Cass. Pen. Sez. II, 15/10/2009 (dep. 13/11/2009), n. 43347.
“Integra il reato di truffa contrattuale la negoziazione di contratti di swap laddove l’operazione risulti ad alto rischio e a basso rendimento, conclusa in contropartita diretta con l’intermediario, sicuramente speculativa, e non di copertura, caratterizzata da un rapporto rischio -rendimento perverso in quanto l’aspettativa di un rendimento, comunque modesto, risulti correlata ad una serie di circostanze che al contempo ne condizionavano l’elevatissima rischiosità, per cui nessun investitore, ove consapevole del rapporto rischio-rendimento sotteso all’operazione finanziaria, l’avrebbe conclusa. Nel caso in cui l’operazione, infatti, nonostante la sua improponibilità, sia stata ugualmente conclusa, ciò non può che essere avvenuto in seguito ad una mendace e dunque proponente informazione, idonea ad indurre in errore il malcapitato investitore, essendo evidente che, senza l’artifizio, il raggiro e l’induzione in errore circa il suo contenuto, la vittima avrebbe rifiutato la transazione.

Testo della sentenza:

IN FATTO
Il Tribunale di Milano, con sentenza in data 9/3/2005, in relazione ai reati di truffa aggravata, di foglio firmato in bianco e in scrittura privata e al reato di cui alla L. n. 1 del 1991, artt. 5, 10, 14 aggravato ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 2, contestati agli imputati in relazione ad operazioni finanziarie concluse, nell’anno 1992, per mezzo degli stessi, dipendenti delle banche interessate dalle operazioni, da privati o da piccoli e medi imprenditori, tramite le filiali del Credito Italiano di Legnano, Busto Arsizio e Abbiategrasso, assolveva, tra gli altri, C. E. da alcuni reati perché il fatto non sussiste, dichiarando non doversi procedere in relazione agli ulteriori reati ascrittigli ai capi b) b1) c) ed e), riqualificato il fatto ascritto sub b), inerente l’operazione in marchi tedeschi, da truffa tentata a consumata e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, perché gli stessi erano estinti per prescrizione. Assolveva, inoltre G. M., R. F. e R. L. dai reati rispettivamente loro ascritti perché il fatto non sussiste. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 27/2/2008, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, appellata dal Pubblico Ministero con riferimento alle posizioni degli imputati C. E., G. M., R. F. e R. L., dichiarava:
a) C. E. responsabile dei reati a lui contestati ai capi a), b), c), d),e) g) e m), riqualificato il fatto sub b) in truffa consumata e, quanto ai capi c) ed e), assorbita la truffa tentata in quella consumata;
b) R. F. responsabile dei reati contestati ai capi h9, i) m);
c) R. L. responsabile del reato di cui al capo l). Con la continuazione fra i reati a ciascuno ascritti, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5, riconosciuti ai medesimi le circostanze attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle residue aggravanti, condannava:
a) C. E. alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione e Euro 600 di multa;
b) R. F. alla pena di mesi nove di reclusione e Euro 400 di multa;
c) R. L. alla pena di mesi sei di reclusione e Euro 300 di multa.
Concedeva agli imputati i doppi benefici di legge.
Dichiarava non doversi procedere nei confronti di G. M., esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 5 riconosciute al medesimo le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle residue aggravanti, essendo i reati a lui ascritti ai capi f) e g) estinti per prescrizione, confermando nel resto la sentenza del Tribunale, i difensori dei predetti imputati proponevano ricorso per cassazione. C. E. e G. M. deducevano i seguenti motivi comuni:
a) nullità dell’ordinanza del 17 aprile 2003, pronunciata dal Tribunale, della lista testimoniale delle persone offese non ancora costituitesi quali parti civili;
b) nullità dell’ordinanza, emessa dalla Corte di appello di Milano in data 6 febbraio 2007, per violazione del principio processuale "tempus regit actum" e per violazione della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10;
c) violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1 in relazione all’art. 129 c.p.p., comma 2, art. 606 c.p.p. e art. 111 Cost., essendo stata devoluta, dal Pubblico Ministero appellante, la sola questione della omessa informativa ai clienti della banca della esistenza di un conflitto di interesse e violazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 606 c.p.p. e art. 111 Cost.. Il difensore di C. E., oltre ai primi tre motivi di ricorso comuni anche al G., deduceva i seguenti altri motivi:
d) violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 1 in relazione all’art. 129 c.p.p., comma 2, art. 606 c.p.p. e art. 111 Cost. avendo la Corte territoriale dichiarato la colpevolezza del prevenuto, applicando la prescrizione, senza tener conto della sussistenza dei presupposti per una assoluzione piena;
e) violazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1 e art. 158 c.p.p., comma 1 in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con richiesta di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite penali in considerazione della complessità e dell’importanza della questione relativa al momento rispetto al quale deve ritenersi "pendente in appello" il processo;
f) inosservanza erronea applicazione della legge penale con riferimento al combinato disposto degli artt. 157 e segg. e 640 c.p., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in ordine alla determinazione del "tempus commissi delicti" dei reati di

truffa aggravata contestati all’imputato e richiesta di assegnazione del presente ricorso alle Sezioni Unite penali in considerazione della complessità e dell’importanza della questione relativa all’epoca di consumazione del reato di truffa a consumazione prolungata;
g) nullità della sentenza in ordine alla declaratoria di responsabilità del C. in ordine ai reati di cui ai capi a) d) e g) per violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e) in ordine alla sussistenza dei requisiti del reato di truffa, con particolare riferimento all’elemento psicologico, in ordine alla prevedibilità o meno della svalutazione monetaria della lira;

h) nullità della sentenza con riferimento alla declaratoria di responsabilità dell’imputato in relazione al reato di cui al capo m) per violazione di legge, contraddittorietà, illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in ordine al delitto di cui alla L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 10, mancando il requisito della professionalità e della continuità della promozione finanziaria fuori sede da parte del prevenuto;

i) nullità del capo della impugnata sentenza in relazione alla sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 61 c.p., n. 7, art. 61 c.p., n. 8 e art. 61 c.p., n. 11, con riferimento ai capi a), d) e g) per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e);
l) nullità del capo dell’impugnata sentenza in relazione all’effettuato giudizio di equivalenza tra le circostanze aggravanti le attenuanti generiche con riferimento ai capi a), d) e g) per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e);

m) nullità del capo dell’impugnata sentenza relativo alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 62 c.p., n. 2., con riferimento al capo m), per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e);
n) nullità del capo dell’impugnata sentenza in relazione all’effettuato giudizio di equivalenza tra la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 2 e le attenuanti generiche con riferimento al capo m) per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e).

Il difensore del G., oltre ai primi tre motivi comuni anche al C., deduceva i seguenti ulteriori motivi:
a) nullità della sentenza in relazione alla declaratoria di estinzione del reato di cui al capo f) per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e) con riferimento al contratto oggetto del capo d’imputazione, all’analisi della normativa di settore e alla sussistenza del reato di truffa con particolare riguardo all’elemento psicologico e alla prevedibilità o meno della svalutazione monetaria della lira;
b) nullità della sentenza in relazione alla declaratoria di estinzione del reato di cui al capo g) per violazione di legge, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in ordine alla essenzialità della condotta del G. in relazione alle operazioni contestate, non essendo in alcun modo attribuibile allo stesso l’operazione posta in essere dalla signora B., in quanto già trasferito presso la filiale di Vigevano.
Il difensore di R. F. deduceva i seguenti motivi:
a) erronea applicazione della legge sostanziale per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1 in relazione all’art. 640 c.p. e alla L. n. 1 del 1991, in relazione all’interpretazione erronea in diritto, del contratto di swap e dell’abusivismo mobiliare e per un’interpretazione illogica sul comportamento delle parti;
b) violazione di legge in tema di momento consumativi del reato di truffa a formazione prolungata per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1 in relazione all’art. 640 c.p.;
il difensore di L. R. deduceva i seguenti motivi:
a) inosservanza erronea applicazione alla legge penale con riferimento all’art. 640 c.p. sulla ritenuto sussistenza degli artifizi e raggiri della truffa con riferimento alla riconducibilità del "domestic currency swap" nell’ambito della disciplina normativa della L. n. 1 del 1991 (cd. Legge SIM) nonché con riferimento alla violazione del principio della buona fede contrattuale, alla asserita prevedibilità del crollo della lira, al conflitto di interessi della banca, all’asserita natura "auto-evidente" della truffa e alla rilevata convergenza delle dichiarazioni delle persone offese ai fini della prova della sussistenza del reato. Deduceva anche la mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di cui al capo L), affermata con motivazione apparente e illogica in punto di adeguata giustificazione della reformatio in peius della sentenza assolutoria del giudice di primo grado;
b) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento al combinato disposto degli artt. 157 e segg. e 640 c.p., mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’individuazione del momento consumativo del reato di truffa e richiesta, in considerazione della complessità importanza della questione, di assegnazione del presente ricorso alle Sezioni Unite;
c) inosservanza, erronea applicazione della legge penale nonché mancanza o manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., nn. 8 e 11 e alla ritenuta equivalenza tra le circostanze aggravanti delle circostanze attenuanti generiche nonché con riferimento al diniego di conversione della pena detentiva pena pecuniaria.

Veniva stralciata la posizione di R. F. per l’omessa notifica ad uno dei difensori di fiducia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
In ordine logico vanno esaminate, preliminarmente, i motivi di ricorso di natura processuale.
1. Relativamente al primo motivo di ricorso, comune agli imputati G. e C., va rilevato che il Tribunale ha ammesso la costituzione di parte civile all’udienza del 25 marzo 2002, rilevando come tale circostanza rendesse superflua la notificazione della medesima alle parti, ex art. 78 c.p.p., comma 2, ratificando, implicitamente, il deposito della lista testi presentata in epoca antecedente ed avendo il Tribunale ammesso le relative prove solo all’udienza del 17 aprile 2003.
2. Anche il secondo motivo comune ai predetti imputati è infondato, non apparendo viziata l’ordinanza in data 6 febbraio 2007 di rinvio del processo, in attesa della motivazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 26/2007, avendo la Corte fatto buon uso del potere discrezionale ad essa riservato in ordine alla conduzione e svolgimento del processo.
In relazione alla censura relativa alla violazione del principio "tempus regit actum", con riferimento alla normativa vigente all’epoca dell’udienza rinviata, è agevole osservare che, comunque, il rapporto processuale non sarebbe stato definito, essendo suscettibile di ricorso per cassazione; quindi, anche se l’udienza fosse stata celebrata in data 6.2.2007 nessun concreto vantaggio avrebbe avuto l’imputato dalla celebrazione del processo in tale data, e avrebbe trovato, comunque, successivamente, applicazione la sentenza della Corte Costituzionale.
Anzi la Corte, disponendo il rinvio, ha dimostrato di avere governato i principi del giusto processo.
3. Relativamente alle questioni sottoposte dal Pubblico Ministero appellante all’attenzione della Corte di appello, con riferimento ai limiti dell’effetto devolutivo del gravame, oggetto di censura da parte degli imputati C. e G. (devoluzione della omessa informativa ai clienti della banca della esistenza di un conflitto di interesse) entrambi i motivi di ricorso sono infondati in quanto il Pubblico Ministero non ha censurato la sentenza impugnata relativamente alla sola omissione di informazione ai clienti della banca, ma anche sotto diverse e plurime doglianze, quali, a titolo esemplificativo: a) la valutazione parcellizzata del materiale probatorio; b) il mancato giusto rilievo attribuito all’identità di contenuto delle deposizioni delle persone offese; c) la mancata considerazione dell’identità del modus operandi degli imputati, del conflitto di interessi con la banca, della mancanza di esperienza dei clienti della banca in relazione alla tipologia di investimento prospettate.
Come appare evidente, le censure del pubblico ministero investono la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato e non sono limitate alla sola mancanza di informazioni da parte degli imputati ai clienti della banca.
4. Assorbenti degli ulteriori motivi di ricorso sono quelli relativi alla asserita erronea sussistenza del delitto di truffa e del relativo momento consumativo. Relativamente al profilo della sussistenza del delitto di truffa, affermato dalla Corte in relazione a tutti gli imputati ricorrenti è evidente che le censure proposte, pur investendo formalmente la motivazione del provvedimento impugnato o la conformità dello stesso ai presupposti giuridici che lo giustificano, in realtà si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. Tali censure sono pertanto improponibili, perché superano i limiti cognitivi di questa Suprema Corte, che, quale giudice di legittimità, deve far riferimento solo all’eventuale mancanza della motivazione o alla sua illogicità o contraddittorietà. (Si vedano fra le tante: C SU 12/12/1994, De Lorenzo, CEDI 99391; C 6 15/05/2003, P., GD 2003, n 45,93).
Va premesso che la modifica normativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di Cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. È perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di Cassazione di verificare la correttezza della motivazione. Infine il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività non essendo possibile da parte della Corte di Cassazione una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito. Nel caso in esame i Giudici, di merito hanno ampiamente motivato sulla sussistenza del delitto di truffa ascritto a tutti i ricorrenti. A titolo esemplificativo da Corte territoriale, con motivazione logica ed esente da censure, a seguito dell’esame dell’istruttoria svolta, ha accertato che vi era stata da parte degli imputati una mendace e dunque voluta informazione sulla rischiosità delle operazioni concluse, con missiva oggetto di specifica contestazione, in conclamata violazione del generale principio di buona fede negoziale, prima che degli specifici obblighi previsti dalla Legge SIM (pag. 25), evidenziando analiticamente le peculiarità e anomalie delle operazioni fatte concludere ai clienti della banca.
La Corte di merito ha rilevato come il volume del rischio, connesso alla struttura stessa delle operazioni, si moltiplicava per effetto di altri fattori, primo fra tutti la valuta prescelta, cioè il M. che era divisa forte a fronte di una lira molto debole.(pag - 25) Il guadagno del cliente dipendeva dall’apprezzamento della lira sul M., eventualità all’epoca, neanche prospettabile in

termini ragionevoli, attesi i rapporti di forza esistenti tra le due monete, mentre, al contrario, era prevedibile, in termini concreti, la diversa eventualità della svalutazione e, dunque di un deprezzamento della lira rispetto al M.. Il cliente avrebbe, quindi, subito perdite nel caso in cui il cambio a pronti lira - M. alla scadenza fosse stato superiore al predetto cambio al momento dell’erogazione, (pag. 28).

Trattavasi, quindi di operazione ad alto rischio e basso rendimento, patrocinata dalla stessa banca, sicuramente speculativa e non di copertura, caratterizzata da un rapporto rischio-rendimento a dir poco perverso in quanto l’aspettativa di un rendimento, comunque modesto era correlata ad una serie di circostanze che al contempo ne condizionavano l’elevatissima rischiosità.

La testimonianza resa dal professor B. conferma che, all’epoca, il rischio di svalutazione della lira rispetto al M. era concreto e tale da rendere altamente rischioso ogni affidamento al riguardo. La banca, inoltre, a seguito di ogni operazione, aveva un ritorno economico e, negoziando le anzidette operazioni in conto proprio, operava in conflitto di interesse con i clienti, nel senso che, se il cliente perdeva, la banca ne traeva un corrispondente utile, così come accertato dalla Consob nella sua relazione ispettiva e ribadita dal teste Angela.

Appare pertanto coerente e logica la valutazione della Corte di merito che ha affermato che la banca fosse pienamente consapevole del rapporto rischio-rendimento che caratterizzava tali operazioni, speculando al rialzo sul M. e lasciando che il cliente corresse il rischio della svalutazione della lira e della sua fuoriuscita dalla banda di oscillazione dello SME.
A fronte di richieste di operatori che chiedevano di acquistare marchi, speculando al ribasso sulla lira e al rialzo sul M., in previsione di una prossima svalutazione della moneta nazionale, la banca doveva trovare clienti che rappresentassero la contropartita di siffatte operazioni, elaborando l’operazione incriminata e proponendola a un certo tipo di clientela facoltosa. Rilevante, ai fini della conoscenza dello stato di rischiosità dell’operazione e della mancanza di informazione alla clientela è la valutazione della Corte che nessun cliente, ove fosse stato consapevole del rapporto rischio-rendimento, sotteso alle predette operazioni finanziarie, avrebbe concluso tali operazioni, essendo insensato affrontare rischi di perdite elevate, teoricamente illimitate con la sola aspettativa di magri guadagni, in quanto speculare in controtendenza al mercato, confidando nell’intervento risolutivo delle banche centrali, avrebbe avuto un senso solo a fronte di un’aspettativa di alto rendimento nel breve o brevissimo termine, aspettativa, invece, nella fattispecie, esclusa ab inizio.

Se il prodotto finanziario fosse stato ben compreso nella sua rischiosità, di certo non sarebbe mai stata acquistato dai clienti della banca, stante l’improponibilità nei confronti di qualsiasi investitore, come già evidenziato, di un’operazione che, a fronte di una prospettiva di modestissimi guadagni, comportava invece rischi di perdite molto elevate; inoltre è emerso che nessuna delle parti lese aveva effettuato studi specifici in materia economica e finanziaria o aveva alcuna esperienza di prodotti derivati "fuori mercato", ad alto rischio di perdite, utilizzati con finalità speculative e non di copertura. Inoltre, la svalutazione della lira e l’uscita dallo SME non erano, all’epoca, fatti imprevedibili, come affermato dal teste B., pur essendovi una condizione di stabilità del cambio. Trattavasi, come ben argomentato dalla Corte di merito, di una situazione precaria ed artificiosa, stante la totale divaricazione della stessa rispetto alla reale situazione economica sottostante definita di assoluto squilibrio, ovviamente a tutto sfavore della valuta nazionale, essendo la lira sopravvalutata, con una situazione di stabilità incongrua rispetto alla reale situazione economica, col rischio concreto ed immanente di una sua svalutazione, tanto da rendere altamente rischioso ogni affidamento al riguardo, pur tenendo conto dell’intervento delle banche centrali.

Va quindi, condivisa la valutazione della Corte di merito, logica e razionale che ritiene che il Credito Italiano, patrocinando, tramite il corso di Lesmo, l’operazione incriminata, fosse pienamente consapevole del rapporto rischio-rendimento che la caratterizzava e abbia operato nel proprio interesse, speculando al rialzo sul M. e lasciando che il cliente corresse i rischi della svalutazione della lira e della sua fuoriuscita dalla banda di oscillazione dello Sme. Per altro verso la Banca poteva avere il concreto e pressante interesse a compensare, nella gestione complessiva del rischio di cambio descritta dalla teste Angela Giorgio, le operazioni stipulate con clienti interessati a speculare, al contrario, sul ribasso della lira e il rialzo del M. (cfr testimonianza Brazzoli).

Quanto alle doglianze specifiche formulate dei singoli imputati, la Corte territoriale ha, con motivazione logica e coerente, individuato gli elementi di responsabilità nei confronti di ciascuno dei prevenuti.
Anche il G., all’epoca direttore della filiale di Legnano e il R., vicedirettore della medesima filiale, entrambi devono ritenersi essere stati a conoscenza, in base alle motivate, coerenti e logiche considerazioni della Corte territoriale, della natura speculativa e non di copertura delle operazioni, avendo partecipato al corso di Lesmo, ove erano state illustrate le caratteristiche speculative di tale operazione.

Lo stesso G. riconosce che la durata dell’operazione, fissata ad un anno, se da un lato era necessaria per fissare il cambio a termine convenzionale sopra la banda di oscillazione Sme (condizione imprescindibile per l’operazione), dall’altro lato rappresentava un fattore di amplificazione del rischio (pagg. 60 e 61 trascr. udienza 6.5.2004). Lo stesso era anche consapevole del fatto che l’ampiezza del capitale era un moltiplicatore del rischio (pagg. 79 e 80 trascr. udienza 6.5.2004), individuato dallo stesso imputato nella svalutazione (pag. 78 trascr. udienza 6.5.2004). Il G. non ignorava, peraltro, i costi (pag. 119 trascr. udienza 6.5.2004), i problemi e le difficoltà connesse alla chiusura anticipata dell’operazione con

controbilanciamento (pag. 121 trascr. udienza 6.5.2004).
Anche il C., al pari dei suoi coimputati, è stato ritenuto dalla Corte di merito, con motivazione coerente logica, consapevole delle caratteristiche del prodotto incriminato e della strategia sottesa alla sua commercializzazione.
Infatti, egli era un membro della direzione finanza a Bergamo (cfr dichiarazioni G., pag. 100, trascr. udienza 6.5.2004) e a livello di professionalità nel settore era equiparabile al R. (cfr dichiarazioni G., pag. 100 e 101, trascr. udienza 6.5.2004). Lo stesso G. dichiara che, quando C. era subentrato nella direzione della filiale di Legnano, vi era stato tra loro il passaggio di consegne, informando il C. che il prodotto era da offrire alla clientela (cfr dichiarazioni G., pag. 101, trascr. udienza 6.5.2004). Deve pertanto condividersi, stante la logicità del ragionamento probatorio della Corte di merito, che gli imputati appellati erano pienamente consapevoli delle insidie e criticità che caratterizzavano l’operazione, dell’anomalo rapporto rischio-rendimento che la contraddistingueva e delle ragioni per cui la dovevano offrire alla clientela, pur trattandosi di un prodotto di per sè invendibile, essendo a basso rendimento ed elevato rischio, come ben evidenziato dalla Corte di merito che ha ritenuto pertinente la definizione data dal PM appellante di truffa auto - evidente, nel senso che se l’operazione, nonostante la sua improponibilità, è stata conclusa, ciò non può che essere avvenuto in seguito ad una mendace e dunque proponente informazione idonea ad indurre in errore il malcapitato contraente, ritenendo, con un calzante paragone, che tale situazione non è diversa da quella che si verifica quando il truffatore di strada rifila alla vittima prescelta il classico "pacco", laddove è evidente che, senza l’artifizio, il raggiro e l’induzione in errore circa il suo contenuto, la vittima avrebbe rifiutato la transazione. Allo stesso modo gli imputati, consapevoli della alta rischiosità del prodotto, ma indotti alla vendita dalle indicate strategie aziendali di profitto e copertura (punto D2 della sentenza), hanno minimizzato il rischi proponendo l’operazione ai fiduciosi clienti come prodotto a basso rischio-basso rendimento realizzando la condotta idonea a configurare le truffe contestate, dovendosi ritenere pienamente credibili le concordi dichiarazioni delle parti offese, analiticamente riportate dalla Corte territoriale, da cui emerge che gli imputati hanno descritto l’operazione ai clienti della banca come un investimento tranquillo, diretto sono alla migliore clientela e che, a fronte di una modesta aspettativa di guadagno, presentava rischi limitati, essendo stati erroneamente descritti come rischi remoti quelli effettivamente prospettabili. Emerge altresì, come logicamente desunto dalla Corte in base alle testimonianze in atti, che proprio a causa di tale falsa rappresentazione, totalmente divaricata dalla realtà, le parti offese si erano indotti a concludere le operazioni loro sottoposte, in quanto giammai avrebbero sottoscritto il contratto se fossero state avvertite del rischio reale dell’operazione. La Corte territoriale evidenzia anche che le parti offese non avevano un’esperienza tale da poter comprendere il meccanismo dell’operazione e i rischi ad essa connessi, attesa l’improponibilità in termini assoluti di un investimento che, a fronte di una prospettiva di modestissimi guadagni, comportava rischi di perdite molto consistenti.
Inoltre nessuna delle parti lese aveva la benché minima esperienza di prodotti derivati "fuori mercato" ad alto rischio di perdite, utilizzati con finalità speculative e non di copertura e la circostanza che alcuni di essi fossero esportatori e avessero effettuato operazioni in valuta correlate all’operatività della loro azienda, non li rendeva certamente in grado di valutare i rischi connessi ad un’operazione del tutto diversa, mai in precedenza posta in essere.
La comunicazione falsa e fuorviante da parte di soggetti che, evidentemente, avevano fiducia nella banca e nei loro operatori, avendo affidato all’istituto la gestione dei loro risparmi, su cui si fondava, se non la sopravvivenza, il buon andamento delle loro imprese e, del resto, alla luce delle esperienze professionale, non si sarebbe certamente fatta attrarre da una "patacca", ove ne avessero compreso, se gli fosse stato prospettato, il grave vizio genetico delle operazioni concluse.
Come si vede si tratta, con evidenza, di questioni di merito sottratte all’esame di questa Corte. In buona sostanza i giudici di merito hanno ben motivato la rilevanza probatoria che hanno ritenuto di accordare alla situazione di fatto accertata, ritenendo, conformemente alla valutazione espressa dalla Corte di merito, l’esistenza degli elementi oggettivi è soggettivi per reati rispettivamente ascritti agli imputati.
Si tratta di una ricostruzione dei fatti, operata dalla sentenza, che si fonda su elementi concreti e si basa su una motivazione che appare logica e coerente. Si deve rimarcare che il sindacato di legittimità si limita al riscontro dell’esistenza di una motivazione che rispetti i canoni logici, verificando cioè che sussista una coordinazione logica tra le varie proposizioni della motivazione, senza alcuna possibilità di effettuare una diversa valutazione delle emergenze processuali, essendo limitati i vizi denunciabili, quanto alla motivazione, alla mancanza, alla manifesta illogicità o contraddittorietà risultante dal testo o da altri atti del processo. Ne consegue che le censure che vengono mosse nel ricorso, nei confronti di non condivise ricostruzioni dei fatti operate dai giudici di appello, non possono trovare spazio in questa sede, trattandosi di valutazioni di merito, fondate sull’apprezzamento di circostanze di fatto, peraltro alternative rispetto a quelle contenute nella gravata sentenza che, come si è detto, non appaiono affette da alcuna illogicità.
La coerenza e concretezza argomentativa della sentenza impugnata rendono improprie le censure sulle quali si articolano i relativi motivi di ricorso che vanno, quindi, ritenuti infondati.
5. Ulteriore motivo di ricorso comune agli imputati è l’individuazione del momento consumativo del delitto di truffa aggravata a seguito della vendita a clienti di prodotti derivati "atipia" ad alto rischio, come gli swap oggetto del presente giudizio.

L’elemento specifico di tale ipotesi criminosa è costituito dall’esistenza di un diretto rapporto causale tra gli artifici posti in essere dall’agente e la prestazione di un consenso viziato da parte dei clienti della banca, tratti in inganno dagli operatori dell’istituto.
In relazione all’operazione economica posta in essere dalle parti, non si verte, peraltro, in tema di reato permanente, ne’ di reato istantaneo ad effetti permanenti - ricostruzioni che postulano l’unitarietà della condotta dell’agente - bensì, secondo una giurisprudenza di questa Corte in via di consolidamento, di reato a consumazione prolungata: giacché il soggetto palesa la volontà, fin dall’inizio, di realizzare un evento destinato a durare nel tempo, quantomeno per tutta la durata annuale dei singoli contratti, (cfr Cass., sez. 2, 3 Marzo 2005, n. 11026).

L’interesse, quanto meno concorrente con quello della banca, degli imputati, va valutato "ex ante"; mentre il vantaggio richiede una verifica "ex post", potendosi distinguere un interesse "a monte" della banca ad una locupletazione - prefigurata nei suoi elementi fondamentali - in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato "ex ante" dall’agente. Trattandosi di reato "a consumazione prolungata", la condotta truffaldina perdura fino a quando non vengono a scadenza i singoli contratti, cessando in tale momento l’attività illecita, consolidandosi l’ingiusto profitto a favore del beneficiario.

Il delitto di truffa, nella forma cosiddetto contrattuale, non si consuma nel momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l’obbligazione della dazione di un bene economico, ma al momento in cui si realizza l’ingiusto profitto da parte dell’agente con la conseguente perdita economica da parte della persona offesa, (cfr, in una caso analogo, ma non omogeneo, Sez. 2, Sentenza n. 31044 del 11/07/2008 Ud. (dep. 24/07/2008) Rv. 240659, sez. 2 - 29.01.98, Stabile, CED. 209671; sez. 2 - 16.04.97, Tassinari, CED 207831).

È, tuttavia, anche necessario che il profitto dell’azione truffaldina entri nella sfera giuridica di disponibilità dell’agente, non essendo sufficiente che esso sia fuoriuscito da quella del soggetto passivo. (Sez. 5, Sentenza n. 14905 del 29/01/2009 Ud. (dep. 06/04/2009 ) Rv. 243608).
Nella specie, il momento consumativo della truffa coincide con quello della effettiva realizzazione dell’ingiusto profitto che va individuato nel termine di scadenza annuale delle singole operazioni, a seguito del quale si realizza il consolidamento, in termini economici, dell’operazione contrattuale, con l’inserimento della corrispondente partita di debito nel conto del cliente, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata a cui corrisponde il profitto ingiusto a favore della banca.

Con l’addebito delle passività i rapporti illegittimamente instaurati hanno avuto esecuzione, concretandosi l’offesa al patrimonio, avendo gli scoperti di conto corrente immediate conseguenze economico-patrimoniali negative quali, ad esempio, la natura compensativa delle passività dei successivi versamenti in conto e la difficoltà di ottenere nuovi affidamenti bancari. Inducono a tale considerazione l’indubbia valenza economico- patrimoniale insita nell’ operazione, quale componente del danno patrimoniale per i clienti della banca, in diretto rapporto di connessione causale con il dolo dei dipendenti della banca. La truffa contrattuale, sia a consumazione istantanea o prolungata, come nella fattispecie richiede, infatti, anche il requisito della "ingiustizia" del profitto, termine di qualificazione dell’evento riflettentesi nel dolo dell’agente, che, avendo natura di elemento normativo integrativo della fattispecie, va individuato aliunde in modo autonomo rispetto all’illiceità del fatto offensivo, essendo già frutto della scelta di repressione penale della condotta criminosa - mediante le altre indicazioni dell’ordinamento extrapenale. L’ingiusto profitto va ravvisato quando un vantaggio, un’utilità o un incremento patrimoniale (che, nei reati nei quali è previsto come elemento costitutivo anche il danno, rappresenta concettualmente sul versante del soggetto attivo l’aspetto speculare dell’arricchimento ingiusto, in una un’accezione economica - conseguito dall’autore a fronte del pregiudizio subito dalla vittima).

Occorre, quindi, verificare se le transazioni stipulate, successivamente alle scadenze contrattuali delle operazioni truffatine e dopo la conoscenza e consapevolezza della loro effettiva natura illecita, vadano considerate ai fini del momento consumativi del reato.
La Corte di merito ha dato risposta affermativa al quesito, affermando che in caso di truffa contrattuale, quando per effetto di artifizi e raggiri, taluno sia indotto ad assumere un’obbligazione, quale conseguenza del contratto originario truffaldino, il reato si consuma con l’ultimo esborso effettuato in adempimento di tale ultima obbligazione, ancorché non preordinata nell’originaria pattuizione, spostando in aventi il termine consumativi del reato, fino all’integrale pagamento del corrispettivo di dette transazioni in forza della sinallagmaticità dell’originario rapporto contrattuale, affermando che le parti offese che hanno definito la loro posizione debitoria con la banca, lo hanno fatto per evitare i maggiori danni conseguenti al protrarsi dell’inadempimento.

Eventuali dichiarazioni di riconoscimento del proprio debito e della legittimità dell’operato della banca e dei suoi funzionari, contenute nelle transazioni sottoscritte, sono state ritenute esclusivamente funzionali ad una definizione conciliativa, ritenuta in quel momento l’unica via di uscita da una situazione estremamente difficile.
Tale valutazione, contestata dagli appellati, non appare condivisibile.

Anche nella truffa a consumazione prolungata la coscienza e volontà degli effetti dell’azione devono essere presenti fin dall’inizio. Nel caso di specie, mentre non può essere esclusa l’eventualità di un frazionamento del corrispondente debito del

cliente, in esecuzione del medesimo contratto; fuoriesce dal momento consumativo del reato la stipula, alla scadenza del contratto fraudolentemente fatto sottoscrivere ai clienti della banca, di un nuovo e diverso contratto di transazione con l’istituto medesimo, frutto di una autonoma e consapevole scelta del cliente truffato, che, tuttavia, non incide sul momento consumativo della truffa che si è perfezionata con il consolidamento delle perdite nel conto corrente del cliente e del relativo profitto per la banca, non essendo individuabile in tali successivi contratti il prolungamento dell’originario progetto truffaldino.

Se la parte offesa, dopo la scoperta della condotta delittuosa, pone in essere ulteriori atti al fine di evitare oneri patrimoniali, connessi al reato quale, nella fattispecie, transazioni, asseritamente novative, intervenute tra le parti, dopo che le stesse hanno acquisito la consapevolezza di aver subito una truffa, tali atti non incidono sul momento consumativo del reato. Trattasi infatti, di contratti stipulati in piena libertà, con cui le parti hanno regolamentato, dopo la scadenza dei contratti di swap, con un nuovo rapporto, gli effetti degli originari contratti. Non è, infatti, controverso che le parti offese avessero già avuto contezza della illiceità dei contratti originari conclusi con la banca al momento della stipula della successiva transazione con l’istituto di credito, interrompendosi il collegamento causale tra la condotta ingannatoria e l’ulteriore obbligazione assunta con le singole transazioni.

La truffa contrattuale, come già evidenziato, si è consumata al momento della scadenza dei contratti di swap, con la contabilizzazione nel conto corrente dei singoli clienti delle perdite e con il corrispondente vantaggio per l’istituto di credito. Ciò che avviene dopo resta perciò condotta "post factum" senza elidere il dato storico del profitto già conseguito dall’ente. In tema di truffa contrattuale ad effetto prolungato, con riferimento all’inizio del termine di prescrizione, individuato il momento perfezionativo del reato con la scadenza dei singoli contratti di swap, deve escludersi, ove la situazione antigiuridica si protragga nel tempo a causa del perdurare della condotta omissiva dell’agente, che il momento consumativo del reato possa essere postergato, non essendo possibile che il soggetto agente possa compiere ulteriormente l’attività antigiuridica dopo la scadenza dei singoli contratti e, quindi, da tale momento inizia a decorrere il termine di prescrizione.

In ragione di tale prospettazione il momento consumativo dei singoli reati di truffa a consumazione prolungata individuati a carico dei prevenuti nelle rispettive imputazioni va fatto risalire al 1993 con conseguente declaratoria di prescrizione dei reati ad essi rispettivamente ascritti, maturata in epoca antecedente alla sentenza di primo grado.
Il delitto di truffa, contestato ai ricorrenti, si prescrive in 5 anni, prolungabili a 7 anni e sei mesi per effetto degli eventi interruttivi. Infatti, in forza della L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, al presente processo - già pendente presso questa Suprema Corte all’atto di entrata in vigore della nuova legge sulla prescrizione - si applicano i termini prescrizionali previsti dal vecchio art. 157 c.p.

Sul punto questo Supremo Collegio ha costantemente affermato il principio, condiviso dal Collegio, che in tema di prescrizione del reato, la disciplina transitoria prevista dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3 nella parte in cui esclude per i processi già pendenti l’applicabilità dei termini che risultino più brevi per effetto delle nuove disposizioni, va interpretata nel senso che l’esclusione investe tutte le disposizioni che comunque comportino una abbreviazione dei termini. (Sez. 3, Sentenza n. 15177 del 14/02/2007 Ud. - dep. 16/04/2007 - Rv. 236813).

Escludendo che ricorra una delle ipotesi di proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen., in forza delle corrette e condivise decisioni del giudice di merito in punto responsabilità dei prevenuti per il reato di cui all’art. 640 c.p., la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con riferimento agli imputati C. E., R. L., essendo i reati loro rispettivamente ascritti estinti per prescrizione. Deve essere, invece, confermata, la declaratoria della Corte di merito di estinzione dei reati ascritti a G. M. per prescrizione, decorrente dal 1995, con conseguente rigetto del ricorso dell’imputato.

Infatti la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per prescrizione del reato soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l’assoluta assenza della prova di colpevolezza o, per contro, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze. (Si vedano: Sez. 2, Sentenza n. 26008 del 18/05/2007 Ud. - dep. 05/07/2007 - Rv. 237263; Cass. Sez. 6 sent. n. 31463 del 8.6.2004 dep. 16.7.2004 rv 229275). Nella fattispecie, invece, sono stati ben evidenziati dalla Corte gli elementi di responsabilità a carico del prevenuto.

Va, quindi, rigettato il ricorso del G. che, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.
Tutti gli ulteriori motivi di ricorso rimangono assorbiti.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza nei confronti di C. E., R. L., per essere i reati loro rispettivamente ascritti estinti per prescrizione, rigettando, nel resto, i rispettivi ricorsi.
Rigetta il ricorso proposto da G. M. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2009.

 


 

 

»»»»»»»»»»  »»»»»»»»»»»»  »»»»»