quel momento in poi saranno oggetto di attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Infatti gli enunciati della legge Crispi saranno in seguito recepiti integralmente prima nel R.D. 638/1907, poi nel T.U. 1054/1924, infine nell'art. 7 CPA vigente.
Dalla lettura della disposizione in esame si evince la necessità di chiarire il concetto di atto politico, allo scopo sia di delimitare l'ambito applicativo della norma, sia di tracciare una linea di confine con gli atti amministrativi in genere e in particolare con quelli di alta amministrazione.
La dottrina europea (in particolare quella francese e tedesca), sin dai primi del Novecento, ha elaborato varie teorie dell'atto politico, ciascuna delle quali pone l'accento su alcuni requisiti del medesimo, sulla voluntas legis, sulla discrezionalità politica, ecc.,senza però fornirne una nozione completa ed unitaria.
Si tratta di concezioni sicuramente pregevoli, anche se alle volte frammentarie e parziali, che hanno avuto il merito di influenzare, con spunti interessanti, il pensiero giuridico italiano nell'approccio alla tematica.
Infatti, nei primi anni Trenta del XX sec., si afferma in Italia la teoria della causa oggettiva che si fonda sull'idea che l'atto politico assolva alla funzione di cura dell'interesse generale che si compendia nei supremi ed unitari interessi statali, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri.
A riscuotere i maggiori successi e le adesioni della dottrina è successivamente la tesi che attribuisce natura politica agli atti in presenza di due elementi, l'uno oggettivo, consistente nell'esercizio di un potere politico di rilievo costituzionale e libero nel fine, l'altro soggettivo caratterizzato dalla provenienza dell'atto da un organo costituzionale o di governo.
Questa scuola di pensiero considera politici gli atti emanati da un organo statale sulla base di particolari ragioni di opportunità: pertanto, non essendo riconducibili a parametri giuridici, tali atti non sono sindacabili dal giudice in quanto vanno considerati legittimi ex se.
I supremi interessi della cosa pubblica plasmerebbero, dunque, l'atto ponendolo su di un piano superiore alla legge, di talché il giudice, sfornito di criteri di riferimento, verrebbe a trovarsi nella impossibilità di vagliarne la legittimità.
L'atto politico, adottato da organi politici o di governo, è libero nel fine e, a differenza degli atti amministrativi, realizza interessi generali e non settoriali.
Prima del 1948 la categoria degli atti politici trovava, in via generale, il proprio fondamento essenzialmente nella "ragion di Stato", indipendentemente dai motivi specifici che in concreto ne caratterizzavano l'adozione.
Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la discussione intorno all'atto politico si arricchisce del problema della compatibilità del medesimo con i principi di indefettibilità, pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale dei destinatari.
La giurisprudenza, infatti, nel corso degli anni, ha cercato di circoscrivere il più possibile la categoria dell'atto politico alla luce dell'art. 113 Cost., ampliando al contempo l'area degli atti di alta amministrazione.

La distinzione tra i due tipi di atti è, alle volte, assai complessa in quanto entrambi possono caratterizzarsi sia per un elevato tasso di politicitàfiduciarietà, sia per il fatto di essere espressione di una funzione lato sensu amministrativa.
Nell'individuazione dei caratteri essenziali dell'atto politico, può dirsi oggi pacifica la tesi basata sui due requisiti, l'uno soggettivo della provenienza da un organo costituzionale, l'altro oggettivo della natura generale degli interessi perseguiti e della libertà nel fine dell'organo politico.
Queste caratteristiche fanno sì che l'atto politico sia connaturato allo supreme funzioni di uno Stato democratico nell'ambito, ad esempio, delle relazioni internazionali o nei rapporti tra organi costituzionali, le quali per esplicarsi al meglio necessitano di una sfera di libertà.
Per preservare l'indipendenza e l'autonomia degli organi politicocostituzionali da indebite ingerenze dei giudici, l'ordinamento considera gli atti politici insindacabili sia in ambito giustiziale che in sede giurisdizionale, essendo gli stessi suscettibili di un controllo meramente politico.
Ma il vero argumentum principis a sostegno della insindacabilità sembra essere la mancanza di parametri giuridici alla stregua dei quali poter verificare gli atti politici. Le uniche limitazioni cui l'atto politico soggiace sono costituite dall'osservanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato della Corte costituzionale di legittimità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o in sede di conflitto di attribuzione su qualsivoglia atto lesivo di competenze costituzionalmente garantite.
Esaminando poi l'atto politico dal versante processuale, risulta evidente come un problema di tutela del cittadino, in linea di massima, non si ponga in quanto l'atto politico ben difficilmente si presenta immediatamente lesivo di un interesse individuale.
Il potere politico si esprime, infatti, attraverso direttive a carattere generale che non incidono immediatamente sulle posizione giuridiche dei destinatari, i quali pertanto non risultano titolari di un interesse ad agire in sede giurisdizionale.

La protezione dell'ordinamento è accordata al cittadino sul successivo ed eventuale atto esecutivo dell'atto politico, il quale, ove lesivo, potrà essere sì censurato dinanzi ad un giudice.

Vi è una serie di atti della cui politicità, con annessa insindacabilità, nessuno dubita. A titolo esemplificativo si possono enunciare: l
a legge e gli atti aventi forza di legge;
la nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali;
gli atti di concessione di grazia e di commutazione delle pene;
le pronunce della Corte costituzionale;
l'elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del C. s. m.;
la presentazione di disegni di legge;
lo scioglimento delle Camere;
la promulgazione delle leggi;
la nomina dei ministri;
la firma dei trattati;
le mozione di fiducia e di sfiducia delle Camere al Governo.
E" chiaro che tali fattispecie, afferendo ai rapporti internazionali o alle relazioni politiche tra organi costituzionali, investono interessi e funzioni prioritari della Repubblica, con la conseguenza che un assoggettamento degli atti che li esprimono al controllo giurisdizionale minerebbe alla base le stesse dinamiche democratiche e l'operatività dei pubblici poteri.
Tra quelli sopra citati, la legge simboleggia l'atto politico per eccellenza.
Le leggi (e gli atti ad esse equiparati),
oltre ad avere tutti i requisiti della politicità, offrono, in più, la garanzia di essere suscettibili di una duplicità di controlli: il sindacato di legittimità della Corte costituzionale (art. 134 Cost.) e il referendum abrogativo (art. 75 Cost.).
In virtù dei requisiti propri dell'atto politico, la legge si presenta come atto insindacabile dinanzi ad un giudice (salvo per profili di incostituzionalità dinanzi alla Consulta). Da ciò discende, come corollario, l'impossibilità per un giudice di accertarne profili di illegittimità/illiceità e di dichiarare una responsabilità del Parlamento (e quindi dello Stato) foriera di condanne risarcitorie, salvo il caso di violazione del diritto dell'Unione europea.

Al contrario, l'attività di alta amministrazione può definirsi come l'attività amministrativa immediatamente esecutiva dell'indirizzo politico e, pertanto, essa si caratterizza come anello di congiunzione tra la fase della programmazione politica e l'attività di gestione amministrativa.
La funzione di alta amministrazione presenta mobili frontiere a causa di criteri identificativi spesso equivoci, per cui non sempre risulta agevole individuare gli atti che ne sono espressione.
Sottile appare, infatti, la linea di demarcazione con gli atti politici. La questione qualificatoria riveste certamente un ruolo decisivo ai fini del regime applicabile e della possibilità per il cittadino di attivare o meno la tutela giurisdizionale.
Prima di affrontare i nodi gordiani sul tappeto, è necessario illustrare, sia pur sommariamente, i caratteri e la disciplina dell'atto di alta amministrazione, nel tentativo di segnarne i confini con l'atto politico.
L'atto di alta amministrazione, di regola adottato dall'organo politico in un clima di "fiduciarietà", è il primo momento attuativo, anche se per linee generali, dell'indirizzo politico a livello amministrativo.
A differenza dell'atto politico, esso esprime una potestas vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità.
Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi.
Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali.
La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo.
Attività politica e attività di alta amministrazione sono intrecciate e non sempre distinguibili, essendo entrambe connotate da un alto tasso di fiduciarietà.
A fronte di alcuni atti considerati senza dubbio di alta amministrazione, ve ne sono tanti altri "borderline", vicini alla categoria degli atti politici e da questi difficilmente distinguibili.
La giurisprudenza ha tentato di restringere la categoria dell'atto politico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209), conferendo, al contempo, i caratteri dell'alta amministrazione agli atti ove non vengono in rilevo supremi ed unitari compiti statali, bensì interessi puntuali e contingenti. L'ampliamento dell'area dell'alta amministrazione è volto ad estendere il numero degli atti sindacabili dal giudice e dunque a garantire la tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive coinvolte.
La casistica degli ultimi anni, comunque, è ricca di fattispecie complesse che hanno sollevato nuovi e antichi problemi, ipotesi tra loro diverse e con distinte peculiarità ma che rinvengono un minimo comun denominatore nelle difficoltà qualificatorie dell'atto, a causa dell'assenza di univoci criteri selettivi idonei a distinguere l'atto politico dall'atto di alta amministrazione.
Se, sinteticamente, gli atti politici costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001, n. 340) e sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge (cfr. Cass., S. U., 13 novembre 2000, n. 170), non può certo riconoscersi natura di atto politico alla nomina degli assessori, a maggior ragione dove lo Statuto ponga un vincolo, che ne costituisce parametro di legittimità, con riguardo al rispetto dell'equilibrata composizione dei due sessi.
Infatti, pur nell'ambito di una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, è stato ribadito che il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti dell'Amministrazione pubblica (art. 113 Cost.) ha portata generale e coinvolge, in linea di principio, tutte le Amministrazioni anche di rango elevato e di rilievo costituzionale. Per cui le deroghe a simile principio debbono essere ancorate a norme di carattere costituzionale. Tanto è vero che nel nostro attuale sistema di garanzie persino gli atti legislativi del Parlamento nazionale e delle Regioni sono soggetti ad un sindacato giurisdizionale, sia pure circoscritto e riservato ad un Giudice di particolare natura quale la Corte costituzionale.
Non è quindi soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del Giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell'ambito di altri poteri, il che certo non si verifica nel caso di specie.
L'atto di nomina di un assessore regionale, da un lato, non è libero nella scelta dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del Presidente della Regione nell'amministrazione della Regione stessa, e dall'altro è sottoposto a criteri strettamente giuridici come quello citato dell'art. 46, comma 3, dello Statuto campano.
Di conseguenza, deve ritenersene ammissibile l'impugnativa davanti al giudice amministrativo, in quanto posto in essere da un'autorità amministrativa e nell'esercizio di un potere amministrativo, sia pure ampiamente discrezionale.
Tale motivo di appello deve, dunque, essere rigettato.
3. Nel merito, vi è poco da aggiungere e può essere difficilmente revocato in dubbio quanto statuito dal TAR.
Il canone della "equilibrata" presenza, che fungerebbe da limite alla pur ampia discrezionalità presidenziale nelle designazioni assessorili, non può dirsi soddisfatto con la nomina di un unico componente di sesso femminile, attesa la palese violazione dell'art. 46, comma 3, dello Statuto della Regione Campania.
Si tratta di una regola chiara, inequivocabile, che, come tale, deve essere rispettata, non soltanto per ragioni legate al concetto di cogenza giuridica, ma per insuperabili logiche di coerenza e di sistematicità, che impongono a tutti i soggetti dell'ordinamento, ma in special modo alle Istituzioni tutte, un rigoroso rispetto delle norme che essi stessi contribuiscono a porre ad applicare, essendo le Istituzioni l'architrave dell'ordinamento giuridico e, in ultima analisi, della convivenza civile e pacifica di tutti i cittadini.
L'appellante deduce che tale norma avrebbe esclusivamente valenza programmatica.
Occorre, a questo punto, chiarire che, in origine, l'utilizzo del concetto di "norme programmatiche" (concetto riferito, in particolare, alla nostra Costituzione) era strumentale a negare l'efficacia giuridica delle disposizioni in cui esse erano contenute; al contrario, la dottrina e la successiva evoluzione giurisprudenziale hanno dimostrato che quelle norme dovevano considerarsi pur sempre precettive nei riguardi della successiva attività degli organi dello Stato, nel senso dell'esser pur sempre produttive di invalidità delle leggi successive con esse contrastanti.
Il concetto di norma programmatica non è un indice negativo di qualificazione della disposizione, una sorta di degradazione di determinate norme rispetto a tutte le altre che detta qualifica, invece, non consentono.
In un primo senso più generale della parola, può già, infatti, dirsi della grande maggioranza delle norme del diritto positivo, ed anzitutto di quelle costituzionali, che esse sono anche programmatiche.
Ogni norma, infatti, che si atteggi funzionalmente come normaprincipiobase, cioè fondamento di una o più norme particolari subordinate è, senza dubbio, da questo punto di vista e in questo senso dell'espressione, anche programmatica: ciò si mostra nel modo più evidente nel caso dei cosiddetti principi generali, ossia di quelle norme che esplicano la funzione di principio rispetto ad una serie molto numerosa di norme particolari (o meno generali) e presentano perciò una maggiore relativa generalità nella loro strutturazione precettiva.
L'adozione di un principio generale implica e significa, infatti, l'adozione di una determinata linea di sviluppo dell'ordinamento giuridico dato, per quel che attiene a quell'ordine di rapporti cui il principio stesso si riferisce. Ed è appunto perché si presume, fino a che il contrario non risulti con certezza, che ogni principio sia poi svolto coerentemente dal legislatore o da chi, comunque, è tenuto ad attuare quel principio, quanto meno nel senso di una non contraddizione con la formazione ulteriore, che si suole giustamente affermare un'efficacia interpretativa spettante ai principi generali nei confronti delle norme subordinate disciplinanti le materie rispettive.
Qualora, invece, le norme subordinate offrano una resistenza insuperabile ad una tale interpretazione, vorrà dire che esse rappresentano delle statuizioni eccezionali, in deroga al principio, o addirittura, eventualmente, che esse implicano l'adozione di un nuovo, diverso, principio, tale da abrogare in tutto o in parte quello precedentemente posto.
Se, però, si tratti di norme derivanti da fonti di grado diverso, allora dovrà concludersi altrimenti, dando viceversa la prevalenza a quelle poste dalla fonte superiore: perciò, nel caso di princìpi enunciati in una legge costituzionale nei confronti di norme contrastanti formulate in una legge ordinaria, queste ultime, anteriori o successive, dovranno considerarsi illegittime per incostituzionalità. Ossia: il vincolo programmatico che sempre deriva dalle normeprincipio, si trasforma, nei rapporti tra fonti di diverso grado, in un vincolo propriamente obbligatorio.
Lo stesso può dirsi nel rapporto tra Statuto regionale e atto amministrativo: la violazione del principio base posto dallo Statuto (art. 46, cit.) da parte dell'atto amministrativo si trasforma nella violazione di un vincolo propriamente obbligatorio e diventa, dunque, fonte di illegittimità amministrativa.
Su questo piano, riconoscere che le normeprincipio hanno anche valore programmatico (che diventa, dunque, obbligatorio per il legislatore ordinario, quando le norme stesse siano contenute in una Costituzione di tipo rigido o in altre leggi formalmente costituzionali oppure obbligatorie per l'Amministrazione quando poste dalla legge o altri atti equiparati) non può rappresentare più di una finezza teorica, atta a spiegarci, se si vuole, la loro funzione di princìpi nella dinamica del sistema.
Le normeprincipio, delle quali si può dire che sono anche programmatiche, non vengono in tal modo caratterizzate e diversificate da ogni altra quanto alla loro efficacia: esse sono e restano direttamente e immediatamente regolatrici delle materie cui si riferiscono; hanno, secondo le regole comuni, efficacia abrogatrice delle norme anteriori contrastanti.
Sono, cioè, per dirla grossolanamente ma chiaramente, norme come tutte le altre; e come tutte le altre, più o meno generali che siano, concretamente applicabili alle situazioni e rapporti della vita reale che sono rivolte a disciplinare.
L'appellante richiama il concetto di norma programmatica ad altro fine, riferendosi, pare, alla distinzione delle norme programmatiche dalle altre, dette "immediatamente precettive" ed alludendo, pertanto, ad una particolare caratterizzazione della loro precettività.
Benché, come già argomentato, tutte le norme sono, per definizione, immediatamente precettive, la differenza tra quelle che si dicono propriamente programmatiche e le altre consiste soltanto nella speciale natura del precetto contenuto nelle prime, e quindi negli speciali effetti che ne derivano.
Esse, infatti, non disciplinano direttamente quelle date materie, cui tuttavia si riferiscono, ma disciplinano con efficacia immediata comportamenti statali, destinati a loro volta a incidere su dette materie, con gli scopi, nei modi e nel senso voluti dalla norma programmatica.
Non è certo questa la natura della norma controversa contenuta nello Statuto campano.
Tale norma si riferisce esplicitamente ed inequivocabilmente all'atto della nomina degli assessori e pone, dunque, un vincolo, sia pur elastico, ad un determinato potere spettante al Presidente della Regione.
Tale potere. si esprime con un atto che, come già detto, è di alta amministrazione: nell'enunciato normativo nessun elemento testuale autorizza a ritenere che la norma stessa costituisca un programma promozionale da attuare successivamente ad opera di organi regionali.
La norma è chiara: all'atto di nomina dell'assessore occorre rispettare un ben preciso principio, immediatamente precettivo; il mancato rispetto di tale principio comporta l'illegittimità della nomina: in claris non fit interpretatio.
Conclusivamente, alla luce del complesso delle argomentazioni svolte, sono infondati l'appello principale e quello incidentale, che devono essere rigettati, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.


P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),
definitivamente pronunciando sull'appello principale e su quello incidentale, li respinge.
Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 luglio 2011 con l'intervento dei magistrati:
Stefano Baccarini, Presidente
Francesca Quadri, Consigliere
Paolo Gi. Nicolò Lotti, Consigliere, Estensore
Doris Durante, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 27 LUG. 2011

 

 

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