Abbiamo già incontrato l’azione di adempimento sia nella risoluzione sia nel danno risarcibile, ed adesso il primo problema che ci interessa risolvere è porre una differenza tra l’adempimento in forma specifica e il risarcimento del danno.
Come dice Di Majo, ed anche Castronovo, la tutela in forma specifica è più generale perché ricomprende sia l’adempimento in forma specifica sia le tutele restitutorie, cioè tutto ciò che tende a far conseguire al titolare del diritto le stesse utilità, e non le utilità equivalenti, che gli sono garantite dal contratto e quindi ci troviamo di fronte alla esecuzione forzata coattiva,all’attuazione di una situazione soggettiva derivante dal contratto che non ha avuto spontanea esecuzione.
Invece, nella tutela di tipo risarcitorio, la finalità è quella di far conseguire al titolare del diritto le utilità che sono equivalenti.
Quindi ecco la differenza, in questo caso non ci troviamo di fronte all’attuazione di un diritto, ma ci troviamo di fronte alla lesione di un diritto (diritto all’adempimento).
Quindi ricapitoliamo, con l’adempimento in forma specifica, viene garantito al titolare del diritto quella stessa situazione di fatto in cui si sarebbe trovato se il contratto fosse stato eseguito. Invece, con il risarcimento, noi diamo ad un soggetto un’utilità equivalente, facciamo una valutazione di tipo ipotetico, perché cerchiamo di realizzare la situazione per come sarebbe stata se l’illecito non si fosse mai realizzato. Quindi la differenza per ricapitolare, nell’adempimento in forma specifica, il contraente viene posto nella stessa situazione di fatto in cui si sarebbe trovato se il contratto avesse avuto esecuzione.
Con questa azione il contraente è obbligato ad eseguire quanto oggetto del contratto, e l’altro contraente, il creditore, ha il diritto di esigere questo comportamento.
Quando noi diciamo che il contraente inadempiente deve sottostare alla coazione è certo che noi non possiamo effettuare una coercizione diretta sul debitore, ci sono delle esigenze di ordine pubblico e di tutela del soggetto inadempiente. Proprio per questo, non è possibile per il privato agire direttamente per ottenere l’esecuzione della prestazione, questa attività è riservata allo Stato. Ma anche lo Stato non può effettuare una coercizione fisica sul soggetto, ma la coazione è di natura esclusivamente giuridica.
Quindi le strade fra la coercizione diretta e la coercizione indiretta si dividono: perché la coercizione diretta effettuata dallo Stato ha luogo solo giuridicamente, e vedremo come questo risultato viene raggiunto quando il contraente non vuole cooperare. Nella coercizione indiretta, io utilizzo istituti che l’ordinamento mi mette a disposizione per incidere sulla volontà della controparte, facendole presente della conseguenza a cui andrà incontro nel caso in cui sarà inadempiente.
Mezzi di coercizione indiretta: ad es clausola rilsoutiva espressa, caparre, clausola penale. Questi istituti sono accomunati dall’esercitare una coazione psicologica, una persuasione, inducendo, almeno nella intenzioni, il soggetto ad adempiere.
L’ordinamento,invece, pone in atto una serie di istituti che realizzano la prestazione prescindendo dalla volontà del debitore ossia utilizzando gli strumenti giudiziari, utilizzando l’attività degli ausiliari del giudice, questi rimedi sono contenuti degli art 2930 cc ss. Si tratta di norme che sono contenute nel cc.
Art 2930cc abbiamo in questa norma un obbligo di consegna, viene spiegato che può ottenerla coattivamente e c’è il rinvio al cpc.
Art 2931cc obblighi di fare, vediamo che la struttura della norma è sempre la medesima, c’è sempre un rinvio al cpc, ma ovviamente cambia l’obbligo.
Sono norme che contengono un rinvio al cpc, ma sono collocate nel cc, questo significa che sono norme di diritto sostanziale, ma si pone un problema di rapporto col processo, vediamo il perché. Perché stiamo facendo questo discorso?
Perché Di Majo, parlando dell’azione di adempimento, si chiede se può inserire queste norme, nei rimedi di tutela o no. E per fare questo, bisogna indagare la loro natura.
C’è una prima tesi di Montesano, secondo la quale, anche se queste norme sono contenute nel cc, in realtà sono norme di tipo processuale, in quanto senza gli strumenti del processo rimarrebbero lettera morta. Secondo Montesano, l’adempimento coattivo ha una funzione molto limitata, perché il suo campo di applicazione sarebbe circoscritto alle sole obbligazioni che hanno ad oggetto una somma di danaro. A sostegno di questa tesi pone 2 argomenti: l’art 2740 cc che ,dedicato alla garanzia patrimoniale generica del debitore, è una norma che ci dice come tutta la responsabilità patrimoniale va considerata dal punto di vista di convertire il patrimonio del debitore in somme di danaro per poter soddisfare i creditori. E in particolare ricorda l’art 2741cc il quale enuncia il principio della par condicio creditorum, dicono i processualisti, l’azione di adempimento serve ben poco, perché un vero e proprio adempimento si può avere soltanto quando l’obbligo ha ad oggetto una somma di danaro, infatti io non posso costringere il mio debitore a consegnarmi una cosa, a fare quello che doveva fare o a non fare, in questo caso io mi avvalgo sempre dell’attività di un terzo, ausiliario del giudice, non siamo di fronte ad un vero e proprio adempimento. Quindi la vera azione di adempimento, dove c’è un’identità assoluta tra oggetto della prestazione e oggetto della realizzazione, è solo quella in cui devono essere eseguite somme di danaro. L’autore infatti poi dice, la par condicio creditorum è un’altra regola che conferma la sua opinione, perché in virtù di questo principio, il creditore che con l’azione di adempimento si fa dare un bene lo toglie dal patrimonio del debitore a danno degli altri creditori, se il patrimonio del soggetto vale 400 euro e io ho 4 creditori di cui uno vanta un credito pari a 200, se questo soggetto con l’azione di adempimento degli obblighi di dare si fa dare , prima degli altri, il bene che ne vale 200, rimangono nel patrimonio valori pari a 200 e gli altri creditori non possono essere soddisfatti interamente. Quindi l’autore dice, l’azione di adempimento andrebbe a violare il principio della par condicio. Si sottolinea anche il fatto che vi sia l’attività di terzi, perché se il soggetto non mi consegna il bene, sarà il giudice che ordinerà all’ufficiale giudiziario di andarlo a prendere. Quindi Montesano farebbe rientrare queste forme di adempimento nel risarcimento, sarebbero delle forme risarcitorie proprio perché non vi è un’identità assoluta tra prestazione e realizzazione.
Di Majo critica questo orientamento, per quanto riguarda il richiamo degli art 2740-2741 questo non è un richiamo decisivo, perché in queste norme non troviamo nessuna regola che ci dice che il creditore debba essere per forza soddisfatto in danaro, è una forzatura della norma che in realtà non trova riscontro nella norma stessa. Inoltre, il fatto che ci sia l’attività di un terzo, non è sufficiente a far si che si vada a finire nell’area del risarcimento, perché comunque il creditore ottiene sempre quello che doveva avere, anche se lo ottiene con l’ausilio di un terzo, quindi per Di Majo rimangono forme di adempimento. Ovviamente l’azione di adempimento trova spazio lì dove la prestazione è fungibile, lì dove la prestazione è infungibile trova spazio il risarcimento.
L’adempimento dovrebbe essere la prima e più importante soluzione ad un inadempimento, prima ancora del risarcimento. Di Majo, in un paragrafo che denomina “adempimento in natura in progres”, nel quale cerca, confrontando con gli altri ordinamenti europei, i segni giuridici dell’affermazione progressiva dell’azione di adempimento,si chiede perché il nostro ordinamento privilegia il risarcimento all’azione di adempimento.
1)Innanzitutto perché nel nostro codice non esiste una norma che prevede l’adempimento in forma specifica in via generale, non abbiamo una norma che ci dice che il soggetto che deve ricevere una prestazione ha diritto di esercitare l’azione di adempimento coattivo, l’unica norma da cui possiamo trarre il fondamento positivo espresso di questo principio è l’art 1453 nella parte in cui attribuisce, nei contratti a prestazioni corrispettive e nella risoluzione del contratto, la possibilità al contraente adempiente di agire o per l’adempimento o per la risoluzione del contratto.
Di Majo si pone un problema, perché quando il legislatore parla di agire per l’adempimento non dice chiaramente se si tratta di adempimento in natura o può darsi che il legislatore intenda riferirsi all’adempimento per equivalente che rappresento l’oggetto del risarcimento?. Questa mancata specificazione ci lascia nel dubbio. Ed in questo caso, lui trova un argomento a favore della prima tesi e un argomento a favore dell’altra tesi.
A favore della prima tesi, la stessa norma, l’art 1453, in realtà distingue fra adempimento e risarcimento, quindi vediamo la norma com’è strutturata, nella prima parte se il contraente adempiente sceglie per l’adempimento o per la risoluzione del contratto, poi ci dice salvo il risarcimento, questo significa che il risarcimento si aggiunge sia all’adempimento sia alla risoluzione, quindi è un qualcosa in più.
C’è un argomento a favore anche della seconda tesi, quando vi è inadempimento ci sarebbe solo spazio per l’obbligazione risarcitoria, e quindi l’adempimento in natura sarebbe reso inutilizzabile, perché l’inadempimento farebbe subito scattare il risarcimento. Rimane questo problema aperto, lui non prende una posizione espressa, anche se tende a propendere un po’ di più per la prima tesi.
Su questo problema dei rapporti tra adempimento e risarcimento, si pone un’altra questione, di fronte all’inadempimento, noi logicamente ci configuriamo che l’obbligazione è inadempiuta, qual è il mio primo interesse come creditore? Quello di cercare di ottenere l’adempimento con tutti gli strumenti che l’ordinamento mi da, poi il risarcimento del danno ove possibile, fatto salvo il risarcimento del danno da ritardo. Lo abbiamo già detto fra la scadenza del termine e l’adempimento c’è un lasso di tempo che può provocare un danno da ritardo.
il problema che si pone Di Majo è questo, il soggetto adempiente, può chiedere direttamente il risarcimento senza chiedere prima l’adempimento?
L’autore cerca del cc delle soluzioni, l’art 1454 sulla diffida ad adempiere e si chiede se nei principi contenuti nella diffida ad adempiere possiamo o meno dedurre l’esistenza di un obbligo che ci costringe prima a diffidare ad adempiere o poi chiedere il risarcimento. Ed a questa questione da una risposta negativa, perché la diffida ad adempiere se non viene osservata a cosa ci conduce? Alla risoluzione di diritto, è un istituto che è organizzato e strutturato per la risoluzione del contratto e non dell’eventuale risarcimento.
Allora lo va a cercare altrove, sarà la costituzione in mora del debitore? Art 1219? Il debitore è in mora, al di fuori delle ipotesi di more ex re, quando non adempie dopo che il creditore gli ha mandato per iscritto una richiesta di adempimento, anche in questo caso per far si che il debitore sia costituito in mora, io gli devo fare una richiesta di adempimento per iscritto, potremmo pensare che da questa norma deriva il principio che io comunque devo chiedere l’adempimento. Ma anche questa norma non convince Di Majo, anche qui non possiamo trovare il principio generale, perché così come la diffida ad adempiere è un istituto preordinato al risarcimento, gli effetti della costituzione in mora sono effetti tipizzati dalla legge, gli effetti della mora del debitore sono quelli che la legge ci indica, non possiamo aggiungerne altri a nostro piacimento quale quello di essere un presupposto inderogabile per ottenere il risarcimento del danno.
Allora lui dice, dobbiamo esaminare i principi generali, e nei principi generali lui incontra due tesi:
1)una prima tesi dottrinale, secondo la quale il creditore non potrebbe chiedere direttamente il risarcimento del danno, ma dovrebbe chiedere prima l’adempimento, perché non può liberamente sostituire l’oggetto dell’obbligazione. Quindi lui non può discrezionalmente sostituire l’oggetto della prestazione del contratto con il risarcimento, perché bisogna tutelare anche il soggetto inadempiente che potrebbe essere pregiudicato dalla sostituzione della prestazione.
2)una seconda tesi che cerca la soluzione su un dato normativo, ricordiamo che secondo l’art 1453 III comma il contraente inadempiente non può più chiedere di adempiere la prestazione dopo che è stata presentata la domanda di risoluzione, e si è pensato di estendere questo principio anche al risarcimento e applicando per analogia questa disposizione trarre la regola che il contraente inadempiente non potrebbe più adempiere dopo la domanda di risarcimento. Cioè questa stessa funzione preclusiva di adempimento con la domanda di risoluzione, si estenderebbe anche alla domanda di risarcimento. Anche qui Di Majo non è proprio d’accordo con questa tesi, perché come abbiamo visto per la diffida ad adempiere e per la costituzione in mora, anche qui l’art 1453 ha uno scopo diverso. Qui abbiamo una ratio della norma completamente diversa. Dobbiamo partire dall’esigenza di bilanciare gli interessi contrapposti tra le parti, formula questa regola, chi vuole direttamente il risarcimento senza chiedere l’adempimento deve almeno dimostrare che l’inadempimento è definitivo, cioè che non ci troviamo di fronte ad un mero ritardo nell’esecuzione della prestazione. E l’Inadempimento è definitivo innanzitutto quando il contraente ha dichiarato espressamente di essere inadempiente o comunque che la sua volontà è in qualche modo emersa.
La mora del debitore, abbiamo detto che la mora può essere utile non solo al creditore per avere gli effetti tipici previsti dalla legge, ma anche per essere agevolato per la prova dell’inadempimento. In questo caso tramite la costituzione in mora del debitore che non adempie la prestazione pur essendo stato sollecitato a farlo, noi abbiamo una possibilità per il creditore di provare l’inadempimento, e di provare che sia definitivo ai fini di ottenere il risarcimento. Diciamo che l’inadempimento è definitivo soltanto quando la prestazione è impossibile, questo ce lo dice Di Majo. Allora, Se il contraente adempiente per poter agire per il risarcimento deve provare l’inadempimento definitivo questo che cosa significa, che deve provare anche l’impossibilità della prestazione? No, dice Di Majo, per due motivi:
1)perché nell’ordinamento italiano non esiste nessun principio secondo il quale il risarcimento può essere chiesto solo quando la prestazione è impossibile.
2)l’impossibilità della prestazione è una circostanza rilevante giuridicamente ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore art 1218cc, perché allora interessa che la prestazione sia impossibile? Perché è causa di estinzione dell’obbligazione. Ed interessa proprio al debitore che in base all’art 1218 è onerato dalla relativa prova. Noi non possiamo trascurare il contenuto di questa regola, e siamo convinti di dire che tutto ciò che riguarda l’impossibilità della prestazione e le sue conseguenza rientrano nella sfera dell’onere della prova. Quindi in conclusione, se il creditore prova, anche facilmente con la costituzione in mora, che l’inadempimento è definitivo, secondo Di Majo può chiedere direttamente il risarcimento del danno.
Adesso dobbiamo vedere alcune applicazioni:
-ADEMPIMENTO SANANTE, Di Majo ci dice che uno dei segni dell’importanza nel nostro ordinamento dell’azione di adempimento, è data dalla possibilità dell’adempimento sanante. Che cosa sia l’adempimento sanante noi lo ricaviamo dall’art 1192cc “pagamento eseguito con cose altrui”, è un ipotesi molto particolare che Di Majo mette in grande rilievo, perché è l’unica ipotesi in cui viene ad essere disciplinata la possibilità data al debitore di eseguire una seconda prestazione sanante della prima, il caso è specifico perché prende in considerazione l’adempimento con cose di cui il debitore non poteva disporre e che quindi può evitare le conseguenze dell’inadempimento offrendo cose di cui può disporre.
L’autore critica il nostro ordinamento poiché questa possibilità è data solo da questa norma, lui però la trova nella normativa europea, in particolare nei principi di diritto europeo, l’art8:104 dei principi di diritto europeo, che Di Majo cita ma non lo indica espressamente. La rubrica di questa norma è “nuovo adempimento sanante”: “quando l’offerta della prestazione per difetto di conformità con quella prevista dal contratto non sia stata accettata dal creditore, il debitore può offrire una nuova prestazione conforme se il termine dell’adempimento non sia ancora scaduto o il ritardo non costituisca inadempimento essenziale”. Allora proprio in questa norma abbiamo la definizione di adempimento sanante, quindi una nuova offerta di prestazione, che può aversi quando il termine non è ancora scaduto e questa è l’ipotesi in cui il primo adempimento è avvenuto prima della scadenza del termine per cui io voglio “riparare”, e questa parola riparare ci dovrebbe ricordare anche un altro punto di applicazione di questo istituto cioè la vendita dei beni di consumo. Oppure quando il termine è scaduto però il ritardo non rappresenta un inadempimento essenziale. Di Majo ci segnala che c’è una certa apertura della giurisprudenza italiana e precisa questa sentenza n 6643 del 1987 dove la giurisprudenza dà qualche volta la possibilità al debitore di offrire nuovamente la prestazione. Di Majo si chiede ma perchè questo adempimento sanante viene guardato con sfavore? Questo è dovuto al come si sono sempre guardate le obbligazioni delle parti nell’ambito dei contratti di compravendita, perché si è sempre considerato che nella compravendita lo scambio delle prestazioni è trasferimento della proprietà-pagamento del prezzo, per cui la prestazione principale che incombe sul venditore è il trasferimento della proprietà e si realizza con l’effetto traslativo e quindi con il consenso, e allora si è sempre ritenuto che in virtù del principio consensualistico e dell’effetto traslativo, l’interesse non esauriva gli obblighi del contratto, perché ci sono delle ipotesi in cui il bene consegnato presenta dei vizi, senonchè si diceva le norme sui vizi del bene e sulla mancanza della qualità essenziale non erano ritenute adempimento dell’obbligazione di trasferire, ma rientravano nelle norme sulla garanzia, allora si diceva l’effetto traslativo esaurisce l’obbligazione principale del venditore, poi ci sono comunque le norme di garanzia che rappresentano l’effetto naturale del contratto. Ora invece noi abbiamo più volte detto che l’adempimento del contratto di compravendita comprende anche l’obbligo di consegnare beni conformi al contratto e questa possibilità c’è stata data dal punto di vista interpretativo dall’art 130 del codice del consumo, di questo articolo Di Majo ne parla alla fine del capitolo sull’adempimento in natura, noi però ne abbiamo già parlato nella prospettiva rimediale del diritto europeo. Poi ne abbiamo anche parlato quando abbiamo fatto la distinzione tra garanzia responsabilità e garanzia risarcimento. E questo è confermato soprattutto dal diritto in ripristino, perché fra le 4 conseguenze dell’art 130 abbiamo il diritto al ripristino del bene. È evidente che questo diritto al ripristino del bene non appartiene alla sfera della garanzia, ma rappresenta l’oggetto di un’azione di adempimento, questo significa che attraverso la richiesta se io venditore devo dare il telefonino funzionante conforme al contratto, e questo è rotto diciamo è ancora in garanzia, viene visto nell’ottica di garanzia, quindi vendo il telefonino, il contratto è perfetto io ho adempiuto nel momento in cui ho consegnato il telefonino, ma se questo non funziona si applica una norma di garanzia. Secondo Di Majo, l’obbligo del venditore non è solo quello di trasferire la proprietà del telefonino e consegnarlo, ma consegnare un telefonino funzionante conforme al contratto di compravendita. Se accade così, ed io riporto il telefonino al venditore per farmelo riparare, secondo Di Majo, poiché l’obbligo del venditore era quello di consegnarmi un telefonino funzionante, questo fa parte dell’azione d’adempimento, e si differenzia dalla garanzia, perché nella garanzia noi non abbiamo il ripristino e la riparazione, ma abbiamo solo i rimedi della riduzione del prezzo e della risoluzione del contratto che sono rimedi che servono a riequilibrare la situazione del contratto, ma non mi fanno avere la stessa utilità che dovevo avere secondo contratto e di conseguenza sono proprio i rimedi che ci provengono dalla normativa europea che ci fanno transitare le norme previste per la violazione della vendita dei beni di consumo nell’area dell’azione di adempimento. Dando uno sguardo veloce agli altri ordinamenti europei, va sottolineato come l’adempimento in natura stia trovando spazi di applicazione sempre più ampi.
La tutela è collocata nell’ambito delle norme sulla tutela dei diritti, quindi è una forma di tutela costitutiva, il giudice interviene e modifica la sfera giuridica delle parti ed emette una sentenza che tiene luogo del consenso non prestato. Di Majo dice dal punto di vista della tutela è una tutela costitutiva, ma dal punto di vista dell’obbligo inadempiuto noi possiamo ben considerarlo come l’esecuzione specifica, un adempimento in natura, io ottengo dal giudice quello che volevo: il contratto definitivo. Ricordiamo che Galgano pone in evidenza il fatto che io in sede giudiziale devo offrire la controprestazione, lui la qualifica come una condizione sospensiva che viene inserita nella sentenza.
Il problema che si pongono sia Di Majo che Galgano è questo, ma il giudice ha il potere di modificare il contenuto del contratto definitivo? se noi lo consideriamo come adempimento in natura dobbiamo conservare l’identità tra contratto preliminare e contratto definitivo, perché la prestazione deve essere quella e proprio quella.
Per tantissimo tempo si è pensato che il giudice non potesse far altro che limitarsi a trasfondere le clausole del contratto preliminare in quello definitivo, ma questa interpretazione è cambiata, e oggi si ritiene che il giudice può modificare in parte il contenuto del contratto soprattutto sotto due punti di vista:
Quindi secondo Di Majo anche la tutela specifica dell’obbligo di contrarre costituisce ampliamento dei casi di applicazione dell’azione di adempimento in natura.
Il comportamento del creditore assume rilievo principalmente sotto 2 profili: la richiesta al debitore di eseguire la prestazione e la ricezione della prestazione.
La richiesta di pagamento integra gli estremi dell’esercizio stragiudiziale della pretesa creditoria. Al riguardo occorre distinguere la richiesta informale della prestazione dall’intimazione ad adempiere. La richiesta informale rappresenta un mero invito, di solito privo di rilevanza sul piano giuridico, salvo il caso in cui la richiesta della prestazione assolva indirettamente alla funzione di determinare il termine per l’adempimento (determinazione che spetta al creditore). La intimazione ad adempiere (art. 1219) ha un duplice effetto: 1) qualifica il ritardo già in essere, dando ingresso alla disciplina della mora del debitore; 2) interrompe il corso della prescrizione. L’intimazione ad adempiere necessita della forma scritta, sebbene non siano richieste particolari forme sacramentali.
Diversa è la diffida ad adempiere (art. 1454) che riguarda i contratti a prestazioni corrispettive e che comporta l’automatica risoluzione del contratto da cui l’obbligazione discende ove la prestazione non sia eseguita entro il termine intimato.
Quanto alla ricezione della prestazione, il più delle volte l’esecuzione della prestazione non è possibile senza la cooperazione del creditore, che deve essere disponibile a riceverla (es. consegna di un bene o pagamento di somma di denaro). Vi sono, però, casi in cui l’esatto adempimento prescinde dalla cooperazione del creditore (es. obbligazioni di non facere). La ricezione della prestazione assume rilievo ai fini del controllo della stessa: il creditore, infatti, può rifiutare la prestazione ove essa non costituisca esatto adempimento dell’obbligazione. L’inesattezza della prestazione può riguardare il luogo o il tempo in cui essa va eseguita. Quanto al tempo, il discorso vale solo per i casi in cui il termine sia fissato (anche) nell’interesse del creditore e il debitore pretenda di adempiere prima della scadenza. Laddove il termine sia scaduto, il creditore non può rifiutare la prestazione adducendo come motivo il ritardo, salvo che non abbia più interesse a conseguirla.
L’inesattezza, inoltre, può essere qualitativa o quantitativa: nel 1° caso il creditore può rifiutare una prestazione diversa, anche se di valore maggiore; nel 2° caso l’art. 1181 stabilisce che il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile, salvo diversa volontà delle parti o della legge (ad. es. in materia di cambiale e assegno).
Solo l’esatto adempimento dell’obbligazione estingue il vincolo: una prestazione quantitativamen-te o qualitativamente inesatta, anche se di maggior valore rispetto a quella dovuta può essere legittimamente rifiutata dal creditore. Tuttavia, le parti possono convenire che il debitore si liberi eseguendo una prestazione diversa da quella originaria. E’ quello che accade quando le parti concludono una datio in solutum (dazione in pagamento), che il codice chiama prestazione in luogo dell’adempimento. La datio in solutum differisce dalla novazione: la novazione comporta l’estinzione dell’obbligazione preesistente e la sostituzione con un’obbligazione nuova e diversa; nella datio in solutum l’obbligazione rimane in vita senza che il suo oggetto muti, in quanto l’unica prestazione dovuta dal debitore ed esigibile dal creditore rimane quella originaria. Insomma, la datio in solutum trasforma un’obbligazione semplice in facoltativa, perché affianca alla prestazione dovuta una prestazione ulteriore non dovuta, ma data in facultate solutionis. Ciò significa che in caso di inadempimento la tutela del creditore è modellata sulla prestazione originaria: questa sarà l’unica prestazione di cui potrà chiedersi l’esecuzione, nonché il parametro su cui quantificare la pretesa risarcitoria. Non contrasta con tale assunto l’art. 1197 che disciplina il caso in cui la datio in solutum consista nel trasferimento della proprietà di un bene determinato: vero è che tale norma estende al creditore la garanzia per l’evizione e per i vizi prevista per la compravendita, ma tali rimedi non possono assimilarsi ad un’azione di esatto adempimento dell’obbligazione avente ad oggetto la prestazione offerta in facultate solutionis, tanto è vero che l’art. precisa che l’accesso a tali rimedi non esclude che il creditore possa richiedere l’adempimento della prestazione originaria e il risarcimento del danno relativo ad essa. Un’ulteriore conferma è che in caso di impossibilità sopravvenuta non imputabile al debitore della prestazione originaria l’obbligazione si estingue e non rileva che la prestazione in luogo dell’adempimento sia ancora possibile. La differenza tra datio in solutum e novazione è che l’art. 1197 ricollega l’effetto estintivo dell’obbligazione non al raggiungimento dell’accordo solutorio, ma all’esecuzione della prestazione in luogo dell’adempi-mento. Nella novazione, invece, è il perfezionamento dell’accordo novativo che estingue l’obbligazione originaria. La dottrina ritiene che la datio in solutum sia un contratto reale, che si perfeziona con la concreta esecuzione della prestazione convenuta. Si può, tuttavia, ritenere che l’accordo solutorio abbia natura consensuale, perché l’accordo solutorio realizza immediatamente, in virtù del principio consensualistico, l’effetto traslativo e, dunque, da luogo all’immediata estinzione dell’obbligazione.
Un’ipotesi particolare di dazione in pagamento ricorre quando, in luogo della prestazione dovuta, il debitore cede al creditore un proprio credito verso un terzo. Anche qui l’accordo solutorio realizza immediatamente, in virtù del principio consensualistico, l’effetto traslativo e, dunque, da luogo all’immediata estinzione dell’obbligazione. In tal caso, però, l’esigenza di tutela del creditore comporta che la cessione si intende convenuta pro solvendo, salvo patto contrario (il cedente è tenuto a garantire la solvenza del debitore ceduto).
La mancata cooperazione del creditore può causare un pregiudizio al debitore, ad es. per i maggiori costi che egli deve sostenere per la custodia del bene che il creditore si rifiuta di ricevere. Esiste, dunque, un interesse del debitore a liberarsi dell’obbligazione, eseguendo la prestazione dovuta. Questo interesse trova espressione negli istituti della mora del creditore e della liberazione coattiva del debitore.
Ai sensi dell’art. 1206 il creditore è in mora quando, senza un legittimo motivo, non riceve il pagamento offertogli dal debitore nelle forme previste dalla legge ovvero non compie quanto necessario affinché il debitore possa eseguire la prestazione.
In particolare, quando l’obbligazione abbia ad oggetto la consegna di cose mobili e questa debba eseguirsi nel domicilio del creditore, l’offerta deve essere reale: il pubblico ufficiale incaricato (notaio o un ufficiale giudiziario) deve cioè recarsi al domicilio del creditore con il denaro o la cosa che costituisce l’oggetto della prestazione.
Si procede, invece, all’offerta per intimazione quando la prestazione consista nella consegna di una cosa mobile da compiersi in luogo diverso dal domicilio del creditore, nella consegna di un bene immobile, in un facere: in tali casi occorre la notificazione di un atto con cui si intima al creditore di presentarsi in un giorno e in un luogo determinati al fine di ricevere la prestazione.
Quanto agli effetti di tale disciplina essi sono conformati all’esigenza di trasferire sul creditore tutti i costi e i rischi che il protrarsi del vincolo obbligatorio comporta:
Tali effetti si verificano ex tunc, cioè dal giorno dell’offerta, ma solo ove essa sia stata accettata dal creditore o dichiarata valida con sentenza passata in giudicato. Un’offerta non conforme alle modalità prescritte avrà come sola conseguenza di escludere che il debitore possa essere considerato in mora, purché presenti i requisiti della serietà e dell’effettività: si parla in tal caso di offerta non formale.
La mora del creditore però non fa venir meno l’obbligazione: essa non esclude la responsabilità del debitore ove la prestazione si riveli inesatta al momento in cui il creditore accetti di riceverla.
Oltre all’offerta formale e a quella informale, il codice prevede l’offerta secondo gli usi: in tal caso gli effetti della mora del creditore si verificano dal giorno in cui il debitore esegua il deposito liberatorio e sempre che esso venga dichiarato valido con sentenza passata in giudicato o accettato dal creditore. Mentre la mora del creditore pone il debitore al riparo dalle conseguenze pregiudizievoli del persistere dell’obbligazione, il deposito liberatorio gli consente di liberarsi in via definitiva dal vincolo dal momento della sua dichiarazione di validità o dell’accettazione da parte del creditore; se la prestazione ha ad oggetto un bene immobile il debitore si libera dal momento in cui ha consegnato il bene al sequestratario. Al deposito si può dare corso solo dopo che il debitore abbia proceduto invano all’offerta formale della prestazione e consiste nel deposito della somma di denaro o della cosa mobile presso un istituto di credito o un locale idoneo. Se la prestazione consiste nel rilascio di un bene immobile si procede alla consegna dello stesso ad un sequestratario nominato dal giudice.
L’inadempimento dell’obbligazione comporta il sorgere di una responsabilità a carico del debitore, che sarà tenuto a risarcire i danni che la mancata attuazione del programma obbligatorio ha cagionato al creditore. Tale responsabilità si dice contrattuale secondo una terminologia impropria, in quanto essa discende dall’inadempimento di un’obbligazione che può avere, ma può anche non avere fonte contrattuale. Quanto alla nozione di inadempimento, dall’art. 1218 si evince che esso può consistere nella mancata esecuzione della prestazione o nella sua inesattezza, che può rilevare sotto il profilo quantitativo, qualitativo o temporale nel caso di ritardo. Le differenze tra questi modi di inadempimento incidono sulla quantificazione del danno risarcibile.
L’art. 1218 stabilisce che <<il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile>>. Duplice è, dunque, l’oggetto della prova che il debitore deve fornire per sottrarsi all’obbligazione risarcitoria: 1) l’impossibilità sopravvenuta della prestazione; 2) la non imputabilità della impossibilità alla sua condotta. Egli dovrà dimostrare che l’impossibilità è stata cagionata da un evento straordinario e imprevedibile sottratto alla sua sfera di controllo perché riconducibile al caso fortuito o alla forza maggiore. Fornita questa prova, egli sarà libero a seguito dell’estinzione dell’obbligazione.
Ai sensi dell’art. 1176, 1° co. nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Se l’obbligazione inerisce all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza andrà valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata: formula con cui l’art. 1176, 2° co. rinvia alle competenze e alle tecniche che devono informare l’esecuzione della prestazione, tenuto conto dello stato dell’arte raggiunto nel settore di volta in volta considerato.
Ora il richiamo operato dall’art. 1176 alla diligenza e alla perizia (che insieme alla prudenza costituiscono i parametri di valutazione della colpa) sembrano andare in una direzione opposta a quella indicata dall’art. 1218: per quest’ultimo art. la responsabilità contrattuale avrebbe un fondamento oggettivo costituito dall’inadempimento, mentre per l’art. 1176 il fondamento della responsabilità contrattuale andrebbe rintracciato nella colpa, sicché occorrerebbe distinguere tra inadempimento imputabile (perché colposo) che fa sorgere la responsabilità e inadempimento non imputabile (perché non colposo) che non la fa sorgere.
La giurisprudenza ha tentato di risolvere l’antinomia ricorrendo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi riconducibili all’art. 1176 e obbligazioni di risultato riconducibili all’art. 1218. Le obbligazioni di mezzo sarebbero quelle nelle quali la prestazione è costituita dall’agire con diligenza, perizia e prudenza, collocandosi il pieno soddisfacimento dell’interesse creditorio fuori dal perimetro del rapporto obbligatorio (ad es. l’obbligazione gravante sul chirurgo, che deve fare tutto ciò che la sua disciplina impone per salvare il paziente, ma che non è tenuto a salvarlo effettivamente). Le obbligazioni di risultato sarebbero quelle caratterizzate da una perfetta coincidenza tra l’utilità assicurata dalla prestazione oggetto dell’obbligazione e l’interesse del creditore (ad es. la restituzione da parte del mutuatario della somma a suo tempo prestatagli dal mutuante).
A ben vedere risulta erronea la convinzione che nelle obbligazioni di mezzi il debitore non sia tenuto a realizzare un determinato risultato, ma solo a porre in essere il comportamento strumentale alla realizzazione del medesimo. Ad es. rapporto tra chirurgo e paziente: qui il professionista è tenuto ad agire in modo diligente e tale condotta individua sia l’oggetto dell’obbligazione, sia l’utilità assicurata al creditore. Tale è stata la conclusione della Cassazione nel 2008 che, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sociale e di responsabilità professionale dal contatto sociale del medico, ha statuito che il paziente danneggiato (attore) deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e ad allegare l’inadempimento del debitore, rimanendo a carico del debitore l’onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato o che esso non è stato eziologicamente rilevante.
In realtà l’art. 1176 attraverso il richiamo alla diligenza del buon padre di famiglia determina la misura dello sforzo esigibile dal debitore, al di là del quale la prestazione diviene impossibile: ciò significa che l’impossibilità di cui all’art. 1218 è un’impossibilità relativa che si deve commisurare allo sforzo esigibile del debitore valutato secondo il parametro della diligenza di cui all’art. 1176.
Dagli artt. 1223 ss. emerge che l’inadempimento ha come conseguenza un’obbligazione risarcitoria, che si sostituisce all’originaria ovvero si aggiunge ad essa, ove l’inadempimento consista nel semplice ritardo nell’esecuzione della prestazione: in tale ultimo caso deve essere risarcito solo il danno patito dal creditore per non aver potuto beneficiare tempestivamente della utilità assicuratagli dalla prestazione. A fronte dell’inadempimento, il creditore deve rivolgersi al giudice per chiedere la condanna del debitore al risarcimento del danno. Ove il debitore non ottemperi spontaneamente alla sentenza di condanna, il creditore potrà agire in via esecutiva nei suoi confronti: l’esecuzione forzata consisterà nell’espropriazione dei singoli beni del debitore, nella loro vendita giudiziale e nell’assegnazione al creditore del ricavato realizzato, fino a concorrenza dell’importo dovuto.
Si suol dire che il risarcimento del danno tutela l’interesse del creditore solo per equivalente, perché gli consente di ottenere una somma di denaro corrispondente al pregiudizio subito a causa dell’inadempimento.
L’ordinamento accorda al creditore, oltre ad una tutela risarcitoria, anche una tutela reale, intesa a fargli ottenere esattamente ciò che avrebbe ottenuto se il debitore avesse eseguito la prestazione. Un es. è l’art. 1453, ai sensi del quale nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempia la prestazione, l’altro può chiedere alternativamente l’adempimento o la risoluzione del contratto: tale art. introduce un rimedio diverso dal risarcimento del danno, perché diretto ad ottenere l’adempimento in natura dell’obbligazione, cioè ad assicurare al creditore il conseguimento del bene o dell’utilitas che egli attendeva dalla regolare esecuzione del rapporto.
Un’altra forma di tutela reale è l’esecuzione in forma specifica: con tale espressione si intende quella peculiare forma che il processo esecutivo assume allorché la sentenza condanni il debitore a consegnare o a rilasciare il bene, a eseguire una prestazione consistente in un facere, a distruggere l’opera che è stata realizzata in violazione di un obbligo di non facere o produca gli effetti del contratto non concluso allorché il debitore si sia sottratto all’obbligazione di concludere un contratto. Nel caso di un obbligo avente ad oggetto la consegna o il rilascio di un bene sarà l’ufficiale giudiziario, eventualmente assistito dalla forza pubblica, a sottrarre il bene al debitore e ad immettere il creditore nel suo possesso. Quando l’obbligo abbia ad oggetto un facere, il creditore, attraverso l’esecuzione in forma specifica, ottiene che la prestazione sia eseguita da un terzo, ma a spese del debitore. Nel caso di un’obbligazione di non facere, l’attuazione forzosa di essa implica la distruzione dell’opus realizzato in violazione dell’impegno assunto. Se l’obbligazione consiste in un facere giuridico, ossia in un obbligo di concludere il contratto, il rimedio previsto dall’ordinamento è una sentenza costitutiva, che produce gli stessi effetti che sarebbero scaturiti dal contratto non concluso (ai sensi dell’art. 2932 il ricorso alla tutela specifica deve essere possibile e non escluso dal titolo).
L’esecuzione in forma specifica non potrà aver luogo ove la prestazione consista in un facere infungibile, perché in tal caso la sua esecuzione ad opera di un terzo non sarebbe idonea a soddisfa-re l’interesse del creditore, ovvero ove la prestazione consista in un non facere e non sia possibile eliminare le conseguenze dell’inadempimento (ad es. titolare di un diritto che si è impegnato a non trasferirlo ad un terzo: qui la pretesa del creditore incontra un limite insuperabile nella sfera possessoria del terzo acquirente; del resto ai sensi dell’art. 1379 il divieto di alienazione ha efficacia solo tra le parti). Il limite di infungibilità della prestazione può essere superato indirettamente sulla base dell’art. 641 c.p.c., secondo cui << con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Il giudice determina l’ammontare della somma dovuta tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile>>. In questo modo si può ottenere che il debitore, sulla base di un calcolo dei costi che il persistere dell’inadempimento comporta, decida di eseguire una prestazione infungibile.
Il rimedio risarcitorio e la tutela reale sono rimedi alternativi, ma occorre precisare che il conseguimento tardivo della prestazione implica sempre e comunque un danno per il creditore, sicché la misura risarcitoria in tal caso coesiste con la tutela in natura.
Nel caso in cui l’obbligazione abbia ad oggetto una somma di denaro, la distinzione tra tutela reale e tutela risarcitoria perde significato, perche il creditore potrà sempre agire per ottenere la prestazione primaria (l’adempimento), incrementata dal risarcimento del danno da ritardo.
Il ritardo con cui la prestazione viene eseguita è una forma di inadempimento. Esso assume valore autonomo, anche ai fini del danno risarcibile, solo quando il debitore abbia eseguito la prestazione tardivamente: in tal caso sarà risarcito un danno commisurato al maggior tempo atteso dal creditore per conseguire la prestazione.
In alcuni casi si può verificare che il ritardo si cristallizzi in un inadempimento definitivo, ad es. perché il creditore ottenga la risoluzione per inadempimento del titolo contrattuale: in tal caso il ritardo non rivela autonomamente come fonte della responsabilità contrattuale del debitore, perché è assorbito dall’inadempimento definitivo, quindi il danno sarà commisurato totalmente al mancato conseguimento della prestazione.
Si può anche verificare che la prestazione non eseguita dopo la scadenza del termine diventi impossibile: ciò, fatta salva la disciplina della mora del debitore, determina l’estinzione della obbligazione ed elide alla radice la rilevanza del ritardo.
La disciplina della mora del debitore prevede che il debitore sia stato costituito in mora dal creditore mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto: in tal caso la mora consegue ad un atto di intimazione, per il quale è richiesta ad substantiam actus la forma scritta (non è richiesta l’adozione di formule sacramentali).
Quanto alla natura (struttura) la costituzione in mora è un atto unilaterale recettizio, di cui si esclude la natura negoziale, atteso che esso produce l’effetto di costituzione in mora del debitore indipendentemente dalla circostanza che a tale effetto fosse consapevolmente preordinata la volontà del creditore: da qui la riconducibilità dell’intimazione ad adempiere alla categoria degli atti giuridici in senso stretto.
Esistono 3 ipotesi in cui il regime della mora opera automaticamente, senza che sia necessaria un’intimazione scritta: 1) quando l’obbligazione derivi da fatto illecito (in tal caso il debitore si considera in mora dal momento in cui si verifica l’evento lesivo, sebbene a quella data l’obbligazione fosse ancora illiquida); 2) quando il debitore, già in ritardo, abbia dichiarato per iscritto di non volere adempiere (salvo il caso che il rifiuto di adempiere non integri gli estremi dell’autotutela ai sensi degli artt. 1460 e 1461, a causa dell’inadempimento dell’altra parte; Cassazione 2010); 3) quando l’obbligazione vada adempiuta al domicilio del creditore e sia scaduto il termine posto nell’interesse del debitore (è il caso, ove il titolo non disponga diversamente, delle obbligazioni pecuniarie: art. 1182, 3° co.). In tale ultimo caso la Cassazione (2004) ha statuito che l’art. 1182, 3° co., secondo cui l’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro deve essere adempiuta al domicilio del creditore, si applica solo nel caso in cui l’obbligazione abbia per oggetto una somma liquida o determinabile con un semplice calcolo aritmetico; in caso contrario, trova applicazione il 2° co. ai sensi del quale l’obbligazione si adempie al domicilio che il debitore aveva al momento della scadenza. Difettando la liquidità, non sono dovuti interessi corrispettivi e la mora del debitore si determina mediante richiesta formulata per intimazione o atto scritto e dal tale momento decorrono gli interessi moratori.
Quanto agli effetti della mora, l’art. 1224 stabilisce che <<Nelle obbligazioni che hanno ad oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori>>. L’art. 1221 si occupa dell’allocazione del rischio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore. Come osservato, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore provoca l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive. Viceversa, ove sia intervenuta la mora, il debitore non solo non è liberato, ma sarà chiamato a rispondere dell’inattuazione dell’interesse creditorio: il rischio dell’impossibilità della prestazione ricade, dunque, sul debitore. Questi, tuttavia, può sottrarsi ove fornisca la prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore (ove essa fosse stata adempiuta tempestivamente). L’art. 1222 stabilisce che la mora del debitore non si applica alle obbligazioni negative, cioè aventi ad oggetto un non fare.
Per danno si intende la differenza che passa tra la situazione patrimoniale in cui si trova il creditore per effetto dell’inadempimento e quella in cui si sarebbe trovato ove l’obbligazione fosse stata adempiuta. L’art. 1223 stabilisce che il risarcimento deve comprendere tanto la perdita subita (danno emergente), quanto il mancato guadagno (lucro cessante, ossia il profitto che il creditore avrebbe potuto conseguire se avesse potuto utilizzare il bene o il servizio che il debitore non ha prestato). Ad es. Tizio, titolare di un’impresa di arredi, acquista da Caio una partita di legno e, poiché il contratto prevede che la consegna abbia luogo presso il domicilio del venditore, ingaggia un vettore perché provveda al trasporto; Tizio, inoltre, si è impegnato a realizzare con quel legno dei mobili per Sempronio. La partita di legno non viene consegnata e Sempronio decide di risolvere il contratto. Qui il danno emergente è pari al valore della partita di legno più le spese di trasporto, mentre il lucro cessante è pari al profitto che Tizio avrebbe conseguito se il contratto non si fosse risolto.
Danno emergente e lucro cessante sono risarcibili solo quando siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, ossia quando sussista un nesso di causalità tra l’evento (inadempi-mento) e il danno di cui si chiede il risarcimento. Non va accertata la causalità materiale (nesso eziologico tra condotta del debitore e evento lesivo), perché nella responsabilità contrattuale il debitore risponde dell’inadempimento in termini oggettivi, ma va accertata la casualità giuridica, ossia il nesso eziologico tra inadempimento e pregiudizio di cui si chiede il ristoro. Tale apprezzamento è rimesso alla discrezionalità del giudice e va condotto alla luce del caso concreto. La giurisprudenza adopera il criterio della regolarità causale o casualità adeguata, secondo cui per la risarcibilità di un danno devono ricorrere 2 presupposti. 1) il danno deve presentarsi, sul piano fattuale, come una conseguenza dell’inadempimento; deve risultare cioè che esso non si sarebbe verificato se la prestazione fosse stata eseguita (condicio sine qua non); 2) la serie causale che ha condotto dall’inadempimento (antecedente) al danno (conseguenza) deve essere regolare, perché in caso contrario il danno si colloca fuori dall’area del rischio (inteso come costo dell’inadempimento) sopportabile dal debitore. Quando a determinare il danno abbiano concorso, oltre all’inadempimento, anche altre serie causali autonome, si applica il principio della causalità efficiente, secondo cui si seleziona tra gli antecedenti, attuati in base al criterio della condicio sine qua non, solo quello che ha effettivamente causato il danno.
L’art. 1225 stabilisce che è risarcibile il solo danno prevedibile al momento del sorgere dell’obbligazione (ciò al fine di evitare al debitore costi ultronei rispetto a quelli originariamente assunti). Il limite della prevedibilità non opera nel caso di inadempimento doloso.
L’art. 1227, 1° co. stabilisce che, nel caso in cui il creditore abbia concorso con la sua condotta colposa all’insorgere del danno, il risarcimento dovrà essere diminuito in una misura corrisponden-te alla colpa del creditore e alla gravità delle conseguenze. L’art. 1227, 2° co. stabilisce che non sono risarcibili i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
L’art. 1226 stabilisce che il giudice può liquidare il danno in via equitativa qualora esso non possa provarsi nel suo preciso ammontare.
Le disposizioni del codice per la determinazione del danno sono derogabili dalle parti, che possono disciplinare diversamente le conseguenze dell’inadempimento: un es. è la clausola penale con cui si perviene ad una liquidazione convenzionale, preventiva e forfettaria del danno che il debitore dovrà risarcire in caso di inadempimento.
La derogabilità ad opera delle parti incontra un limite nell’art. 1229, 1° co., che sancisce la nullità del patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore anche in relazione alle ipotesi in cui l’inadempimento dipenda da dolo o colpa (es. contratto di somministrazione periodica di merce ove si preveda che il somministrante non debba rispondere di un inadempimento provocato da un’interruzione della fornitura di energia elettrica qualunque ne sia la causa). Più frequenti sono le clausole che non escludono, ma limitano la responsabilità del debitore ad un determinato importo: tali clausole saranno nulle nella parte in cui estendano tale limitazione all’ipotesi in cui la condotta del debitore sia dolosa o colposa. Con riferimento a queste ultime clausole è difficile stabilire quando la limitazione incida sulla responsabilità e quando, invece, attenga all’oggetto del contratto. Ad es. contratti aventi ad oggetto il servizio bancario delle cassette di sicurezza, che prevedono che la banca risponda in caso di furto solo fino ad un determinato importo: tale previsione è suscettibile di essere interpretata come limitativa della responsabilità della banca o come volta a circoscrivere l’oggetto della prestazione cui la banca è tenuta. Nel 1° caso la clausola sarà nulla.
L’art. 1229, 2° co. stabilisce che è, altresì, nulla la clausola di esonero o limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico (ad es. sarà nulla la clausola che escluda o limiti la responsabilità del vettore per i danni patiti dai trasportati, perché qui l’inadempimento incide sulla tutela di un diritto fondamentale, il diritto alla salute).
La Cassazione ha statuito nel 2010 che il debitore che si avvale nell’adempimento dell’opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi di questi, sicché ove si tratti di fatto doloso dell’ausiliario il debitore è responsabile anche per danni non prevedibili e tale responsabilità non può essere esclusa o limitata sulla base di un patto preventivo.
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