VICENDE DELL'OBBLIGAZIONE

L’obbligazione normalmente si estingue con l’esecuzione della prestazione dovuta. In alcuni casi il regolare svolgimento del rapporto obbligatorio può essere pregiudicato da altre evenienze: inadempimento, casi di scissione tra adempimento dell’obbligo e attuazione della pretesa creditoria (adempimento del terzo, pagamento al creditore apparente, liberazione coattiva del debitore), prescrizione del credito che estingue l’obbligazione, ma risponde a logiche estranee alla sua struttura e alla sua disciplina, caducazione del titolo contrattuale per nullità, annullamento, rescissione, risoluzione, avveramento della condizione risolutiva, recesso.
Non mette fine al rapporto obbligatorio la morte di una delle parti del rapporto, perché credito e debito ricadono, come componenti del patrimonio, nella successione mortis causa del suo titolare. Un’eccezione è la morte del debitore di una prestazione infungibile: in tal caso l’estinzione dell’obbligazione è dovuta all’impossibilità sopravvenuta e non imputabile della prestazione.
Al di fuori di queste ipotesi modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento sono la novazione, la compensazione, la remissione, la confusione, l’impossibilità della prestazione non imputabile al debitore. Essi si distinguono in modi satisfattori e modi non satisfattori, a seconda che l’interesse del creditore trovi o non trovi attuazione.

L’adempimento dell’obbligazione

L’adempimento dell’obbligazione, ossia l’esecuzione della prestazione che ne costituisce l’oggetto, soddisfa l’interesse del creditore e conseguentemente estingue il rapporto obbligatorio, liberando il debitore. In questo caso l’adempimento opera in entrambi i lati, attivo e passivo, del rapporto.

In alcuni casi questa correlazione tra assolvimento dell’obbligo e soddisfacimento del diritto di credito viene meno: nel caso di offerta reale seguita da deposito, dove vi è adempimento, ma non soddisfacimento dell’interesse creditorio, e nel caso di adempimento del terzo dove il soddisfacimento del credito è slegato dall’assolvimento dell’obbligo.


Sulla natura giuridica dell’adempimento vi è stato un dibattito in dottrina: l’adempimento è stato ritenuto ora un fatto giuridico, ora un atto giuridico in senso stretto, ora un atto negoziale.


Secondo la tesi che ravvisa nell’adempimento un mero fatto giuridico, l’ordinamento giuridico riconoscerebbe al compimento della prestazione un effetto solutorio per il fatto stesso che la prestazione sia stata eseguita, prescindendo da qualsivoglia considerazione circa la volontarietà della condotta. Questa tesi sembra trovare conferma nell’art. 1191, ai sensi del quale è irrilevante che il debitore fosse incapace al momento in cui ha eseguito la prestazione.
Secondo la dottrina della natura negoziale dell’adempimento, il compimento della prestazione è un fatto neutro che assume un effetto solutorio solo quando è assistito da un animus solvendi: ad es. si è osservato che la dazione di una somma di denaro dal debitore al creditore non è necessariamente compiuta per estinguere l’obbligazione, potendo essere accompagnata da un intento donativo. Questa tesi è palesemente contraddetta dall’art. 1191, in quanto se l’adempimento avesse avuto natura negoziale sarebbe stata richiesta la capacità del debitore, in linea con quanto prescrivono gli artt. 1425 e 428 per i quali la capacità d’agire e la capacità naturale costituiscono requisiti di validità del contratto e di qualsiasi atto negoziale. Il problema dell’attitudine solutoria della prestazione è assorbito dalla preesistenza dell’obbligazione.
L’art. 1191, tuttavia, desta problemi, in quanto non specifica cosa debba intendersi per incapacità: si potrebbe ritenere che non rilevi l’incapacità d’agire, ma che rilevi l’incapacità naturale. Ciò renderebbe compatibile la disposizione con la tesi della natura di atto giuridico dell’adempimento.


In secondo luogo, occorre ricordare che in alcuni casi l’adempimento di un’obbligazione assume carattere negoziale: ad es. da un contratto preliminare sorge l’obbligo di concludere un contratto definitivo.
In realtà il dibattito sulla natura giuridica dell’adempimento è mal posto e confonde il piano dell’adempimento con il piano della prestazione: l’adempimento è un atto dovuto con il quale si dà attuazione ad una regola, la regola del rapporto preesistente; la prestazione, invece, può atteggiarsi in modi diversi, potendo consistere ora nella conclusione di un contratto (in esecuzione di un obbligo a contrarre preesistente), ora in un comportamento materiale (in un facere), ora in un contegno omissivo (in un non facere). Solo nel 1° caso troveranno applicazione le regole dettate dal codice in ordine alla capacità richiesta per la conclusione di un contratto. In conclusione l’adempimento dal punto di vista funzionale si configura come un atto dovuto, mentre dal punto di vista strutturale si articola in una pluralità di schemi operativi non sempre riconducibili alla categoria del fatto giuridico.


Ai sensi dell’art. 1190 c.c. detta una regola per l’ipotesi di incapacità del creditore, stabilendo che l’esecuzione della prestazione non libera il debitore se questi non prova che ciò che fu pagato è stato rivolto a vantaggio del creditore. Il vantaggio del creditore da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 1190 non va commisurato all’interesse di cui egli è portatore in quanto creditore, ma al modo in cui l’incapace abbia utilizzato la prestazione ricevuta (ad es. incapace che, usando impropriamente la somma ricevuta, abbia cagionato a sé un pregiudizio). L’accertamento richiesto al fine di riconoscere efficacia solutoria all’adempimento concerne una vicenda successiva allo stesso, estranea al rapporto obbligatorio e inerente alla sfera del soggetto incapace. Risulta controverso se la disposizione faccia riferimento alla sola incapacità legale o anche all’incapacità naturale: sembra preferibile la prima soluzione; diversamente non disponendo l’incapace naturale di un rappresentante legale, si precluderebbe al debitore la possibilità di adempiere. Secondo Di Majo nel caso di incapacità naturale del creditore l’inefficacia del pagamento potrebbe affermarsi analogicamente con quanto disposto dall’art. 428 solo nel caso in cui il debitore sia in mala fede.

Chi deve adempiere è sempre il debitore, anche se secondo l’articolo 1180 del c.c. anche un terzo può adempiere per lui, anche contro la volontà del creditore almenochè non si tratti di una prestazione infungibile (non sostituibile) che il creditore abbia un interesse a che la stessa venga eseguita personalmente dal debitore.
L’adempimento del terzo può essere legittimamente rifiutato dal creditore in caso di opposizione del debitore; tale opposizione autorizza il rifiuto dell’offerta, ma non è vincolante per il creditore, il quale può ricevere il pagamento.
Se il creditore rifiuta ingiustificatamente corre il rischio di non poter più pretendere la prestazione e di pagare i danni morali.
Il pagamento deve essere fatto al creditore o ad un suo rappresentante.
Per la piena efficacia del pagamento è richiesta la capacità del destinatario.
L’adempimento effettuato all’incapace non libera il debitore a meno che la prestazione non sia stata soddisfatta.

Secondo l’articolo 1189 del c.c. se il debitore effettua la prestazione ad un creditore apparente, vale a dire a favore di colui che in base a criteri obiettivi e a circostanze univoche appariva legittimato a riceverla, l’obbligazione si estingue quando viene effettuata in buona fede e chi ha ricevuto il pagamento deve restituirlo al vero creditore.

Il codice all’articolo 1191 disciplina l’ipotesi dell’adempimento eseguito da una persona incapace.
Se l’incapace adempie perfettamente, non si può pretendere la restituzione (si pretende solo quando si ha oltre a ciò che era dovuto).Luogo dell’adempimento
L’art. 1182 disciplina il luogo in cui la prestazione deve essere eseguita, da cui dipende l’equilibrio economico del rapporto in quanto da esso dipende l’individuazione della parte che dovrà recarsi presso l’altra al fine di eseguire la prestazione. Si tratta di una disposizione suppletiva, che si applica qualora le parti non abbiano disposto nulla al riguardo. Tuttavia, anche in difetto di volontà delle parti, l’applicazione di tale norma è esclusa ove il luogo dell’adempimento sia determinato dagli usi o possa essere desunto dalla natura della prestazione o da altre circostanze. Si pone il problema di capire se la norma si riferisca agli usi normativi (art. 8 Prel.) o agli usi negoziali, ossia a quelle prassi che, pur non presentando i caratteri della consuetudine normativa, risultano ampiamente consolidate nel contesto socio-economico in cui si inserisce l’operazione contrattuale. Appare preferibile la seconda ipotesi.
Quanto alla natura della prestazione e alle altre circostanze, viene in gioco una valutazione affidata alla discrezionalità dell’interprete, perché necessariamente legata al caso concreto (ad es. l’obbligazione assunta da un’impresa di ristrutturare un immobile va adempiuta presso l’immobile stesso).
Ove i criteri individuati dal 1° co. non possano trovare applicazione, trovano applicazione i commi seguenti che disciplinano 3 ipotesi:

  1. se la prestazione dovuta consiste nella consegna di una cosa certa e determinata, essa deve essere eseguita nel luogo in cui la cosa si trovava quando l’obbligazione è sorta;
  2. se l’obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro, essa deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della sua scadenza. L’obbligazione è portable.
  3. in ogni altro caso, l’obbligazione è, invece, quèrable, cioè deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della sua scadenza.

La regola n.2 non si applica a tutte le obbligazioni pecuniarie: la giurisprudenza ha chiarito che essa si applica solo quando il titolo (negoziale o giudiziale) dal quale il credito discende ne stabilisca l’ammontare e la scadenza. Dunque, le obbligazioni aventi ad oggetto il risarcimento di un danno contrattuale o extracontrattuale e, in genere, i debiti pecuniari illiquidi sono quèrables e non portables. Inoltre, le obbligazioni portables diventano quèrables quando il domicilio che il creditore ha al momento della scadenza del rapporto è diverso da quello che egli aveva quando esso è sorto e ciò “rende più gravoso l’adempimento”: in questo caso il debitore può eseguire il pagamento al proprio domicilio, purché lo dichiari previamente al creditore. Tale regola è applicabile analogicamente anche al caso della cessione del credito, atteso che anche qui si registra uno spostamento del luogo dell’adempimento, individuabile non più nel domicilio del cedente, ma in quello del cessionario.
La disciplina di cui all’art. 1182 ha carattere generale, oltre che suppletiva, trovando alcune deroghe o specificazioni in altre disposizioni del c.c. relative ai singoli tipi contrattuali. Ad es. l’art. 1174 relativo al contratto di deposito stabilisce che <<salvo diversa convenzione, la restituzione della cosa deve farsi nel luogo in cui doveva essere custodita>>. L’art. 1498 in materia di compravendita stabilisce che <<laddove il contratto nulla contempli, il pagamento del prezzo deve avere luogo al momento della consegna e nel luogo dove questa si esegue>>: viene imposta la contestualità dell’adempimento delle obbligazioni (consegna e pagamento del prezzo) per un’esigenza di tutela reciproca delle parti. Solo se il prezzo non si deve pagare al momento della consegna riemergerà, quale regola residuale, il criterio del domicilio del creditore (venditore).
Per quanto riguarda il luogo della consegna del bene nel caso di compravendita di beni mobili, l’art. 1510 stabilisce che, in difetto di pattuizione, la consegna deve avvenire nel luogo in cui la cosa si trovava al momento della conclusione del contratto; tuttavia, se le parti ignoravano il luogo in cui la cosa si trovava allora, la consegna deve avvenire nel luogo in cui il venditore aveva il domicilio al momento della conclusione del contratto.

Tempo dell’adempimento
Anche la disciplina di cui agli artt. 1183 e 1185 in ordine al tempo di adempimento ha natura suppletiva, perché opera solo quando il titolo negoziale da cui discende l’obbligazione non stabilisca alcun termine. Qui si fa riferimento al termine per l’adempimento dell’obbligazione e non al termine di efficacia apposto al contratto, che individua il momento a partire dal quale o sino al quale questo dispiegherà i suoi effetti: ad es. di solito nel contratto di assicurazione si prevede un termine iniziale e un termine finale di efficacia che circoscrivono temporalmente la copertura assicurativa, ma è previsto anche un termine di adempimento relativo al pagamento del premio da parte dell’assicurato.
L’art. 1183 stabilisce che <<ove il titolo non contempli un termine di adempimento, il creditore può esigere la prestazione immediatamente>>. La giurisprudenza attenua il rigore dell’art. aggiungendo che, in ogni caso, dall’obbligo di correttezza discende l’esigenza di riconoscere al debitore il tempo materialmente necessario ad adempiere (Cass. in tema di vendita di cosa altrui).
L’art. 1183 stabilisce che << se in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione sia necessario un temine, questo, in mancanza di accordo tra le parti, è stabilito dal giudice>>. La giurisprudenza ritiene che non è necessaria una specifica istanza di fissazione del termine da parte del creditore, essendo essa implicita nella domanda di condanna del debitore all’adempimento.
Una volta individuato un termine, occorre stabilire se esso è vincolante per una sola parte del rapporto o per entrambe. In particolare, il termine si dice fissato nell’interesse del debitore quando il creditore deve attendere la sua scadenza prima di esigere la prestazione, mentre il debitore può eseguirla anche prima di tale momento; in questa ipotesi il termine vincola solo il creditore.
Il termine si dice, invece, fissato nell’interesse del creditore e vincola solo il debitore, quando il 2° non può eseguire la prestazione prima del tempo stabilito, mentre il 1° può esigerla immediatamen-te. Quando il termine è posto nell’interesse di entrambe le parti né il creditore, né il debitore potranno rispettivamente esigere o eseguire la prestazione prima della sua scadenza.
L’art. 1185 stabilisce che il termine deve intendersi sempre fissato a favore del debitore, salvo che risulti stabilito nell’interesse del creditore o di entrambi. Se da un lato il creditore non può pretendere l’adempimento prima della scadenza del termine, dall’altro la costante giurisprudenza ha ritenuto che l’inadempimento può sussistere anche prima del decorso del termine ove il comportamento del debitore lasci fondatamente presagire la mancata esecuzione della prestazione nel tempo pattuito.
All’art. 1185, 2° co. trova disciplina la c.d. tensione all’adempimento: tale disposizione stabilisce che <<il debitore che esegue la prestazione anticipatamente, sebbene il termine fosse previsto nel suo interesse, non può chiedere la restituzione di quanto prestato. Egli ha solo la possibilità di ottenere la ripetizione della minor somma tra la perdita che egli ha patito per aver adempiuto prima del tempo e il vantaggio che il creditore ha lucrato per aver conseguito la prestazione prima del tempo>>: si tratta di una tutela modellata secondo lo schema dell’azione di ingiustificato arricchimento. Un problema del genere non si pone nel caso il cui il termine sia posto nell’interesse del creditore o di entrambe le parti.

L’adempimento del terzo
L’art. 1180 prevede una regola generale escludendo che il creditore possa legittimamente rifiutare la prestazione eseguita da un terzo, purché essa integri gli estremi di un esatto adempimento. Al creditore che riceve la prestazione dal terzo è data facoltà di surrogare quest’ultimo nel proprio diritto verso il debitore. In questo caso secondo la tesi che ravvisa nella surrogazione solo una vicenda modificativa del lato attivo del rapporto obbligatorio l’adempimento del terzo non avrebbe alcun effetto estintivo. La giurisprudenza ha ritenuto che l’adempimento dal terzo determini l’estinzione dell’obbligazione e che non si possa avere alcuna surrogazione (né per volontà del debitore, né per volontà del creditore, né legale): il terzo che ha pagato sapendo di non essere debitore può agire solo per ottenere l’indennizzo per ingiustificato arricchimento, stante l’indubbio vantaggio ottenuto dal debitore.
Questa regola generale conosce 2 eccezioni. La prima ricorre quando il creditore ha interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione: al riguardo bisogna escludere che possa rilevare un interesse meramente soggettivo del creditore a ricevere la prestazione del debitore; solo un interesse oggettivamente apprezzabile legittima il rifiuto del creditore. Tale interesse oggettivamente apprezzabile ricorre solo quando tra le qualità soggettive del debitore e l’idoneità della prestazione ad attuare il programma obbligatorio sussista un nesso così forte che imporre al creditore l’adempimento del terzo significherebbe precludere la realizzazione del suo interesse. Ciò si verifica in particolare nel caso di prestazioni infungibili, come ad es. nell’ipotesi del pittore a cui sia stato commissionato un ritratto che per il committente non sarebbe fungibile con quello realizzato da un altro pittore. Inoltre vengono in rilievo una serie di ipotesi in cui l’interesse del creditore a che la prestazione sia posta in essere dal debitore discende dalla natura fiduciaria del rapporto che lega le parti: un es. in cui l’intuitus personae rende non sostituibile il debitore si ha nel mandato, ove l’incarico conferito al mandatario non presenta alcun tratto di infungibilità, ma l’affidamento che il mandante ripone nella persona del mandatario assume, in ragione della natura fiduciaria del rapporto, un rilievo tale da legittimare l’opposizione del mandante all’iniziativa del terzo che volesse sostituirsi al mandatario. Spetta al giudice accertare la rilevanza dell’intuitus personae. Ad es. in materia di locazione la giurisprudenza ha ritenuto che la sanatoria della morosità del conduttore è consentita anche al terzo, ma il locatore può sempre rifiutare il pagamento quando esso possa ingenerare confusione sulla titolarità del rapporto locativo.
La seconda eccezione alla regola generale ricorre quando il debitore abbia manifestato la propria contrarietà all’intervento del terzo: in questo caso il creditore può, senza esservi tenuto, rifiutarne la prestazione.
Per terzo si intende chi sia estraneo al rapporto obbligatorio. Assumono una posizione particolare gli ausiliari che collaborano con il debitore nell’attività nell’ambito della quale è stata contratta l’obbligazione (ad es. ausiliari di cui si avvale l’imprenditore): l’art. 1228 stabilisce che il debitore risponde dei fatti dolosi e colposi commessi da terzi di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione; tale disposizione conferma che l’operato degli ausiliari è sempre imputabile al debitore medesimo, fermo restando che il creditore può opporsi a che la prestazione venga eseguita dall’ausiliario.

L’imputazione del pagamento
Quando creditore e debitore sono legati da una pluralità di rapporti obbligatori aventi titolo diverso, ma omogenei nell’oggetto si pone il problema di individuare l’obbligazione a cui si riferisce il pagamento. Si pensi al caso in cui Tizio debba corrispondere a Caio sia il prezzo pattuito per la compravendita di un bene, sia il canone relativo ad un immobile condotto in locazione. Il problema che si pone per le obbligazioni pecuniarie nel caso in cui la somma corrisposta non sia sufficiente ad estinguere tutti i debiti sorge dal fatto che le parti possono avere interessi contrastanti in ordine all’individuazione del rapporto cui imputare il pagamento: ad es. il debitore avrà interesse ad estinguere prioritariamente il debito da cui decorrono interessi maggiori, mentre il creditore vorrà vedere soddisfatta la pretesa che è assistita da minori garanzie.
In queste ipotesi, in mancanza di accordo tra le parti, l’imputazione del pagamento a questo o a quel rapporto è rimessa al debitore che può dichiarare, all’atto del pagamento, quale debito intende soddisfare, senza che al creditore sia concesso di opporsi a tale determinazione, a meno che non si tratti di adempimento parziale, perché in tal caso il creditore può rifiutare il pagamento. Al riguardo occorre rilevare che il pagamento è integrale quando ricomprende capitale, interessi e le spese (che l’art. 1196 pone a carico del debitore).
In mancanza di indicazione del debitore, sarà il creditore a decidere a quale rapporto imputare il pagamento, dichiarando la propria volontà nella quietanza di pagamento. Il debitore può rifiutare l’imputazione indicata dal creditore, perché essa opera solo se il debitore accetta la quietanza e sempre che non vi sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore. Per sorpresa si intende quella patologia che si ha quando il debitore è stato indotto dalle contingenze del caso a non valutare con adeguata ponderazione il contenuto della quietanza. Il dolo è un vizio del consenso.
Ove l’imputazione non risulti dalla volontà delle parti, operano in via residuale i criteri legali individuati dal 2° co. dell’art. 1193, secondo cui <<il pagamento deve essere imputato al debito scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti egualmente garantiti, a quello più oneroso per il debitore (cioè quello per il quale decorrono interessi più elevati); tra più debiti egualmente onerosi, a quello discendente da un titolo più antico; ove neanche tale criterio sia risolutivo, il pagamento sarà imputato proporzionalmente a ciascun debito>>.
Ove il creditore accetti un pagamento parziale occorre stabilire a quale voce (capitale, interessi o spese) il pagamento debba essere imputato (sempre che ciascuna di queste voci sia liquida ed esigibile). L’art. 1194 stabilisce che il debitore può imputare le somme al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, solo con l’accordo del creditore. In mancanza di accordo, il pagamento è imputato ex lege agli interessi e in via successiva alle spese. Si tratta di una forma di favor creditoris per impedire che il debitore, rimborsando il capitale senza estinguere l’obbligazione, impedisca che decorrano gli interessi.
Ovviamente il creditore che riceve il pagamento, ove il debitore lo richieda, è tenuto a rilasciare quietanza del pagamento, che costituisce prova dell’adempimento, configurando ad ogni effetto una confessione extragiudiziale del creditore. Nel caso in cui il creditore si rifiuti di rilasciare quietanza il debitore può sospendere l’adempimento, senza incorrere in mora.
Il creditore è, inoltre, tenuto, ove il debitore lo richieda, ad annotare il dato dell’avvenuto pagamento nel titolo. Tale annotazione, sul piano probatorio è assimilabile alla quietanza.

Compensazione

 

Ai sensi dell’art. 1241 << quando 2 persone sono obbligate l’una verso l’altra, i 2 debiti si estinguono per la quantità corrispondente>>: quindi, perché si configuri la compensazione è anzitutto necessario che sussista la reciprocità delle obbligazioni.

Si distinguono 3 tipi di compensazione.

La compensazione può essere legale, giudiziale o volontaria.

La compensazione legale che si configura in presenza di 3 presupposti: 1) i 2 crediti devono essere tra loro omogenei, cioè devono avere entrambi ad oggetto cose fungibili dello stesso genere (es. 2 obbligazioni pecuniarie); i crediti devono essere entrambi liquidi, ossia determinati nel loro ammontare, e 3) devono essere esigibili, ossia non devono essere soggetti ad un termine posto nell’interesse del debitore non ancora scaduto o ad una condizione sospensiva non ancora verificatasi. A tal proposito giova ricordare che la concessione al debitore di una dilazione a titolo gratuito non esclude l’esigibilità. Il vantaggio della compensazione è costituito da un significativo risparmio sul piano dell’attività giuridica che le parti dovrebbero svolgere, consentendo loro un risparmio di costi. Inoltre, la compensazione elimina il rischio d’insolvenza del debitore, perché il soddisfacimento della pretesa del creditore non passa attraverso un’attività propriamente esecutiva sempre esposta ad un margine d’incertezza. Secondo l’insegnamento tradizionale ove ricorrano i 3 presupposti la compensazione legale opera ipso iure: ciò trova conferma ai sensi dell’art. 1242 la compensazione estingue i 2 debiti dal giorno della loro coesistenza. Secondo Nivarra questa ricostruzione mal si concilia con lo stesso art. 1242 che vieta al giudice di rilevare d’ufficio la compensazione; per risolvere il problema occorre ritenere che l’effetto estintivo si realizza solo quando la compensazione venga opposta anche in via stragiudiziale da una delle parti: in tal caso ciascuna della parti può invocare la compensazione, che estingue l’obbligazione con efficacia retroattiva, cioè dal giorno della coesistenza dei 2 crediti liquidi e esigibili.


La compensazione giudiziale ricorre quando difetti il requisito della liquidità di 1 dei 2 crediti, ma esso risulti comunque di facile e pronta liquidazione. In tale ipotesi il giudice può dichiarare la compensazione fino alla concorrenza dell’importo del credito illiquido di cui riconosce l’esistenza ovvero può sospendere la condanna del soggetto convenuto per il pagamento del debito fino all’accertamento del credito opposto in compensazione. In entrambi i casi, la compensazione e l’effetto estintivo sono conseguenza di una pronuncia del giudice che ha natura costitutiva (mentre la sentenza che accerta la ricorrenza dei presupposti della compensazione legale ha natura dichiarativa).

 

Quanto alla compensazione volontaria, l’art. 1252 si limita ad affermare che essa può aver luogo anche in assenza dei presupposti previsti per le altre 2 forme di compensazione. La ratio è che la compensazione volontaria è dal punto di vista strutturale un contratto e le parti sono libere di articolarne gli effetti.La compensazione è volontaria quando avviene per accordo tra le parti.


La compensazione può attuarsi anche solo parzialmente, cioè fino alla concorrenza del minore dei due debiti.
In base all’articolo 1246 del c.c. la compensazione non si attua per:
- Il credito per la restituzione di cose di cui il proprietario sia stato ingiustamente spogliato del possesso;
- Il credito per la restituzione di cosa depositata o data in comodato;
- Il credito impignorabile (es. credito agli alimenti);
- Rinuncia fatta preventivamente dal debitore.



Tutte e 3 le forme di compensazione incontrano un limite insuperabile costituito dalla necessità che debito e credito nascano da rapporti diversi, perché ove essi discendano dal medesimo titolo (ad es. da un contratto di compravendita a prestazioni corrispettive) l’operare della compensazione impedirebbe la concreta realizzazione della causa negoziale. Ciò non significa che le parti di un contratto a prestazioni corrispettive non possano convenire di ritenere estinte le reciproche obbligazioni, ma in tal caso si parla di accordo modificativo o estintivo del rapporto obbligatorio (la giurisprudenza ha parlato di compensazione impropria o atecnica).

La compensazione presuppone l’esistenza di due rapporti reciproci ed inversi tra gli stessi soggetti.
Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti (fino alla concorrenza dello stesso valore).

 

Confusione

 

Il rapporto obbligatorio implica necessariamente la presenza di 2 parti. Ecco perché esso si estingue per confusione quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono nella stessa persona. Ciò può accadere nelle vicende circolatorie dal lato attivo e dal lato passivo del rapporto obbligatorio (ad es. debitore che succede mortis causa al suo creditore o acquista il credito). [Continua con gli istituti di accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario e di costituzione di un patrimonio destinato ad un unico affare di cui sopra].
La nozione di parte va distinta da quella di soggetto perché essa sta ad indicare un autonomo centro di interesse. Normalmente ad ogni soggetto corrisponde un solo patrimonio (tutte le situazioni giuridiche di cui egli è titolare costituiscono un’unica massa) e, dunque, un unico centro d’interessi; ma questa coincidenza tra parte del rapporto e soggetto che la incarna può venir meno in ragione dei accennati fenomeni di separazione patrimoniale. In questi casi può aversi un rapporto unisoggettivo perché in ogni caso sussiste la dualità delle parti.
Quanto agli effetti della confusione, essa estingue l’obbligazione e tutte le garanzie reali e personali che ad essa accedevano. Essa non opera laddove un terzo abbia acquistato un diritto di pegno o di usufrutto sul credito: in queste ipotesi gran parte delle prerogative del creditore sono riservate allo usufruttuario e al creditore pignoratizio.

Anche nella confusione il vincolo si estingue per legge ed i terzi che hanno dato garanzia per il debitore sono liberati.

La confusione può verificarsi in seguito ad atti tra vivi (es. cessione di un’azienda dove il cessionario aveva delle partite di debito) oppure nella successione ereditaria (caso più frequente) quando l’erede è debitore o creditore del defunto.

 

 

Novazione

Con la novazione non abbiamo l’adempimento, ma la sostituzione di un’obbligazione con un’altra.
La novazione si distingue dalla dazione in pagamento, perché quest’ultima è un modo di estinzione satisfattorio.
La novazione soggettiva si ha quando il contenuto dell’obbligazione non cambia e si sostituisce il soggetto che può essere il creditore (novazione soggettiva attiva) o il debitore (novazione soggettiva passiva).

Gli elementi essenziali per la novazione oggettiva sono:

  1. Un’obbligazione originaria da novare;
  2. Un’aliquid novi;
  3. L’animus novandi.

A. L’obbligazione originaria da novare.
La novazione è senza effetto se non esiste un’ obbligazione originaria da novare; infatti una nuova
obbligazione non sarebbe giustificata se sorgesse per sostituire ciò che non esiste.
Se l’obbligazione originaria deriva da un titolo annullabile (contratto stipulato da persona incapace di
intendere e di volere) la novazione è valida solo se il debitore ha assunto il nuovo debito conoscendo il
vizio del titolo originario.

B. Aliquid novi.
La nuova obbligazione deve essere diversa dalla precedente o per titolo (per titolo si intende la fonte dell’obbligazione es. legge, contratto) o per oggetto.
Quindi è necessaria una vera trasformazione e non è sufficiente la modifica di una delle modalità accessorie di cui parla l’articolo 1231 del c.c. secondo il quale non producono novazione il rilascio di documento e la modifica del termine di scadenza o simili cambiamenti.

C. Animus novandi.
Consiste nella volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione con la creazione di un nuovo vincolo. Quando non si riesce a dimostrare l’esistenza dell’animus novandi non si ha la novazione, ma la nascita di un nuovo rapporto obbligatorio accanto al vecchio.
La novazione si fa per contratto. Con l’estinzione del rapporto originario si estinguono anche i diritti accessori (privilegi, pegno, ipoteca del credito originario)

La novazione comporta l’estinzione delle garanzie reali del credito (privilegi, pegni e ipoteche) e della fideiussione, per cui si pone il problema di distinguerla da una mera modificazione del rapporto del rapporto preesistente (che, invece, non comporta tale estinzione). La distinzione dal punto di vista teorico riposa sul piano degli effetti, in quanto la novazione comporta un effetto estintivo del rapporto originario e un effetto costitutivo del nuovo rapporto, mentre la modificazione del contenuto del rapporto implica la preesistenza di quest’ultimo.

Dal punto di vista pratico non è facile distinguere le 2 fattispecie, ma l’art. 1231 c.c. viene in soccorso prevedendo una serie di ipotesi che non realizzano una vicenda novativa (il rilascio o la rinnovazione di un documento, l’apposizione o l’eliminazione di un termine o ogni altra modificazione accessoria).
I presupposti della novazione sono l’esistenza dell’obbligazione novata, in assenza della quale l’accordo novativo sarà nullo perché privo di causa; per inesistenza dell’obbligazione novata si intende l’obbligazione estinta o fondata su un contratto nullo, annullato, risolto o rescisso.
Non costituisce un’eccezione alla regola l’art. 1234, 2° co. che stabilisce che, ove un’obbligazione novata derivi da un contratto annullabile, l’accordo novativo è valido se il debitore lo ha concluso con la piena consapevolezza del vizio che inficiava il titolo del rapporto originario e senza che la volontà manifestata sia da tale vizio inficiata: qui la validità della novazione è una conseguenza logica della convalida tacita del contratto da cui discende l’obbligazione novata.

La remissione del debito

Il codice civile stabilisce che la dichiarazione del creditore di rinunciare al debito estingue l’obbligazione.

La remissione è un negozio unilateralecon cui il creditore manifesta la volontà di rimettere al debitore l’obbligazione di cui questi è gravato. Essa comporta l’estinzione dell’obbligazione non appena la dichiarazione venga comunicata al debitore (onde la sua natura recettizia). Tuttavia l’effetto estintivo cade ex tunc ove, entro un congruo termine, il debitore dichiari di non volere approfittare della remissione, cioè manifesti il proprio rifiuto.


Infatti il debito si estingue per semplice volontà del creditore, purchè il debitore non si opponga dichiarando in un congruo termine di non volerne approfittare; quindi il legislatore riconosce al debitore il diritto a non ricevere un atto di liberalità del creditore.

La remissione può essere espressa o tacita.
E’ espressa quando è comunicata al debitore.
E’ tacita quando il creditore restituisce volontariamente al debitore il documento originale del credito.
La rinuncia al credito fa cadere le garanzie reali e personali, mentre la rinuncia alle garanzie non implica la remissione del debito.

 


Sul piano causale la remissione presenta uno schema neutro: essa, infatti, può fondarsi su un intento liberale configurando, dunque, una donazione indiretta, ma può essere anche posta in essere solvendi causa, cioè al fine di adempiere ad un obbligo preesistente.

Quanto alla forma, il codice non detta alcuna regola, per cui la remissione può anche risultare da comportamento concludente. Al riguardo assume rilievo la consegna volontaria al debitore del titolo originario del credito: questo fatto in base ad una presunzione assoluta è considerato manifestazione di volontà di rimettere il debito. La remissione è, invece, oggetto di una presunzione relativa quando il creditore ha consegnato una copia autentica dell’atto pubblico che costituisce il titolo del credito.

Quanto agli effetti, la remissione comporta, in ragione della loro accessorietà, il venir meno di tutte le garanzie, reali e personali, che assistevano il credito. Al contrario la rinunzia alle garanzie non è espressione della volontà di rimettere il debito. In particolare, la rinunzia ad una fideiussione si sostanzia nella remissione accordata al singolo fideiussore e se vi sono altri fideiussori essi sono liberati solo nei limiti della quota del debito che sarebbe gravata in sede di regresso sul fideiussore che ha beneficiato della rimessione. Tuttavia, ove i fideiussori abbiano acconsentito alla liberazione di quest’ultimo continuano a rispondere per l’intero ammontare del debito.

L'impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore

Secondo l’articolo 1256 c.c. l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.

Affinché l’obbligazione si estingua ed il debitore venga totalmente liberato è necessario che:
A. Si tratti di una reale impossibilità oggettiva;
B. Tale impossibilità deve essere sopravvenuta, ma sorta prima della mora;
C. L’impossibilità sopravvenuta deve essere inevitabile, quindi non derivante da colpa del debitore.


Tale impossibilità per determinare l’estinzione dell’obbligazione deve essere definitiva e totale, deve cioè risultare che la prestazione non possa eseguirsi né ora, né in un successivo momento (impossibilità definitiva) e che non potrà eseguirsi neanche solo in parte (impossibilità totale).

 

A. L’elemento dell’impossibilità rappresenta l’elemento fondamentale perché è proprio quando la prestazione diviene impossibile che si esclude la responsabilità dell’inadempimento. La prestazione deve essere impossibile in sé e per sé, quindi non è rilevante l’impedimento derivante da vicende soggettive, personali e patrimoniali del debitore (il debitore che si è impegnato a versare una somma di denaro non può invocare a sua liberazione il verificarsi di un dissesto patrimoniale).

Gli eventi che si verificano sulla persona del debitore potranno avere rilevanza soltanto quando si tratta di prestazioni personali in senso stretto (Così per esempio una malattia o un infortunio potrà essere causa valutabile di impossibilità a effettuare la propria attività lavorativa).

Se l’impossibilità è temporanea l’obbligazione non si estingue, ma il debitore non è responsabile del ritardo nell’adempimento.
L’obbligazione si estingue quando l’impossibilità dura fino alla scadenza di un termine essenziale o dura per tutto il tempo in cui il creditore ha interesse alla prestazione.

B. L’Impossibilità deve essere sopravvenuta;
In presenza di un’impossibilità originaria il rapporto obbligatorio non sorge in maniera valida per mancanza di un elemento essenziale (per esempio se mi obbligo a vendere un quadro già distrutto da un incendio, il contratto è nullo per mancanza dell’oggetto).

Se l’impossibilità sorge dopo la mora del debitore (per ritardo colposo) questi non è liberato dall’obbligo di risarcire il danno derivante dall’inadempimento.

C. L’impossibilità deve essere inevitabile, quindi non determinata da colpa del debitore, ma derivante da caso fortuito o da forza maggiore.
Il codice civile stabilisce che l’onere della prova, cioè l’onere di dimostrare la mancanza di colpa, spetta al debitore se vuole sottrarsi alla responsabilità per inadempimento.

 


In particolare, se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore resta vincolato ad adempiere l’obbligazione non appena l’impossibilità cesserà; l’unica conseguenza di un’impossibilità temporanea è di evitare che il debitore risponda del ritardo (nel senso che esso non configura un inadempimento). Tale regola conosce 2 eccezioni: l’obbligazione, infatti, si estingue in ogni caso qualora l’impossibilità perduri fino al momento in cui il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla. Quanto alla carenza di interesse del creditore, l’obbligazione si estingue perché né viene meno il fondamento causale. La giurisprudenza (2007) al riguardo ha elaborato la nozione della inutilizzabilità della prestazione che consiste in un particolare atteggiarsi dell’impossibilità sopravvenuta che rileva non solo nell’ipotesi di effettiva impossibilità da parte del debitore di eseguire la prestazione, ma anche quando la prestazione ancora possibile sia divenuta inutilizzabile dal creditore per fatto a lui non imputabile e questi non abbia più interesse a conseguirla. La seconda eccezione alla regola si ha quando il debitore, ove la prestazione diventi nuovamente possibile, non possa ritenersi obbligato ad eseguirla (è una forma di impossibilità relativa alla luce dello sforzo esigibile del debitore ad es. in merito ai mezzi con cui egli si è obbligato a realizzare la prestazione).
Un’ipotesi di impossibilità definitiva è il perimento della cosa dovuta, a cui è assimilabile lo smarrimento di una cosa determinata (al riguardo la norma introduce una presunzione assoluta in virtù della quale lo smarrimento comporta che la cosa si consideri perita). Tuttavia, se la cosa smarrita successivamente viene trovata il debitore sarà tenuto ad eseguire la prestazione senza rispondere del ritardo, salvo il caso che egli non possa essere più ritenuto obbligato ovvero che il creditore non abbia più interesse a conseguire la prestazione.
L’impossibilità parziale ha un effetto estintivo parziale, perché il debitore rimane obbligato ad eseguire la prestazione per la parte che è rimasta possibile: tale disposizione si applica solo al caso di obbligazioni divisibili perché solo per esse è concepibile un’esecuzione frazionata della prestazione e l’idoneità della adempimento parziale a soddisfare l’interesse del creditore. La Cassazione ha affermato, infatti, che sia nel caso di obbligazioni oggettivamente indivisibili (tali in ragione della funzione economico sociale e dell’utilità oggettiva della prestazione cui è tenuto il debitore), sia nel caso di obbligazioni soggettivamente indivisibili (tali cioè in ragione di una pattuizione esplicita o implicita che abbia attribuito un vincolo d’indissolubilità all’utilità della prestazione), non è concepibile la risoluzione parziale del contratto, per l’impossibilità che residui un obbligo del debitore ad una prestazione avente ad oggetto una parte del bene originario.
All’impossibilità parziale viene assimilato il deterioramento non imputabile al debitore del bene oggetto della prestazione: in tal caso, il debitore si libera prestando il bene nello stato in cui si trova, ma se il deterioramento rende la prestazione del tutto inidonea a soddisfare l’interesse del creditore, la prestazione si deve considerare impossibile.
L’art. 1258 va coordinato con l’art. 1464 che disciplina il caso in cui la prestazione parzialmente impossibile inerisca ad un contratto a prestazioni corrispettive: anche in questo caso l’obbligazione sopravvive, sebbene il suo oggetto si riduca alla parte residua della prestazione; tuttavia, il creditore può recedere dal contratto quando egli non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale. Tale previsione si giustifica per il carattere oneroso del rapporto che implica che il creditore sarà tenuto a eseguire la sua prestazione, sia pure in misure proporzionale, ove accetti di ricevere la prestazione parziale.
Le regole fin qui illustrate presuppongono che l’impossibilità della prestazione non sia imputabile al debitore, perché in caso contrario l’obbligazione sopravvive e il debitore sarà tenuto al risarcimento del danno per responsabilità contrattuale.
Il dato evidente è che il rischio dell’impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore è posto a carico del creditore, che, estinta l’obbligazione, non conseguirà più la prestazione. Il codice tempera questa regola ove la prestazione abbia ad oggetto una cosa determinata, prevedendo il subingresso ex lege del creditore nella tutela risarcitoria che competa al debitore ex art. 2043 nei riguardi del terzo responsabile della distruzione della cosa. Se poi il debitore ha già conseguito dal terzo il risarcimento, il creditore può esigerne l’importo. Tale regola ha un campo di applicazione limitato in quanto implica che il debitore sia proprietario del bene al momento del perimento. Quando l’obbligazione di consegnare la cosa determinata accede al trasferimento della proprietà della cosa medesima, poiché l’effetto traslativo si produce contestualmente al perfezionamento del contratto (art. 1376), il rischio del perimento della cosa grava sull’acquirente, che resta obbligato ad eseguire la prestazione a proprio carico ancorché la cosa non gli sia stata consegnata (res perit domino). Se in tal caso responsabile del perimento della cosa è un terzo, il creditore ha diritto al risarcimento non già in virtù del subingresso, ma perché proprietario del bene.

Se l’impossibilità è parziale anche l’estinzione dell’obbligazione è parziale ed il debitore è tenuto a svolgere la prestazione per la parte che rimane possibile.

 

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