Rassegna di giurisprudenza -Gli orientamenti delle Sezioni Civili - anno 2015 -

CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI PARTE PRIMA IL DIRITTO DELLE PERSONE, DELLA FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI CAPITOLO I PERSONE E ASSOCIAZIONI (di Marina Cirese) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La tutela della salute ed il principio di solidarietà. – 3. Il diritto alla identità personale. – 4. Il diritto alla riservatezza. – 4.1. La tutela dell'immagine. – 4.2. Il trattamento dei dati personali. – 4.3. La revoca del consenso. – 4.4. Riservatezza e diritto di cronaca. – 5. Il diritto all'identità sessuale. – 6. Il mutamento di sesso. – 7. Mutamento di sesso e matrimonio. – 8. Il diritto alla cittadinanza. – 9. Il diritto alla identità ed al nome delle associazioni.

1. Premessa. I diritti della persona, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, sono stati oggetto di varie pronunce della Suprema Corte che, nel corso del 2015, talvolta si è mossa nel solco dei paradigmi ermeneutici propri degli orientamenti precedenti, pur senza trascurare opportuni approfondimenti, talaltra ha riconosciuto specifica tutela a nuovi aspetti emergenti dall'evoluzione culturale e normativa. 2. La tutela della salute ed il principio di solidarietà. La dimensione primaria e costituzionalmente garantita del diritto alla salute, sancito dall'art. 32 Cost., ha ispirato Sez. L, n. 07279/2015, Balestrieri, Rv 635166, che, in tema di erogazione da parte del s.s.n. di cure tempestive non ottenibili dal servizio pubblico (nella specie la terapia Dikul), ha statuito, giudicando corretta la decisione dei giudici di merito, che il relativo diritto, allorquando siano prospettati motivi di urgenza suscettibili di esporre la salute a pregiudizi gravi ed irreversibili, deve essere accertato sulla base dei presupposti richiesti dalla disciplina dettata in materia sanitaria dall'art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (nel testo modificato dall'art. 1 del d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, applicabile ratione temporis). In base al principio di efficacia enunciato da tale normativa, i benefici conseguibili con la prestazione richiesta devono essere posti a confronto con l'incidenza della pratica terapeutica sulle condizioni di vita del paziente, dovendosi valutare in relazione ai 1 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI limiti temporali del recupero delle capacità funzionali, la compromissione degli interessi di socializzazione della persona derivante dalla durata e gravosità dell'impegno terapeutico. In tal caso, la Corte ha chiarito che, tenendo conto del diritto primario e costituzionalmente tutelato alla salute, il principio di efficacia ed appropriatezza della terapia (previsto dall'art. 7, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 229 del 1999) non può essere eluso dalla mera carenza di «evidenze scientifiche disponibili» e ciò sia per l'equivalenza nella stessa lettera della legge dei due precetti, sia in quanto le evidenze scientifiche possono venire in rilievo solo se sia stata provata l'inefficacia della cura e non già quando essa sia solo dubbia. Il principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost. viene espressamente richiamato in Sez. L, n. 03064/2015, Ghinoy, Rv. 634318 che stabilisce che la tutela privilegiata per le provvidenze da invalidità pensionabile di cui all'art. 149 disp. att. c.p.c. esprime un principio di economia processuale ex art. 111, comma 1 e 2, Cost., funzionale ad una sollecita risposta giudiziaria alla domanda di tutela di diritti considerati primari, cosicché la stessa trova applicazione anche con riguardo all'indennizzo di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210 per i pregiudizi permanenti da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati che si configura come diritto soggettivo ad una prestazione economica a carattere assistenziale al quale sono sottese ragioni di solidarietà nonché di contrasto del bisogno. Peraltro, in ipotesi di ritardata corresponsione dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, di cui all'art. 1 della l. n. 210 del 1992, non è configurabile il risarcimento di un danno non patrimoniale, essendo il valore inerente la persona già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo, nonché dei relativi accessori, come statuito da Sez. L, n. 07912/2015, Buffa, Rv. 635121. A confermare la necessità di un adeguato sistema di controllo dei provvedimenti incidenti sulla libertà personale e sulla salute, in materia di trattamento sanitario obbligatorio, la Corte con Sez. 1, n. 23297/2015, Acierno, in corso di massimazione, ha stabilito che, nel regime successivo al d.lgs. n. 150 del 2011, i provvedimenti del tribunale assunti su ricorso avverso l'ordinanza di convalida del trattamento sanitario obbligatorio emessa dal giudice tutelare sono impugnabili ex art. 702 quater c.p.c. con appello, essendo ad essi applicabile il rito sommario di cognizione ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 160 del 2011. 2 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI 3. Il diritto all'identità personale. Tra i diritti inerenti alla persona di matrice giurisprudenziale va annoverato il diritto all'identità personale. La Corte con Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636629 ha riconosciuto il diritto all'identità personale e sociale quale diritto della persona costituzionalmente garantito, cosicché la sua lesione in conseguenza di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso, ed in quanto tale in seguito disconosciuto, comporta, secondo una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato a prescindere dal fatto che ricorra o meno un'ipotesi di reato. 4. Il diritto alla riservatezza. L'elaborazione di un diritto alla riservatezza facente capo ad ogni soggetto come estrinsecazione dei diritti della personalità è stata oggetto di diverse pronunce della Corte. 4.1. La tutela dell'immagine. Secondo la definizione di cui all'art. 4 del d.lgs. del 30 giugno 2003, n. 196 (cd. Codice della privacy), sono dati personali sia i dati identificativi della persona, ovvero quelli che ne permettono l'identificazione diretta, come i dati anagrafici e le immagini, sia i dati sensibili, ovvero quelli che possono rivelare notizie inerenti, per esempio, all'origine razziale ed etnica, alle convinzioni filosofiche e religiose, allo stato di salute o alla vita sessuale. Dato identificativo è in primis l'immagine. La Sez. 2, n. 17440/2015, Petitti, Rv. 636404 ha stabilito che l'immagine di una persona costituisce dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003, trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà, cosicché l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale, allo scopo di controllare l'accesso degli avventori, costituisce trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell'informativa di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, rivolta ai soggetti che facciano ingresso nel locale. Nel caso sottopostole, la Corte, intervenuta sul ricorso del Garante per la protezione dei dati personali contro la sentenza che aveva accolto l'opposizione di un titolare di un negozio commerciale alla sanzione amministrativa per omessa informativa privacy di segnalazione di una telecamera, ha confermato che non si 3 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI può dubitare che l'immagine costituisca dato personale in quanto dato idoneo a identificare una persona e richiama il proprio recente orientamento, la direttiva europea n. 97/46 CE, l'art. 134 della l. n. 196 del 2003, la convenzione n. 108/1981 del Consiglio di Europa, il documento sulla videosorveglianza WP67 del 2002 del gruppo di lavoro dei Garanti europei costituito ai sensi dell'art. 29 della direttiva. Ne consegue, pertanto, che il trattamento delle immagini deve essere oggetto di apposita informativa ai sensi della l. n. 106 del 2003, sicché le aziende non possono installare telecamere senza informare gli interessati che stanno per accedere o che si trovano in una zona videosorvegliata e dell'eventuale registrazione. La sentenza in esame è di particolare interesse in quanto riguarda la videosorveglianza, considerato uno dei settori di maggior sviluppo in Italia nonché in continua trasformazione. 4.2. Il trattamento dei dati personali. Contrapponendosi a precedente giurisprudenza di legittimità in fattispecie analoga (Sez. 1, n. 10947/2014, Dogliotti, Rv. 631481), la Sez. 3, n. 10280/2015, Rossetti, Rv. 635371 ha stabilito che l'obbligo per la Pubblica Amministrazione di procedere alla cifratura dei dati sensibili contenuti in banche dati, sancito dall'art. 22, comma 6, del d.lgs. n. 196 del 2003, è finalizzato esclusivamente a prevenire abusi nella gestione e nell'accesso a queste ultime, sicché esso non sussiste per quei dati, anche sensibili, che la stessa, in adempimento di obblighi di legge, trasmetta al titolare o al soggetto da questi indicato. Ne consegue che non costituisce illegittimo trattamento di dati sensibili, da parte della Pubblica Amministrazione., l'indicazione della causale di un pagamento effettuato per ragione di assistenza e previdenza, a nulla rilevando che quella causale possa, in astratto, rivelare le condizioni di salute del percettore. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto illegittima la condotta tenuta dalla Regione e dalla banca per aver trasmesso ed indicato un dato sensibile, costituito dal riferimento alla legge n. 210 del 1992, la prima inoltrandolo e la seconda riportandolo nell'estratto conto quale causale del bonifico disposto in favore della sua cliente. In particolare, la Corte, ha, chiarito che la generica informazione secondo cui un soggetto è percettore di un indennizzo ai sensi della legge n. 210 del 1992, non è, di per sé, idonea a rivelare lo stato di salute del beneficiario alla stregua dell'art. 2 della menzionata legge, in quanto l'erogazione suddetta potrebbe avvenire tanto in via diretta, quanto in via di "reversibilità", ed in questo caso l'elargizione dipende non da una 4 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI malattia dell'accipiens, bensì da una patologia del suo dante causa, altresì precisandosi che l'idoneità di un dato sensibile a rivelare stati personali va valutata in base al contenuto oggettivo di esso, e non in base all'opinione o al pregiudizio che il pubblico possa concepire in merito. La Corte ha peraltro affermato che la comunicazione del dato sensibile ad un soggetto determinato non costituisce "diffusione" dello stesso, atteso che solo la indeterminatezza dei destinatari dell'informazione consente di qualificare come "diffusione" il trattamento dei dati concernenti lo stato di salute. Successivamente, muovendo dall'analisi dell'art. 22 del d.lgs. n. 196 del 2003, ed in particolare del suo comma 6, la Corte ha evidenziato che la riportata disposizione esige la cifratura: a) solo dei dati contenuti in banche dati o registri elettronici; b) esclusivamente ai fini della gestione ed interrogazione degli stessi, come rende evidente il riferimento alle persone autorizzate ad accedervi, sottolineando che il senso della norma è di impedire che, attraverso la consultazione d'una banca dati per fini di lavoro, studio o ricerca, possano essere identificati i titolari dei dati inseriti nella banca stessa. Ha poi sottolineato la Corte che i soggetti privati, diversamente da quelli pubblici, hanno l'obbligo di cifrare i soli dati idonei a rivelare lo stato di salute del titolare e trattati con strumenti elettronici. Si è, quindi, affermato che la trasmissione di dati personali al rappresentante del titolare, avvenuta con il consenso di quest'ultimo, equivale a quella effettuata direttamente al titolare, e non integra, pertanto, una «comunicazione» ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. l), del d.lgs. n. 196 del 2003, in virtù del principio di imputazione degli effetti dal rappresentante al rappresentato e considerato, altresì, che la nomina di un rappresentante per ricevere dichiarazioni recanti dati sensibili costituisce un implicito consenso alla comunicazione degli stessi al rappresentante medesimo. Secondo i principi enunciati, il trattamento di dati personali da parte della P.A., per i propri fini istituzionali, non richiede il relativo consenso dell'interessato (art. 18, comma 4, del d.lgs. n. 196 del 2003), mentre il trattamento di dati sensibili da parte della stessa, anche se necessario per i propri fini istituzionali, esige invece una norma di legge che lo autorizzi (art. 20, comma 1 d.lgs. n. 196 del 2003). Nella concreta fattispecie alla sua attenzione, la S.C., per quanto si è già detto, ha ritenuto che la dizione "assegno ex lege 210/92" non costituiva un dato sensibile, e dunque la sua comunicazione non richiedeva una norma di legge autorizzatrice, né 5 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI il consenso della titolare. Ma anche se quella dizione fosse stata inquadrabile tra i "dati sensibili", comunque la sua comunicazione sarebbe stata lecita, in quanto autorizzata da specifiche disposizioni di legge (l'art. 409 del r.d. 23 maggio 1924, n. 827; l'art. 185 del d.lgs. 10 agosto 2000, n. 267; il Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 16 dicembre 2009, n. 5, il quale ha autorizzato il trattamento di dati sensibili per fini previdenziali da parte delle banche). Pertanto, la comunicazione della causale di pagamento da parte della Regione all'istituto bancario era stata lecita, sia perché le P.A hanno l'obbligo di tale indicazione, sia perché il pagamento aveva ad oggetto una prestazione rientrante nel genus delle prestazioni assistenziali e previdenziali, cui la Regione non poteva sottrarsi. Una siffatta comunicazione, dunque, tenuto conto di quanto desumibile dagli artt. 24, comma 1, 26, comma 4, 68, comma 1, e 73, comma 1, del d.lgs. n. 196 del 2003, non richiedeva alcun consenso da parte dell'interessata. Quanto, invece, all'adempimento di obblighi contrattuali da parte della banca, è stata ritenuta legittima la comunicazione da parte della banca alla propria correntista della "causale" per la quale la Regione aveva effettuato l'accredito dell'emolumento dovutole ai sensi della l. n. 210 del 1992: e ciò in quanto, come già detto, quel dato non doveva qualificarsi come "sensibile", e perché la comunicazione della causale costituiva un obbligo scaturente dal contratto (art. 24 del d.lgs. n. 196 del 2003). La Suprema Corte ha infine sottolineato nella predetta pronuncia che tali conclusioni sono le uniche consentite, oltre che dal diritto nazionale, anche da quello comunitario, il quale non ha mai posto un divieto assoluto di uso dei dati anche sensibili, ma, al contrario, l'ha consentito espressamente per l'adempimento di obblighi contrattuali o scaturenti dalla legge, e comunque per finalità di interesse pubblico. E, nell'interpretazione di tali principi, la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha ripetutamente affermato che la deroga al divieto di trattamento di dati personali senza il consenso dell'interessato è legittima, se finalizzata a perseguire interessi pubblici "proporzionali e necessari" rispetto al sacrificio imposto al diritto alla riservatezza, e che tale conclusione è coerente sia con la Direttiva 95/46/CE, sia con l'art. 8, comma 2, CEDU, che prevede come i diritti dei singoli alla riservatezza possano essere sacrificati a fronte del «benessere economico del paese». In coerenza con i principi dianzi esposti, la Sez. 1, n. 11223/2015, Didone, Rv. 635584 ha affermato che costituisce illecito trattamento di dati sensibili l'avvenuta comunicazione, 6 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI benché effettuata in maniera riservata, da un soggetto pubblico ad un altro, della copia integrale del verbale relativo all'accertamento sanitario eseguito dalla Commissione medica di verifica, in relazione alla richiesta della parte interessata volta ad ottenere il riconoscimento della pensione di inabilità, recante, oltre alla necessaria valutazione medico legale circa l'idoneità all'impiego, altri suoi dati personali che, in quanto relativi alla diagnosi, agli esami obbiettivi ed agli accertamenti clinici e strumentali svolti, nonché ad informazioni anamnestiche, tra cui quelle relative all'infezione da HIV dalla stessa precedentemente contratta, debbono considerarsi irrilevanti ai fini del buon esito del procedimento e, pertanto, da omettere. Secondo Sez. 6-1, n. 25079/2015, Ragonesi, in corso di massimazione, nel caso di invio di messaggi di propaganda elettorale tramite posta elettronica, che implichino il trattamento di dati personali (nella fattispecie del numero di cellulare), sussiste la violazione dell'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003 in quanto in base all'art. 4 lett. c) del c.d. decalogo elettorale è obbligatorio acquisire "una tantum" prima della chiamata o del messaggio il consenso dell'abbonato che deve essere raccolto con formule chiare che specifichino le finalità di propaganda non essendo a tal fine sufficiente il mero silenzio-assenso del medesimo. Sempre in tema di trattamento dei dati personali, la Sez. 1, n. 17790/2015, Lamorgese, Rv. 637096, ha precisato che tra i dati concernenti le persone decedute, cui un erede potrebbe volere accedere per tutelare i propri diritti, non rientrano in base all'art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 196 del 2003, quei dati che identificano terze persone, quali i beneficiari di una polizza sulla vita stipulata dal de cuius, atteso che i dati cui si ha diritto di accedere sono soltanto quelli riconducibili alla sfera personale di questi. 4.3. La revoca del consenso. In materia di trattamento di dati personali, la Sez. 1, n. 17339/2015, Lamorgese, Rv. 636774, ha affermato che la revoca del consenso al trattamento dei dati personali. può essere espressa dall'interessato con richiesta rivolta senza formalità al titolare o al responsabile del trattamento, anche per il tramite di un difensore di fiducia. La vicenda posta all'esame della Corte attiene ad un caso di cessazione del rapporto lavorativo di una dentista con una struttura sanitaria in cui la società proprietaria dello studio aveva conservato, online, i riferimenti alla professionista che aveva richiesto mediante diffida a mezzo raccomandata del proprio legale la cancellazione dei suoi dati dal 7 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI sito web dello studio. In questo quadro, la Corte ha evidenziato che è illogico sostenere, in materia di trattamento dei dati personali, che la revoca debba avvenire, in concreto, con le identiche modalità con cui è stato dato il consenso e ciò in quanto le modalità, con cui può essere revocato il consenso, possono essere varie e anche diverse da quelle concretamente utilizzate per la manifestazione dello stesso, purché esprimano, senza formalità, la volontà della persona. La Corte ha sottolineato che dalla normativa si desume che «ai fini della revoca del consenso, i diritti di accesso ai dati, anche al fine di ottenere l'aggiornamento, la rettificazione, l'integrazione, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima e il blocco dei dati, sono esercitati con richiesta senza formalità al titolare o al responsabile» e «anche per il tramite di un incaricato», come, ad esempio, un legale di fiducia. 4.4. Riservatezza e diritto di cronaca. La Sez. 1, n. 00755/2015, Lamorgese, Rv. 634974, si è occupata del delicato limite esistente tra la diffusione di un'informazione per scopi giornalistici e la protezione dei dati personali nel difficile bilanciamento dei valori costituzionalmente protetti del diritto di cronaca e della dignità della persona. Nel caso sottoposto al suo esame, la Corte ha ritenuto legittimo il provvedimento con cui il Garante della privacy aveva inibito la diffusione, ulteriore ed eccessiva, di dati personali di carattere sanitario relativi ad un evento di interesse pubblico già ampiamente noto nei suoi aspetti principali, rivelandosi la stessa non rispettosa del principio di essenzialità dell'informazione e lesiva del diritto fondamentale della dignità della persona. In particolare la Corte confermava la decisione di merito che aveva ritenuto corretta la decisione dell'Autorità per la protezione dei dati personali di inibire l'ulteriore diffusione, su un settimanale, di dati di carattere sanitario, già pubblicati, relativi alla principessa Diana Spencer, atteso l'eccessivo spazio ivi dedicato ai dettagli anatomici delle ferite riscontrate sul corpo di quest'ultima a seguito del mortale incidente automobilistico occorsole. Con la medesima pronuncia la Corte ha peraltro ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale, per pretesa violazione dell'art. 21 Cost., degli artt. 143 e 154 del d.lgs. n. 196 del 2003, laddove consentono una tutela preventiva ed inibitoria del trattamento illecito e scorretto di dati personali, atteso che la diffusione di dati sensibili senza il consenso del titolare o l'autorizzazione del Garante è condizionata all'essenzialità della divulgazione, a tutela del valore primario della dignità della persona 8 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI coinvolta, che si rivelerebbe parziale qualora fosse limitata a quella risarcitoria per equivalente, senza ulteriormente consentire al titolare dell'interesse sostanziale minacciato o leso di poter impedire preventivamente il compimento o la prosecuzione del suddetto trattamento. Con riguardo all'ipotesi in cui alla pubblicazione della notizia si accompagni anche la diffusione delle immagini dei soggetti coinvolti, la Sez. 1, n. 15360/2015, Mercolino, Rv. 636199, ha chiarito che la presenza delle condizioni legittimanti l'esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell'immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 c.c., 96 e 97, della l. 22 aprile 1941, n. 633, nonché dell'art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 e dell'art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell'ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita. Nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, nel caso di un servizio televisivo realizzato mediante riprese occulte e concernente le pratiche ingannevoli perpetrate nel settore delle offerte di lavoro, aveva completamente pretermesso ogni accertamento di uno specifico interesse alla conoscenza dell'immagine del soggetto coinvolto, erroneamente presunto una volta ritenuto quello inerente alla divulgazione della notizia. La Sez. 3, n. 17211/2015, Vicenti, Rv. 636902, ha stabilito che l'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui a norma dell'art. 10 c.c. e degli artt. 96 e 97 della l. n. 633 del 1941 sul diritto d'autore, è abusiva non soltanto quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso delle altre circostanze espressamente previste dalla legge, come idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza (quali la notorietà del soggetto ripreso, l'ufficio pubblico dallo stesso ricoperto, la necessità di perseguire finalità di giustizia o di polizia, oppure scopi scientifici, didattici o culturali, o il collegamento della riproduzione a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico), ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, l'esposizione o la pubblicazione sia tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima. 9 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Nel caso sottoposto alla S.C., l'attrice conveniva in giudizio innanzi al Tribunale territorialmente competente una s.p.a. televisiva per sentirla condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dalla lesione del diritto all'immagine e alla reputazione ad essa cagionata da un programma televisivo trasmesso da una nota emittente televisiva gestita dalla convenuta. L'attrice assumeva che, nell'ambito di detto programma televisivo, all'interno di un reportage durante una festa pubblica a Negril in compagnia di un ragazzo e in un contesto lesivo della sua reputazione, in quanto il reportage aveva ad oggetto il crescente fenomeno del turismo sessuale delle donne in Giamaica. Nel confermare le pronunce di merito, la Corte statuiva che l'onore e il decoro della persona ritratta prevale sempre sul diritto di cronaca e di informazione sul presupposto che, come peraltro più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, sebbene le ipotesi di cui all'art. 97, comma 2, della l. n. 633 del 1941, consentano la riproduzione dell'immagine anche senza il consenso della persona ritratta, in quanto esse giustificano l'interesse pubblico all'informazione, qualora dall'evento derivi pregiudizio all'onore o al decoro della persona, quest'ultima potrà legittimamente vantare pretese risarcitorie anche qualora ricorrano tali ipotesi. La Cassazione infatti, approvando il convincimento della corte d'appello che, nel caso di specie, pur riconoscendo l'interesse pubblico al reportage giornalis fenomeno di costume concernente il turismo sessuale, ha tuttavia, privilegiato la tutela del decoro e della reputazione della persona ritratta. 5. Il diritto all'identità sessuale. La Sez. 3, n. 01126/2015, Travaglino, Rv. 634356, approda al riconoscimento del diritto alla identità sessuale, quale possibile declinazione del diritto dell'identità personale segnando quindi un ulteriore avanzamento dell'area di tutela dei diritti della personalità, banco di prova per il nostro ordinamento circa l'attuale attitudine ad accogliere ed assimilare al suo interno emergenti sensibilità sociali. La Corte ha stabilito che costituiscono condotte omofobiche, gravemente discriminatorie e lesive del diritto alla privacy, la segnalazione, effettuata dall'Ospedale militare, della dichiarazione di omosessualità da parte di un chiamato alla leva (ed esonerato dal servizio militare per tale sola ragione) alla Motorizzazione civile, evidenziando la derivante 10 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi, nonché la conseguente sottoposizione dell'interessato ad un procedimento di revisione della patente di guida, restando privo di rilievo al fine della determinazione dell'entità del risarcimento, a fronte dell'inviolabilità del diritto all'identità sessuale, che la vicenda e la diffusione dei dati fosse rimasta "circoscritta" in ambiti endo- amministrativi. In particolare, la vicenda sottoposta all'esame della Corte riguardava un ragazzo di vent'anni che alla visita di leva dichiarava le proprie inclinazioni omosessuali, ottenendo così l'esonero dal servizio militare, all'epoca obbligatorio, in quanto affetto da «disturbo dell'identità sessuale». Di lì a pochi mesi lo stesso riceveva la notifica della revisione della patente di guida e veniva altresì avvertito della necessità di procedere ad una nuova visita psico-attitudinale, al fine di ottenere la conferma della autorizzazione amministrativa in questione. 6. Il Mutamento di sesso. Con una importante pronuncia in materia di rettificazione di sesso, la Sez. 1, 15138/2015, Acierno, Rv. 636001, ha affermato, basandosi su un'interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, dell'art. 1 della l. 14 aprile 1982, n. 164, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Invero, secondo la Corte, l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. La vicenda sottoposta all'attenzione della Cassazione attiene ad una fattispecie molto delicata in cui, mentre in un primo tempo era stata presentata (ed ottenuta) la domanda di autorizzazione al trattamento medico chirurgico per la modificazione definitiva dei caratteri sessuali primari al fine di ottenere poi la rettificazione dei caratteri anagrafici, decorsi una decina d'anni. veniva presentata la richiesta di rettificazione senza che l'intervento chirurgico fosse stato eseguito, motivando la richiesta con le paure di complicanze sanitarie ma anche con la raggiunta armonia col proprio corpo di donna, ottenuto con trattamenti ormonali ed estetici, a prescindere dal trattamento chirurgico. 11 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI Il tribunale, ritenendo che il trattamento chirurgico fosse condizione necessaria, respingeva la domanda. Proposto reclamo avverso il diniego, la corte d'appello, dopo aver disposto una consulenza al fine di accertare se potessero ritenersi integrati i caratteri sessuali del genere femminile, ove si concludeva per il «quasi azzeramento» dell'attività testicolare del richiedente e per una modificazione «per lo più irreversibile» dei caratteri femminili, respingeva il reclamo, affermando che il reclamante aveva sì compiuto il percorso di modifica dei caratteri sessuali secondari (conformazione del corpo, timbro della voce, atteggiamenti, comportamenti esteriori), ma non quello di modifica definitiva dei caratteri sessuali primari (ovvero gli organi genitali e riproduttivi), e ritenendo che tale modifica anche dei caratteri sessuali primari fosse essenziale secondo il dettato della l. n. 164 del 1982. Nel percorso argomentativo che sostiene l'accoglimento del ricorso, la Corte ricorda come la riconduzione del diritto al cambiamento di sesso nell'area dei diritti inviolabili della persona sia stata sancita nell'ordinamento italiano dalla Corte costituzionale con la propria sentenza 23 maggio 1985, n. 161, che già trent'anni fa affermava come la l. n. 164 del 1982 andasse collocata «nell'alveo di una civiltà giuridica in evoluzione» e come la dottrina avesse sottolineato sin dall'epoca dell'entrata in vigore il carattere innovativo della legge che non conteneva un obbligo indefettibile di procedere al trattamento chirurgico, avendolo previsto «quando risulta necessario». Premessa l'affermazione che l'ordinamento non può riconoscere un tertium genus (ovverosia una combinazione di caratteri sessuali primari e secondari di entrambi i generi), la S.C. sottolinea come sia necessario, per il mutamento di sesso, che esso sia «una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico-somatici ed ormonali». Al riguardo va rimarcato che a seguito di rimessione da parte del Tribunale di Trento (ordinanza n. 229 del 20 agosto 2014) della questione di illegittimità dell'art. 1, comma 1, della l. n. 164 del 1982 per contrasto con gli artt. 2, 3, 32, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la Corte costituzionale, con sentenza 5 novembre 2015, n. 221 (interpretativa di rigetto) ha dichiarato la questione di illegittimità dell'art. 1, comma 1, della l. n. 164 del 1982, non fondata, specificando che la disposizione oggetto di censura lascia all'interprete il compito di definire il perimetro delle modificazioni dei caratteri sessuali e delle modalità attraverso le quali realizzarle. 12 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI 7. Mutamento di sesso e matrimonio. La Sez. 1, n. 08097/2015, Acierno, Rv. 635040, ha stabilito che la rettificazione di attribuzione di sesso di persona coniugata non può comportare, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. n. 164 del 1982, operata con la sentenza, additiva di principio, 11 giugno 2014, n. 170 del 2014 della Corte costituzionale, la caducazione automatica del matrimonio. Rileva la Corte che, poiché non è costituzionalmente tollerabile, attesa la tutela di cui godono le unioni tra persone dello stesso sesso ai sensi dell'art. 2 Cost., una soluzione di continuità del rapporto, tale da determinare una situazione di massima indeterminatezza del nucleo affettivo già costituito, il vincolo deve proseguire, con conservazione ai coniugi del riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio, sino a quando il legislatore non intervenga per consentire alla coppia di mantenere in vita il rapporto con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi. 8. Il diritto alla cittadinanza. Il rango di diritto di primaria rilevanza costituzionale dello status di cittadino secondo Sez. 6-1, n. 22608/2015, in corso di massimazione, richiede che nei procedimenti ove detto status sia oggetto dell'accertamento giudiziale, il giudice deve attivare i suoi poteri istruttori officiosi al fine di ottenere tutte le informazioni necessarie per verificare l'esistenza o la mancanza dei presupposti previsti dalla legge, dovendo svolgere approfondimenti istruttori presso le autorità competenti. Nella fattispecie si trattava in particolare di verificare se l'acquisto della cittadinanza egiziana da parte della moglie era stata frutto di una libera scelta, tenuto conto della perdita della cittadinanza italiana a causa del matrimonio con cittadino egiziano o di una volontà abdicativa non liberamente determinata. 9. Il diritto all'identità ed al nome delle associazioni. È da tempo acquisito in giurisprudenza che le associazioni, ancorché non riconosciute e sfornite di personalità giuridica, sono considerate come centri di imputazione di situazioni giuridiche e, quindi, come soggetti di diritto distinti dagli associati, dotate di un proprio patrimonio costituito dal fondo comune, nonché di una propria capacità sostanziale e processuale. L'art. 2 Cost., infatti, garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e tra questi vi è il diritto alla 13 CAP. I – PERSONE E ASSOCIAZIONI tutela del nome e dell'identità, che non spetta solo alle persone fisiche o giuridiche, ma anche alle associazioni non riconosciute. La Sez. 1, n. 23401/2015, Lamorgese, in corso di massimazione, ha affermato che nel caso di usurpazione, ovvero di indebita assunzione di nomi e denominazioni di un'associazione, quali segni distintivi, spetta all'associazione, a prescindere dall'esistenza di ulteriori requisiti previsti dalla legge ad altri effetti (come, ad esempio, l'iscrizione facoltativa nel registro regionale delle organizzazione di volontariato ex art. 4 della l.r. Abruzzo 12 agosto 1993, n. 37 o nel registro di cui all'art. 6 della l. 11 agosto 1991, n. 266, ai fini della fruizione di contributi pubblici e agevolazioni fiscali) il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., che non coincide con la pecunia doloris, ma ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione di diritti immateriali della personalità, compatibile con l'assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono i diritti al nome, all'identità e all'immagine dell'ente. 14

 

CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE CAPITOLO II L'EQUA RIPARAZIONE (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. Il diritto all'equa riparazione. – 2. La durata ragionevole – 2.1. La complessità del caso. – 3. Successione a titolo particolare nel rapporto controverso – 4. La condizione di proponibilità. – 5. L'individuazione del dies a quo per la proponibilità dell'azione. – 6. L'abuso del processo. – 7. Il danno non patrimoniale. – 7.1. L'unicità del danno non patrimoniale risarcibile – 7.2. Il frazionamento della pretesa indennitaria. – 8. L'opposizione del ricorrente ex art. 5-ter della legge 24 marzo 2001, n. 89. – 9. Il giudizio amministrativo. 1. Il diritto all'equa riparazione. Dopo l'entrata in vigore della l. 24 marzo 2001, n. 89, si è aperta la strada al ristoro del pregiudizio sofferto dalle parti processuali a causa della lentezza del sistema giudiziario. La cd. legge "Pinto" ha rappresentato la risposta di diritto interno alle pressanti sollecitazioni provenienti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, sommersa da ricorsi italiani contro la durata eccessiva dei procedimenti nazionali, in nome dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con la l. 4 agosto 1955, n. 848. Negli anni di vigenza, le lacune della normativa sono stata colmate dalla giurisprudenza di legittimità, che, nell'applicazione della legge Pinto, ha talvolta risentito di inevitabili oscillazioni, in ragione dell'esigenza di non pesare oltre misura sul bilancio dello Stato. Nell'anno in corso, sono stati numerosi gli interventi della giurisprudenza di legittimità, soprattutto con riferimento al riconoscimento del diritto all'indennizzo. Merita menzione la pronuncia, Sez. 6-2, n. 18834/2015, Manna, Rv. 636489, secondo cui la manifesta infondatezza della domanda nel giudizio presupposto, ove non qualificata dal requisito soggettivo della temerarietà o abusività della lite, non rientra tra le cause di esclusione dell'indennizzo. Secondo la Corte, Sez. 6-2, n. 07323/2015, Petitti, Rv. 635178, il ristoro economico per irragionevole durata del processo è un credito a contenuto indennitario, non risarcitorio, che prescinde da atti o contegni illeciti o illegittimi, in quanto deriva dalla lesione del diritto della persona alla definizione della causa in un termine ragionevole, in dipendenza dell'inefficienza dell'organizzazione giudiziaria e, dunque, abbraccia tutte le "violazioni del sistema", ivi incluse quelle riconducibili a scelte legislative che determinino o concorrano a determinare l'eccessivo protrarsi della lite. Fra le violazioni del 15 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE sistema non può essere compresa l'omessa emanazione di norme di legge per disciplinare l'esercizio del diritto di astensione dalle udienze degli avvocati, giacché la mancanza di dette norme non è causa o concausa, secondo i comuni parametri in tema di nesso eziologico, del rinvio dell'udienza per l'adesione dei difensori a manifestazioni di protesta, il quale resta deferibile a libere scelte dei competenti ordini professionali e dei loro iscritti, nell'esercizio dei diritti a rilevanza costituzionale che quella disciplina non potrebbe comunque compromettere, sicché rimane imputabile a fattori esterni ed estranei all'organizzazione giudiziaria. 2. La durata ragionevole. La mancanza di una espressa indicazione del periodo di tempo massimo, superato il quale la durata del processo diventava irragionevole, imponeva all'interprete la necessità di determinarlo di volta in volta, desumendolo dalla complessità del caso o dal comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo. Le riforme introdotte dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, hanno consentito di individuare con chiarezza la durata complessiva di definizione del giudizio. La giurisprudenza di legittimità è intervenuta, offrendo chiarimenti, laddove la norma favorisce dubbi interpretativi. Tra le pronunce significative si segnala Sez. 6-1, n. 17634/2015, Scaldaferri, Rv. 636689, secondo cui il termine triennale previsto per la ragionevole durata del processo di primo grado rappresenta un parametro tendenziale dal quale, considerando gli elementi indicati dall'art. 2, comma 2, della legge Pinto, nonché i criteri di determinazione applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e dalla Corte di cassazione, è possibile discostarsi, purché in misura ragionevole. In particolare, la Suprema Corte, Sez. 6-1, n. 16375/2015, De Chiara, Rv. 636341, ha statuito che va cassato per vizio di motivazione il decreto del giudice di merito che determina il termine in tre anni e mezzo, anziché in tre anni, in ragione della pendenza, presso il giudice adito, di numerosissime cause di identico contenuto, dovendosi ritenere che la serialità dei giudizi deponga per la semplicità e non per la complessità dei medesimi. Alcune pronunce hanno affrontato la questione della durata ragionevole del procedimento, stabilendo un criterio temporale con riferimento a fattispecie particolari. La Sez. 6-2, n. 00909/2015, San Giorgio, Rv. 633831, ha chiarito che, ai fini dell'equa riparazione per durata irragionevole, il giudizio concernente lo status della persona, 16 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE incidendo sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, è soggetto ad un parametro temporale ridotto, in conformità alla giurisprudenza della Corte EDU. sullo speedy trial, sicché il giudizio di tribunale sul riconoscimento dello status di rifugiato deve avere una durata ragionevole inferiore a tre anni. Nel caso venga proposta una domanda fondata su prognosi di incostituzionalità della disciplina applicabile, la Sez. 6-2, n. 11828/2015, Correnti, Rv. 635598, ha puntualizzato che la parte del giudizio presupposto, la quale, a fondamento della domanda ivi svolta, abbia posto una questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, poi dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale, non ha diritto ad essere indennizzata per l'ulteriore protrazione del giudizio a quo, trattandosi di una evenienza non suscettibile di determinare alcun patema d'animo in ordine all'esito dello stesso. Mentre, secondo la Sez. 6-2, n. 12662/2015, Petitti, Rv. 635704, nel caso in cui i vari gradi del procedimento penale presupposto si siano svolti nella fase dell'udienza preliminare, la durata ragionevole dello stesso deve stimarsi in quattro anni, non potendo la stessa coincidere con quella prevista per il giudizio ordinario. 2.1. La complessità del caso. Il comma 2 dell'art. 2 della l. n. 89 del 2001, si occupa di individuare gli elementi di valutazione da parte del giudice della riparazione e, tra questi, assume un rilievo significativo la "complessità del caso". A tale proposito, la Suprema Corte, Sez. 6-2, n. 00801/2015, Petitti, Rv. 633955, ha stabilito che il periodo occorso per la chiamata in causa di un terzo in garanzia non può essere automaticamente escluso dal relativo calcolo, ma potrà essere considerato quale circostanza da valutare sotto il profilo del criterio della "complessità" e, quindi, consentire una deroga generale ai parametri di durata indicati dalla CEDU, giustificandone l'incremento, in quanto non addebitabile interamente alla parte che ne ha fatto richiesta. Per la Sez. 6-2, n. 06155/2015, Petitti, Rv. 634777, anche l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio può costituire elemento per ritenere la complessità del giudizio solo quando richieda attività di particolare difficoltà, tali da essere svolte in un rilevante lasso di tempo, mentre non è sufficiente far riferimento all'avvenuto espletamento di una pluralità di consulenze, ove non risulti che ciò sia dipeso da oggettive difficoltà nell'indagine invece che da lentezza e scarsa professionalità dei tecnici incaricati, ovvero da sopravvenuti mutamenti legislativi. 17 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE 3. Successione a titolo particolare nel rapporto controverso. Molto interessante, in materia di legittimazione attiva, la pronuncia Sez. 2, 1200/2015, Petitti, Rv. 633935, secondo cui, con riferimento alla successione a titolo particolare nel diritto controverso, ritenuto che il processo, in virtù dell'art. 111 c.p.c., continua tra le parti orginarie, con la conseguenza che l'alienante mantiene la sua legittimazione attiva (ad causam), conservando tale posizione anche nel caso di intervento, ai sensi del medesimo articolo 111, comma 3, c.p.c., del successore a titolo particolare, costui ha una legittimazione distinta e non sostitutiva, ma autonoma. Ne discende che, ai fini della domanda di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ciascuno di loro non potrà che riferire la pretesa indennitaria per violazione del termine ragionevole del processo alla diversa durata della rispettiva presenza nel giudizio presupposto, non essendogli consentito di avvalersi dell'altrui indennizzo, sommando i periodi di rispettiva competenza. 4. La condizione di proponibilità. Di notevole valenza sistematica è la pronuncia, Sez. 6-2, n. 20463/2015, Manna, Rv. 636597, secondo cui l'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove subordina la proponibilità della domanda di equa riparazione per irragionevole durata di un processo alla condizione della sua preventiva definizione, non può essere disapplicato dal giudice in forza della sentenza costituzionale n. 30 del 2014, da questa evincendosi che la norma resta legittima, sia pure ad tempus, in attesa della riscrittura del legislatore. La Corte costituzionale con la sentenza 25 febbraio 2014, n. 30, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dall'art. 1, comma 1, della l. 7 agosto 2012, n. 133, ha affermato, nella parte motiva, che i meccanismi indennitari introdotti dall'art. 55 prevedono condizioni irrealizzabili, condizionando l'an ed il quantum dell'indennizzo alla conclusione del procedimento presupposto. 5. L'individuazione del dies a quo per la proponibilità dell'azione. Con la fissazione dei termini di durata, a seguito della novella del 2012, è stato puntualizzato il termine a quo per la proponibilità dell'azione. In particolare, l'art. 2, comma 2-quater, della legge Pinto dispone che, ai fini del computo, non si deve tenere conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello 18 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l'impugnazione e la proposizione della stessa. La Corte, Sez. 6-2, n. 18197/2015, Petitti, Rv. 636464, ha chiarito che la menzionata disposizione, nel prevedere che non si tiene conto, ai fini del computo della durata, del tempo in cui il processo è sospeso, include non solo l'ipotesi di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma anche quella regolata dall'art. 624 c.p.c., attesa l'ampiezza della formula introdotta dal legislatore del 2012, restando comunque salva la possibilità per la parte, che ritenga di aver subito un pregiudizio dall'eccessiva durata del processo pregiudicante, di proporre un'autonoma domanda di equa riparazione specificamente riferita a quest'ultimo giudizio. In materia fallimentare, la Sez. 6-2, n. 01091/2015, Petitti, Rv. 633986, ha ribadito che il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda decorre dalla data in cui il decreto di chiusura del fallimento non è più reclamabile in appello, momento in cui la decisione può essere considerata definitiva, anche in relazione alle fattispecie ratione temporis disciplinate dalle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2005, n. 5 e dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169. Inoltre, la Sez. 6-2, n. 05502/2015, Falaschi, Rv. 634879, ha precisato che il dies a quo, in relazione al quale valutare la durata del processo, deve essere riferito alla domanda di ammissione al passivo, in quanto il singolo creditore diventa parte solo da tale momento, sicché, in caso di istanza ex art. 101 l.fall., non assume rilevanza il precedente periodo di svolgimento della procedura concorsuale cui il creditore è rimasto estraneo. Laddove il procedimento si è estinto per mancata riassunzione, secondo la Sez. 6-2, n. 08543/2015, Manna, Rv. 635154, il termine di proponibilità della domanda, di cui all'art. 4 della l. n. 89 del 2001 (nel testo anteriore al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012), decorre non dalla data del provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo, ma dal momento in cui si verifica l'estinzione del processo per mancata riassunzione, in quanto, anteriormente alla scadenza del termine stabilito dall'art. 307 c.p.c., lo stesso è ancora pendente. Ai fini della determinazione del dies a quo del procedimento penale presupposto, la pronuncia, Sez. 6-2, n. 15179/2015, Falaschi, Rv. 636085, stabilisce che è il momento in cui il soggetto ha conoscenza dell'esistenza del procedimento a suo carico, identificandosi quale termine finale, invece, quello in cui la sentenza penale diviene definitiva, perché non più soggetta a impugnazione, senza che possa attribuirsi rilevanza al momento di conoscenza dell'intervenuta 19 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE remissione di querela, i cui effetti si producono solo quando il giudice accerta l'improcedibilità dell'azione penale. La Corte, Sez. 6- 2, n. 14385/2015, Manna, Rv. 635768, ha precisato che si deve tenere conto della fase delle indagini preliminari; ed, a tal fine, è idoneo l'invito a dichiararare o eleggere domicilio ex art. 161 c.p.c., da cui consegue l'assunzione della qualità di indagato. Secondo la Sez. 6-2, n. 20467/2015, Manna, Rv. 636594, la notifica del decreto di perquisizione domiciliare è idonea a segnare l'inizio del processo penale anche nel regime dell'art. 2, comma 2-bis, della l. n. 89 del 2001, trattandosi di un atto dell'autorità giudiziaria che rende l'indagato edotto del procedimento a suo carico. Con riferimento al giudizio amministrativo, invece, la Sez. 6- 2, n. 00780/2015, Petitti, Rv. 633897, ha osservato che l'istanza di prelievo e l'istanza di fissazione d'udienza assolvono a funzioni distinte, avendo la prima la finalità di accelerare il processo mediante il riscontro del preesistente interesse del ricorrente, e la seconda quella di impedire, mediante il perfezionamento della costituzione del ricorrente e la fissazione dell'udienza, la perenzione del giudizio. Ne consegue che, dall'entrata in vigore dell'art. 54 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif. nella l. 6 giugno 2008, n. 133, per le domande di equa riparazione relative a procedimenti che si svolgono davanti alle giurisdizioni amministrative, la preventiva formulazione dell'istanza di prelievo, costituisce una condizione di proponibilità non fungibile con l'istanza di fissazione dell'udienza. 6. L'abuso del processo. L'art. 2, comma 2-quinquies, della legge Pinto come riformato, riprende l'elaborazione giurisprudenziale in tema di abuso del processo, escludendo l'indennizzo, tra gli altri casi, anche quando l'abuso dei poteri processuali abbia determinato un'ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento. La Sez. 6-1, n. 15905/2015, Cristiano, Rv. 636558, ha ribadito il principio secondo cui il diritto all'equa riparazione non è condizionato dall'esito del giudizio e dalla scarsa entità della posta in gioco, salvo che la parte non abbia promosso una lite temeraria o non abbia abusato del processo. 7. Il danno non patrimoniale. Sono numerosi gli interventi della Corte con riferimento al danno non patrimoniale subito per irragionevole durata del processo. Interessante la qualificazione offerta dalla pronuncia Sez. 6-2, n. 07325/2015, Petitti, Rv. 634998, secondo cui il danno non patrimoniale, in quanto conseguenza 20 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, si presume sino a prova contraria, onde nessun onere di allegazione può essere addossato al ricorrente, essendo semmai l'Amministrazione resistente a dover fornire elementi idonei a farne escludere la sussistenza in concreto. Ne consegue che la mancata specificazione, da parte del ricorrente, degli elementi costitutivi del danno non patrimoniale lamentato non rileva al fine di escludere l'indennizzabilità del pregiudizio, dalla parte pur sempre presuntivamente sofferto. È stato, altresi, affermato con la decisione, Sez. 6-2, n. 05535/2015, San Giorgio, Rv. 634876, che l'esistenza di un diritto vivente consolidato in senso sfavorevole all'accoglimento della domanda giudiziale esclude la configurabilità di un patema d'animo da durata irragionevole del processo e, quindi, un danno non patrimoniale. In termini anche Sez. 6-2, n. 04890/2015, Manna, Rv. 634840, secondo cui il patema d'animo derivante dalla situazione di incertezza per l'esito della causa è da escludersi non solo ogni qualvolta la parte rimasta soccombente abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza sin dal momento dell'instaurazione del giudizio, ma anche quando la consapevolezza dell'infondatezza delle proprie pretese sia sopravvenuta prima che la durata del processo abbia superato il termine di durata ragionevole, come nel caso in cui si sia definitivamente consolidato un orientamento sfavorevole della giurisprudenza. 7.1. L'unicità del danno non patrimoniale risarcibile. La Suprema Corte, con la pronuncia, Sez. 6-2, n. 09418/2015, Manna, Rv. 635257, ha osservato che, a fronte di una pluralità di giudizi presupposti, conseguenti ad altrettante domande proposte contro la medesima parte, l'indennizzo può essere calcolato unitariamente ove ad esse corrisponda un solo danno non patrimoniale, poiché il patema d'animo provocato dalla lite è correlato al complessivo contenzioso, indipendentemente dalle strategie difensive adottate. In linea con questo orientamento, anche Sez. 2, n. 03519/2015, Petitti, Rv. 634559, secondo cui il pregiudizio non patrimoniale eventualmente subito da più persone lese, che non siano considerate dall'ordinamento come un soggetto unico ed autonomo, non può essere liquidato unitariamente, poiché detto pregiudizio è qualificato come personale dall'art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sicché la relativa riparazione deve avere luogo in favore di ciascuno dei danneggiati. 21 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE 7.2. Il frazionamento della pretesa indennitaria. Con la pronuncia, Sez. 6-2, n. 04887/2015, Manna, Rv. 634725, la Corte ha stabilito che, ai sensi della l. n. 89 del 2001, nel testo anteriore al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, la parte può frazionare la pretesa indennitaria proponendo separate domande giudiziali, purché indichi ed illustri la durata dei segmenti processuali per i quali non avanza istanza. In tal caso, il giudice, valutato globalmente il giudizio e stimata la durata ragionevole di ciascun grado, deve liquidare esclusivamente l'indennizzo spettante in relazione al grado per cui la domanda è stata avanzata. 8. L'opposizione del ricorrente ex art. 5-ter della legge 23 marzo 2001, n. 89. Contro il decreto che ha deciso sulla domanda di equa riparazione può essere proposta opposizione nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento, ovvero dalla sua notificazione. La Corte, con la pronuncia Sez. 6-2, n. 20463/2015, Manna, Rv. 636596, ha tenuto a chiarire la natura del procedimento di opposizione, qualificato non come un mezzo di impugnazione sulla legittimità del decreto monocratico, limitato dai motivi di censura, ma come lo strumento processuale che attua il contraddittorio sulla fondatezza della domanda indennitaria, senza limitazione di temi. Con riferimento agli aspetti processuali, la Sez. 6-2, n. 16110/2015, Petitti, Rv. 636396, ha puntualizzato che, in caso di mancata notificazione all'amministrazione del decreto, la stessa amministrazione, convenuta in sede di opposizione dal ricorrente, il quale si dolga dell'accoglimento parziale della domanda, può limitarsi ad eccepire l'integrale infondatezza della pretesa di indennizzo e la violazione dell'art. 2-bis della medesima legge, senza necessità di proporre opposizione in via incidentale. Inoltre, tenuto conto che l'opposizione di cui all'art. 5-ter dà luogo ad un procedimento camerale, il termine assegnato per la notificazione del ricorso non ha carattere perentorio e, laddove quest'ultima risulti omessa o inesistente, il giudice, in difetto di spontanea costituzione del resistente all'udienza fissata nel decreto (che ha valore sanante in applicazione analogica degli artt. 164 e 291 c.p.c.), deve fissare un nuovo termine per la notifica (Sez. 6-2, n. 18113/2015, Petitti, Rv. 636474). Sez. 6-2, n. 05122/2015, Petitti, Rv. 634779, ha precisato che, nel caso in cui l'opposizione sia rigettata, il collegio non può condannare l'opponente al pagamento della sanzione di cui all'art. 5-quater della l. n. 89 del 2001, atteso che la sanzione può essere 22 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE applicata solo quanto la domanda di equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata. 9. Il giudizio amministrativo. Con riferimento al computo della durata del giudizio amministrativo, la Suprema Corte, con la pronuncia, Sez. 6-2, n. 09141/2015, Manna, Rv.635240, ha stabilito che il giudizio di ottemperanza (secondo la disciplina di cui all'art. 27, n. 4, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, nella specie applicabile), in quanto fase esecutiva diretta ad attuare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non va inteso come limitato al segmento processuale che intercorre tra il relativo ricorso e la nomina di un commissario ad acta, ma comprende anche le eventuali impugnazioni delle determinazioni amministrative poste in essere dallo stesso commissario, quali rimedi cognitivi interni all'ottemperanza e funzionali ad essa, di cui costituiscono parti integranti. La Corte, Sez. 6-2, n. 11828/2015, Correnti, Rv. 635598, ha ribadito un principio già espresso in precedenza, con riferimento alla dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo, la quale non consentirebbe di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo, in quanto, altrimenti, verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta, la dichiarazione di estinzione del giudizio, successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo. Tale principio, secondo la Corte, trova applicazione anche nell'ipotesi in cui l'istanza di prelievo sia stata presentata una sola volta e in epoca risalente rispetto alla conclusione del giudizio, atteso che nessuna norma e nessun principio processuale impongono la reiterazione dell'istanza di prelievo ad intervalli più o meno regolari. 23

 

 

 

CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI CAPITOLO III I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. I diritti dello straniero. – 2. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario. – 3. Il diritto all'unità familiare. – 4. Aspetti processuali. 1. I diritti dello straniero. La Suprema Corte, nell'anno 2015, è più volte intervenuta su specifiche questioni relative al diritto di soggiorno dello straniero. Tra le decisioni più significative, si segnala Sez. 6-1, n. 18254/2015, Acierno, Rv. 636509, secondo cui il divieto di reingresso in Italia dello straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, non può superare il termine di cinque anni previsto dall'art. 13, comma 14, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come novellato dal d.l. 23 giugno 2011, n. 89, conv. con modif. nella l. 2 agosto 2011, n. 189, di recepimento della direttiva n. 115/2008/CE. Si precisa, inoltre, che non è necessaria la speciale autorizzazione del Ministero dell'interno, prevista dal medesimo art. 13, comma 13, nelle ipotesi in cui lo straniero, per particolari ragioni, intenda fare rientro nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto. Nello stesso ambito, merita menzione il principio affermato dalla Corte sul diritto alla retribuzione del lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno. Secondo la Sez. L, n. 18540/2015, Amendola, Rv. 637164, l'illegittimità del contratto per la violazione di norme imperative (art. 22 del d.lgs. n. 286 del 1998), poste a tutela del prestatore di lavoro (art. 2126 c.c.), sempre che la prestazione lavorativa sia lecita, non esclude l'obbligazione retributiva e contributiva a carico del datore di lavoro, in coerenza con la razionalità complessiva del sistema che vedrebbe altrimenti alterate le regole del mercato e della concorrenza, ove si consentisse a chi viola la legge sull'immigrazione di fruire di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle cui è soggetto il datore di lavoro che la rispetti. 2. Il sistema di protezione internazionale dello straniero extracomunitario. Tra le pronunce dell'anno, in materia di protezione internazionale, merita di essere segnalata Sez. 6-1, n. 19196/2015, De Chiara, Rv. 637124, con la quale si è chiarito che le misure previste dal d.P.C.M. 5 aprile 2011, ed in particolare, il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, ex art. 20 del d.lgs. n. 286 del 1986, si applicano soltanto agli stranieri affluiti 24 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI sul territorio nazionale dal 1 gennaio al 5 aprile 2011. La precisazione è importante, tenuto conto che risolve alcuni dubbi interpretativi sorti in sede di applicazione della norma. Con riferimento al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, la Suprema Corte ha osservato come il fatto da dimostrare vada identificato nella grave violazione dei diritti umani alla quale il richiedente asilo sarebbe esposto rientrando in patria, di cui costituisce indizio, secondo la Sez. 6-1, n. 16201/2015, De Chiara, Rv. 636626, anche la minaccia ricevuta in passato, che fa presumere la violazione futura in caso di rientro. Naturalmente, secondo la Sez. 6-1, n. 17668/2015, Acierno, Rv. 636699, l'insorgenza di cause appartenenti all'ambito della protezione internazionale, integranti il divieto di espulsione di cui all'art. 19, comma 2, lett. b), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non possono essere valutate ove si siano verificate dopo il rimpatrio coattivo, ma solo quando siano coeve all'applicazione della misura espulsiva. La Sez. 6-1, n. 05926/2015, De Chiara, Rv. 634730, ha stabilito che, qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l'accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, il giudice statuire, altresì, sulla dedotta illegittimità del primo, a causa della omessa informazione. Si precisa che tale dovere di informazione è fondato su di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale. La domanda di protezione internazionale, di cui all'art. 3, comma 5, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, deve essere adeguatamente circostanziata. Il procedimento, secondo la Sez. 6-1, n. 19197/2015, De Chiara, Rv. 637125, non si sottrae al principio dispositivo, sicché il richiedente ha l'onere di indicare i fatti costituitivi del diritto azionato, pena l'impossibilità per il giudice di introdurli d'ufficio nel giudizio. La Sez. 6-1, n. 16201/2015, De Chiara, Rv. 636625, ha chiarito che, se viene presentata una domanda di protezione internazionale, il giudice non deve prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma è tenuto a valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata 25 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI fornita una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi. Sul piano dell'onere della prova, ancora una volta, la Suprema Corte ha puntualizzato che, in un procedimento finalizzato al conseguimento della protezione internazionale sussidiaria, il richiedente ha obblighi specifici. Per la Sez. 6-1, n. 07333/2015, Acierno, Rv. 634949, lo straniero ha un dovere di cooperazione consistente nell'allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, mentre l'autorità decidente ha l'obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente con riferimento alle condizioni generali del Paese di origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti. In particolare, è necessario l'approfondimento istruttorio officioso, allorquando il richiedente descriva una situazione di rischio per la vita o l'incolumità fisica che derivi da sistemi di regole non scritte sub-statuali, imposte con violenza e sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali: ciò proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statali. Nel solco di tale orientamento, la Sez. 6-1, n. 14998/2015, Acierno, Rv. 636559, ha osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell'art. 14, lett. b) e c), del d.lgs. n. 251 del 2007, non è onere del richiedente fornire una precisa qualificazione giuridica della tipologia di misura di protezione invocata, ma è onere del giudice, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione, di cui all'art. 8, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l'incolumità fisica indicata dal ricorrente è astrattamente sussumibile in entrambe le tipologie tipizzate di rischio e sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione. È stato, altresì, puntualizzato, Sez. 6-1, n. 16202/2015, De Chiara, Rv. 636614, che il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona di cui all'art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico con riferimento alla sua situazione personale, in quanto la sua esistenza può desumersi anche dal grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, da cui dedurre che il rientro nel Paese d'origine 26 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente. Molto significativa è la pronuncia, Sez. 6-1, n. 02830/2015, Ragonesi, Rv. 634163, secondo cui il cittadino straniero che è imputato di un delitto comune (nella specie omicidio durante una rissa), punito nel Paese di origine con la pena di morte, non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, poiché gli atti previsti dall'art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007, non sono collegati a motivi di persecuzione inerenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, al particolare gruppo sociale o all'opinione politica, ma unicamente alla protezione sussidiaria riconosciuta dall'art. 2, lett. g), dello stesso decreto, qualora il giudice di merito abbia fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel Paese d'origine, correrebbe un effettivo rischio di subire un grave danno. 3. Il diritto all'unità familiare. In un'ottica di salvaguardia dell'unità familiare si colloca il diritto di circolazione, e i diritti correlati di soggiorno e di accesso alle attività salariate ed alla formazione professionale, fruibili anche dai componenti del nucleo familiare dello straniero che lo accompagnino o lo raggiungano nello Stato membro ospitante. Il vincolo familiare giustifica la sottrazione del trattamento del migrante al regime generale sugli stranieri, emergendo l'intenzione del legislatore di conservare i legami affettivi, nel rispetto delle indicazioni imposte da singoli governi. Secondo la Suprema Corte, Sez. 6-1, n. 17942/2015, Bernabai, Rv. 637103, il "diritto all'unità familiare", non ha carattere assoluto, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi dalle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni. Sui beneficiari di questo diritto di mobilità "derivato", si è pronunciata la Sez. 1, n. 15362/2015, Acierno, Rv. 637091, secondo cui, in tema di esplusione del cittadino straniero, l'art. 13, comma 2- bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, impone di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della durata del soggiorno, nonché dell'esistenza di legami con il Paese di origine, dovendo il giudice effettuare una valutazione caso per caso, senza distinguere tra vita privata e vita familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall'art. 8 CEDU, che non prevede gradazioni o gerarchie. L'espulsione dello straniero che convive in Italia con un parente, per la Sez. 6-1, n. 14610/2015, De Chiara, Rv. 635963, non implica la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la cui 27 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI tutela, sancita anche dall'art. 8 della CEDU, non è incondizionata, essendo consentita quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell'ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui. Una tutela specifica viene assicurata ai minori e, nell'ambito del contemperamento degli interessi in conflitto, spesso prevale il loro "superiore interesse". Nello specifico, la Sez. 6-1, n. 17819/2015, Ragonesi, Rv. 637099, ha statuito che il padre straniero di un minore di sei mesi, che abbia provveduto al riconoscimento del figlio, ha diritto ad ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ai sensi dell'art. 19, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, trattandosi di una disposizione finalizzata alla tutela del rapporto genitoriale nell'ottica di una crescita armoniosa del bambino nei mesi immediatamente successivi alla sua nascita. Interessante anche la decisione, Sez. 6-1, n. 24476/2015, Acierno, in corso di massimazione, con la quale si è puntualizzato come, in materia di immigrazione, la tutela del minore va considerata globalmente, sia con riferimento alla salute fisica che a quella psichica, per cui è necessario giungere ad una interpretazione estensiva dell'art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998. Ne consegue che il genitore disponibile a prendersi cura continuativamente del minore ha diritto, nell'interesse di quest'ultimo, ad ottenere la temporanea autorizzazione al soggiorno di cui all'art. 31, comma 3, del menzionato decreto. 4. Aspetti processuali. Con riferimento al sindacato del giudice ordinario sulla legittimità dell'atto amministrativo emesso dal questore, quale presupposto del decreto di espulsione, la Suprema Corte, con Sez. 6-1, n. 14610/2015, De Chiara, Rv. 635964, ha affermato che al giudice non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza di tale ultimo giudizio non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti. 28 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI Proprio con riferimento a questo aspetto, la Sez. 6-1, n. 24415/2015, De Chiara, in corso di massimazione, ha affermato che l'art. 19, comma 4, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 dispone che la semplice proposizione del ricorso del richiedente asilo avverso il provvedimento negativo della commissione per la protezione internazionale sospende l'efficacia esecutiva di tale provvedimento, con la conseguenza che il richiedente non è tenuto a lasciare il territorio nazionale, permanendo una situazione inespellibilità fino alla decisione della commisione territoriale. Nello stesso ambito, merita menzione la pronuncia, Sez. 6-1, n. 17408/2015, Ragonesi, Rv. 636696, secondo cui il giudice di pace, investito dell'impugnazione del decreto di espulsione emesso dal prefetto, può sindacare solo la legittimità del provvedimento e, se non conforme a legge, disporne l'annullamento, ma non anche sostituire od integrare la motivazione dell'atto, trattandosi di una attività preclusa alla giurisdizione ordinaria. Mentre, il controllo giurisdizionale avverso il provvedimento di espulsione, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 286 del 1998, diventa più accurato laddove occorra riscontrare l'esistenza dei presupposti di appartenenza dello straniero ad una delle categorie di persone pericolose indicate dall'art. 1 della l. 27 dicembre 1956, n. 1423, e succ. modif. Tale riscontro va condotto, secondo Sez. 6-1, n. 24084/2015, De Chiara, in corso di massimazione, sulla base dei seguenti criteri: a) necessità di accertamento oggettivo e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano sospetti e presunzioni; b) attualità della pericolosità; c) necessità di esaminare globalmente l'intera personalità del soggetto quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita. La Corte precisa che nella verifica della concreta sussistenza dei presupposti della pericolosità sociale il giudice di pace ha poteri di accertamento pieni, anche se circoscritti all'ambito fattuale dedotto dalle parti, e non limitati da una insussistente discrezionalità dell'Amministrazione. Con riferimento all'impugnazione dei provvedimenti in materia di protezione internazionale, la Sez. 6-1, n. 18704/2015, Bisogni, Rv. 636868, ha puntualizzato che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 35, comma 14, del d.lgs. n. 25 del 2008, in materia di ricorso per cassazione, deve applicarsi il termine ordinario di cui all'art. 327 c.p.c. e non già il termine di trenta giorni di cui all'art. 702-quater c.p.c., relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell'art. 19 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150. Secondo la Corte, tale interpretazione scaturisce dalla necessità di attribuire priorità nella 29 CAP. III – I DIRITTI DEGLI IMMIGRATI trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti i giudizi di merito, posto che ciò sarebbe in contrasto con il diritto delle parti al giusto processo e con la necessità di assicurare l'effettività del diritto di difesa. Con Sez. 6-1, n. 23171/2015, in corso di massimazione, è stata dichiarata l'invalidità del provvedimento di espulsione non sottoscritto dal prefetto, ovvero mancante dell'attestazione di conformità all'originale accertata da altro pubblico ufficiale. Tale provvedimento, se non inesistente, è illegittimo, ed insuscettibile di sanatoria. 30

 

 

 

CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI CAPITOLO IV LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI (di Paolo Di Marzio) SOMMARIO: 1. Il regime patrimoniale della famiglia. La comunione legale dei coniugi. – 2. La crisi del matrimonio e l'addebito. – 3. La separazione consensuale dei coniugi: contenuti necessari ed eventuali. – 4. Il collocamento dei figli minori. Il riparto degli oneri. – 5. L'assegno di mantenimento per il coniuge. – 6. I figli nati fuori dal matrimonio – 7. L'accertamento della paternità. Il falso riconoscimento della paternità, poi disconosciuto, e la riparazione del pregiudizio arrecato. – 8. La casa familiare. – 9. La rettificazione dell'attribuzione del sesso, presupposti e conseguenze. – 10. Sottrazione internazionale di minori ed effettività dell'affidamento della prole. – 11. Il mantenimento dei figli maggiorenni. – 12. Lo stato di abbandono e l'adottabilità. – 13. Matrimonio ed unioni omoaffettive. – 14. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. 1. Il regime patrimoniale della famiglia. La comunione legale dei coniugi. La Suprema Corte ha avuto occasione di precisare, in materia di esecuzione forzata, che, qualora uno dei coniugi in comunione legale abbia acquistato da solo un immobile, il coniuge rimasto estraneo all'aggiudicazione, sebbene litisconsorte necessario in tutte le controversie aventi ad oggetto diretto e immediato il diritto dominicale, non riveste tale qualità nell'opposizione agli atti esecutivi con cui si denuncia l'illegittimità del decreto di trasferimento, poiché l'acquisto della comproprietà del bene ope legis non attribuisce a tale soggetto la veste di parte del negozio acquisitivo, Sez. 3, n. 06091/2015, Rubino, Rv. 634775. In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, il giudice di legittimità ha specificato che non sussiste vincolo di solidarietà per le obbligazioni assunte da uno di essi per soddisfare i bisogni familiari, pur in presenza di un regime di comunione legale, fatto salvo il principio di affidamento del creditore che abbia ragionevolmente confidato nell'apparente realtà giuridica, desumibile dallo stato di fatto, che il coniuge contraente agisse anche in nome e per conto dell'altro. Ne consegue che il credito vantato dalla collaboratrice domestica per le obbligazioni assunte dalla moglie, da cui promanavano le quotidiane direttive del servizio, rende coobbligato anche il marito, datore della provvista in danaro ordinariamente utilizzata per la corresponsione della retribuzione, sì da ingenerare l'affidamento di essere l'effettivo datore di lavoro, Sez. L, n. 10116/2015, Macioce, Rv. 635634. L'art. 184, comma 2, c.c., il quale prevede, senza deroga alcuna, la prescrizione annuale dell'azione di annullamento degli atti 31 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI di disposizione di beni immobili o mobili registrati compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell'altro, ha chiarito la Suprema Corte, costituisce una norma speciale rispetto alla regola generale di cui all'art. 1442 c.c., riguardante la prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento del contratto e la corrispondente imprescrittibilità della relativa eccezione, con la conseguenza che il principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum non è applicabile, neppure in via analogica, in materia di amministrazione dei beni della comunione legale tra coniugi, Sez. 2, n. 10653/2015, Magliucci, Rv. 635408. Ancora in tema di beni in comunione legale tra i coniugi, il giudice di legittimità ha precisato che l'art. 168 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all'impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale de residuo, ossia ristretta ai soli beni sussistenti al momento dello scioglimento della comunione. In relazione a tali acquisti, pertanto, non opera il meccanismo previsto dall'art. 179, comma 2, c.c., rimanendo essi esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indicazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all'atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un'oggettiva destinazione all'attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall'essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell'individuo, Sez. 6-2, n. 19204/2015, Falaschi, Rv. 637086. 2. La crisi del matrimonio e l'addebito. La Suprema Corte ha sancito che la dichiarazione di addebito della separazione per comportamenti dispotici del marito non può essere esclusa né in considerazione della permanenza, in alcune aree sociali, del suo ruolo gerarchicamente sovraordinato all'interno del nucleo familiare, né della passata tolleranza della moglie relativamente agli atti lesivi della propria dignità e dell'uguaglianza nelle relazioni familiari, non potendo tali circostanze rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale, Sez. 6-1, n. 08094/2015, Bisogni, Rv. 635041. Il giudice di legittimità ha poi chiarito che, ai sensi dell'art. 151 c.c., la separazione dei coniugi deve trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e 32 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI giuridicamente controllabile. A tal fine non è peraltro necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi. Tra questi non deve essere trascurato il comportamento processuale dei coniugi, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione, a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva escluso ogni addebito alla moglie, dando conto dello stato di depressione in cui ella era piombata, sfociato in un tentativo di suicidio, così ampiamente motivando sull'intollerabilità della convivenza coniugale, Sez. 1, n. 08713/2015, De Chiara, Rv. 635251. La Suprema Corte ha statuito, in tema di separazione personale, che l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra l'infedeltà e la crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale, Sez. 6-1, n. 16859/2015, Bisogni, Rv 636508. In tema di separazione personale dei coniugi, l'allontanamento dal domicilio coniugale, in quanto violazione dell'obbligo coniugale di convivenza, può costituire causa di addebito della separazione, a meno che sia avvenuto per giusta causa, che può essere rappresentata dalla stessa proposizione della domanda di separazione, di per sé indicativa di pregresse tensioni tra i coniugi e, quindi, dell'intollerabilità della convivenza, sicché, in caso di allontanamento e di richiesta di addebito, spetta al richiedente, e non all'altro coniuge, provare non solo l'allontanamento dalla casa coniugale, ma anche il nesso di causalità tra detto comportamento e l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, Sez. 1, n. 19328/2015, Dogliotti, Rv. 637126. 33 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI 3. La separazione consensuale dei coniugi: contenuti necessari ed eventuali. La Suprema Corte ha specificato che la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata (nella specie vendita della casa familiare e attribuzione del ricavato a ciascun coniuge in proporzione al denaro investito nel bene stesso). Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso ad hoc ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell'art. 1372 c.c., Sez. 1, n. 16909/2015, Nazzicone, Rv. 636506. 4. Il collocamento dei figli minori. Il riparto degli oneri. Il giudice di legittimità ha specificato che il coniuge separato, il quale intenda trasferire la residenza lontano da quella dell'altro coniuge, non perde l'idoneità ad avere in collocamento presso di sé i figli minori, sicché il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all'interesse della prole il collocamento presso l'uno o l'altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in modo negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non collocatario, Sez. 1, n. 09633/2015, De Chiara, Rv. 635370. Non è configurabile a carico del coniuge affidatario, ha poi chiarito la Suprema Corte, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l'altro in ordine alla determinazione delle spese straordinarie (nella specie, spese di arredamento della cameretta, stage per l'apprendimento della lingua inglese) ritenute necessarie per il figlio, pur trattandosi di decisioni da ricomprendere in quelle "di maggiore interesse" per il minore e sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso. Ne consegue che, nel caso di mancata concertazione preventiva e di rifiuto di provvedere al rimborso della quota di spettanza da parte del coniuge che non le ha effettuate, il giudice è tenuto a verificare la rispondenza delle spese all'interesse del minore mediante la valutazione della commisurazione dell'entità della spesa rispetto all'utilità e della sostenibilità della spesa stessa rapportata 34 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI alle condizioni economiche dei genitori, Sez. 6-1, n. 16175/2015, Bisogni, Rv. 636615. In tema di affidamento dei figli minori, il giudizio prognostico che il giudice, nell'esclusivo interesse morale e materiale della prole, deve operare circa le capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell'unione, va formulato tenendo conto, in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore. Resta fermo, in ogni caso, il necessario rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, nell'ambito dell'affidamento condiviso di un minore, aveva ritenuto di collocarlo preferibilmente presso il genitore il cui nucleo familiare, in quanto composto esclusivamente da adulti, avrebbe potuto prestargli maggiori attenzioni, garantendo al contempo al genitore non collocatario, pur residente in altra città, ampi periodi di tempo per tenere il figlio presso di sé, Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636765. 5. L'assegno di mantenimento per il coniuge. In tema di divorzio, il giudice di legittimità ha specificato che la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell'assegno previsto dall'art. 5 della l. 1 dicembre 1970, n. 898, ma non anche – salvo nei casi eccezionali in cui non si sia realizzata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi – sul riconoscimento dell'assegno. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso volto al riconoscimento dell'assegno di divorzio a seguito dello scioglimento di un matrimonio in cui vi erano stati soli dieci giorni di convivenza ed erano trascorsi meno di cento giorni tra il matrimonio e il deposito del ricorso per separazione, Sez. 6-1, n. 06164/2015, Bisogni, Rv. 635145. La Suprema Corte ha quindi chiarito che l'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, anche se soltanto di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il 35 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell'art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo, Sez. 1, n. 06855/2015, Dogliotti, Rv. 634861. Nella determinazione dell'assegno di mantenimento, ha deciso il giudice di legittimità, deve tenersi conto del tenore di vita "normalmente" godibile in base ai redditi percepiti dalla coppia, e, pertanto, colui al quale è riconosciuto il diritto a quell'assegno può chiedere, per tale titolo, le somme necessarie ad integrare entrate sufficienti a soddisfare le sue esigenze di vita personale in relazione al medesimo livello già raggiunto durante il matrimonio, non dovendosi peraltro comprendere nell'assegno, di regola, importi che consentano atti di spreco o di inutile prodigalità del suo destinatario, Sez. 1, n. 06864/2015, De Marzo, Rv. 634751. L'accertamento del diritto all'assegno divorzile, ha chiarito la Suprema Corte, si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice verifica l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto. Nella seconda fase, poi, il giudice procede alla determinazione in concreto dell'ammontare dell'assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Nell'ambito di questo duplice accertamento assumono rilievo, sotto il profilo dell'onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le 36 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI rispettive potenzialità economiche. Nel caso di specie, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva negato il diritto all'assegno alla richiedente, non avendo questa fornito alcuna prova dell'oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio, Sez. 1, n. 11870/2015, Campanile, Rv. 635651. Ai fini dell'azione di inefficacia di cui all'art. 64 l.fall., il giudice di legittimità ha specificato che atti a titolo gratuito non sono solo quelli posti in essere per spirito di liberalità, che è requisito necessario della donazione, ma anche gli atti caratterizzati semplicemente da una prestazione in assenza di corrispettivo. Ne consegue che l'attribuzione patrimoniale effettuata da un coniuge, poi fallito, a favore dell'altro coniuge in vista della loro separazione, va qualificata come atto a titolo gratuito ove non abbia la funzione di integrare o sostituire quanto dovuto per il mantenimento suo o dei figli, Sez. 1, n. 13087/2015, Nappi, Rv. 635732. In tema di separazione personale, il giudice di legittimità ha confermato che la riduzione dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge e dei figli decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, non essendo rimborsabile quanto percepito dal titolare di alimenti o mantenimento, Sez. 6-1, n. 15186/2015, Dogliotti, Rv. 636212. Sempre in tema di separazione personale, allorché il giudice del merito abbia revocato il diritto di abitazione nella casa coniugale (nella specie, per raggiunta autosufficienza economica del figlio della coppia), la Corte ha avuto modo di specificare che la modifica dell'ammontare dell'assegno di mantenimento, originariamente disposto a favore del coniuge economicamente più debole, ora rimasto privo di casa, pur dovendo considerare lo svantaggio economico conseguente, non deve essere, sempre e comunque, direttamente proporzionale al canone di mercato dell'immobile che il coniuge deve lasciare, potendo ipotizzarsi una diversa sistemazione, in abitazione eventualmente più modesta, ancorché decorosa, Sez. 6-1, n. 15272/2015, Dogliotti, Rv. 636211. In materia di revisione dell'assegno di divorzio, la Suprema Corte ha sostenuto che il diritto a percepirlo di un coniuge ed il corrispondente obbligo di versarlo dell'altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell'assegno. Pertanto, in mancanza di specifiche disposizioni, in 37 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI base ai principi generali relativi all'autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione, Sez. 6-1, n. 16173/2015, Bisogni, Rv. 636330. Nella determinazione dell'assegno di mantenimento va tenuto conto della complessiva capacità economica dell'obbligato e, quindi, anche della rendita INAIL dallo stesso percepita, che, pur avendo funzione compensativa, costituisce una entrata aggiuntiva, Sez. 6-1, n. 17667/2015, Acierno, Rv. 637094. Ai fini della determinazione dell'assegno di divorzio, la Suprema Corte ha confermato che il giudice è tenuto a valutare le potenzialità reddituali di entrambe le parti e, pertanto, deve tenere conto degli oneri e delle ulteriori responsabilità dell'obbligato in conseguenza della nascita di figli naturali da una successiva unione, Sez. 6-1, n. 19194/2015, Bisogni, Rv. 637098. In materia di divorzio, ha poi chiarito il giudice di legittimità, al coniuge divorziato di un notaio destituito dal proprio incarico professionale ed al quale non sia stato riconosciuto il diritto alla pensione, è attribuito, se titolare di assegno divorzile ex art. 5 della l. n. 898 del 1970, il diritto alla pensione di reversibilità, come se il notaio fosse deceduto, corrispondente al settanta per cento dell'intero, ai sensi dell'art. 23 del regolamento della Cassa di previdenza del Notariato. Tale provvidenza, costituente una misura solidaristica e perequatrice rispetto al provvedimento di destituzione deliberato nei confronti del professionista, non può essere considerata come sostitutiva dell'assegno che la legge pone a carico del coniuge titolare di maggiori risorse economico-patrimoniali, ma incide sulla misura di quest'ultimo, entrando nel computo dei redditi del coniuge beneficiario ai fini della valutazione della loro adeguatezza, Sez. 6-1, n. 21669/2015, Genovese, Rv. 637320. Inoltre, in tema di scioglimento del matrimonio, la Suprema Corte ha specificato che l'ipotetica ed astratta possibilità lavorativa o di impiego, da parte del coniuge beneficiario, non incide sulla determinazione dell'assegno di divorzio, salvo che il coniuge onerato non fornisca la prova che il beneficiario abbia l'effettiva e concreta possibilità di esercitare un'attività lavorativa confacente alle proprie attitudini, Sez. 6-1, n. 21670/2015, Genovese, Rv. 637335. 38 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI 6. I figli nati fuori dal matrimonio. Ha precisato la Suprema Corte che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 Cost. – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela. Pertanto tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole, Sez. 6-3, n. 03079/2015, Vivaldi, Rv. 634387. In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale, riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla propria identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta, il giudice di legittimità ha avuto modo di precisare che la scelta (anche officiosa) del giudice è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento. La valutazione non può perciò essere condizionata né dal favor per il patronimico, né dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 c.c., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo. Pertanto deve ritenersi corretta, ed incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivata, la scelta di attribuire ad una minore di età inferiore ai cinque anni il solo cognome del padre, benché quest'ultimo l'abbia riconosciuto in epoca successiva alla madre, non avendo ancora la minore acquisito, con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, Sez. 1, n. 12640/2015, Campanile, Rv. 635653. 7. L'accertamento della paternità. Il falso riconoscimento della paternità, poi disconosciuto, e la riparazione del pregiudizio arrecato. La Suprema Corte ha evidenziato che il diritto all'identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione, per effetto di un riconoscimento 39 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636629. Nell'ambito della medesima decisione, il giudice di legittimità ha pure statuito che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni conseguenti ad un riconoscimento di paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, decorre dal giorno dell'azione di impugnazione dell'atto per difetto di veridicità, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636630. Infine, ancora nella medesima pronuncia, la Corte ha chiarito che in sede di liquidazione del danno inferto al figlio da un falso riconoscimento di paternità, poi disconosciuto, non si può tenere conto, a titolo di compensatio lucri cum damno, dei benefici ricevuti dal danneggiato in conseguenza dell'adempimento, da parte del falso padre, degli obblighi di mantenimento, non potendosi configurare un effetto lucrativo derivante da prestazioni dovute da chi, a seguito del riconoscimento, seppur falso, abbia assunto lo status di genitore, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636632. 8. La casa familiare. Richiamato il disposto di cui all'art. 6, comma 6, della l. n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall'art. 11 della l. 6 marzo 1987, n. 74), la Suprema Corte ha deciso che il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge (o al convivente) affidatario di figli minori (o maggiorenni non autosufficienti) è opponibile – nei limiti del novennio, ove non trascritto – anche al terzo acquirente dell'immobile, ma solo finché perdura l'efficacia della pronuncia giudiziale, sicché il venir meno del diritto di godimento del bene (nella specie, perché la prole è divenuta maggiorenne ed economicamente autosufficiente) legittima il terzo acquirente dell'immobile, divenutone proprietario, a proporre un'ordinaria azione di accertamento al fine di conseguire la declaratoria di inefficacia del titolo che legittimava l'occupazione dell'immobile e la condanna degli occupanti al pagamento della relativa indennità di occupazione illegittima, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento, Sez. 1, n. 15367/2015, Valitutti, Rv. 636214. La Corte ha pure precisato che al coniuge separato rimasto senza titolo nella casa familiare, di proprietà comune, il giudice non deve ordinare di rilasciare la quota ideale del bene all'altro coniuge, 40 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI dovendo piuttosto ingiungere di rilasciare l'intero bene alla comunione, legittimata ad assumere le sue determinazioni, anche a norma dell'art. 1105 c.c., Sez. 2, n. 19488/2015, D'Ascola, Rv. 636569. 9. La rettificazione dell'attribuzione del sesso, presupposti e conseguenze. Il giudice di legittimità ha statuito che la rettificazione di attribuzione di sesso di persona coniugata non può comportare, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 14 aprile 1982, n. 164, operata con la sentenza, additiva di principio, n. 170 dell'11 giugno 2014 della Corte costituzionale, la caducazione automatica del matrimonio, poiché non è costituzionalmente tollerabile, attesa la tutela di cui godono le unioni tra persone dello stesso sesso ai sensi dell'art. 2 Cost., una soluzione di continuità del rapporto, tale da determinare una situazione di massima indeterminatezza del nucleo affettivo già costituito. Pertanto il vincolo deve proseguire, con conservazione ai coniugi del riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio, sino a quando il legislatore non intervenga per consentire alla coppia di mantenere in vita il rapporto con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi, Sez. 1, n. 08097/2015, Acierno, Rv. 635040. La Suprema Corte ha poi deciso che, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla giurisprudenza della CEDU dell'art. 1 della l. n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge (attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150), per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile non deve ritenersi obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, risultando già modificati i caratteri secondari. L'acquisizione di una nuova identità di genere, invero, può essere il frutto di un processo individuale che non postula la necessità di simili interventi, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale, Sez. 1, n. 15138/2015, Acierno, Rv. 636001. 10. Sottrazione internazionale di minori ed effettività dell'affidamento della prole. In tema di sottrazione internazionale di minori, la Suprema Corte ha confermato che il rimpatrio del minore può essere disposto, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione 41 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI dell'Aja del 25 ottobre 1980, purché ricorra l'indispensabile presupposto dell'effettivo esercizio, in modo non episodico ma continuo, del diritto di affidamento da parte del richiedente al momento del trasferimento del minore, sicché il giudice è tenuto ad accertare la sussistenza di tale presupposto puntualmente ed in concreto, non essendo sufficiente una valutazione solo in astratto, sulla base del regime legale di esercizio della responsabilità genitoriale, Sez. 1, n. 06139/2015, Genovese, Rv. 634859. Ancora in materia di sottrazione internazionale di minori, il giudice di legittimità ha poi ribadito che il rimpatrio del minore può essere disposto, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, purché vengano concretamente accertati dal tribunale per i minorenni: l'effettivo esercizio al momento del trasferimento del diritto di affidamento da parte del richiedente, che prescinde da ogni rilievo in ordine al ripristino della situazione corrispondente all'affidamento legale, nonché l'insussistenza di una situazione intollerabile e di pericolo, non solo fisico ma anche psicologico, per il minore. Nel caso di specie la Suprema Corte ha cassato il decreto del tribunale per i minorenni con il quale veniva disposto il rimpatrio della figlia di un'italiana e di un cittadino statunitense affetto da alcolismo, tratto in arresto e più volte ricoverato in centri di riabilitazione, Sez. 1, n. 16043/2015, Campanile, Rv. 636617. 11. Il mantenimento dei figli maggiorenni. La Cassazione ha confermato che l'obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni, secondo le regole dettate dagli artt. 147 e 148 c.c., cessa a seguito del raggiungimento di una condizione di indipendenza economica di questi ultimi, Sez. 6-1, n. 17738/2015, Bisogni, Rv. 636835. 12. Lo stato di abbandono e l'adottabilità. Il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia d'origine, ha confermato la Suprema Corte, comporta che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità sia praticabile solo come "soluzione estrema" quando, cioè, ogni altro rimedio appaia inadeguato con l'esigenza dell'acquisto o del recupero di uno stabile ed adeguato contesto familiare in tempi compatibili con l'esigenza del bambino. Qualora però, a prescindere dagli intendimenti dei genitori e dei parenti, la vita da loro offerta al minore risulti inadatta al suo normale sviluppo psico-fisico, ricorre la situazione di abbandono ai sensi dell'art. 8 della l. 4 maggio 1983, n. 184, e la rescissione del 42 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI legame familiare è l'unico strumento che possa evitargli un più grave pregiudizio, Sez. 1, n. 00881/2015, Campanile, Rv. 633978. La kafalah convenzionale, prevista in alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all'insegnamento del Corano, ha spiegato il giudice di legittimità, è un istituto di protezione familiare – inteso a far godere al minore maggiori opportunità di crescita e migliori condizioni di vita, salvaguardando il rapporto con i genitori – che prescinde dallo stato di abbandono del minore, si realizza mediante un negozio stipulato tra la famiglia di origine e quella di accoglienza e presenta caratteri comuni con l'affidamento previsto dall'ordinamento nazionale. Tale istituto, quindi, in quanto finalizzato a realizzare l'interesse superiore del minore, non contrasta con i principi dell'ordine pubblico italiano e neppure con quelli della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che pure opera espressamente, all'art. 20, comma 3, il riconoscimento quale istituto di protezione del minore della sola kafalah giudiziale; la quale, diversamente da quella convenzionale, presuppone la situazione di abbandono o comunque di grave disagio del minore nel suo ambiente familiare, Sez. 1, n. 01843/2015, Bisogni, Rv. 634368. Il diritto del minore di crescere nell'ambito della propria famiglia d'origine, considerata l'ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dall'art. 1 della l. n. 184 del 1983. Ne consegue, ha ribadito la Suprema Corte, che il giudice di merito deve prioritariamente verificare se possa essere utilmente fornito un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo ove risulti impossibile, quand'anche in base ad un criterio di grande probabilità, prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittimo e corretto l'accertamento dello stato di abbandono, Sez. 1, n. 06137/2015, Genovese, Rv. 634844. 13. Matrimonio ed unioni omoaffettive. La Suprema Corte ha ritenuto che è legittima la mancata estensione del regime matrimoniale – in particolare, della possibilità di effettuare le pubblicazioni preliminari al matrimonio – alle unioni omoaffettive, che non rientrano tra le ipotesi legislative di unione coniugale – in linea con quanto affermato dalle sentenze della Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138 e 11 giugno 2014, n. 170, il cui approdo non è superato dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo (24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Gov. Austria e, recentemente, 16 luglio 2014, 43 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI Hamalainen c. Gov. Finlandia), che non impongono una equiparazione ex art. 2 Cost. di tali formazioni sociali, e del nucleo affettivo-relazionale che le caratterizza, comporta che queste unioni possano acquisire un grado di protezione e tutela anche ad opera del giudice ordinario, tenuto ad una interpretazione della norma costituzionalmente e convenzionalmente orientata, equiparabile a quella matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determini una lesione di diritti fondamentali, Sez. 1, n. 02400/2015, Acierno, Rv. 634461. 14. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. Il giudice di legittimità ha confermato, riprendendo l'orientamento proposto da Sez. U, n. 16379/2014, Di Palma, Rv. 631798, che la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, come già affermato da Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18 e 12 aprile 1989, n. 203, e risulta pertanto ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonio-atto", anche quando la sentenza ecclesiastica sia stata pronunciata per l'accertata incapacità naturale della parte, originaria e mai venuta meno, Sez. 1, n. 01494/2015, Acierno, Rv. 633982. In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difetto di consenso, la Corte ha deciso doversi confermare che le situazioni di vizio psichico assunte dal giudice ecclesiastico come comportanti inettitudine del soggetto, al momento della manifestazione del consenso, a contrarre il matrimonio, non si discostano sostanzialmente dall'ipotesi d'invalidità contemplata dall'art. 120 c.c., cosicché è da escludere che il riconoscimento dell'efficacia di una tale sentenza trovi ostacolo in principi fondamentali dell'ordinamento italiano. In particolare, ha precisato la Corte, tale contrasto non è ravvisabile sotto il profilo del difetto di tutela dell'affidamento della controparte perché, mentre in tema di contratti la disciplina generale dell'incapacità naturale dà rilievo alla buona o malafede dell'altra parte, tale aspetto è ignorato nella disciplina dell'incapacità naturale quale causa d'invalidità del 44 CAP. IV – LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI matrimonio, essendo in tal caso preminente l'esigenza di rimuovere il vincolo coniugale inficiato da vizio psichico, Sez. 1, n. 06611/2015, Campanile, Rv. 634750. 45

 

 

 

 

CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI CAPITOLO V SUCCESSIONI E DONAZIONI (di Dario Cavallari) SOMMARIO: 1. La delazione ereditaria. – 2. La rappresentazione. – 3. L'accettazione beneficiata. – 4. La rinunzia all'eredità. – 5. L'eredità giacente. – 6. La reintegrazione della quota riservata ai legittimari. – 7. Il testamento. – 8. La divisione ereditaria. – 9. Il retratto successorio. – 10. La nullità della divisione. – 11. La collazione. – 12. Il pagamento dei debiti ereditari. – 13. Le donazioni. 1. La delazione ereditaria. In tema di delazione ereditaria, è stato fissato un importante principio con riferimento alla forza espansiva della disposizione testamentaria a titolo universale ove vi siano beni ignorati dal testatore o sopravvenuti. Infatti, Sez. 2, n. 12158/2015, Nuzzo, Rv. 635621, ha chiarito che, in presenza di una disposizione del genere, non opera la successione legittima di cui all'art. 457, comma 2, c.c., ancorché sia stata redatta in forma di istituzione ex re certa. Inoltre, Sez. 2, n. 01902/2015, Giusti, Rv. 63417, ha precisato come il chiamato all'eredità non possa in alcun modo disporre della delazione. In particolare, secondo la corte di legittimità, il riconoscimento in una transazione, da parte dell'erede universale, della titolarità di alcuni beni ereditari in favore di chi, senza essere un legittimario pretermesso, si proclami erede in virtù di un testamento anteriore revocato, non determina pure il riconoscimento della qualità di coerede in capo al destinatario dell'attribuzione. Ne consegue che i debiti ereditari restano a carico dell'erede istituito, non potendosi neanche ipotizzare, nella specie, l'avvenuta conclusione di una vendita di eredità. Infine, con una decisione che tocca profili processuali, Sez. 2, n. 22100/2015, Giusti, Rv. 636913, ha affermato che l'imprescrittibilità della petizione di eredità non altera il regime ordinario di prescrizione dei singoli diritti rientranti nell'asse ereditario, soprattutto di quelli di credito. 2. La rappresentazione. Con l'importante pronuncia di Sez. 2, n. 00594/2015, Oricchio, Rv. 634262, è stata chiarita la portata dell'istituto della rappresentazione e il suo rapporto con quello del retratto successorio. 46 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI È stato affermato che il discendente legittimo o naturale che subentri nel luogo e nel grado dell'ascendente, che non possa o non voglia accettare l'eredità, succede direttamente al de cuius. Pertanto, il rappresentante, essendo un successore iure proprio nell'eredità, è legittimato all'esercizio del retratto successorio. 3. L'accettazione beneficiata. Sono state emesse delle interessanti pronunce di carattere processuale. Così è stato chiarito da Sez. 3, n. 07090/2015, Vincenti, Rv. 634832, che il giudicato sulla condanna generica accerta tutte le componenti dell'obbligazione, per cui, ove tale condanna colpisca l'erede per un debito ereditario, senza che nel relativo giudizio sia stata dedotta o rilevata d'ufficio l'accettazione con beneficio d'inventario, l'erede debitore non può avvalersi del beneficio stesso nel successivo giudizio nel quale si quantifichi il dovuto. Identico principio è stato formulato da Sez. 3, n. 07090/2015, Vincenti, Rv. 634831, con riguardo all'ipotesi in cui la condanna, ai sensi dell'art. 278 c.p.c., concerna il pagamento di una provvisionale. In tema di ripartizione dell'onere della prova, è stato pure ribadito da Sez. L, n. 16514/2015, Bronzini, Rv. 636734, che è l'erede, e non il creditore che reclami la responsabilità ultra vires del primo, a dovere dimostrare la tempestiva formazione dell'inventario, venendo in questione un elemento costitutivo del relativo beneficio. Per quanto concerne i rapporti fra erede con beneficio d'inventario ed amministrazione finanziaria, Sez. 6-5, n. 14847/2015, Caracciolo, Rv. 636066, ha affermato che la limitazione della responsabilità è opponibile ad ogni creditore. Ne consegue che l'erario, pur potendo notificare l'avviso di liquidazione al detto erede, non può esigere l'imposta ipotecaria, catastale o di successione fino al momento della chiusura della procedura di liquidazione dei debiti ereditari ed a condizione che permanga un residuo attivo in favore dell'erede medesimo. Peraltro, è sorto un potenziale contrasto fra la decisione da ultimo riportata e Sez. 5, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637156, secondo la quale l'erede che abbia accettato con beneficio d'inventario deve far valere il vizio dell'atto impositivo con cui l'Amministrazione finanziaria gli abbia chiesto di pagare l'intera imposta ereditaria impugnando l'avviso di accertamento o di liquidazione, poiché non è più possibile eccepire, nel giudizio concernente la cartella di pagamento, la sua ridotta responsabilità 47 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI derivante dall'accettazione beneficiata, in ragione della preclusione connessa alla definitività dell'atto impositivo non impugnato. 4. La rinunzia all'eredità. Sez. 2, n. 04162/2015, Proto, Rv. 634417, ha ribadito che la rinunzia all'eredità è un negozio unilaterale non recettizio che non può essere oggetto di simulazione, poiché non è possibile che il dichiarante ed il destinatario concludano l'accordo previsto dall'art. 1414, comma 3, c.c. 5. L'eredità giacente. Sono stati riaffermati alcuni principi concernenti la figura del curatore dell'eredità giacente. Così Sez. 2, n. 00039/2015, Bianchini, Rv. 633892, ha affermato che il curatore dell'eredità giacente, benché non rappresenti il chiamato all'eredità, è legittimato sia attivamente che passivamente nelle cause che riguardano l'eredità medesima. Inoltre, Sez. 2, n. 12947/2015, Falaschi, Rv. 635759, ha stabilito che, qualora sia dichiarata inammissibile l'impugnazione principale avverso il provvedimento di liquidazione del compenso del curatore di un'eredità giacente, l'opponente può proporre ricorso incidentale per cassazione, al fine di sostenere le ragioni del ricorrente principale e, quindi, l'erroneità della pronuncia di inammissibilità del primo gravame. 6. La reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Con riferimento all'incidenza dell'onere nel caso di donazione modale, Sez. 2, n. 06925/2015, Matera, Rv. 634982, ha chiarito che questo, pur non avendo natura di corrispettivo, incide sull'ammontare del trasferimento patrimoniale e comporta una riduzione di valore della donazione medesima, della quale occorre tenere conto ai fini della riunione fittizia che segue alla riduzione della donazione prevista dall'art. 555 c.c. Va pure segnalata Sez. 2, n. 13407/2015, Matera, Rv. 635907, la quale ha stabilito che, ove la lesione della legittima derivi da una donazione, il termine decennale di prescrizione dell'azione di riduzione decorre dalla data di apertura della successione, senza che abbia alcun rilievo la circostanza che tale riduzione sia domandata dall'erede del legittimario, ove detta prescrizione sia, comunque, già maturata al momento della morte di quest'ultimo. Quanto ai rapporti fra azione di riduzione e divisione ereditaria, Sez. 2, n. 22097/2015, Matera, Rv. 636878, ha precisato che il legittimario può esercitare l'azione di riduzione verso il coerede donatario di un immobile pure in occasione della divisione 48 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI ereditaria, poiché gli effetti della divisione, ancorché sia possibile la collazione, non assorbono quelli della riduzione, in quanto questa obbliga a restituire il bene in natura, senza possibilità di scegliere l'imputazione di valore. 7. Il testamento. Sono state emesse alcune pronunce che hanno limitato la possibilità di disporre la sospensione necessaria in giudizi concernenti testamenti od eredi testamentari. Così Sez. 6-2, n. 05808/2015, Giusti, Rv. 634737, ha escluso un vincolo di pregiudizialità, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., tra la causa possessoria promossa dall'erede legittimo, subentrato nel possesso del bene, contro l'erede testamentario che ne rifiuti la restituzione e quella, pendente fra le stesse parti, che abbia ad oggetto la falsità del detto testamento. Allo stesso modo, Sez. 6-2, n. 19767/2015, Parziale, Rv. 636719, non ha ravvisato un rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore ed il processo penale per circonvenzione di incapace. Ciò in quanto, nel primo caso, la domanda, per essere accolta, non richiede che sussista un pregiudizio, ma solo che, in seguito ad un'infermità o ad altra causa perturbatrice, un soggetto sia privo della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi al momento della redazione del testamento. Nella seconda eventualità, invece, è stato evidenziato che l'accertamento dello stato di infermità psichica o di deficienza psichica della vittima mira a provare la specifica incapacità naturale della quale l'imputato avrebbe profittato perché fosse posto in essere un atto pregiudizievole per sé od altri. Con riferimento al contenuto del testamento, Sez. 2, n. 10803/2015, Manna, Rv. 635812, è tornata ad occuparsi della distinzione fra legato e modus. La decisione ha precisato che il primo rappresenta una autonoma e diretta attribuzione patrimoniale in favore del legatario, il quale è un avente causa del testatore. Il secondo costituisce, al contrario, una liberalità indiretta a favore di soggetti solo genericamente obbligati, che si realizza per mezzo dell'imposizione di un'obbligazione all'onerato, del quale il beneficiario è un avente causa. È stato poi ribadito da Sez. 2, n. 15391/2015, Abete, Rv. 636296, l'orientamento consolidato in base al quale nell'interpretare il testamento la volontà del testatore va individuata, ai sensi dell'art. 1362 c.c., in seguito ad un esame globale della scheda testamentaria 49 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI e non di una singola disposizione, con la conseguenza che il giudice del merito può attribuire alle parole del testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, purché non antitetico. Con riferimento alla questione della validità del testamento, Sez. 2, n. 23014/2015, Lombardo, Rv. 637162, ha affermato che, nell'eventualità che la scheda testamentaria sia priva di data e che il testatore vi affermi di averla redatta nel giorno di un evento futuro ed incerto, come il suo suicidio, il detto testamento è annullabile per difetto di data. Infine, Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554, ha chiarito che la parte la quale contesti l'autenticità del testamento olografo ha l'onere di proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura e di fornirne, altresì, la relativa prova. 8. La divisione ereditaria. Sez. 2, n. 16700/2015, Migliucci, Rv. 636398, ha confermato che la prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti dovuti dal comproprietario utilizzatore del bene comune decorre solo dall'epoca della divisione, in quanto è da questa che scaturisce l'obbligo del rendimento del conto a partire dal momento in cui è sorta la comunione. Inoltre, sono state affrontate da Sez. 2, n. 04730/2015, Parziale, Rv. 634552, le implicazioni della natura dichiarativa dell'atto di divisione, che, di conseguenza, è stato ritenuto idoneo a dimostrare la titolarità del bene non nei confronti dei terzi, ma solo nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa. È stato ribadito da Sez. 2, n. 10216/2015, Giusti, Rv. 635410, che, qualora nella comunione ereditaria sia compreso un immobile non comodamente divisibile ed i coeredi siano titolari di quote identiche, il giudice deve scegliere fra coloro che ne chiedono l'attribuzione sulla base di ragioni di opportunità e convenienza, poiché la vendita all'incanto è un rimedio residuale che va applicato solamente ove non sia rinvenibile alcun criterio oggettivo di preferenza. Peraltro, è stato chiarito che non costituisce criterio preferenziale da seguire quello della maggiore offerta fatta da uno dei coeredi rispetto al prezzo di stima, non essendo la divisione una gara fra i comunisti. Per quanto concerne i profili processuali della divisione, Sez. 6-2, n. 09813/2015, Manna, Rv. 635404, ha precisato che il giudice nel relativo giudizio, nonostante abbia disposto la compensazione delle spese di lite, può stabilire che quelle della consulenza tecnica 50 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI d'ufficio siano a carico dei condividenti pro quota, poiché la prestazione dell'ausiliare deve ritenersi resa nell'interesse generale della giustizia e, quindi, di tutte le parti. 9. Il retratto successorio. Per Sez. 2, n. 06293/2015, Oricchio, Rv. 634733, il retratto successorio in tema di comunione ereditaria non si applica allorché una situazione di comunione ordinaria consegua alla congiunta attribuzione di un bene ad alcuni dei coeredi in sede di divisione. In tal caso, infatti, non può essere invocato l'art. 732 c.c., vigendo per la comunione ordinaria il principio di libera disposizione della prova. Inoltre, sempre muovendosi nella stessa ottica, Sez. 2, n. 15032/2015, Abete, Rv. 636028, ha affermato che non viene in rilievo l'art. 732 c.c. se il testatore ha effettuato direttamente la divisione. Ciò persino nell'eventualità che egli abbia assegnato ad alcuni dei discendenti un bene in comunione, poiché tale comunione non coincide con quella ereditaria, avendo origine non dalla successione a causa di morte, ma dall'atto dispositivo ad effetti reali del testatore. 10. La nullità della divisione. In tema di nullità della divisione, per Sez. 2, n. 16698/2015, Bursese, Rv. 636171, il principio di intangibilità della legittima comporta che i diritti del legittimario vadano soddisfatti con beni o denaro dell'asse ereditario. Se ne ricava la nullità, ai sensi dell'art. 735, comma 1, c.c., dell'eventuale divisione effettuata dal testatore in virtù della quale le ragioni ereditarie di uno dei riservatari debbano essere soddisfatte dagli eredi fra cui l'asse è diviso con la corresponsione di somma di denaro non compresa nel relictum. 11. La collazione. In materia di collazione sono state emesse alcune interessanti pronunce. In particolare, Sez. 2, n. 10478/2015, Bucciante, Rv. 635425, ha ribadito che la collazione è una fase della divisione ereditaria, con la conseguenza che non può formare oggetto di domanda giudiziale autonoma rispetto alla medesima divisione, neppure a fini di mero accertamento. Inoltre, per Sez. 2, n. 05659/2015, Oricchio, Rv. 634713, una volta che il condividente donatario abbia optato per la collazione 51 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI per imputazione, la somma di denaro equivalente al valore del bene donato al momento dell'apertura della successione diviene, da tale data, parte della massa in luogo del bene donato, rappresentando fin dall'inizio della comunione un debito di valuta del donatario, cui si applica il principio nominalistico. A ciò consegue che non devono essere computati i frutti civili dell'immobile oggetto della collazione, ma solo gli interessi legali sulla somma in questione a partire dall'epoca dell'apertura della successione. 12. Il pagamento dei debiti ereditari. Per ciò che riguarda il pagamento dei debiti e pesi ereditari, Sez. 3, n. 06431/2015, Scrima, Rv. 635069, ha interpretato l'art. 754 c.c., il quale dispone che gli eredi rispondono dei debiti del de cuius in relazione al valore della quota nella quale sono chiamati a succedere, nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario è tenuto a rendere nota al creditore la sua condizione di coobbligato passivo entro i limiti della propria quota. Infatti, poiché viene in rilievo una eccezione in senso proprio, la mancata proposizione di questa comporta il diritto per l'attore di chiedere legittimamente il versamento dell'intero. In un'ottica processuale, Sez. 2, n. 10808/2015, Matera, Rv. 635656, ha chiarito che sussiste un litisconsorzio necessario processuale nell'eventualità che ad una pluralità di coeredi sia domandato l'adempimento dell'unica obbligazione del de cuius in base alle loro quote, in quanto il debito di ciascuno di essi ha la sua fonte nella suddetta obbligazione. Una particolare decisione che merita di essere segnalata è quella di Sez. 6-2, n. 10415/2015, Giusti, Rv. 635411, secondo cui la società che abbia ricevuto, in base ad una clausola testamentaria a contenuto non patrimoniale, l'incarico di procedere alla cremazione della salma, ha diritto al rimborso, a carico dell'eredità, delle spese processuali, compresi gli esborsi non ripetibili, affrontate per adempiere al mandato ricevuto. Tale diritto è stato specificamente riconosciuto con riferimento ai costi sostenuti per fare accertare giudizialmente, nei confronti di eredi a ciò contrari, il diritto-dovere della società di procedere alla cremazione, non assumendo alcun rilievo in senso contrario la compensazione delle spese decisa dal giudice del processo presupposto. 52 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI 13. Le donazioni. Innanzitutto, alcune pronunce, nell'affrontare casi concernenti particolari fattispecie negoziali, hanno contribuito a meglio chiarire quando possa affermarsi l'esistenza di una donazione indiretta o di atti a titolo gratuito. Così, per Sez. 2, n. 03819/2015, Giusti, Rv. 634473, la rinuncia abdicativa della quota di comproprietà di un bene che avvantaggi gli altri comunisti costituisce donazione indiretta, non essendo necessaria la forma dell'atto pubblico. Inoltre, per Sez. 1, n. 13087/2015, Nappi, Rv. 635732, con specifico riferimento all'azione di inefficacia ex art. 64 l.f.., sono da considerare atti a titolo gratuito non soltanto quelli realizzati per spirito di liberalità, ma pure quelli caratterizzati esclusivamente da una prestazione in assenza di corrispettivo. Sez. 2, n. 17604/2015, Scalisi, Rv. 636407, ha ribadito che, nel caso sia stato acquistato un immobile con denaro del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il medesimo disponente voglia arricchire, sussiste una donazione indiretta dell'immobile e non del denaro usato per l'acquisto, con la conseguenza che, ai fini della collazione, il conferimento deve avere ad oggetto l'immobile e non il denaro. In tema di rapporti fra donante e donatario, Sez. 2, n. 05659/2015, Oricchio, Rv. 634714, ha confermato che il donante ha esclusivamente il potere di dispensare il donatario dalla collazione, senza che possa in alcun modo vincolare lo stesso donatario, tenuto alla collazione, a conferire l'immobile in natura o ad effettuare la collazione per imputazione. Sempre con riguardo alla dispensa del donatario dall'imputare la sua quota di legittima, Sez. 2, n. 22097/2015, Matera, Rv. 636879, ha stabilito che questa è un negozio autonomo rispetto alla donazione medesima, con la conseguenza che ben può essere contenuta nel successivo testamento del donante. È stato poi affermato da Sez. 2, n. 07821/2015, Matera, Rv. 635042, che, in presenza di un contratto di donazione non ancora perfetto, in ragione della mancata notificazione al donante dell'atto pubblico di accettazione del donatario, spetta all'accipiens non l'animus possidendi, ma solo l'animus detinendi, trattandosi di un negozio traslativo non ancora esistente. Con riferimento alla natura del soggetto donante, Sez. 3, n. 18449/2015, Carluccio, Rv. 636761, ha chiarito che le società hanno capacità giuridica piena, per cui esse possono porre in essere ogni atto o rapporto giuridico, inclusa la donazione, ancorché questa esuli, ecceda o tradisca lo scopo lucrativo perseguito. 53 CAP. V – SUCCESSIONI E DONAZIONI In queste ultime eventualità, potrà eventualmente prospettarsi una responsabilità degli amministratori che detta donazione abbiano deciso, ma non una nullità od un'inefficacia dell'atto. Infine, per Sez. 2, n. 20788/2015, Abete, Rv. 636590, mentre il donante che si sia riservato l'usufrutto, ai sensi dell'art. 796 c.c., non può trasmetterlo mortis causa, nella diversa ipotesi del legato di usufrutto il testatore ben può legare tale diritto, scindendolo dalla nuda proprietà trasmessa ad altro successore. 54 CAP. VI - I

 

 

DIRITTI REALI E IL POSSESSO PARTE SECONDA I BENI CAPITOLO VI I DIRITTI REALI E IL POSSESSO (di Gian Andrea Chiesi) SOMMARIO: 1. Proprietà pubblica. - 2. Conformità urbanistica degli immobili e diritti privati. - 3. Azioni a tutela della proprietà. - 4. Comunione di diritti reali. - 4.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria - 5. Diritto d'uso. - 6. Servitù prediali. - 6.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. - 7. Tutela ed effetti del possesso. - 7.1. Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi- possessorie. 1. Proprietà pubblica. Nell'esaminare il regime giuridico dei bacini lacustri, Sez. U, n. 18215/2015, Vivaldi, Rv. 636196, ha chiarito che, indipendentemente dalla loro attitudine a soddisfare un pubblico interesse, i laghi, al pari di tutte le acque superficiali e sotterranee e salvo particolari categorie oggetto di disciplina speciale, rientrano, in virtù di quanto previsto dall'art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, nel demanio idrico, con conseguente loro incommerciabilità. Quanto, poi, all'estensione del demanio lacuale, Sez. U, n. 10089/2015, Amendola, Rv. 635275, ha precisato che in esso rientra non solo l'alveo - e, cioè, lo spazio impegnato dal bacino idrico con le piene ordinarie - ma anche la spiaggia, dovendosi intendere con tale accezione il tratto di terra contiguo al primo e necessario per i pubblici usi del lago, quali il trasporto di persone e cose da una sponda all'altra, il diporto e l'esercizio della pesca. In applicazione di tale principio, pertanto, nella fattispecie sottoposta al proprio vaglio, la S.C. ha confermato la natura demaniale di un canaletto ad uso darsena prospiciente il lago di Garda. Analoga questione è stata affrontata da Sez. 1, n. 06619/2015, Nappi, Rv. 634948, avuto riguardo al demanio marittimo: muovendo dalla premessa per cui l'appartenenza di un determinato bene al demanio naturale va valutata dal giudice, nella sua attuale consistenza, al momento della decisione, la S.C. ha chiarito che, nel caso in cui un bene acquisisca la connotazione di lido del mare - inteso quale porzione di riva a contatto diretto con le 55 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate - ovvero di spiaggia (ivi compreso l'arenile) - e, cioè, il tratto di terra prossimo al mare, che sia sottoposto alle mareggiate straordinarie - esso assume i connotati naturali di bene appartenente al demanio marittimo necessario, indipendentemente da un atto costitutivo della P.A. o da opere pubbliche sullo stesso realizzate, con corrispondente compressione o, se del caso, totale elisione, dell'eventuale preesistente diritto di proprietà privata. In tema di usi civici, infine, Sez. U, n. 00605/2015, Mazzacane, Rv. 633646, ha esaminato il caso di una domanda volta alla declaratoria di avvenuto acquisto per usucapione della proprietà di un fondo, proposta nei confronti di un Comune che aveva eccepito l'inclusione del bene nel demanio ad uso civico: la S.C., sul presupposto che la controversia esigesse la soluzione, in via principale e non meramente incidentale, della questione di demanialità, ha affermato la sussistenza della giurisdizione del commissario regionale per la liquidazione degli usi civici, ai sensi dell'art. 29 della legge 16 giugno 1927, n. 1766. 2. Conformità urbanistica degli immobili e diritti privati. Particolarmente copiosa la giurisprudenza in tema di distanze legali. Per quanto concerne, anzitutto, le ipotesi di esenzione dal loro rispetto, Sez. 2, n. 03037/2015, Migliucci, Rv. 634362, osserva come la disciplina dell'art. 878 c.c. si applica non solo ai muri di cinta in senso proprio (qualificati, cioé, dalla loro destinazione a recintare una determinata proprietà, dall'altezza non superiore a tre metri, dall'emersione dal suolo, nonché dall'isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni), ma anche ai manufatti che, sebbene carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l'utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo. Del pari, Sez. 2, n. 06923/2015, Migliucci, Rv. 634983, sottrae al rispetto della normativa in tema di distanze le opere eseguite in un fabbricato anteriormente alla costituzione del condominio, atteso che, in tal caso, l'intero edificio, formando oggetto di un unico originario diritto dominicale, può essere nel suo assetto liberamente precostituito o modificato dal proprietario esclusivo anche in vista delle future vendite di piani o porzioni di piano, con la conseguente costituzione, a seguito della nascita del condominio, di vere e proprie servitù reciproche tra le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, in deroga (od in contrasto) al regime legale delle distanze, in base a uno 56 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO schema assimilabile a quello dell'acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia. Nelle ipotesi di applicazione della normativa sulle distanze, invece, Sez. 2, n. 14915/2015, Petitti, Rv. 636021, soffermandosi sul rapporto tra disposizioni codicistiche e previsioni contenute negli strumenti urbanistici locali, ribadisce che le norme di un regolamento edilizio e dell'annesso programma di fabbricazione divengono efficaci, con conseguente applicazione nei rapporti tra privati, solo dopo essere state adottate dal consiglio comunale, approvate della giunta regionale e, infine, pubblicate mediante affissione all'albo pretorio, vigendo fino al momento della pubblicazione - che rappresenta condizione necessaria per l'efficacia e l'obbligatorietà dello strumento urbanistico - unicamente la disciplina dettata dal codice civile. I limiti di operatività delle integrazioni recate alle previsioni codicistiche dagli strumenti urbanistici locali sono stati quindi precisati da Sez. 2, n. 04967/2015, Abete, Rv. 634878, la quale ha rimarcato che, mentre la disciplina delle distanze tra fabbricati è diretta a tutelare interessi generali di igiene, decoro e sicurezza degli abitati e, dunque, pur essendo dettata in via generale dall'art. 873 c.c., può essere derogata in peius dalle disposizioni dei regolamenti locali, la disciplina della distanza delle vedute dal confine, siccome finalizzata alla tutela del mero interesse privato alla salvaguardia del fondo vicino dalle indiscrezioni dipendenti dalla loro apertura, trova la propria fonte esclusivamente nell'art. 905 c.c., salvo che la maggior distanza delle costruzioni, prevista dai regolamenti locali, sia riferita specificamente al confine, nel qual caso essa regola anche la distanza delle vedute dal confine. L'analisi delle interferenze tra modificazione dello stato dei fabbricati e disciplina delle distanze legali ha consentito a Sez. 2, n. 17043/2015, Manna, Rv. 636135, di chiarire che, poiché la ristrutturazione edilizia mediante ricostruzione di un edificio preesistente venuto meno per evento naturale o per volontaria demolizione si attua, nel rispetto dell'art. 31, comma 1, lett. d), della legge 5 agosto 1978, n. 457, con interventi che comportano modificazioni esclusivamente interne dell'edificio preesistente, senza aumenti di superficie o di volume (né tali nozioni normative possono essere integrate dai regolamenti locali), in tal caso difettano, per ciò stesso, i presupposti per discutersi di una "nuova costruzione", sottoposta al rispetto della disciplina in tema di distanze vigente al momento della sua realizzazione ed alla relativa tutela ripristinatoria. 57 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO Sempre avuto riguardo alla modificazione dello stato dei fabbricati, poi, Sez. 2, n. 11448/2015, Abete, Rv. 635512, ha specificato che il principio per cui la originaria soluzione costruttiva - a distanza legale, in aderenza o in appoggio - può, ove la situazione lo consenta, essere modificata opera incondizionatamente solo allorché essa fosse legittima ab origine e non anche quando il preveniente abbia agito in giudizio per eliminare una situazione illegittima determinata dal prevenuto: in tal caso, infatti, onde paralizzare la domanda di demolizione proposta dal primo, occorre accertare che il proposito del secondo, di modificare la propria costruzione, per realizzare una tra le soluzioni legittime nell'ambito del meccanismo della prevenzione, sia serio e concretamente attuabile. L'operatività del principio di prevenzione è analizzato anche da Sez. 2, n. 21455/2015, Matera, Rv. 636830, ove si precisa che, laddove il preveniente abbia edificato ad una distanza dal confine inferiore a quella prescritta dai regolamenti locali e lo strumento urbanistico consenta al confinante che costruisce per primo di spingere il proprio fabbricato sino al confine del fondo contiguo non edificato, la situazione di illegittimità può essere rimossa, in via alternativa, mediante arretramento della costruzione fino alla distanza regolamentare ovvero con il suo avanzamento fino al confine. Quanto, infine, alla individuazione del legittimato passivo dell'azione reale volta al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, Sez. 2, n. 17602/2015, Matera, Rv. 636406, precisa che essa deve essere proposta nei confronti dell'attuale proprietario della costruzione illegittima, in quanto unico destinatario dell'ordine di demolizione che tale azione tende a conseguire, non rilevando che la costruzione sia stata iniziata o eseguita da un precedente proprietario, mentre Sez. 2, n. 10499/2015, Giusti, Rv. 635461, aggiunge che tale domanda, qualificabile come actio negatoria servitutis, ha effetto anche nei confronti dell'acquirente a titolo particolare della costruzione che, essendo stato convenuto nel giudizio instaurato anche contro il proprio dante causa, ne sia divenuto parte, senza che la mancata trascrizione della domanda giudiziale a norma dell'art. 2653, n. 1 o n. 5, c.c. conferisca al medesimo acquirente il diritto di mantenere la distanza inferiore a quella legale. La tematica dei diritti edificatori è affrontata, più in generale, da Sez. 2, n. 23130/2015, Migliucci, Rv. 637159, la quale chiarisce che, trovando lo ius aedificandi la propria fonte nel diritto di proprietà, del quale rappresenta una facoltà ex art. 832 c.c., i diritti 58 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO edificatori possono assumere autonoma rilevanza solo ove oggetto di un'apposita convenzione stipulata dal proprietario dell'area cui accedono, in assenza della quale al trasferimento della proprietà del terreno (avvenuta, nella specie esaminata dalla Corte, a seguito di espropriazione forzata) consegue trasferimento della capacità edificatoria attuale (nella specie, trattavasi della volumetria edificabile connessa a un piano di lottizzazione). Sotto altro profilo, merita menzione Sez. 3, n. 20927/2015, Rubino, in corso di massimazione, che, in tema di immissioni, chiarisce come la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa non abbia perso attualità e, anzi, mantenga inalterata la propria rilevanza anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6 ter del d.l. n. 208 del 2008, non potendosi ritenere che quest'ultimo abbia tacitamente abrogato l'art. 844 c.c. In tale contesto si colloca Sez. 3, n. 15853/2015, Scrima, Rv. 636376, la quale osserva come, nello specifico settore delle immissioni derivanti da onde elettromagnetiche, il principio di precauzione sia assicurato dal legislatore statale attraverso la disciplina contenuta nella l. n. 36 del 2001 e nel DPCM 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, non modificabili, neppure in senso restrittivo, dalla normativa delle singole Regioni (Corte cost., n. 307 del 2003) ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore. 3. Azioni a tutela della proprietà. La probatio diabolica che accompagna l'esercizio dell'azione di rivendicazione - la quale, come chiarisce Sez. 2, n. 17270/2015, Nuzzo, Rv. 636126, va proposta nei confronti di chi possiede il bene o ne è proprietario all'atto della domanda e non anche dei danti causa, che non hanno veste di litisconsorti necessari - trova una mitigazione nell'ipotesi, esaminata da Sez. 2, n. 15539/2015, Lombardo, Rv. 636083, di precedente domanda proposta dal convenuto nei confronti del dante causa dell'attore e volta ad ottenere una pronunzia di usucapione speciale della proprietà dell'immobile oggetto di rivendica: la notifica di tale domanda, senza che ad essa sia seguita la declaratoria di usucapione, determina, infatti, l'implicito riconoscimento, in capo al dante causa dell'attore, dell'originaria proprietà del bene sulla base dei titoli 59 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO trascritti nei registri immobiliari, con la conseguenza per cui, qualora successivamente, nel giudizio di rivendica, il convenuto sostenga - in via di eccezione - di aver acquistato per usucapione la proprietà del bene rivendicato, l'onere probatorio posto a carico dell'attore in rivendicazione si attenua, riducendosi alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere, nonché alla prova che quell'appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto. Ancora in tema di attenuazione dell'onere della prova gravante sull'attore in rivendicazione, Sez. 2, n. 04730/2015, Parziale, Rv. 634552, sottolinea che l'atto di divisione, in ragione della sua natura meramente dichiarativa, pur essendo inidoneo a fornire la prova della titolarità del bene nei confronti dei terzi ha, a contrario, una propria rilevanza probatoria nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o loro aventi causa, in quanto la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula necessariamente il riconoscimento dell'appartenenza delle cose in comunione. La tematica dell'onere della prova e delle modalità di suo assolvimento è approfondita, inoltre, da Sez. 2, n. 17756/2015, Migliucci, Rv. 636402, che, in tema di azione di regolamento di confini e con specifico riferimento all'ipotesi di due fondi limitrofi costituenti lotti separati di un appezzamento originariamente unico, afferma che, in tal caso, deve essere attribuita peculiare rilevanza ai tipi di frazionamento allegati ai singoli atti di acquisto e, in particolare, ove i dati sul confine siano discordanti e gli acquisti siano stati effettuati in tempi diversi, al confine indicato nel tipo di frazionamento allegato al titolo di acquisto più risalente nel tempo. D'altra parte, l'incertezza sul confine - osserva Sez. 2, n. 22909/2015, Matera, Rv. 637157 - determina l'inapplicabilità della presunzione di comunione del fosso ex art. 897 c.c., il cui andamento non può essere invocato, pertanto, per regolare il confine in difformità da quanto risultante nelle mappe catastali. Sempre in tema di prova del confine tra fondi limitrofi, Sez. 2, n. 22068/2015, Scalisi, Rv. 636912, si occupa di chiarire che nel sistema tavolare l'accordo tra i proprietari che stabilisca un confine difforme dalle risultanze del libro fondiario ha efficacia meramente obbligatoria tra i contraenti, occorrendo, per la sua opponibilità erga omnes, che esso venga intavolato. 60 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO Qualificata, poi, in termini di actio negatoria servititis la domanda volta a denunziare la violazione della distanza legale da parte del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l'arretramento della sua costruzione, giacché tesa a salvaguardare il diritto di proprietà dell'attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l'esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione, Sez. 2, n. 10005/2015, Falaschi, Rv. 635505, evidenzia come detta domanda sia soggetta a trascrizione ai sensi sia dell'art. 2653, n. 1, c.c. - norma che, essendo suscettibile di interpretazione estensiva, è applicabile anche alle domande dirette all'accertamento negativo dell'esistenza di diritti reali di godimento - sia del successivo n. 5 - che dichiara trascrivibili le domande che interrompono il corso dell'usucapione su beni immobili. Confermando la consolidata giurisprudenza di legittimità formatsasi sul punto, Sez. 2, n. 00040/2015, Giusti, Rv. 633805, chiarisce che, giacché la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti diritti autodeterminati - che si identificano, cioè, in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non assolve ad una funzione di specificazione della domanda o dell'eccezione, ma è necessaria ai soli fini della prova - non viola il divieto di nova in appello ex art. 345 c.p.c. la deduzione, in sede di gravame, da parte del convenuto che in primo grado abbia eccepito ad altro titolo la proprietà dell'area rivendicata dalla controparte, dell'avvenuto acquisto dell'area medesima per usucapione, ordinaria o abbreviata. Del pari, non va qualificata come nuova la domanda, proposta nel corso di un giudizio instaurato per lo sradicamento di alberi posti a dimora dal confinante proprietario a distanza inferiore a quella legale, volta a mantenere le piante ad altezza non eccedente la sommità del muro di cinta, ai sensi dell'art. 892, comma 4, c.c., poiché - osserva Sez. 6-2, n. 18284/2015, Manna, Rv. 637021 - si tratta di una diversa articolazione, di minor contenuto, della medesima ed unica pretesa all'osservanza del distacco previsto dalla legge. Sempre sotto il profilo qualificatorio, Sez. 2, n. 23121/2015, Manna, Rv. 637161, chiarisce che l'azione volta al rilascio di un fondo, esercitata in base al titolo di proprietà dell'attore ed all'assenza di titolo dell'occupante, è un'azione di rivendica, a paralizzare la quale non basta che il convenuto eccepisca di detenere l'immobile in forza di un titolo proveniente da terzi, siccome inopponibile all'attore. 61 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO 4. Comunione di diritti reali. La Corte ha avuto modo di soffermarsi con particolare attenzione sui limiti fissati dall'art. 1102 c.c. all'uso esclusivo della cosa comune da parte del singolo comproprietario.Così, Sez. 2, n. 07466/2015, Nuzzo, Rv. 635044, ribadisce, in continuità col costante orientamento di legittimità, che la nozione di pari uso della cosa comune ex art. 1102 c.c. non consiste nella assoluta identità di utilizzazione, nello spazio e nel tempo, del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto ciò comporterebbe, paradossalmente, un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio. Specifica ulteriormente tale principio Sez. 2, n. 14694/2015, Manna, Rv. 635902, per cui, poiché l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l'utilizzazione del bene rientri tra quelle cui esso è destinato e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti - cui deve essere garantita concorrente ed analoga facoltà di utilizzazione -, qualora la cosa comune sia alterata o sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si verte più in ipotesi di uso frazionato consentito, bensì di appropriazione di parte della cosa comune, legittima sono con il consenso negoziale, espresso per iscritto - trattandosi di beni immobili - da tutti i partecipanti. Sez. 2, n. 04372/2015, Matera, Rv. 634683, chiarisce che, allorquando tale consenso difetti, l'occupazione porta, nel concorso degli altri requisiti di legge, all'usucapione della porzione attratta dal comproprietario nella propria esclusiva disponibilità. Indugia proprio su tali ulteriori requisiti per usucapire il bene comune Sez. 2, n. 11903/2015, Abete, Rv. 635615, la quale, a conferma del granitico orientamento di legittimità, precisa che non essendo ipotizzabile, nei rapporti tra i comproprietari, un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione deve considerarsi idoneo solo un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari determini l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, al contempo, denoti inequivocamente l'intenzione, da parte del comproprietario, di possedere il bene in maniera esclusiva: deriva da quanto precede - conclude la Corte - che, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri 62 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva. Esercitato nel rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., invece, l'uso esclusivo del bene comune, stando a Sez. 2, n. 02423/2015, Scalisi, Rv. 634127, è inidoneo a pregiudicare gli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, dovendo, anzi, il comunista-fruitore esclusivo pagare agli altri partecipanti la corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa, se questi abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non sia stato loro concesso. In tal caso, precisa Sez. 2, 16700/2015, Migliucci, Rv. 636398, la prescrizione del diritto degli altri comunisti decorre dal momento della divisione e, cioè, dal tempo in cui si è reso (o si sarebbe dovuto rendere) il conto, non essendo configurabile, con riguardo ai crediti dei comproprietari nei confronti del comunista-utilizzatore esclusivo, un'inerzia del creditore cui possa riconnettersi un effetto estintivo, giacché è dalla divisione che traggono origine l'obbligo del rendimento del conto e l'esigenza dell'imputazione alla quota di ciascun comunista delle somme di cui è debitore verso i condividenti. Ipotesi di uso consentito della cosa comune sono state ravvisate da Sez. 2, n. 18661/2015, Petitti, Rv. 636433, nella collocazione nel sottosuolo di un cortile comune di tubature per lo scarico fognario e l'allacciamento del gas a vantaggio dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva e da Sez. 6-2, n. 05729/2015, Falaschi, Rv. 634993, nell'attività di bonifica di un terreno compiuta da un comproprietario, trattandosi di opera di ordinaria amministrazione che non altera la destinazione economica del bene ed è diretta al miglioramento ovvero a rendere più comodo o più redditizio il suo godimento, senza pregiudicare il diritto di godimento degli altri comproprietari. 4.1. Comunione e tutela in sede giudiziaria. Sez. 6-2, n. 01650/2015, Bianchini, Rv. 634034, riconosce a ciascun comproprietario, quale titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera cosa comune (e non una sua frazione), la legittimazione ad agire o resistere in giudizio per la tutela della stessa nei confronti dei terzi o di un singolo condomino, anche senza il consenso degli altri partecipanti. A tale riguardo, poi, Sez. 2, n. 22694/2015, Lombardo, in corso di massimazione, ritiene ammissibile l'opposizione di terzo 63 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO ordinaria, proposta dal comproprietario che non abbia partecipato al giudizio, avverso la sentenza che abbia disposto la demolizione della cosa comune, ravvisando, nella specie, un'ipotesi di pregiudizio in re ipsa, correlato proprio alla distruzione della cosa oggetto del diritto sostanziale. Sez. 6-2, n. 04901/2015, Falaschi, Rv. 634555, inoltre, evidenzia che, in caso di costruzione realizzata da un condomino su bene comune, non trova applicazione la disciplina in tema di accessione, difettando il presupposto dell'altruità del bene, ma le norme in materia di comunione, sicché il comproprietario del fondo dove è stata realizzata l'opera non può agire per il riconoscimento dell'indennizzo ex art. 936 c.c. Sez. 2, n. 22909/2015, Matera, Rv. 637158, infine, chiarisce, che, poiché l'offerta dell'indennità di medianza non rappresenta una condizione dell'azione volta ad ottenere la comunione forzosa del muro sul confine ex art. 874 c.c., detta indennità deve essere determinata dal giudice a prescindere da qualsiasi offerta proveniente dal proprietario del fondo vicino. Quanto, poi, al rendimento del conto, Sez. 2, n. 04162/2015, Proto, Rv. 634416, ha evidenziato che i comproprietari che abbiano gestito insieme il bene comune, senza distinzioni di ruolo o ambiti diversi di attività, sono obbligati a rendere il conto al comproprietario non gestore nonché alla restituzione, in favore dello stesso ed in solido tra loro, della sua quota di frutti, stante l'unitarietà della causa obligandi e della res debita. In tema di scioglimento della comunione, infine, Sez. 2, n. 07044/2015, Nuzzo, Rv. 634835, rileva che la divisibilità di un'area comune destinata all'accesso a due fabbricati di diverso proprietario va valutata tenendo conto della diminuzione del valore complessivo dell'area medesima, a seguito della divisione, nonché degli effetti che essa produrrebbe sull'efficienza, funzionalità e comodità dell'accesso ai fabbricati. 5. Usufrutto ed uso. In tema di usufrutto, Sez. 2, 22703/2015, Matera, Rv. 637206, chiarisce che, in tema di riparto degli oneri manutentivi a carico di proprietario ed usufruttario, ciò che rileva non è la maggiore o minore attualità del danno da riparare, quanto il carattere ordinario o straordinario dell'opera, gravando sull'usufruttuario le spese concernenti la conservazione ed il godimento della cosa e sul nudo proprietario quelle relative alla struttura, alla sostanza ed alla destinazione della stessa; in tale contesto di riparto, poiché l'usufruttuario può ripetere dal nudo 64 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO proprietario le spese fatte in luogo dello stesso solo alla fine dell'usufrutto, prima di tale momento la domanda è improponibile. Quanto al diritto d'uso, in tema di ampiezza delle facoltà riconosciute al titolare, Sez. 2, n. 17320/2015, Falaschi, Rv. 636220, ribadito che egli ha diritto di servirsi della cosa e di trarne i frutti per il soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia, così ricavando dal bene, nel suo concreto esercizio, ogni utilità possibile, conclude nel senso per cui tale potere, se può incontrare limitazioni derivanti dalla natura e dalla destinazione economica del bene, non può, invece, soffrire condizionamenti maggiori o ulteriori derivanti dal titolo. Titolo che, osserva Sez. 2, n. 08507/2015, Matera, Rv. 635132, può derogare al divieto di cessione del diritto d'uso ex art. 1024 c.c., trattandosi di limitazione non avente natura pubblicistica ed attinente a diritti patrimoniali disponibili. 6. Servitù prediali. Merita di essere segnalata Sez. 2, n. 17044/2015, Manna, Rv. 636130, la quale evidenzia che, ove la servitù abbia natura negoziale, per la sua costituzione non occorre l'indicazione espressa del fondo dominante, di quello servente e delle modalità dell'assoggettamento di questo al primo, essendo necessario - e sufficiente - che tutti detti elementi siano ricavabili con certezza, in via interpretativa, dall'atto costituivo. Quanto, invece, alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, Sez. 2, n. 10662/2015, Giusti, Rv. 635421, osserva che la situazione di asservimento di un fondo all'altro va valutata avuto riguardo allo stato dei luoghi al momento in cui, per effetto dell'alienazione di uno di essi o di entrambi, i due fondi hanno cessato di appartenere al medesimo proprietario. A proposito di tale modo di costituzione delle servitù apparenti, anche se discontinue, Sez. 2, n. 08725/2015, Scalisi, Rv. 635129, chiarisce che, trattandosi di un'innovazione del codice civile del 1942 rispetto a quello del 1865 - il cui art. 630 prevedeva, tra l'altro, che le servitù discontinue, apparenti o meno, non potessero trovare la propria fonte che in un titolo negoziale -, l'art. 1062 c.c. (al pari dell'art. 1061 c.c. ed in virtù delle medesime considerazioni) non può trovare applicazione rispetto a situazioni già esauritesi anteriormente all'entrata in vigore del nuovo codice. Evidenzia la natura temporanea della servitù coattiva costituita in virtù del decreto di autorizzazione provvisoria per la costruzione di elettrodotti ex art. 113 del r.d. n. 1775 del 1933, richiamato dall'art. 9, comma 10, del d.P.R. n. 342 del 1965, Sez. 1, 65 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO n. 06024/2015, Lamorgese, Rv. 635180, la quale evidenzia come il peso sia destinato a venir meno in assenza dell'autorizzazione definitiva ex artt. 108 e 109 del menzionato r.d. Sotto altro profilo, osserva Sez. U, n. 18081/2015, Ragonesi, Rv. 636194, poiché la controversia attinente all'imposizione della menzionata servitù coattiva di elettrodotto è oggetto del diritto potestativo di carattere privatistico ex art. 1032 c.c., la relativa cognizione va devoluta alla giurisdizione ordinaria, indipendentemente dalla scadenza dei termini della dichiarazione di pubblica utilità e dell'autorizzazione all'impianto della linea, rilevando tali circostanze ai soli fini dell'imposizione della servitù in via espropriativa. In materia di modalità di esercizio della servitù, Sez. 2, n. 00216/2015, Proto, Rv. 633887, nell'esaminare una fattispecie in tema di modifica dello stato dei luoghi interessati dal vincolo (nella specie, escludendo il diritto del titolare della servitù di asfaltare una strada carraia destinata ad uso agricolo), chiarisce che i limiti di esercizio del diritto, ove non siano specificamente desumibili dal titolo, vanno individuati mediante il ricorso ai criteri previsti dagli artt. 1064 e 1065 c.c. Quanto, invece, al concetto di "aggravio", che consente il trasferimento della servitù ex art. 1068, comma 2, c.c., Sez. 2, n. 18660/2015, Petitti, Rv. 636491, chiarisce che esso non concerne solo le esigenze oggettive del fondo servente, ma anche quelle, sopravvenute, delle persone che su quel fondo vivono. 6.1. Profili processuali relativi alla costituzione delle servitù. Affrontando il tema dell'integrità del contraddittorio in materia di azione volta alla costituzione di servitù coattiva di passaggio, Sez. 2, n. 07468/2015, Mazzacane, Rv. 634933, osserva che, allorché il convenuto eccepisca di non essere tenuto a subire la servitù, essendo l'attore già titolare di altra servitù sul fondo di un terzo, che gli consente di raggiungere la pubblica via, va esclusa l'integrazione del contraddittorio nei confronti del detto terzo, non ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto non esiste un unico rapporto inscindibile tra il proprietario del fondo asseritamente intercluso, il proprietario del fondo a carico del quale viene chiesta la costituzione di servitù coattiva ed il proprietario del fondo attraverso il quale già esisterebbe un accesso alla pubblica via. Analogamente, esclude la ricorrenza di un'ipotesi di litisconsorzio necessario, dal lato passivo, nel caso di controversia avente ad oggetto la costituzione di una servitù di scarico coattivo, allorquando l'interclusione del fondo ne consenta l'allaccio alla rete 66 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO fognaria pubblica mediante più soluzioni, tra loro alternative, praticabili sui diversi fondi circostanti, Sez. 2, n. 06562/2015, Nuzzo, Rv. 634795: in simile ipotesi, infatti, il giudice deve unicamente limitarsi a valutare le condizioni di asservimento del terreno prescelto dal proprietario del fondo dominante che, in virtù del criterio della maggior convenienza (anche economica), non deve essere assoggettato ad eccessivo disagio o dispendio. 7. Tutela ed effetti del possesso. Nell'individuare i limiti del possesso giuridicamente rilevante, Sez. 2, n. 10482/2015, Picaroni, Rv. 635424, chiarisce che l'attività corrispondente all'esercizio della proprietà ovvero altro diritto reale può concernere anche un bene in fieri, quale un fabbricato in costruzione. E, poiché si tratta di tutelare un potere di fatto, estrinsecantesi in un'attività concreta sul bene attratto nell'ambito del potere di uno solo dei contendenti, Sez. 2, n. 03026/2015, Manna, Rv. 634780, evidenzia che, allorché la controversia sul possesso riguardi zone prediali non recintate - per ciò stesso soggette al potere promiscuo dei confinanti - l'esercizio del possesso sul piano quantitativo non può desumersi, in via astratta, dalle mappe catastali identificative delle proprietà limitrofe, occorrendo, piuttosto, dati circostanziati di carattere storico che dimostrino l'esclusività del potere esercitato da ciascuno dei contendenti sulla zona interessata. Il medesimo principio è alla base di Sez. 2, n. 01584/2015, Falachi, Rv. 634374, che, in tema di pluralità di attività possessorie esercitate, con diverso contenuto, da parte di soggetti diversi sul medesimo bene, osserva come sia ben possibile la coesistenza simultanea di poteri di fatto corrispondenti all'esercizio di diritti reali differenti, occorrendo tuttavia, in tal caso, la prova del tipo di potere esercitato dal singolo: così, ad esempio, si è ritenuto che l'esistenza di un possesso conforme all'esercizio di una servitù di passaggio non esclude l'esercizio, sul medesimo bene e da parte di altri, di un possesso corrispondente alla proprietà, ancorché gravata dalla detta servitù. In tema di possesso utile ai fini dell'usucapione, va menzionata Sez. 2, n. 19501/2015, Manna, Rv. 636567, la quale, delineando i confini applicativi dell'art. 1143 c.c., chiarisce che la presunzione ivi contemplata, fondata sulla considerazione per cui, normalmente, l'acquisto della proprietà o di un diritto reale in base ad un titolo comporta anche l'acquisto del possesso, non trova applicazione in relazione all'usucapione ventennale, giacché, ove il 67 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO possessore fosse munito di titolo concretamente idoneo, lo stesso non avrebbe alcuna necessità d'invocare l'usucapione per provare la proprietà ovvero altro diritto reale. Analoga delimitazione applicativa viene condotta da Sez. 2, n. 18255/2015, Falaschi, Rv. 636874, in relazione all'art. 1164 c.c., precisando la Corte che, poiché la richiamata disposizione disciplina l'ipotesi in cui taluno abbia inizialmente esercitato un possesso corrispondente ad un diritto reale su cosa altrui, essa non può trovare applicazione nel caso in cui l'originario possesso si sia estrinsecato in attività corrispondenti al diritto di proprietà o di comproprietà. Ulteriore limite alla possessio ad usucapionem è rappresentato dall'altrui tolleranza, esaminata da Sez. 2, n. 11277/2015, Abete, Rv. 635430, per cui la lunga durata dell'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale esclude la tolleranza - e, dunque, integra un elemento presuntivo del possesso - a condizione, tuttavia, che non si tratti di rapporti di parentela, ma di di mera amicizia o buon vicinato, che, proprio per la loro mutevolezza e labilità, ostano al mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo. Non è in grado di interrompere il possesso utile ai fini dell'ucuapione la proposizione innanzi al giudice amministrativo di un ricorso contro la concessione edilizia rilasciata al possessore per l'opera da cui deriva l'occupazione dell'immobile in quanto - osserva Sez. 2, n. 20815/2015, D'Ascola, Rv. 636665 - l'eventuale annullamento dell'atto amministrativo in ogni caso non implica il recupero del possesso del bene oggetto dell'intervento edilizio in capo al ricorrente. La medesima considerazione - e, cioè, l'inidoneità dell'atto a determinare la sottrazione del bene all'attuale possessore - è alla base della decisione assunta da Sez. 2, 17605/2015, Bursese, Rv. 636403, che ha escluso la possibilità di individuare un atto interruttivo del possesso del fallito sui beni facenti parte della massa nella redazione dell'inventario da parte del curatore fallimentare. 7.1. Profili processuali relativi all'esercizio delle azioni possessorie e quasi-possessorie. Va segnalata Sez. U, n. 15155/2015, Ragonesi, Rv. 636070, che, in tema di regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del procedimento possessorio, ne afferma l'ammissibilità, ancorché nella fase sommaria o in sede di reclamo sia stata risolta, in senso affermativo o negativo, una questione attinente alla giurisdizione, considerato 68 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO che, da un lato, la fase interdittale è destinata a chiudersi con un provvedimento che mantiene il proprio carattere di provvisorietà e, dall'altro, è possibile richiedere la prosecuzione del giudizio, ai sensi dell'art 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione della medesima questione. Sennonché, proprio tale ultima osservazione porta la Corte a concludere nel senso per cui, in difetto di istanza di parte per la fissazione del giudizio di merito, il ricorso ex art. 41 c.p.c. diviene invece improponibile, postulando l'interesse a promuovere l'accertamento sulla giurisdizione necessariamente la pendenza di un processo. L'integrità del contraddittorio è oggetto di Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634086, per cui, qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un'opera in proprietà o possesso di più persone, il comproprietario o compossessore non autore dello spoglio è litisconsorte necessario, in quanto destinatario anch'egli del provvedimento di carattere ripristinatorio dello stato dei luoghi, sia quando egli, nella disponibilità materiale o solo in iure del bene, abbia manifestato adesione alla condotta già tenuta dall'autore dello spoglio o abbia rifiutato di adoperarsi per l'eliminazione degli effetti dell'illecito, ovvero, al contrario, abbia dichiarato la disponibilità all'attività di ripristino, sia allorché colui che agisca a tutela del suo possesso ignori la situazione di compossesso o di comproprietà. Diversa da quella del compossessore è, invece, la posizione di chi ha semplicemente collaborato con l'autore morale dello spoglio, il quale, per Sez. 2, n. 08811/2015, Abete, Rv. 635184, è passivamente legittimato rispetto all'azione di reintegrazione soltanto se ha stabilito con la cosa un rapporto materiale che ne comporti il potere di disposizione, in difetto del quale non avrebbe nulla da restituire al ricorrente. Sez. 3, n. 07365/2015, Barreca, Rv. 635196, chiarisce che, nel caso di successione a titolo particolare nel possesso avvenuta dopo la proposizione di una delle azioni ex artt. 1168 e 1170 c.c., la sentenza pronunziata contro il dante causa ha effetto ex art. 111, comma 4, c.p.c. anche nei confronti dell'avente causa, senza che operi la clausola di salvezza degli effetti della trascrizione ivi prevista, non essendo la domanda di reintegrazione o di manutenzione soggetta a trascrizione ex art. 2653, n. 1, c.c. Sez. 6-2, n. 19114/2015, D'Ascola, Rv. 636727, riconosce legittimazione attiva all'azione di spoglio in favore del conduttore di un immobile nei confronti del locatore, precisando che il ricorrente deve provare l'estensione della cosa locata, se oggetto di 69 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO contestazione, poiché la detenzione qualificata dipende dal rapporto obbligatorio che ne concreta e delimita il fondamento. Sez. 1, n. 17971/2015, Acierno, Rv. 637179, riconosce in capo al genitore collocatario dei figli minori nati da una relazione di convivenza more uxorio la qualità di detentore qualificato rispetto all'immobile adibito a casa familiare, anche ove non ne sia il proprietario o conduttore in virtù di rapporto di locazione o comunque autonomo titolare di una situazione giuridica qualificata rispetto all'imobile medesimo, attesa la pregressa affectio familiaris che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.) della relazione di convivenza. In materia di sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c., vanno menzionati diversi interventi della Corte, la quale ha anzitutto escluso qualsiasi nesso nesso di pregiudizialità-dipendenza tra causa petitoria e causa possessoria, poiché - osserva Sez. 6-2, n. 14979/2015, Manna, Rv. 636086 - l'una è volta alla tutela della proprietà o di altro diritto reale, mentre l'altra soltanto al ripristino dello stato di fatto mediante un'azione che culmina in un provvedimento suscettibile di giudicato sostanziale indipendentemente dall'esistenza o meno del diritto al quale il possesso corrisponde e il cui eventuale contrasto col giudicato petitorio va risolto attraverso le opportune restitutiones in integrum. Analogamente, Sez. 6-2, n. 05804/2015, Giusti, Rv. 634899, non ha ravvisato pregiudizialità tra il giudizio penale per il reato di invasione di terreni o edifici a carico di chi abbia occupato un immobile e quello civile promosso con azione di reintegrazione nel possesso dell'immobile medesimo, ancorché i due giudizi vertano sui medesimi fatti, non essendo l'effetto giuridico dedotto nel giudizio civile volto all'immediato rilascio del bene normativamente collegato alla commissione del reato oggetto di imputazione in quello penale. Non diversamente si è pronunciata la Corte a proposito del rapporto tra la causa possessoria promossa da colui che, in qualità di erede legittimo, sia subentrato nel possesso dell'intero compendio, nei confronti dell'unico erede testamentario, che rifiuti di restituire i beni ereditari, e la causa, pendente tra le stesse parti, volta a fare valere la falsità del predetto titolo testamentario, avendo Sez. 6-2, n. 05808/2015, Giusti, Rv. 634737, escluso un rapporto di pregiudizialità tra le dette azioni, essendo l'oggetto della tutela possessoria rappresentato dall'esercizio, di fatto, di un diritto e non dalla titolarità di esso. 70 CAP. VI - I DIRITTI REALI E IL POSSESSO Sotto altro profilo, esclude confusione fra giudizio possessorio e petitorio, nell'ipotesi in cui il convenuto con azione possessoria per violazione dei limiti imposti dalle norme in materia di distanze voglia dimostrare l'insussistenza dell'altrui diritto, onde negare lo stato di possesso vantato dall'attore, Sez. 2, n. 06792/2015, Picaroni, Rv. 634762, evidenziando come detto accertamento rilevi unicamente per stabilire se esista un possesso tutelabile. Quanto alla struttura del procedimento delle azioni di nunciazione (o quasi-possessorie), esclude la ricorribilità per cassazione dell'ordinanza emessa in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. Sez. 6-2, n. 04904/2015, Falaschi, Rv. 634728, trattandosi di provvedimento inidoneo ad acquisire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale, che sostanziale, condividendo con l'ordinanza reclamata i caratteri di provvisorietà e non decisorietà. Ciò sulla base della considerazione, fatta propria anche da Sez. 2, n. 07260/2015, Manna, Rv. 634830, per cui il procedimento delinato dal combinato disposto degli artt. 1171 e 1172 c.c. e 669 bis ss. c.p.c. si svolge in duplice fase, la prima delle quali di natura cautelare e la seconda - destinata ad assorbire la prima - di merito a cognizione piena, la quale si svolge a seguito di un atto propulsivo ad istanza di parte, la cui mancanza, conseguente all'erronea fissazione giudiziale di un'udienza posteriore all'ordinanza cautelare, determina la nullità assoluta del processo per violazione del principio della domanda, rilevabile d'ufficio dal giudice e non sanata dall'instaurarsi del contraddittorio tra le parti. 71

 

 

 

CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO CAPITOLO VII COMUNIONE E CONDOMINIO (di Cesare Trapuzzano) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il godimento della cosa comune. – 3. I profili processuali. – 4. Il condominio quale ente di gestione. – 5. Le parti comuni nel condominio di edifici. – 6. Le innovazioni. – 7. La ripartizione delle spese condominiali. – 8. L'amministratore. – 9. L'assemblea. – 10. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari. – 11. Il regolamento di condominio. 1. Premessa. La materia della comunione e del condominio negli edifici, oggetto di numerose pronunce della S.C. anche nel 2015, rivela all'attualità particolare interesse alla luce dell'entrata in vigore, a decorrere dal 18 giugno dell'anno 2013, della l. 11 dicembre 2012, n. 220, la quale ha introdotto Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, intervenendo, in particolare, sugli artt. 1117, 1118, 1119, 1120, 1122, 1124, 1129, 1130, 1131, 1134, 1136, 1137, 1138 e 2659 c.c., nonché sugli artt. 63, 64, 66, 67, 68, 69 e 70 disp. att. c.c., sull'art. 2, comma 1, della l. 9 gennaio 1989, n. 13, sull'art. 26, comma 2, della l. 9 gennaio 1991, n. 10, sull'art. 2 bis, comma 13, del d.l. 23 gennaio 2001, n. 5 (convertito in l. 20 marzo 2001, n. 66) e sull'art. 23, comma 1, c.p.c.; risultano, inoltre, inseriti gli artt. 1117 bis, 1117 ter, 1117 quater, 1122 bis, 1122 ter, 1130 bis c.c., gli artt. 71 bis, 71 ter, 71 quater e 165 bis disp. att. c.c., e l'art. 30 della l. n. 220 del 2012, il quale rimane a sé stante. Fermo il regime transitorio, dettato dall'art. 32 della l. n. 220 del 2012, potrà essere utile confrontare gli approdi giurisprudenziali degli ultimi mesi con le prospettive interpretative determinate dalla vigenza della disciplina novellata. 2. Il godimento della cosa comune. In forza delle disposizioni dedicate alla comunione ordinaria, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Ai sensi dell'art. 1102, comma 2, c.c., il comunista non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri comunisti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, ai sensi dell'art. 1104, comma 1, c.c. Con riferimento all'amministrazione della cosa comune, regolata dall'art. 1105 c.c., 72 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO tutti i partecipanti hanno diritto di concorrervi in via disgiuntiva. Le innovazioni dirette al miglioramento della cosa comune o a renderne più comodo o redditizio il godimento possono essere disposte con la maggioranza prescritta dall'art. 1108, comma 1, c.c., purché non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa. Infine, ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo scioglimento della comunione, ai sensi dell'art. 1111 c.c. In applicazione dei principi innanzi esposti in ordine all'uso della cosa comune, Sez. 2, n. 07466/2015, Nuzzo, Rv. 635044, ha puntualizzato che la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'art. 1102 c.c., non va intesa nei termini di assoluta identità dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l'identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione. Sicché Sez. 2, n. 18661/2015, Petitti, Rv. 636433, ha ritenuto che il comproprietario di un cortile può porre nel sottosuolo tubature per lo scarico fognario e l'allacciamento del gas a vantaggio della propria unità immobiliare, trattandosi di un uso conforme all'art. 1102 c.c., in quanto non limita, né condiziona, l'analogo uso degli altri comunisti. Di contro, Sez. 2, n. 04372/2015, Matera, Rv. 634683, ha osservato che l'uso della cosa comune, in quanto sottoposto dall'art. 1102 c.c. ai limiti consistenti nel divieto di ciascun partecipante di alterare la destinazione della stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non può estendersi all'occupazione di una parte del bene, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all'usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità. Pertanto, secondo Sez. 2, n. 04501/2015, D'Ascola, Rv. 634770, in tema di uso della cosa comune, è illegittima l'apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell'edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile pure di sua proprietà ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo a una 73 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini. In ordine all'argomento relativo all'uso della cosa comune, Sez. 2, n. 14694/2015, Manna, Rv. 635902, ha sostenuto che l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l'utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti, che - trattandosi di beni immobili - deve essere espresso in forma scritta ad substantiam. D'altronde, in base all'orientamento di Sez. 2, n. 02423/2015, Scalisi, Rv. 634127, l'uso esclusivo del bene comune da parte di uno dei comproprietari, nei limiti di cui all'art. 1102 c.c., non è idoneo a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l'occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non sia stato loro concesso. Orbene, afferma l'arresto di Sez. 2, n. 04162/2015, Proto, Rv. 634416, i comproprietari che abbiano gestito insieme il bene comune, senza distinzioni di ruolo o ambiti diversi di attività, sono obbligati a rendere il conto al comproprietario non gestore e a restituirgli la sua quota di frutti in regime di solidarietà passiva, essendo unitaria sia la causa obligandi, sia la res debita. Sotto il profilo dell'abuso del godimento da parte di un comunista e dei rimedi giudiziali attuabili, Sez. 2, n. 17072/2015, Falaschi, Rv. 636225, ha ammesso l'esperibilità della tutela possessoria ove il singolo condomino abbia alterato o violato, senza il consenso degli altri condomini, lo stato di fatto e la destinazione di una parte comune dell'edificio, sì da impedire o restringere il godimento spettante agli altri compossessori pro indiviso. Nella specie era stata eretta, sulla facciata del palazzo, una canna fumaria di dimensioni non trascurabili che, priva di qualsiasi collegamento dal 74 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO punto di vista architettonico o funzionale con la parete esterna dell'edificio, costituiva un elemento di grave degrado e alterava notevolmente l'estetica del fabbricato. In ordine all'estensione del diritto sulla cosa comune da parte di un partecipante in danno degli altri, fattispecie che esige il compimento di atti idonei a mutare il titolo del possesso, Sez. 2, n. 11903/2015, Abete, Rv. 635615, ha rilevato che, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocamente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse correttamente escluso l'avvenuto acquisto per usucapione, da parte di un condomino, della porzione del condotto di scarico della spazzatura adiacente al suo appartamento per non essersi palesata in forme inequivoche per gli altri condomini l'intenzione di possedere attesa l'impossibilità, per loro, di ispezionare il condotto a causa del blocco degli sportelli di accesso - presenti su tutti i ballatoi - dovuto a ragioni pratiche e di sicurezza. In tema di innovazioni, Sez. 6-2, n. 05729/2015, Falaschi, Rv. 634993, ha escluso che l'attività di bonifica di un terreno compiuta da un comproprietario integri gli estremi di un atto innovativo, per il quale è necessaria la maggioranza qualificata ex art. 1108 c.c., trattandosi di opera di ordinaria amministrazione che non altera la destinazione economica del terreno ed è diretta al miglioramento ovvero a rendere più comodo o più redditizio il suo godimento, senza pregiudicare il diritto di godimento degli altri comproprietari. Quanto all'aspetto della tutela giudiziale della comunione, Sez. 6-2, n. 01650/2015, Bianchini, Rv. 634034, ha divisato che ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera cosa comune (e non una sua frazione), è legittimato ad agire o resistere in giudizio per la tutela della stessa 75 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO nei confronti dei terzi o di un singolo condomino, anche senza il consenso degli altri partecipanti. Quanto allo scioglimento della comunione, che - ai sensi dell'art. 1112 c.c. - non può essere chiesto quando si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all'uso a cui sono destinate, Sez. 2, n. 07044/2015, Nuzzo, Rv. 634835, ha ritenuto che, per accertare la divisibilità di un'area comune destinata all'accesso a due fabbricati di diverso proprietario, il giudice deve tener conto della diminuzione del valore complessivo dell'area che sarebbe causata dalla divisione nonché degli effetti che essa produrrebbe sull'efficienza, funzionalità e comodità dell'accesso ai fabbricati. Infine, Sez. 2, n. 16700/2015, Migliucci, Rv. 636398, ha rilevato che la prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti dovuti loro dal comproprietario utilizzatore del bene comune decorre soltanto dal momento della divisione, cioè dal tempo in cui si è reso (o si sarebbe dovuto rendere) il conto, non essendo configurabile, con riguardo a tali crediti, un'inerzia del creditore alla quale possa riconnettersi un effetto estintivo, giacché è appunto dalla divisione che traggono origine l'obbligo del rendimento del conto, con decorrenza dal momento in cui è sorta la comunione, e l'esigenza dell'imputazione alla quota di ciascun comunista delle somme di cui è debitore verso i condividenti. 3. I profili processuali. Alcune pronunce si sono specificamente soffermate sugli aspetti processuali che conseguono all'instaurazione di una causa in materia di comunione o condominio. E ciò con particolare riguardo alle questioni inerenti alla competenza per materia e territoriale ed alla capacità a deporre come teste dei condomini. In proposito, l'art. 7, comma 3, c.p.c. afferma la competenza per materia del giudice di pace per le cause relative alla misura e alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case. Invece, l'art. 23 c.p.c. individua un foro speciale per le cause tra condomini o tra condomini e condominio, che si identifica con il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi. Per converso, l'art. 246 c.p.c. nega che possano deporre come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Così, con riferimento alla competenza per materia, Sez. 6-2, n. 21910/2015, Giusti, Rv. 636883, ha evidenziato che rientra nella competenza per materia del giudice di pace la lite sulle modalità d'uso dell'area condominiale, come quando si discuta se essa sia utilizzabile per collocarvi tavolini e sedie. 76 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO Al contrario, secondo Sez. 6-2, n. 16650/2015, Giusti, Rv. 636170, la controversia sulla legittimità dell'uso a parcheggio di un'area condominiale appartiene alla competenza del tribunale e non a quella del giudice di pace, risultando oggetto di contestazione il diritto ad un certo uso del bene comune e non soltanto le relative modalità di esercizio. Sez. 6-2, n. 12148/2015, Petitti, Rv. 635568, ha affermato che la competenza del forum rei sitae, ai sensi dell'art. 23 c.p.c., si applica anche quando oggetto di comproprietà sia un bene mobile (nella specie, un natante), poiché la norma impiega il termine "condominio" quale sinonimo di "comunione", senza riguardo per il tipo di bene comune. Sempre in applicazione del foro del condominio, Sez. 6-2, n. 10419/2015, Giusti, Rv. 635414, ha osservato che, in ipotesi di decreto ingiuntivo richiesto dall'amministratore di condominio nei confronti di un condomino per la riscossione dei contributi, sussiste la competenza del giudice del luogo in cui si trova l'immobile, ai sensi dell'art. 23 c.p.c., senza che rilevi, al fine di escludere la nullità dell'ingiunzione resa da un diverso giudice, la circostanza che l'intimato, al quale il decreto provvisoriamente esecutivo sia stato notificato unitamente al precetto, abbia dedotto, in sede di opposizione ex art. 645 c.p.c., altresì la consequenziale nullità dello stesso precetto, senza eccepire alcunché rispetto al foro relativo all'esecuzione forzata, determinato, per il distinto procedimento di opposizione, a norma degli artt. 27, comma 1, e 615, comma 1, c.p.c. Quanto alla derogabilità del foro del condominio, Sez. 6-2, n. 17130/2015, Giusti, Rv. 636140, ha sostenuto che, in materia di competenza territoriale, l'art. 23 c.p.c. è derogabile poiché non rientra nelle ipotesi di cui all'art. 28 c.p.c., né il carattere esclusivo del foro stesso implica una diversa soluzione, sicché è valida ed efficace la clausola del regolamento condominiale che stabilisca un foro convenzionale per ogni controversia relativa al regolamento medesimo. In forza dell'arresto di Sez. 6-3, n. 17474/2015, Frasca, Rv. 636926, in un giudizio risarcitorio da illecito civile instaurato contro un condominio, l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile dallo stesso sollevata deve contenere la contestazione di tutti i fori concorrenti, ossia del foro generale del condominio, da identificarsi in relazione al luogo di ubicazione dello stabile condominiale qualora in esso si trovino i locali destinati allo svolgimento o alla gestione delle cose e dei servizi comuni, idonei, come tali, a 77 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO configurare l'ufficio dell'amministratore, del foro dell'insorgenza dell'obbligazione da fatto illecito, identificabile in riferimento al luogo di verificazione del preteso fatto dannoso, nonché, infine, del forum destinatae solutionis, coincidente con il domicilio del debitore ai sensi dell'art. 1182 c.c. In ultimo, in ordine alla capacità a testimoniare, Sez. 3, n. 17199/2015, De Stefano, Rv. 636475, ha sostenuto che i singoli condomini sono privi di capacità a testimoniare nelle cause che coinvolgono il condominio (nella specie, per il risarcimento dei danni derivanti da una caduta sul pianerottolo condominiale), poiché l'eventuale sentenza di condanna è immediatamente azionabile nei confronti di ciascuno di essi. 4. Il condominio quale ente di gestione. Al condominio quale ente di gestione privo di soggettività giuridica autonoma da quella dei singoli condomini sono riferiti alcuni arresti che hanno puntato l'attenzione sull'estensione della disciplina a difesa del consumatore nonché sulle conseguenze dell'imputazione della responsabilità da cose in custodia di pertinenza condominiale. In specie, Sez. 6-2, n. 10679/2015, D'Ascola, Rv. 635415, ha prospettato l'applicabilità della disciplina che protegge il consumatore con riferimento al condominio. Infatti, al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la disciplina di tutela del consumatore, agendo l'amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale. Quanto agli effetti dell'integrazione della responsabilità aquiliana ex art. 2051 c.c., Sez. 2, n. 01674/2015, Manna, Rv. 634159, ha sostenuto che il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, c.c., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota, anche quando il danneggiato sia un condomino, equiparato a tali effetti ad un terzo, sicché devono individuarsi nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili, poiché la custodia, presupposta dalla struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c., non può essere imputata né al condominio, quale ente di sola 78 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO gestione di beni comuni, né al suo amministratore, quale mandatario dei condomini. 5. Le parti comuni nel condominio di edifici. In tema di condominio, l'art. 1117 c.c. individua specifici beni di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio. Tale elenco non è né tassativo né omogeneo. Infatti, il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso ovvero nel fatto che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune. Pertanto, accanto ai beni necessariamente o strutturalmente condominiali si collocano i beni solo funzionalmente ed occasionalmente condominiali. La presunzione di comproprietà si riferisce esclusivamente ai beni la cui destinazione al servizio collettivo non si ponga in termini di assoluta necessità. Solo in questi casi la loro qualificazione in termini di beni comuni può essere derogata da un titolo da cui risulti il contrario. Per converso, il diritto sulle parti comuni necessarie o strutturali non può essere oggetto di abdicazione, ai sensi dell'art. 1118 c.c. In applicazione di questi principi, Sez. 2, n. 01680/2015, Manna, Rv. 634966, ha chiarito che l'art. 1117 c.c. contiene un'elencazione solo esemplificativa e non tassativa dei beni che si presumono comuni, poiché sono tali anche quelli aventi un'oggettiva e concreta destinazione al servizio comune, salvo che risulti diversamente dal titolo, mentre, al contrario, tale presunzione non opera con riguardo a beni che, per le proprie caratteristiche strutturali, devono ritenersi destinati oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 18344/2015, Parziale, Rv. 637193, ha ritenuto che, in considerazione del rapporto di accessorietà necessaria che lega le parti comuni dell'edificio, elencate in via esemplificativa dall'art. 1117 c.c., alle proprietà singole, delle quali le prime rendono possibile l'esistenza stessa o l'uso, la condominialità di un seminterrato non è esclusa per il solo fatto che le costruzioni sovrastanti siano realizzate, anziché come porzioni di piano l'una sull'altra (condominio verticale), quali proprietà singole in sequenza (villette a schiera, condominio orizzontale), poiché la nozione di condominio è configurabile anche nel caso di immobili adiacenti orizzontalmente in senso proprio, purché dotati delle strutture portanti e degli impianti essenziali indicati dall'art. 1117. Al contempo, Sez. 2, n. 04372/2015, Matera, Rv. 634682, ha affermato che negli edifici in condominio le scale con i relativi 79 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO pianerottoli, che insistevano, nella specie, su un ballatoio e servivano da accesso al lastrico solare comune, costituiscono strutture funzionalmente essenziali del fabbricato e rientrano, pertanto, tra le parti che devono presumersi comuni, in forza dell'art. 1117, n. 1, c.c., a nulla rilevando che le suddette opere siano state materialmente realizzate da uno solo degli originari comproprietari, valendo tale circostanza solo a giustificare la pretesa dello stesso a vedersi riconoscere dagli altri condomini un contributo per le spese di installazione e manutenzione dei manufatti, e non quale titolo idoneo ad attribuirne la proprietà esclusiva al loro autore. Per converso, secondo Sez. 2, n. 11444/2015, Abete, Rv. 635508, il giardino adiacente l'edificio condominiale, se non è occupato e circoscritto dalle fondamenta e dai muri perimetrali, né destinato al servizio delle unità che vi si affacciano, non costituisce il "suolo su cui sorge l'edificio", né, rispettivamente, un "cortile", sicché la sua natura comune non può essere presunta a norma dell'art. 1117, n. 1, c.c., ma deve risultare da un apposito titolo. Con riferimento alla verifica della natura condominiale di determinati beni, Sez. 2, n. 05895/2015, Proto, Rv. 634945, ha rilevato che, in ipotesi di controversia tra due soggetti che si affermano titolari di un locale adibito a cantina posto nel sottosuolo del fabbricato, ottenuto abusivamente da uno di essi nell'area sottostante al suo appartamento mediante svuotamento di volume ed asportazione di terreno, deve gradatamente accertarsi innanzitutto se la proprietà di tale locale sia attribuita dal titolo, ovvero sia altrimenti da riconoscersi acquisita per usucapione, o, infine, se esso, per la sua struttura, debba considerarsi non tra le parti comuni dell'edificio di cui all'art. 1117 c.c., quanto, piuttosto, destinato ad uso esclusivo, potendosi, del resto, estendere la disciplina prevista dagli artt. 840 e 934 c.c. anche ai vani sottostanti al pianterreno dell'edificio condominiale, sempre che dal titolo non risulti il contrario. Peraltro, Sez. 2, n. 15929/2015, Falaschi, Rv. 636022, ha chiarito che, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'art. 1117 c.c., non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da 80 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova. Così, in base all'arresto di Sez. 2, n. 04501/2015, D'Ascola, Rv. 634771, la natura condominiale del lastrico solare, affermata dall'art. 1117 c.c., può essere esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta, essendo irrilevante che il singolo condomino non abbia accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a beneficio dell'unità immobiliare di quel condomino, la naturale funzione di copertura del fabbricato comune. Sul punto, Sez. 2, n. 16915/2015, Falaschi, Rv. 636163, ha puntualizzato che, al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all'art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all'atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell'ambito dei beni comuni (nella specie, portico e cortile) risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni. Ne consegue, come affermato da Sez. 2, n. 01680/2015, Manna, Rv. 634967, che la clausola, contenuta nel contratto di vendita di un'unità immobiliare di un condominio, con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, è nulla, poiché con essa si intende attuare la rinuncia di un condomino alle predette parti, vietata dal capoverso dell'art. 1118 c.c. Nello stesso senso, in base a Sez. 2, n. 18344/2015, Parziale, Rv. 637194, la rinuncia di un condomino al diritto sulle cose comuni è vietata, ai sensi dell'art. 1118 c.c., in caso di condominialità "necessaria" o "strutturale", per l'incorporazione fisica tra cose comuni e porzioni esclusive ovvero per l'indivisibilità del legame attesa l'essenzialità dei beni condominiali per l'esistenza delle proprietà esclusive, non anche nelle ipotesi (nella specie, un locale seminterrato) di condominialità solo "funzionale" all'uso e al godimento delle singole unità, che possono essere cedute anche separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni. Infine, Sez. 2, n. 06923/2015, Migliucci, Rv. 634983, sempre in tema di condominio degli edifici, ha prospettato il seguente precetto: la disciplina sulle distanze di cui all'art. 889 c.c. non si applica in caso di opere eseguite in epoca anteriore alla costituzione del condominio, atteso che, in tal caso, l'intero edificio, formando oggetto di un unico diritto dominicale, può essere nel suo assetto 81 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO liberamente precostituito o modificato dal proprietario anche in vista delle future vendite dei singoli piani o porzioni di piano, operazioni che determinano, da un lato, il trasferimento della proprietà sulle parti comuni (art. 1117 c.c.) e l'insorgere del condominio e, dall'altro lato, la costituzione, in deroga (od in contrasto) al regime legale delle distanze, di vere e proprie servitù a vantaggio e a carico delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, in base a uno schema assimilabile a quello dell'acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia. Il principio è stato enunciato con riferimento all'apertura di vedute - relative ad un edificio originariamente oggetto di proprietà esclusiva di una cooperativa - compiuta prima dell'alienazione delle singole unità immobiliari, evenienza ritenuta idonea ad integrare la condizione, rilevante ai sensi dell'art. 1062 c.c., della sussistenza di un'opera di asservimento, visibile e permanente, al momento dell'alienazione dei fondi da parte dell'unico originario proprietario. 6. Le innovazioni. Il vincolo di destinazione da cui sono avvinti i beni e servizi comuni, in ragione dell'accentuata preminenza dell'interesse collettivo sugli interessi individuali dei singoli condomini, connota altresì la disciplina in tema di innovazioni. La S.C. si è occupata, al riguardo, dell'ampiezza del concetto di innovazioni di cui all'art. 1120 c.c., volte al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni, purché non rechino pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non ne alterino il decoro architettonico e non rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. È stato altresì esaminato il profilo inerente ai requisiti di forma del consenso manifestato dai condomini ai fini della realizzazione delle innovazioni condominiali. Quanto al primo aspetto, Sez. 2, n. 03509/2015, Falaschi, Rv. 634341, ha precisato che la delibera assembleare che ordini la chiusura del cancello carraio dell'area cortilizia, previa consegna del telecomando di apertura ad ogni condomino, non dispone un'innovazione e non necessita di maggioranza qualificata, ai sensi dell'art. 1120 c.c., in quanto non muta la destinazione del bene comune, ma ne disciplina l'uso in senso migliorativo, impedendo ai terzi estranei l'indiscriminato accesso all'area condominiale. Con riguardo al secondo aspetto, Sez. 2, n. 04736/2015, Scalisi, Rv. 634870, ha evidenziato che il consenso dei condomini alle innovazioni delle cose comuni, che possono essere disposte 82 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO dall'assemblea ai sensi dell'art. 1120 c.c., non richiede la forma scritta, non rientrando tra gli atti di cui all'art. 1350 c.c. 7. La ripartizione delle spese condominiali. Il vincolo di destinazione innanzi evocato, quanto alla regolamentazione delle innovazioni, governa inoltre i criteri di ripartizione delle spese di manutenzione. Infatti, con riferimento alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, l'art. 1123, comma 1, c.c. prevede che esse sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. In applicazione di tale principio, Sez. 2, n. 14697/2015, Picaroni, Rv. 635900, ha specificato che tutti i condomini devono partecipare alle deliberazioni che concernono l'ascensore (nella specie, si trattava di deliberazione volta alla sostituzione dell'impianto), trattandosi di bene di cui si presume, agli effetti dell'art. 1117, n. 3, c.c., la proprietà comune in assenza di una diversa previsione contrattuale idonea a superare tale presunzione. Pertanto, si è ritenuto che la clausola del regolamento condominiale, che esonerava integralmente alcuni partecipanti dall'onere di contribuire alle relative spese, non costituisse previsione idonea a vincere tale presunzione. Ancora, sempre in tema di ripartizione delle spese condominiali, secondo Sez. 2, n. 06282/2015, Parziale, Rv. 634732, allorché sia assunta nei confronti di un terzo un'obbligazione nell'interesse comune con espressa ripartizione pattizia della spesa in base alle singole unità immobiliari e non alle rispettive quote millesimali, resta validamente derogato il principio dell'attuazione parziaria dei debiti dei condomini, di cui all'art. 1123 c.c., poiché, in ogni caso, la deduzione del carattere non solidale dell'obbligazione integra un'eccezione in senso proprio, sicché è inammissibile la sua proposizione per la prima volta in appello. 8. L'amministratore. All'amministratore compete l'esecuzione delle deliberazioni dell'assemblea nonché tutta l'attività di ordinaria amministrazione. La S.C. si è occupata specificamente dei temi relativi alla nomina e revoca dell'amministratore, all'individuazione dei suoi poteri ed attribuzioni nonché alla determinazione della sua rappresentanza. 83 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO Così, Sez. 2, n. 00217/2015, Picaroni, Rv. 634066, ha affermato che la legittimazione dell'amministratore, derivante dall'art. 1130, comma 1, n. 4, c.c., a compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio gli consente di promuovere azione di responsabilità, ai sensi dell'art. 1669 c.c., nei confronti del costruttore a tutela dell'edificio nella sua unitarietà, ma non di proporre, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, le azioni risarcitorie per i danni subiti nelle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva. Secondo Sez. 2, n. 00040/2015, Giusti, Rv. 633804, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini o contro terzi e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell'edificio condominiale, che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l'amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c.), possono essere esperite dall'amministratore solo previa autorizzazione dell'assemblea ex art. 1131, comma 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136 c.c. 9. L'assemblea. L'assemblea dei condomini è l'organo deliberativo del condominio. L'art. 1135 c.c. ne regola le attribuzioni, oltre a quelle stabilite dalle disposizioni precedenti. In particolare, l'assemblea provvede all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini nonché all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo della gestione. L'art. 1136 c.c. disciplina la costituzione dell'assemblea e la validità delle sue deliberazioni. Per l'effetto, Sez. 2, n. 08824/2015, Scalisi, Rv. 635185, ha osservato che nelle assemblee condominiali deve essere convocato il condomino, cioè il vero proprietario, e non chi si comporta come tale senza esserlo, non potendo invocare il principio dell'apparenza il condominio che abbia trascurato di accertare la realtà sui pubblici registri. In base all'arresto di Sez. 6-2, n. 16774/2015, Giusti, Rv. 636401, il verbale dell'assemblea condominiale offre una prova presuntiva dei fatti che afferma essersi in essa verificati, per modo che spetta al condomino che impugna la deliberazione assembleare, contestando la rispondenza a verità di quanto riferito nel relativo verbale, provare il suo assunto. 84 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO Ancora, Sez. 2, n. 06552/2015, Petitti, Rv. 634746, ha evidenziato che il verbale dell'assemblea di condominio, ai fini della verifica dei quorum prescritti dall'art. 1136 c.c., deve contenere l'elenco dei condomini intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi di quelli assenzienti o dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, rimanendo comunque valido ove, pur riportando l'indicazione nominativa dei soli partecipanti astenuti o che abbiano votato contro, consenta di stabilire per differenza coloro che hanno votato a favore, e senza che neppur infici l'adottata delibera la correzione del verbale, effettuata dopo la conclusione dell'assemblea, allo scopo di eliminare gli errori relativi al computo dei millesimi ed ai condomini effettivamente presenti all'adunanza. Secondo Sez. 2, n. 19131/2015, Petitti, Rv. 636473, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell'intero edificio, sia ai fini del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interesse con il condominio, i quali possono (e non debbono) astenersi dall'esercitare il diritto di voto, ferma la possibilità per ciascun partecipante di ricorrere all'autorità giudiziaria in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio. Sez. 2, n. 07459/2015, San Giorgio, Rv. 635191, ha sostenuto che, nell'ambito di un condominio, la trasformazione, in tutto o in parte, di un bene comune in bene esclusivo di una sola parte dei condomini, mediante esclusione di alcuni di essi dalla percezione dei frutti, può essere validamente deliberata soltanto all'unanimità, ossia mediante una decisione che abbia valore contrattuale, dovendosi, in difetto, dichiarare la nullità della deliberazione assunta a maggioranza. Nella specie, l'assemblea aveva deliberato, a maggioranza, che il canone relativo all'alloggio ex portineria, bene di proprietà comune pro indiviso di tutti i condomini, fosse accreditato al solo gruppo di condomini cui era originariamente destinato il servizio di portineria. In base alla pronuncia di Sez. 2, n. 05657/2015, Falaschi, Rv. 634637, non rientra nei poteri dell'assemblea la deliberazione che determini a maggioranza l'ambito dei beni comuni e delle proprietà esclusive, potendo ciascun condomino interessato far valere la conseguente nullità senza essere tenuto all'osservanza del termine di decadenza di cui all'art. 1137 c.c. Sez. 2, n. 00862/2015, San Giorgio, Rv. 634146, ha puntualizzato che la delibera condominiale di trasformazione 85 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO dell'impianto centralizzato di riscaldamento in impianti unifamiliari, ai sensi dell'art. 26, comma 2, della l. 9 gennaio 1991, n. 10, in relazione all'art. 8, lett. g), assunta a maggioranza delle quote millesimali, è valida anche se non accompagnata dal progetto delle opere corredato dalla relazione tecnica di conformità di cui al successivo art. 28, comma 1, attenendo tale progetto alla fase di esecuzione della delibera. Le suddette norme, nell'ambito delle operazioni di trasformazione degli impianti di riscaldamento destinate al risparmio di energia, distinguono infatti una fase deliberativa "interna" (attinente ai rapporti tra i condomini, disciplinati in deroga al disposto dell'art. 1120 c.c.) da una fase esecutiva "esterna" (relativa ai successivi provvedimenti di competenza della pubblica amministrazione), e solo per quest'ultima impongono gli adempimenti in argomento. Sez. 2, n. 06573/2015, Picaroni, Rv. 634794, ha ancora rilevato che la delibera assembleare che adibisce l'area cortilizia a parcheggio e assegna i singoli posti auto non determina la divisione del bene comune, limitandosi a renderne più ordinato e razionale l'uso paritario, sicché essa non richiede il consenso di tutti i condomini, né attribuisce agli assegnatari il possesso esclusivo della porzione loro assegnata. 10. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Ai sensi dell'art. 1137 c.c., le deliberazioni prese dall'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria, chiedendone l'annullamento, nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. Tuttavia, nessun termine è stabilito per far valere la radicale nullità di tali delibere, vizio che può essere rilevato anche d'ufficio dal giudice. Sulla scorta di tale rilievo, Sez. 2, n. 12582/2015, Matera, Rv. 635891, ha chiarito che alle deliberazioni prese dall'assemblea condominiale si applica il principio dettato in materia di contratti dall'art. 1421 c.c., secondo cui è attribuito al giudice il potere di rilevarne d'ufficio la nullità. Con riguardo alla legittimazione all'impugnazione dei singoli condomini, Sez. 2, n. 16562/2015, Bianchini, Rv. 636173, esprimendo un principio di segno contrario rispetto a precedenti arresti, ha sostenuto che nel giudizio di impugnazione della delibera dell'assemblea di condominio il singolo condomino è legittimato ad 86 CAP. VII - COMUNIONE E CONDOMINIO impugnare la sentenza emessa nei confronti dell'amministratore e da questi non impugnata, anche qualora la delibera controversa persegua finalità di gestione di un servizio comune ed incida sull'interesse esclusivo del condomino soltanto in via mediata. 11. Il regolamento di condominio. In base alla previsione dell'art. 1138 c.c., è prescritta l'adozione di un regolamento condominiale quando il numero dei condomini sia superiore a dieci. Il regolamento, che costituisce espressione dell'autonomia organizzativa nel condominio, deve contenere le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Il regolamento condominiale si distingue dal regolamento contrattuale, che postula una "convenzione" intervenuta tra tutti i condomini in via contestuale ovvero mediante adesione di tutti gli acquirenti, attraverso i loro "atti di acquisto", ad un testo di regolamento predisposto dall'originario proprietario alienante. Sul punto, Sez. 2, n. 05657/2015, Falaschi, Rv. 634636, ha specificato che l'obbligo, assunto con il contratto di acquisto di un'unità immobiliare di un fabbricato, di rispettare il regolamento di condominio che sarà predisposto dal costruttore non vale a conferire a quest'ultimo il potere di redigere un qualunque regolamento, né può comportare l'approvazione di un regolamento attualmente inesistente, atteso che solo il concreto richiamo nel singolo atto d'acquisto di uno specifico regolamento, già esistente, consente di considerarlo, per relationem, parte di tale atto. 87

 

 

 

 

CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ CAPITOLO VIII L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ (di Roberto Mucci) SOMMARIO: 1. Questioni di giurisdizione. – 2. Indennità di espropriazione. A) Criteri di determinazione. – 2.1. (Segue). B) Interessi e rivalutazione. – 2.2. (Segue). C) Profili processuali. – 3. Decreto di espropriazione. –- 4. Cessione volontaria. – 5. Le espropriazioni "indirette". A) L'accessione invertita al vaglio delle Sezioni Unite. – 5.1. (Segue). B) Occupazione illecita e danno. – 5.2. (Segue). C) L'acquisizione sanante al vaglio della Corte costituzionale. – 6. Espropriazione di fondi agricoli. – 7. Espropriazione parziale. 1. Questioni di giurisdizione. Sul tema classico del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo nella materia dell'espropriazione per pubblica utilità sono intervenute, nel corso del 2015, alcune pronunce delle Sezioni Unite, incentrate sul discrimine costituito dalla efficacia o meno della dichiarazione di pubblica utilità, provvedimento con il quale l'autorità competente accerta e dichiara che una determinata opera o iniziativa corrisponde al pubblico interesse. Si tratta, come è noto, del momento centrale del procedimento espropriativo, condizione essenziale per giustificare il sacrificio del soggetto espropriato a fronte dell'utilità pubblica secondo una linea che, muovendo dall'art. 29 dello Statuto albertino e poi dagli artt. 2 della legge fondamentale 25 giugno 1865, n. 2359 e 834 c.c., trova definitiva sanzione nell'art. 42, comma 3, Cost. (ma altresì negli artt. 43 e 44 Cost.) e una significativa eco nell'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Dunque, per Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, la domanda di risarcimento per i danni conseguiti ad una occupazione iniziata, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione di urgenza e proseguita anche successivamente alla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto dà luogo ad una controversia riconducibile, in parte direttamente ed in parte mediatamente, ad un provvedimento amministrativo. La pronuncia si segnala poiché con essa le Sezioni Unite hanno rivisto il precedente orientamento espresso, tra le altre, da Sez. U, n. 23470/2014, Ragonesi, Rv. 632714, Sez. U, n. 30254/2008, Vittoria, Rv. 605843 e Sez. U, n. 19501/2008, Salvago, 88 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Rv. 604570, secondo le quali sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario per le domande risarcitorie e restitutorie fondate sull'occupazione di un terreno privato in base a una dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace per l'inutile decorso dei termini previsti per l'esecuzione dell'opera pubblica e per l'emissione del decreto di esproprio. Il nuovo orientamento risulta coerente con il disposto degli artt. 53 (nuovo testo) del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A) e 133, comma 1, lett. g), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo) – norma, quest'ultima, in base alla quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa – letti alla luce di Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191 secondo cui (sulla scia della fondamentale Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204) deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a "comportamenti" collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere o in via di mero fatto). Secondo la pronuncia delle Sezioni Unite ora in commento, infatti, dato il tenore letterale dell'art. 133, lett. g), cit., la "mediata riconducibilità" dei comportamenti all'esercizio di un pubblico potere non può essere ravvisata soltanto quando la pubblica amministrazione esercita un pubblico potere avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, ma altresì quando l'occupazione inizia, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d'urgenza, e prosegue dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in questo caso l'elemento decisivo per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e, cioè, il concreto esercizio del potere ablatorio, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute sine titulo. 89 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Tale orientamento ha ricevuto ulteriore conferma da Sez. U, n. 12179/2015, Mammone, Rv. 635540, secondo la quale, stante il disposto del già citato art. 133, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 104 del 2010 (che, come si è visto più sopra, nell'elenco delle materie di giurisdizione esclusiva include, riferendosi ai comportamenti riconducibili "anche mediatamente" all'esercizio di un pubblico potere in materia espropriativa, anche il caso in cui l'espropriazione sia proseguita malgrado la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità), deve ritenersi devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione sulla domanda di restituzione di un terreno oggetto di procedura espropriativa che si assume perenta per mancata emanazione del decreto di esproprio nel termine quinquennale. Inoltre, la coeva Sez. U, n. 12182/2015, Ragonesi, Rv. 635539 ha affermato, ancora in tema di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che il termine biennale per l'inizio dei lavori ex art. 18, comma 1, della l.r. Friuli-Venezia Giulia 31 ottobre 1986, n. 46 ha natura ordinatoria, sicché, qualora i lavori siano iniziati oltre tale termine – ma entro il termine perentorio triennale fissato dall'art. 1, comma 3, della l. 3 gennaio 1978, n. 1 (Accelerazione delle procedure per la esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali, applicabile ratione temporis) –, la dichiarazione di pubblica utilità non perde efficacia e la domanda di restituzione del fondo o di risarcimento del danno resta devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo Infine, mette conto richiamare già in questa sede Sez. 6-1, n. 15816/2015, Cristiano, non massimata, con la quale, peraltro in sede di regolamento di competenza, sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c., avendo la Sezione ravvisato questione di massima di particolare importanza in relazione alla necessità di individuare con certezza, in assenza di specifiche disposizioni legislative, i mezzi di tutela esperibili da chi intenda contestare, nel quantum, il provvedimento assunto da una pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (cd. acquisizione sanante, di cui si dirà oltre). In particolare, l'ordinanza interlocutoria ora in commento è tesa a conseguire una pronuncia delle Sezioni Unite che stabilisca, preliminarmente, se in relazione a domande siffatte la giurisdizione spetti al giudice amministrativo (secondo quello che appariva l'indirizzo prevalente del Consiglio di Stato al momento della pronuncia dell'ordinanza medesima), ovvero al giudice ordinario; in subordine, e per l'ipotesi in cui le Sezioni Unite optino per la 90 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ giurisdizione del giudice ordinario, quale sia il giudice competente, chiarendo cioè se anche la fattispecie devoluta all'esame dele Sezioni Unite debba essere ricompresa nella competenza funzionale della corte di appello a decidere, in unico grado, le controversie aventi ad oggetto la determinazione giudiziale dell'indennità espropriativa, secondo la previsione risultante dal combinato disposto dell'art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell'art. 29 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69) o se, al contrario, nell'assoluto silenzio della norma, il proprietario che ritenga sottostimato dall'amministrazione il valore del bene acquisito abbia a disposizione un'ordinaria azione di accertamento e di condanna dell'amministrazione al pagamento dell'eventuale maggior somma dovutagli a titolo di indennizzo. Nell'ordinanza si dà atto che sulla medesima questione è già pendente dinanzi alle Sezioni Unite regolamento di giurisdizione, sospeso con l'ordinanza interlocutoria Sez. U, n. 00442/2014, Salvago. In tale ultima ordinanza (con la quale era stata sollevata in via incidentale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42- bis cit., dichiarata non fondata dalla Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71, di cui pure si dirà oltre) le Sezioni Unite hanno astrattamente prospettato che l'art. 42-bis comporta la sostituzione del diritto al risarcimento del danno integrale, che sarebbe spettato al proprietario per l'illegittima occupazione e trasformazione del bene, con quello al conseguimento dell'indennizzo, azionabile dinanzi al giudice ordinario. Le Sezioni Unite hanno poi dato conto delle pronunce del giudice amministrativo, nel frattempo intervenuto sulla questione di giurisdizione con decisioni contrastanti: ad un primo indirizzo favorevole alla giurisdizione del giudice ordinario, fondato sul rilievo che l'emanazione di un provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis comporta un mutamento, disposto dalla legge, della causa petendi della pretesa del proprietario, riferibile non più ad un fatto illecito del soggetto occupante, ma alla corresponsione dell'indennizzo a fronte del provvedimento amministrativo che – adeguando la situazione di fatto a quella di diritto – ha qualificato il possessore come titolare del diritto di proprietà, si è infatti contrapposto quello espresso in successive decisioni con le quali il Consiglio di Stato ha affermato che l'indennizzo dovuto al proprietario in caso di acquisizione sanante costituisce un risarcimento del danno cagionato dal fatto illecito dell'amministrazione, con conseguente giurisdizione del giudice 91 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ amministrativo sulle controversie concernenti la relativa quantificazione. Va, peraltro, evidenziato che, con pronuncia successiva alla pubblicazione dell'ordinanza n. 15816/2015 ora commentata, Sez. U, n. 22096/2015, Di Palma, in corso di massimazione, ha affermato in subiecta materia la giurisdizione del giudice ordinario. Al riguardo, si deve preliminarmente ricordare che, a seguito della già citata Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71 – che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 42-bis –, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha riconsiderato la questione di giurisdizione ritornando sulle proprie originarie posizioni e riproponendo la qualificazione in termini di "indennità" della misura prevista dall'art. 42-bis, e dunque l'esistenza, rispetto alle controversie relative alla determinazione e corresponsione del suo ammontare, della giurisdizione del giudice ordinario ai sensi l'art. 133, comma 1, lett. f) e g), del d.lgs. n. 104 del 2010 (si v., in tal senso, Sez. VI, 19 ottobre 2015, n. 4777, secondo cui «appare non più percorribile l'opzione ermeneutica, accolta dalla più recente giurisprudenza di questa Sezione (v. C.d.S., Sez. IV, n. 933/2014), alla cui stregua si tratterebbe di questioni risarcitorie devolute alla giurisdizione del G.A. Invero, perseverare nell'impostazione che qualifica l'atto di acquisizione sanante come espressione di un potere meramente rimediale di un illecito, significherebbe dare all'art. 42-bis una lettura contrastante con le conclusioni rassegnate dalla Consulta nella sentenza n. 71 del 2015»). Le Sezioni Unite, con la pronuncia ora in esame, investite di un regolamento preventivo di giurisdizione, sono pervenute alla detta conclusione muovendo dalla constatazione che il quadro normativo di riferimento, in materia, dovesse essere necessariamente integrato con la recente sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2015, ritenendo condivisibili le valutazioni della Corte con particolare riferimento a quella relativa alla natura espropriativa del nuovo istituto disciplinato dall'art. 42-bis, innestato su un precedente procedimento espropriativo irrimediabilmente viziato o, comunque, fondato su titolo astrattamente annullabile sub iudice: natura espropriativa che, secondo le Sezioni Unite, determina la piena riconducibilità dell'istituto alle disposizioni di cui all'art. 133, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 104 del 2010 ed all'art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001, permettendo di prefigurare "quantomeno" due grandi categorie di controversie, a seconda che il loro oggetto sia costituito dalla denuncia di illegittimità del provvedimento di acquisizione (ad es., per incompetenza o per vizi di motivazione del provvedimento) e dalla eventuale consequenziale richiesta di 92 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ risarcimento del danno (controversie devolute alla cognizione del giudice amministrativo), oppure dalla domanda di determinazione (ad es., controversia sul quantum) o di corresponsione (ad es., controversia per omesso o ritardato pagamento) delle indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa (controversie rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario). Né in senso contrario potrebbe farsi valere – sempre secondo le Sezioni Uniti – l'argomento, posto a fondamento del precedente orientamento del Consiglio di Stato (si v. Sez. VI, 3 marzo 2014, n. 993), che configura l'indennizzo dovuto in caso di acquisizione sanante alla stregua di una misura risarcitoria volta ad offrire ristoro al danno patito dal privato in ragione dell'illecito comportamento dell'amministrazione, posto che tale argomento «è stato efficacemente e condivisibilmente confutato sia da successive pronunce del Giudice amministrativo (...), sia dalla stessa Corte costituzionale con la menzionata sentenza n. 71 del 2015». In conclusione, secondo le Sezioni Unite, «l'illecita o l'illegittima utilizzazione di un bene immobile da parte dell'amministrazione per scopi di interesse pubblico costituisce soltanto il presupposto indispensabile, unitamente alle altre specifiche condizioni previste da tale articolo, per l'adozione – si noti: nell'ambito di un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa amministrazione (cfr. la più volte citata sentenza della Corte costituzionale, nn. 6.7. e 6.8. del Considerato in diritto) – del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto». Con la conseguenza ulteriore che, «ove detto autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, l'"indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale", in quanto previsto dal legislatore per la perdita della proprietà del predetto bene immobile, non può che conferire all'indennizzo medesimo natura non già risarcitoria ma indennitaria». 2. Indennità di espropriazione. A) Criteri di determinazione. Sulle questioni connesse alla determinazione dell'indennità di espropriazione – area "elettiva" di intervento della giurisdizione ordinaria a mente dell'art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001 – sono intervenute anche nel 2015 diverse pronunce della Corte. Con riferimento all'incidenza dei vincoli urbanistici sulla determinazione dell'indennità di espropriazione, Sez. 1, n. 08837/2015, Campanile, Rv. 635130, dando continuità al consolidato orientamento della Corte – affermato, tra le tante, dalla conforme Sez. 1, n. 04130/2003, Graziadei, Rv. 561285 – ha 93 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ ribadito che l'art. 5-bis, comma 3, della l. 8 agosto 1992, n. 359 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – secondo cui la valutazione dell'edificabilità dell'area espropriata deve computare le possibilità legali ed effettive di edificazione al momento dell'apposizione del vincolo preordinato ad espropriazione – per poter essere considerato conforme a Costituzione, anche alla luce dei rilievi svolti da Corte cost., 16 dicembre 1993, n. 442 (secondo la quale è possibile, con interpretazione adeguatrice, intendere il comma 3 dell'art. 5-bis della l. n. 359 del 1992 «nel senso che il legislatore ha meramente voluto consacrare in norma il principio, ormai consolidatosi da tempo nella giurisprudenza dopo iniziali incertezze, secondo cui nella stima dell'area espropriata non si deve tener conto del vincolo espropriativo, cioè si deve totalmente prescindere da esso. E questa indifferenza del vincolo consente una ricognizione della qualità (edificatoria, o meno) dell'area espropriata pienamente aderente alle possibilità "legali e effettive" di edificazione sussistenti al momento del verificarsi della vicenda ablativa, con la conseguenza che, così interpretata la norma, risulta infondata la censura mossa dalla Corte rimettente con riferimento all'art. 42, comma 3, Cost. non sussistendo la lamentata retrodatazione della qualificazione dell'area espropriata»), va inteso nel senso della totale ininfluenza di tale vincolo sulla stima dell'area medesima, mentre non esclude che detta stima sia da rapportarsi al momento del verificarsi della vicenda ablativa, senza trascurare l'eventuale insorgenza o l'eventuale incremento di quelle possibilità fino alla data della pronuncia del decreto traslativo della proprietà. Sempre sulla determinazione dell'indennità di espropriazione per aree edificabili con riferimento all'individuazione del regime urbanistico rilevante, Sez. 1, n. 18239/2015, Campanile, Rv. 636752 – decidendo su fattispecie in tema di realizzazione di un interporto e confermando la sentenza con la quale il giudice di merito aveva ritenuto che le aree destinate dal piano regolatore alla realizzazione dell'interporto dovessero essere incluse nella categoria dei terreni a vocazione edificatoria legale – ha affermato che, ai fini della determinazione dell'indennità espropriativa, l'adozione del criterio previsto per le aree edificabili dall'art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. con modif. dalla l. n. 359 del 1992 cit., richiede, quale condizione necessaria e sufficiente, che l'immobile sia previsto, nello strumento urbanistico generale, come zona edificabile, pur se a fini diversi dall'edilizia residenziale privata ed a tipologia vincolata, purché la destinazione impressa al fondo sia realizzabile anche ad iniziativa privata, non configurandosi, in tal caso, un vincolo 94 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ conformativo della proprietà a fini pubblicistici. In particolare, la pronuncia, muovendo dal presupposto che ciò che determina la qualità del suolo è la destinazione dello strumento urbanistico vigente, ha chiarito che il carattere edificabile dell'area interportuale, emergente dall'originaria pianificazione di cui al piano regolatore generale, poi recepito dall'accordo di programma sull'interporto avente effetto di variante, è confermato dall'attuabilità dell'interporto a iniziativa dei privati. Ove la previsione urbanistica introduca una destinazione realizzabile anche ad iniziativa privata, non può parlarsi di vincolo e dunque non può escludersi la vocazione edificatoria: devono essere inclusi nella categoria dei terreni a vocazione edificatoria legale quelli in cui l'edificazione, sia pure a tipologia vincolata, sia consentita all'iniziativa privata in base alla concreta disciplina e destinazione urbanistica attribuita all'area. Ancora sulla esatta ricognizione giuridica dell'area sottoposta a procedimento ablativo, con riferimento ad un caso in cui, al momento dell'emanazione del decreto di esproprio, l'area era destinata con variante al piano regolatore generale a parcheggio e verde pubblico, Sez. 1, n. 19072/2015, Campanile, Rv. 636757, nel cassare la sentenza di merito che aveva riconosciuto carattere conformativo a detta variante, ha chiarito – in conformità con il dictum di Sez. 1, n. 02612/2006, Napoleoni, Rv. 586601 – che «la variante al piano regolatore generale che miri ad una (nuova) zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto (per lo più spaziale) con un'opera pubblica, ha carattere conformativo ed è rilevante ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, mentre ove imponga solo un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, lo stesso va qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, dunque, prescindersi nella qualificazione dell'area». Sempre in tema di ricognizione giuridica dei terreni (destinazione a verde attrezzato), Sez. 1, n. 21707/2015, Campanile, Rv. 637322, dando continuità ai principi espressi da Sez. U, n. 00173/2001, Morelli, Rv. 546235, ha ribadito che «ai fini indennitari e della previa qualificazione dei suoli espropriati alla stregua delle correlative "possibilità legali" di edificazione al momento dell'apposizione del vincolo preordinato all'espropriazione, ai sensi dell'art. 5-bis, comma 3, della l. n. 359 del 1992, le prescrizioni ed i vincoli stabiliti dagli strumenti urbanistici di 95 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ secondo livello – influenti di regola su tale qualificazione, per il contenuto conformativo della proprietà che ad essi deriva dalla loro funzione di definire, per zone, in via astratta e generale, le possibilità edificatorie connesse al diritto dominicale – possono, in via eccezionale, avere anche portata e contenuto direttamente ablatori ove si tratti di vincoli particolari, incidenti su beni determinati in funzione di localizzazione dell'opera, implicante di per sé la necessaria traslazione di quei beni all'ente pubblico». In tema di vincoli assoluti di inedificabilità sanciti nell'interesse pubblico dalla legge, Sez. 1, n. 25668/2015, Campanile, in corso di massimazione, trattando del vincolo ferroviario ex art. 49 d.P.R. 11 luglio 1980, n. 753 (Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto) – norma che vieta di costruire, ricostruire ed ampliare edifici o manufatti lungo i tracciati delle linee ferroviarie ad una distanza minore di metri trenta dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia –, ha ribadito l'indirizzo di legittimità secondo cui, ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio, indipendentemente dalle previsioni urbanistiche, non è in alcun modo predicabile la natura edificatoria dei terreni sottoposti a detti vincoli (tra cui quello ferroviario in discorso), senza che possa assumere rilievo l'eventuale trasferimento della relativa volumetria su diversi immobili. La pronuncia in commento – richiamando la recente Sez. 1, n. 23210/2012, Salvago, Rv. 624772 – ha chiarito al riguardo che «detta categoria di vincoli (...), è collegata sotto il profilo soggettivo, al loro carattere generale, concernente tutti i cittadini, in quanto proprietari di determinati beni che si trovino in una determinata situazione e non per le loro qualità e condizioni e, dal punto di vista oggettivo, al fatto di gravare su immobili individuati "a priori" per categoria derivante dalla loro posizione o localizzazione rispetto ad un'opera pubblica. Pertanto, ancorché resi concretamente applicabili in conseguenza della destinazione di interesse pubblico data alla parte sottratta al privato, non gli arrecano in via specifica alcun deprezzamento del quale debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell'immobile, facendo difetto il nesso di causalità diretto sia con l'ablazione, sia con l'esercizio del pubblico servizio cui l'opera è destinata». Circa i criteri di corretto accertamento del valore del fondo, Sez. 1, n. 18556/2015, Campanile, Rv. 636756, nel ribadire il principio secondo il quale la determinazione dell'indennità di esproprio va operata con esclusivo riferimento al valore di mercato del bene al momento dell'emanazione del decreto di espropriazione, puntualizza peraltro – in relazione alla concreta fattispecie scrutinata (la Corte territoriale aveva erroneamente assunto come dato di riferimento il valore corrispondente all'indennità virtuale accertata 96 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ in altro procedimento) – che, stante l'influenza sull'andamento del mercato immobiliare di variabili macroeconomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, e di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, che sono completamente avulse dal valore della moneta, non è ammissibile l'accertamento del valore del fondo espropriato attraverso la comparazione con il prezzo di immobili omogenei, oggetto di trasferimento, in un momento diverso dalla data dell'esproprio, riportando poi il dato monetario a ritroso (o in avanti) fino a quest'ultima. In tema di determinazione dell'indennità di espropriazione ex art. 36 d.P.R. n. 327 del 2001 per la realizzazione di opere private diverse da abitazioni di edilizia residenziale pubblica, Sez. 1, n. 19077/2015, Mercolino, Rv. 636670 ha affermato che «nel caso di espropriazione finalizzata alla realizzazione di un piano particolareggiato d'iniziativa privata volto alla creazione di una zona industriale ed artigianale d'interesse locale, qualificabile come opera privata di pubblica utilità e, pertanto, non rientrante nell'ambito dell'edilizia residenziale pubblica, convenzionata o agevolata, né in quello dei piani di insediamento produttivo di iniziativa pubblica, né, infine, nei programmi di riabilitazione urbana, si applica l'art. 36, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, che prevede la liquidazione dell'indennità di espropriazione in misura pari al valore venale dell'immobile, non ricorrendo le ragioni, collegate alla realizzazione di programmi di riabilitazione urbana, che giustificano la decurtazione della stessa in misura pari agli oneri di urbanizzazione ai sensi dell'art. 37, comma 1, secondo periodo, del menzionato decreto ovvero dell'art. 27, comma 5, della l. 1° agosto 2002, n. 166», norma, quest'ultima, riguardante programmi aventi come finalità la «riabilitazione di immobili ed attrezzature di livello locale» ed il «miglioramento della accessibilità e mobilità urbana», ovvero il «riordino delle reti di trasporto e di infrastrutture di servizio per la mobilità attraverso una rete nazionale di autostazioni per le grandi aree urbane» (art. 27 cit., comma 1), che traggono origine da un'iniziativa pubblica, dovendo essere promossi dagli enti locali, e rispondono ad esigenze urbanistiche totalmente diverse, in quanto le opere da essi previste, pur potendo essere cofinanziate da risorse private, fornite dai soggetti interessati alle trasformazioni urbane, debbono consistere in «interventi di demolizione e ricostruzione di edifici e delle relative attrezzature e spazi di servizio, finalizzati alla riqualifìcazione di porzioni urbane caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale» (comma 3). Sez. 1, n. 23865/2015, Sambito, in corso di massimazione, pronunciando in fattispecie di aggravamento di una servitù di metanodotto con indennità di espropriazione da determinarsi ai 97 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ sensi degli artt. 39, 40 e 46 della l. n. 2359 del 1865, tenendo conto sia della porzione di fondo direttamente interessata dalla servitù che dell'eventuale pregiudizio sofferto dal proprietario nella parte residua del fondo, ha precisato, in punto di criteri di liquidazione dell'indennità, che il giudice del merito deve accertare ed adeguatamente motivare, anzitutto, sull'esistenza di un collegamento strumentale ed obiettivo tra superficie direttamente incisa dal provvedimento ablatorio e restante proprietà, tale da connotare oggettivamente l'intera superficie come unità economica e funzionale, e, nell'ipotesi affermativa, considerare la perdita di utilità subita dal proprietario sull'intero fondo per effetto dell'aggravamento della servitù, limitando l'indennizzo all'incidenza dovuta a detto aggravamento. Ancora in tema di applicazione dell'art. 46 della l. n. 2359 del 1865, ma con riferimento ai danni cagionati dall'esecuzione di un'opera pubblica a soggetti che siano rimasti estranei al procedimento espropriativo, Sez. 1, n. 24042/2015, Sambito, in corso di massimazione, ha chiarito – in continuità con Sez. U, n. 09341/2003, Bonomo, Rv. 564129 – che nella specie l'ordinamento prevede la corresponsione di un'indennità per atto legittimo, che si fonda sul principio di giustizia distributiva, per cui non è consentito soddisfare l'interesse generale attraverso il sacrificio del singolo senza che quest'ultimo ne sia indennizzato, e che perciò richiede, quale necessario presupposto, che il compimento dell'opera nei confronti della proprietà che la subisce costituisca un fattore di danno particolare, avente carattere permanente e, cioè, comporti una menomazione di qualcuna delle facoltà costituenti il nucleo essenziale del diritto dominicale, così provocando la perdita in via definitiva di una parte del contenuto patrimoniale Nella quantificazione dell'indennità deve, quindi, tenersi conto soltanto di fattori idonei a comportare siffatte menomazioni del diritto di proprietà, e non anche di danni derivanti dal mancato reddito ritraibile dal bene, cd. lucro cessante, che può essere considerato ai fini di una reintegrazione, solo, nei limiti del sacrificio realmente subito. 2.1. (Segue). B) Interessi e rivalutazione. Circa il profilo del riconoscimento ex art. 1224, comma 2, c.c. dell'ulteriore danno conseguente alla svalutazione monetaria della maggior somma riconosciuta all'espropriato a titolo di indennità di esproprio in esito ad opposizione alla stima, Sez. 1, n. 03794/2015, Campanile, Rv. 634727 – in continuità con il consolidato orientamento affermato 98 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ da Sez. U, n. 04699/1991, Vercellone, Rv. 471892 e ribadito, tra le altre, da Sez. 1, n. 04885/2006, Del Core, Rv. 587750 – ha ritenuto che detto ulteriore danno presuppone la mora dell'espropriante e, quindi, un suo comportamento colpevole ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c. La Corte ha pertanto motivato al riguardo che «Detta mora debendi si configura solo a partire dalla data dell'inizio del giudizio di opposizione alla stima o di determinazione dell'indennità (o del conguaglio), poiché prima di ciascuno di detti procedimenti l'ente espropriante non ha alcuna facoltà di interferire nelle determinazioni amministrative, siano esse accettate dall'espropriato ovvero impugnate, in quanto completamente estranee alla sua sfera giuridico-economica e attribuite per legge a organi terzi. Soltanto quando ciascuno di questi procedimenti giudiziari a carattere contenzioso inizia il suo corso, l'amministrazione espropriante può comportarsi come qualunque parte convenuta in un processo e, quindi, a seconda dei casi, prestare adesione alla domanda negli esatti termini in cui è stata posta dall'attore o offrire un accordo transattivo. Per cui, in mancanza di iniziative di questo genere atte a risolvere il contrasto e dunque ad addivenire sollecitamente al pagamento al privato di quanto a esso dovuto come equo indennizzo, può configurarsi una responsabilità colpevole, per ritardo nell'adempimento, dell'ente pubblico espropriante, che può quindi essere condannato al risarcimento del maggior danno derivante dalla svalutazione monetaria ove il giudice fissi, poi, un valore maggiore rispetto a quello determinato in sede amministrativa». In esatti termini – peraltro in fattispecie relativa alla determinazione del conguaglio del prezzo della cessione volontaria del bene ex art. 12 della l. 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata) – Sez. 1, n. 17786/2015, Sambito, Rv. 636854, così massimata: «Il riconoscimento del maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c., in favore del cedente che abbia domandato la determinazione del conguaglio del prezzo della cessione volontaria del bene ex art. 12 della l. n. 865 del 1971, presuppone la mora dell'espropriante e, quindi, un suo comportamento colpevole ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c., configurabile solo a partire dalla data dell'inizio del giudizio di quantificazione del conguaglio stesso, perché esclusivamente da tale momento l'ente espropriante – prima impossibilitato ad interferire nelle decisioni amministrative, accettate ovvero impugnate dall'espropriato, in quanto estranee alla sua sfera giuridica e legislativamente attribuite ad organi terzi – può prestare adesione alla domanda del privato od offrire un accordo transattivo, incorrendo, in mancanza di tali iniziative, in responsabilità colpevole». 99 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Ancora in punto di accessori sulla somma liquidata a titolo di indennità di espropriazione – ma in un caso di giudizio di opposizione alla stima introdotto anteriormente all'emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, a conclusione del quale era stato ordinato il deposito presso la Cassa depositi e prestiti dell'intero ammontare dell'indennità giudizialmente accertata –, Sez. 6-1, n. 19851/2015, De Chiara, Rv. 637214, in conformità a Sez. 1, n. 10259/1992, Olla, Rv. 478652, ha affermato che gli interessi sulla somma dovuta per il titolo in questione possono decorrere solo dalla data del provvedimento ablativo, senza che rilevi l'anteriorità del giudizio di opposizione, atteso che soltanto con il decreto di espropriazione sorge il diritto degli espropriati all'indennità e solo dalle relative date può sorgere il credito per le prestazioni accessorie degli interessi. In fattispecie di accordo amichevole sull'ammontare dell'indennità di espropriazione ex art. 26 della l. n. 2359 del 1865, seguito dal pagamento dell'indennità concordata, Sez. 1, n. 22852/2015, Lamorgese, in corso di massimazione, ha affermato che, nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia revocata, il pagamento dell'indennità e la protrazione del possesso del bene da parte dell'amministrazione risultano privi di causa ed entrambe le parti sono obbligate alle restituzioni, in applicazione delle regole sulla ripetizione dell'indebito a norma dell'art. 2033 c.c.; in particolare, qualora il privato non intenda rientrare nel possesso del bene, l'amministrazione può liberarsi formulando offerta di restituzione, in applicazione della disciplina sulla mora credendi, e, dal canto suo, il privato è tenuto a corrispondere anche gli interessi maturati sull'indennità anticipatagli dal giorno in cui ha ricevuto la richiesta formale di restituzione, intendendosi la "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. non come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma anche ad atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ai sensi dell'art. 1219 c.c. Deve segnalarsi che, nell'affermare il principio suddetto, la Sezione, nel condividere il conforme orientamento già espresso da Sez. L, n. 07586/2011, Morcavallo, Rv. 616658, si è posta in consapevole contrasto con l'opposto orientamento (decorrenza degli interessi da ripetizione di indebito oggettivo dalla domanda giudiziale) da ultimo ribadito da Sez. 6-3, n. 13424/2015, Cirillo, Rv. 635920. 2.2. (Segue). C) Profili processuali. Per quanto riguarda le questioni processuali relative al giudizio di opposizione alla stima, in tema di riassunzione del giudizio per mancata costituzione delle 100 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ parti Sez. 1, n. 17710/2015, Giancola, Rv. 636777 – pronunciando in un caso in cui l'opponente, comproprietario di un terreno edificabile pro indiviso e per pari quota con il fratello, aveva riassunto il giudizio di opposizione alla stima nel quale in precedenza, stanti trattative tra le parti, non si era costituito – ha ribadito il principio per il quale «la notificazione dell'opposizione avverso la stima dell'indennità espropriativa, di cui all'art. 19 della l. n. 865 del 1971, introduce un procedimento di cognizione soggetto alle ordinarie regole processuali, ivi incluso l'art. 307, comma 1, c.p.c., in tema di riassunzione del giudizio per il caso di mancata costituzione delle parti – in ciò confermando l'orientamento già espresso al riguardo da Sez. 1, n. 08859/1987, Maiella, Rv. 456214 – , mentre non è applicabile l'art. 348 c.p.c. in tema di improcedibilità dell'appello per mancata tempestiva costituzione dell'appellante, vertendosi in giudizio che, sebbene devoluto per materia alla cognizione della corte di appello, si svolge davanti ad essa in unico grado e secondo il rito di cognizione ordinario proprio del primo grado». In merito alla competenza della corte di appello in unico grado ex art. 19 della l. n. 865 del 1971, Sez. 1, n. 17786/2015, Sambito, Rv. 636853, peraltro pronunciando in fattispecie relativa a domanda di conguaglio a seguito di cessione volontaria del bene, ha affermato – in continuità con Sez. U, n. 07191/1997, Carbone, Rv. 506409 e Sez. U, n. 24687/2010, Di Palma, Rv. 615291 – che detta competenza funzionale «si applica in tutti i casi di determinazione giudiziale dell'indennità di esproprio nell'ambito del procedimento espropriativo promosso secondo il modello delineato nella citata legge, ivi compreso quello di domanda di conguaglio a seguito di cessione volontaria del bene, costituendo quest'ultima una modalità di definizione del procedimento, sostitutiva del decreto di esproprio, in cui il corrispettivo che il privato riceve per la perdita del cespite rappresenta una diversa liquidazione dell'indennità, alla quale deve, necessariamente, rapportarsi». Identico principio è stato espresso, sempre in analoga fattispecie, da Sez. 1, n. 24594/2015, Campanile, in corso di massimazione. Sez. 1, n. 19162/2015, Mercolino, Rv. 637097, decidendo su fattispecie di opposizione alla stima dell'indennità dovuta per occupazione d'urgenza di immobili, nel cui ambito i provvedimenti commissariali di determinazione dell'indennità erano stati impugnati innanzi al giudice amministrativo, ha negato rilievo, ai fini della conoscenza idonea a far decorrere il termine per l'opposizione, alla circostanza dell'avvenuta impugnazione dei provvedimenti, depositati in copia nel giudizio amministrativo. Pertanto la pronuncia, dando continuità ad un indirizzo seguito dalla Corte, con riferimento all'indennità di espropriazione, sin da Sez. 1, n. 101 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ 02318/1990, Favara, Rv. 466076 e ribadito da ultimo da Sez. 1, n. 16614/2013, Ceccherini, Rv. 627081, ha affermato che «l'assoggettamento della comunicazione del provvedimento di determinazione dell'indennità di occupazione alle forme prescritte per la notificazione degli atti processuali civili, secondo la previsione dell'art. 20, comma 4, della l. 22 ottobre 1971, n. 865, non attribuisce a tale adempimento la natura di atto processuale, sicché l'inesistenza o la nullità della notifica impedisce la decorrenza del termine per l'opposizione alla stima, senza che possa assumere rilievo la conoscenza acquisita aliunde dall'interessato, non trovando applicazione, attesa la natura amministrativa della comunicazione, la sanatoria per raggiungimento dello scopo dell'atto, prevista dagli artt. 156 e 157 c.p.c. esclusivamente con riferimento agli atti processuali». Principi analoghi sono stati riaffermati anche dalla già citata Sez. 1, n. 25668/2015, Campanile, in corso di massimazione, con riferimento alla nullità – non sanabile ex artt. 156 e 157 c.p.c. – della notificazione dell'atto amministrativo determinativo dell'indennità di espropriazione eseguita dal messo di conciliazione, anziché dall'ufficiale giudiziario, senza la specifica autorizzazione del capo dell'ufficio e in assenza delle deroghe previste dall'art. 34, comma 1, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari). Alla stessa stregua, ancora sul termine per l'opposizione alla stima, Sez. 1, n. 25322/2015, Ragonesi, in corso di massimazione – decidendo un caso in cui l'opposizione era stata proposta oltre sette anni dopo la comunicazione e il deposito del decreto di determinazione dell'indennità –, ha ribadito l'orientamento di legittimità (si v. Sez. 1, n. 04573/1992, Ruggiero, Rv. 476804; Sez. 1, n. 02052/2000, Morelli, Rv. 534286) secondo cui in caso di compiuto decorso del termine di trenta giorni dall'inserzione dell'avviso del deposito della relazione dell'ufficio tecnico erariale nel foglio annunci legali della provincia ex art. 19 l. n. 865 del 1971, l'azione oppositiva dell'espropriato resta preclusa per effetto della decadenza che si sovrappone, consumandola, alla prescrizione; ove invece, per il mancato compimento dell'atto che segna il dies a quo, quel termine non inizi neppure a decorrere, l'azione (esercitabile anche prima e indipendentemente dal deposito dell'indennità secondo Corte cost., 22 febbraio 1990, n. 67) resta proponibile per l'intera durata della prescrizione decennale, a far tempo dall'emanazione del provvedimento ablatorio. In fattispecie di procedimento ablativo nell'ambito della realizzazione di un piano di edilizia residenziale pubblica, Sez. 1, n. 24036/2015, Campanile, in corso di massimazione, sulla denunzia 102 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ del vizio di omessa pronuncia sulla domanda subordinata di rivalsa svolta dal comune espropriante nei confronti della società costruttrice in virtù di apposita clausola della convenzione, ha rigettato il mezzo chiarendo – in adesione al costante orientamento della Corte – che la domanda di rivalsa deve ritenersi inammissibile poiché incompatibile con il giudizio di determinazione della stima, sia alla luce del connotato di celerità di tale giudizio, sia in relazione al carattere autonomo delle domande afferenti alla garanzia cd. impropria, come tali da proporre separatamente. Sul tema generale dell'ambito del giudizio di opposizione alla stima, o di determinazione dell'indennità, Sez. 1, n. 24442/2015, Campanile, in corso di massimazione, decidendo su un caso di indennità di occupazione in cui l'ente espropriante aveva proposto una domanda di accertamento negativo del diritto a conseguire l'indennità da parte degli espropriati, assumendo che questi avrebbero continuato a mantenere il godimento dell'immobile fino all'emanazione del decreto di esproprio, ha affermato – sul presupposto che non è consentito, ex art. 20, comma 3, l. n. 865 del 1971, di addivenire ad una statuizione sull'ammontare dell'indennizzo se non in presenza del verbale di immissione in possesso, mancando il quale non può dirsi verificata l'occupazione dei fondi individuati nel decreto di occupazione d'urgenza – che l'eccezione (e la prova) posta a carico dell'espropriante, ed intesa a superare la presunzione relativa scaturente dal verbale di immissione in possesso, appartiene, al pari di questi, al giudizio di opposizione alla stima. Ciò in quanto il giudizio inerente alla determinazione dell'indennità di occupazione non può prescindere, anche ai fini della mera quantificazione della somma dovuta, dall'accertamento dell'estensione e della durata del periodo di occupazione temporanea 3. Decreto di espropriazione. Sulla questione degli effetti della notificazione del decreto di espropriazione a soggetto diverso dal proprietario del fondo Sez. 1, n. 02539/2015, Salvago, Rv. 634238, pronunciando su fattispecie di costituzione coattiva di servitù di elettrodotto dichiarata inesistente dalla corte di appello per la detta carenza di notifica, ha affermato – ribadendo l'indirizzo di Sez. 1, n. 10289/2014, Benini, Rv. 631265 ed in conformità con Sez. U, n. 02147/1984, Pierantoni, Rv. 434189 sullo specifico profilo del decreto prefettizio impositivo di servitù di elettrodotto su fondo privato – che «il principio secondo cui, in tema di procedimenti espropriativi, la notifica del provvedimento ablativo a chi, non essendo 103 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ proprietario effettivo del bene, risulti tale dai registri catastali, non incide sulla sua validità ed efficacia, ma impedisce il decorso del termine di decadenza per l'opposizione alla stima nei confronti del proprietario effettivo ed abilita quest'ultimo a chiedere il risarcimento del danno derivato dalla ritardata riscossione dell'indennità ove l'omissione o il ritardo della notificazione sia ascrivibile ad un difetto di diligenza dell'espropriante, si applica anche alla notifica del decreto prefettizio impositivo di servitù di elettrodotto sul fondo privato, trattandosi di una regola generale valevole per il procedimento espropriativo nella sua interezza, che legittimamente si svolge, per quanto concerne il soggetto passivo, nei confronti dei proprietari iscritti negli atti catastali». 4. Cessione volontaria. Sulle vicende inerenti alla disposizione pattizia del trasferimento del diritto inciso dal procedimento ablativo, in tema di determinazione del prezzo della cessione volontaria del bene Sez. 1, n. 13517/2015, Sambito, Rv. 635683 ha affermato – ribadendo un indirizzo espresso, tra le altre, da Sez. 1, n. 19656/2006, Napoleoni, Rv. 592135 –, che qualora detta determinazione del prezzo faccia riferimento al criterio dell'"acconto salvo conguaglio", secondo i parametri indennitari provvisori di cui alla l. 29 luglio 1980, n. 385 (Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto 1978, n. 457 e 15 febbraio 1980, n. 25), già dichiarati costituzionalmente illegittimi al momento della stipulazione della cessione per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 1983, la pattuizione sul prezzo viene determinata in relazione al criterio legale di quantificazione dell'indennità, ma il termine decennale di prescrizione del diritto del cedente a conseguire il conguaglio inizia a decorrere, in ragione dell'immediata azionabilità di tale diritto, dal giorno stesso del contratto di cessione volontaria. Del pari, in tema di interessi sul conguaglio, Sez. 1, n. 24549/2015, Campanile, in corso di massimazione, ha ribadito il principio, già affermato da Sez. 1, n. 19935/2011, Schirò, Rv. 619017, secondo cui in tema di cessione volontaria del bene soggetto ad espropriazione ai sensi dell'art. 12 legge n. 865 del 1971, con determinazione del prezzo salvo conguaglio ai sensi dell'art. 1 l. n. 385 del 1980, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 223 del 1983 dalla Corte costituzionale, gli interessi sul conguaglio sono dovuti a decorrere da detta sentenza poiché «il maggiore importo da riconoscersi al cedente nasce da un diritto che prende il posto del conguaglio a suo tempo pattuito, il cui pagamento era stato 104 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ convenzionalmente differito all'emanazione della nuova normativa: tale concordata dilazione comporta che tale credito relativo al conguaglio insorge al momento del verificarsi della sostituzione della normativa illegittima con quella applicabile (...), e ciò è avvenuto con la pubblicazione della citata pronuncia di incostituzionalità, onde detto momento segna il dies a quo del decorso degli interessi con riguardo al prezzo della compravendita». In fattispecie di espropriazione di area ricompresa in un piano di edilizia residenziale pubblica, conclusasi con la cessione volontaria del bene ex art. 12 della l. n. 865 del 1971, Sez. 1, n. 17786/2015, Sambito, Rv. 636852 ha affermato che «obbligato al pagamento del conguaglio del prezzo è il comune espropriante, beneficiario dell'area medesima, con conseguente sua legittimazione passiva nel giudizio riguardante la quantificazione della stessa, atteso che la indicata cessione, pur qualificabile come contratto cosiddetto ad oggetto pubblico, presupponendo l'esistenza della procedura espropriativa che automaticamente conclude, è, per il resto, sottoposta alla disciplina propria del contratto, caratterizzata dall'incontro di volontà dei contraenti su di un piano paritetico. Alla vicenda contrattuale devono, pertanto, ritenersi totalmente estranei gli assegnatari degli alloggi, ancorché debitori finali». Identico principio è stato espresso, sempre in fattispecie di cessione volontaria di terreno con indennità soggetta a conguaglio nell'ambito di espropriazione preordinata alla realizzazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, anche dalla già citata Sez. 1, n. 24549/2015, Campanile, in corso di massimazione, con riferimento all'intervenuta delega da parte del comune ad altro soggetto, ex art. 60 della l. n. 865 del 1971, per l'acquisizione delle aree ablate. 5. Le espropriazioni "indirette". A) L'accessione invertita al vaglio delle Sezioni Unite. La rassegna delle decisioni rese dalla Corte nel corso del 2015 sul tema dell'occupazione sine titulo – tema complesso e risalente, sul quale sono intervenute, come è ben noto, pronunce dei massimi organi giurisdizionali sia nazionali che sovranazionali – non può che prendere le mosse da Sez. U, n. 00735/2015, Di Amato, Rv. 634017-634018, così massimata: «In materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in "buona e debita forma", comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'amministrazione, sicché il 105 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente». «L'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorché il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento del bene, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente». La pronuncia giunge all'esito di un complesso percorso di rivisitazione della giurisprudenza della Corte sull'istituto della occupazione cd. acquisitiva (o espropriativa o appropriativa) – risalente, nella prima compiuta formulazione, a Sez. U, n. 01464/1983, Bile, Rv. 426292 – e dà puntuale conto delle censure mosse all'istituto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per contrasto con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione con plurime e note pronunce (tra le tante, Corte europea dei diritti dell'uomo, 6 marzo 2007, Scordino c. Italia ) per escludere – conformemente ai precedenti di cui a Sez. 1, n. 01804/2013, Lamorgese, Rv. 625023 («Alla luce della costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha disapprovato l'istituto della cd. accessione invertita, nonché dell'art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (che ha introdotto un procedimento espropriativo semplificato), in tutti i casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia mancante o carente dei termini o sia annullata o il decreto di esproprio non sia emesso o sia annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'amministrazione si configurano come un illecito di diritto comune, ovvero come comportamento "mero", insuscettibile di determinare il trasferimento della proprietà in suo favore») ed a Sez. 2, n. 00705/2013, Giusti, Rv. 624971 (sulla qualificazione come azione di rivendicazione della domanda con cui l'attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni da essa derivanti, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico che avesse giustificato la consegna della cosa e la relazione di fatto sussistente tra questa ed il medesimo convenuto) – la possibilità di sopravvivenza dell'istituto dell'occupazione acquisitiva 106 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ nell'ordinamento italiano e negare, attraverso la rilettura dell'art. 55 del d.P.R. n. 327 del 2001 (norma transitoria disciplinante il risarcimento dei danni per il caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità in assenza di un valido ed efficace provvedimento di espropio), la valenza sistematica della distinzione tra occupazione cd. acquisitiva e occupazione cd. usurpativa. Concludono infatti le Sezioni Unite nel senso che «alla luce della costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la cd. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente. A tale ultimo riguardo, (...) si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (...); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'amministrazione. (...) La cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall'amministrazione, ai sensi dell'art. 42 bis del t.u. di cui al d.P.R. n. 327 del 2001, (...)». 5.1. (Segue). B) Occupazione illecita e danno. La sentenza testé commentata ha avuto immediate ricadute. Così, in tema di occupazione di urgenza e connesse pretese risarcitorie per illecito spossessamento del privato da parte della pubblica amministrazione, Sez. 1, n. 04476/2015, Campanile, Rv. 634528 ha affermato – relativamente alla questione della decorrenza del termine prescrizionale quinquennale per l'esercizio dell'azione risarcitoria a seguito di occupazione cd. acquisitiva – che «in conformità alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la natura permanente dell'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. 107 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ sussiste anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, con conseguente diritto del privato di chiedere la restituzione del bene, salvo che non opti per la reintegrazione in forma specifica; in tal caso la prescrizione della pretesa risarcitoria decorre dalla data della domanda». La pronuncia si pone dunque nel solco interpretativo della citata Sez. U, n. 735 del 2015 e dà continuità alla rimeditazione della questione operata da Sez. 1, n. 08965/2014, Piccininni, Rv. 631075, nel senso che non è sufficiente la mera consapevolezza dell'occupazione o comunque della manipolazione senza titolo dell'immobile, occorrendo che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell'effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall'amministrazione espropriante. L'onere di provare tale presupposto richiesto dall'art. 2947 c.c. grava sull'amministrazione e, in mancanza di prova, si deve ritenere, in adesione all'indirizzo della Corte europea dei diritti dell'uomo, che detto momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio nel quale il proprietario richieda il controvalore dell'immobile (con i relativi accessori), incompatibile con il perdurare del suo diritto dominicale su di esso. Ancora nel solco di Sez. U, n. 735 del 2015 cit., Sez. 1, n. 07137/2015, Di Amato, Rv. 634947 ha affermato che «nel giudizio di risarcimento del danno derivante dalla occupazione e trasformazione irreversibile di un fondo senza titolo, la qualificazione in primo grado della domanda risarcitoria come di accessione invertita (o occupazione cd. acquisitiva) non esclude l'ammissibilità di una riqualificazione della stessa in occupazione usurpativa da parte dell'attore in sede di appello, atteso che la presenza o meno della dichiarazione di pubblica utilità non è in grado di differenziare le due forme di illecito, entrambe a carattere permanente ed improduttive di effetti giuridici, poiché non comporta l'acquisizione del bene occupato alla mano pubblica, né incide sulla causa petendi giuridicamente significativa, rappresentata in entrambi i casi dalla occupazione illegittima». La pronuncia dà atto del contrasto evidenziatosi in seno alla Corte circa la novità o meno della domanda con la quale si alleghi una ipotesi di occupazione cd. acquisitiva – si richiama, in senso affermativo, Sez. 1, n. 13515/2014, Benini, Rv. 631518 e, in senso negativo, Sez. 1, n. 16750/2010, Bernabai, Rv. 614064 –, ma chiarisce che tale tematica è rimasta del tutto superata dopo la sentenza 19 gennaio 2015, n. 735, cit., «con la quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno dissolto ogni differenza pratica tra le due forme di illecito, considerate entrambe a carattere permanente ed improduttive, anche nel caso della presenza di una valida 108 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ dichiarazione di pubblica utilità, dell'acquisizione del bene occupato alla mano pubblica», sicché è venuta meno la rilevanza del connotato distintivo tra le due azioni, come in passato configurate dalla giurisprudenza. Un richiamo alla sentenza n. 735 del 2015 è contenuto anche in Sez. 1, n. 06024/2015, Lamorgese, Rv. 635180, in tema di costituzione di servitù di elettrodotto, secondo cui «il decreto di autorizzazione provvisoria previsto per la costruzione di elettrodotti dall'art. 113 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, richiamato dall'art. 9, decimo comma, del d.P.R. 18 marzo 1965, n. 342, determina il sorgere in capo all'ENEL di una servitù coattiva di natura temporanea, la quale è destinata a venire meno in assenza di autorizzazione definitiva emessa ai sensi degli artt. 108 e 109 del menzionato r.d. n. 1775 del 1933, che ha anche efficacia di dichiarazione di pubblica utilità. Pertanto, in difetto di autorizzazione definitiva alla realizzazione dell'elettrodotto da parte dell'autorità competente, la collocazione degli impianti, sebbene provvisoriamente autorizzata, si traduce in un'attività materiale lesiva del diritto dominicale avente i connotati dell'illecito permanente, con la conseguenza che il privato può chiedere la rimozione dell'elettrodotto e la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento del danno». Puntualizza poi la sentenza che, analogamente, deve escludersi che, in mancanza di autorizzazione dell'autorità competente e di un valido provvedimento di asservimento (in presenza di autorizzazione e dichiarazione di pubblica utilità), possa configurarsi il sorgere di una servitù secondo lo schema dell'occupazione acquisitiva, non solo perché detto istituto è stato espunto dall'ordinamento a seguito della citata sentenza n. 735 del 2015, ma perché esso non si applicava all'acquisto di diritti reali su cosa altrui. Sulla determinazione del risarcimento del danno da occupazione cd. usurpativa, Sez. 2, n. 11041/2015, Bianchini, Rv. 635645 – in continuità con l'indirizzo espresso da Sez. 1, n. 13585/2006, Benini, Rv. 590689 – ha affermato che «in caso di occupazione usurpativa, il debito risarcitorio connesso alla perdita della proprietà del bene va commisurato al suo valore di stima al momento in cui, a seguito della irreversibile trasformazione del fondo, si è verificato il fatto illecito e il proprietario ha subito il danno, mentre non assume alcuna rilevanza il momento in cui il proprietario, optando per la tutela risarcitoria, abbia implicitamente rinunciato alla proprietà». D'altro canto, in ordine al peculiare profilo della delega del compimento delle operazioni espropriative e dei connessi rapporti tra delegante e delegato in punto di responsabilità per il danno da illecita occupazione, Sez. 1, n. 18236/2015, Campanile, Rv. 636754, pronunciando su una fattipecie relativa alla realizzazione di opere 109 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ stradali in conformità al decisum di Sez. 1, n. 21096/2007, Benini, Rv. 600663, ha affermato che «la delega da parte dell'ANAS del compimento delle operazioni espropriative non esime il delegante dai poteri di controllo e di stimolo dell'attività del delegato, il cui mancato o insufficiente esercizio vale a rendere l'ente stesso corresponsabile del danno da occupazione appropriativa, con la conseguenza che spetta al delegante l'onere di allegare e dimostrare di aver esercitato i propri poteri di controllo e di stimolo, esplicitandone i tempi e i modi, dovendosi peraltro presumere, in assenza di contrarie risultanze processuali, il mancato esercizio di tali poteri in caso di mancata tempestiva emissione del decreto di esproprio nel termine di durata dell'occupazione legittima, attesa l'applicabilità anche alle procedure inerenti l'acquisizione dei suoli necessari alla realizzazione di opere di viabilità dell'art. 2 della l. 7 febbraio 1961, n. 59 e dell'art. 8 del r.d. 25 maggio 1895, n. 350, che impone all'ANAS il controllo sull'esecuzione dei lavori». Al riguardo, la sentenza richiama innanzi tutto Sez. U, n. 24397/2007, Salvago, Rv. 600549, secondo cui nell'ipotesi della cd. occupazione appropriativa trova applicazione il principio per il quale dell'illecito risponde sempre e comunque l'ente che ha posto in essere le attività materiali di apprensione del bene e di esecuzione dell'opera pubblica, cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del bene, potendo solo residuare, qualora lo stesso (come delegato, concessionario o appaltatore) curi la realizzazione di un'opera di pertinenza di altra amministrazione, la responsabilità concorrente di quest'ultima, da valutare sulla base della rilevanza causale delle singole condotte, a seconda che si tratti di concessione cd. traslativa, ovvero di delega ex art. 60 della l. 22 ottobre 1971, n. 865. In ogni caso, gli atti e le convenzioni intercorsi, anche se si concretano in assunzioni unilaterali di responsabilità, rilevano nei soli rapporti interni tra gli enti eventualmente corresponsabili, mentre dei danni causati nella materiale costruzione dell'opera pubblica risponde solo l'appaltatore-esecutore, in quanto gli stessi non sono collegabili né all'esecuzione del progetto, né a direttive specifiche dell'amministrazione concorrente, ma a propri comportamenti materiali in violazione del precetto generale dell'art. 2043 c.c. In secondo luogo, la pronuncia in commento esclude, sulla base dei principi affermati da Sez. U, n. 06769/2009, Salvago, Rv. 607788, che il carattere traslativo o meno della concessione abbia rilievo esclusivo ed osserva, in continuità con Sez. 1, n. 11849/2007, Benini, Rv. 597880, che in caso di irreversibile trasformazione del fondo in assenza di decreto di esproprio, il soggetto delegato al compimento dell'opera pubblica, pur se abbia ultimato i lavori entro il termine di scadenza dell'occupazione legittima, risponde del 110 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ danno da occupazione appropriativa ove la delega fosse estesa al compimento delle procedure amministrative preordinate all'esproprio, poiché, anche se di fatto, nel rapporto con i soggetti proprietari dei terreni assoggettati a procedura ablatoria, non si sia manifestato come incaricato della conduzione del procedimento (come nel caso in cui risulti aver sempre agito in nome e per conto del delegante), l'onere di promuovere e sollecitare la tempestiva emissione del decreto di esproprio da parte del titolare del potere espropriativo rientra tra i compiti del delegato, che è dunque da ritenere compartecipe, attraverso la propria condotta omissiva, dell'illecito in cui si concreta la trasformazione del fondo in assenza di titolo, in applicazione del principio per cui chiunque abbia dato un contributo causale al danno ingiusto ne deve rispondere. A tali consolidati principi in tema di collaborazione di più enti alla realizzazione dell'opera pubblica si è attenuta anche Sez. 1, n. 04614/2015, Campanile, Rv. 634925, soggiungendo – per l'ipotesi scrutinata di localizzazione delle aree in base a programma costruttivo di edilizia residenziale ai sensi dell'art. 51 della l. n. 865 del 1971 – che nel programma costruttivo di edilizia residenziale inerente alla localizzazione (programma non equiparabile al piano di zona, a cui è alternativo ed autonomo in quanto soggetto ad un procedimento semplificato ed accelerato d''individuazione ed acquisizione delle aree destinate a iniziative di edilizia residenziale pubblica) l'art. 51 cit. impone che i termini stabiliti dall'art. 13 della l. n. 2359 del 1865 siano fissati nel provvedimento di adozione, o, al più tardi, in quello di assegnazione delle aree, dovendosi ritenere, in mancanza, l'illegittimità e, dunque, la natura usurpativa dell'occupazione. Sempre in tema di occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 19082/2015, Giancola, Rv. 636678 ha affermato che «in caso di mancato tempestivo completamento della procedura espropriativa, tramite cessione volontaria o decreto ablativo, la riscossione dell'indennità provvisoria ex art. 23, comma 2, della l. n. 1 del 1978 (applicabile ratione temporis) non osta all'esperimento, da parte del privato, della ordinaria azione risarcitoria derivante dalla illecita occupazione acquisitiva del fondo, connessa alla irreversibile trasformazione di esso». Infine, sui profili generali dell'istituto dell'occupazione acquisitiva, Sez. 1, n. 21883/2015, Lamorgese, Rv. 637324 – pronunciando su complessa fattispecie relativa all'espropriazione di terreni finalizzata al trasferimento parziale dell'abitato di un comune interessato da frane, da attuarsi secondo le previsioni di un piano particolareggiato contemplante la costruzione di strade, parcheggi, 111 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ rete idrica e fognaria, nonché di un'area per i servizi sociali (tra i quali una chiesa) – ha affermato che la valutazione dell'esistenza dell'irreversibile trasformazione va effettuata con riferimento agli immobili compresi nel piano urbanistico attuativo singolarmente considerati, verificando se essi abbiano subito una trasformazione nel loro aspetto materiale, mutando fisionomia strutturale e funzionale, mentre deve escludersi la possibilità di operare una tale valutazione con sintetico riferimento all'intera area compresa nel piano, non essendo sufficiente che sia globalmente realizzata la destinazione in esso prevista, a prescindere dall'entità e dalla rilevanza manipolativa dei singoli interventi costruttivi, ferma restando la tutela, prevista dagli artt. 40 della l. n. 2359 del 1865 e 33 del d.P.R. n. 327 del 2001, in caso di occupazione acquisitiva parziale, in ragione dell'eventuale deprezzamento subito dalla parte residua. Inoltre, con specifico riferimento a taluno degli interventi programmati (strada e chiesa), la pronuncia ora in commento ha altresì chiarito (Sez. 1, n. 21883/2015, Lamorgese, Rv. 637326, in continuità con Sez. 1, n. 14050/2008, Tavassi, Rv. 603789) che «l'occupazione acquisitiva si consuma nel momento in cui si realizza l'irreversibile trasformazione del fondo occupato, con conseguente non ripristinabilità dello status quo ante se non attraverso nuovi interventi altrettanto eversivi della fisionomia attualmente assunta dal bene, sicché essa non coincide né con l'inizio, né con l'ultimazione dei lavori, ma si colloca nel momento intermedio in cui l'opera viene a delinearsi nei suoi connotati definitivi e nelle sue previste caratteristiche» (situazione che, nel caso della strada, si verifica non appena di essa si sostanzi l'astratta idoneità ad essere percorsa come tale per avere ormai assunto i connotati minimi suoi propri per l'avvenuta ultimazione delle fondazioni, anche se manchino le opere accessorie, quali il conglomerato bituminoso ed il tappetino di usura, che ne rendano l'uso più agevole e sicuro e ne consentano, in concreto, l'effettiva apertura al traffico); quanto alla realizzazione della chiesa, la pronuncia (Sez. 1, n. 21883/2015, Lamorgese, Rv. 637325) – facendo applicazione dei principi sulla natura degli enti ecclesiastici di cui a Sez. U, n. 00061/1990, Amirante, Rv. 464769 –, ha puntualizzato che «la realizzazione di un bene privato su fondo altrui, pur se conforme agli strumenti urbanistici, non integra un'ipotesi di occupazione acquisitiva, ma costituisce una vicenda disciplinata dall'art. 934 c.c., a norma del quale la costruzione si incorpora al suolo ed appartiene immediatamente al proprietario di questo, senza che possa essere attribuita rilevanza alcuna alla sua consistenza o alla sua destinazione, né alla coincidenza o meno degli interessi dell'esecutore con quelli della collettività, pur rivelati da una dichiarazione di pubblica utilità. Tale principio 112 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ è applicabile anche quando l'opera realizzata sia una chiesa con le sue pertinenze, in considerazione della natura privata generalmente attribuita agli enti ecclesiastici dall'art. 831 c.c. e, con specifico riferimento alle diocesi ed alle parrocchie, dall'art. 29 della legge n. 222 del 1985». 5.2. (Segue). C) L'acquisizione sanante al vaglio della Corte costituzionale. Pur nell'ambito di una rassegna delle pronunce della Cassazione in materia di espropriazione per pubblica utilità, non può mancarsi di menzionare la più volte citata Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71. La Corte costituzionale era stata chiamata proprio dalle Sezioni Unite della Cassazione, nonché dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, a vagliare la compatibilità con la Costituzione dell'art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (articolo inserito dall'art. 34, comma 1, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, e rubricato "Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblica utilità"), disposizione regolante la procedura "semplificata" della cd. acquisizione sanante di un bene immobile per scopi di interesse pubblico modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, procedura introdotta a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 43 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001 da parte di Corte cost., 8 ottobre 2010, n. 239. La Corte costituzionale, con sentenza interpretativa di rigetto ha dichiarato non fondate tutte le questioni sollevate in merito all'art. 42-bis. In particolare, la Corte, muovendo dal raffronto tra la disciplina dell'art. 43 e quella innovata con l'art. 42-bis a seguito della declaratoria di incostituzionalità della prima disposizione, ha individuato differenze significative quali: l'acquisto ex nunc della proprietà del bene da parte dell'amministrazione; l'obbligo motivazionale "rafforzato" in capo a questa (che deve indicare le circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, dovendo inoltre l'amministrazione esibire le "attuali ed eccezionali" ragioni di interesse pubblico che giustificano l'emanazione dell'atto, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, nonché evidenziare l'assenza di "ragionevoli alternative" alla sua adozione); il computo dell'indennizzo comprensivo, sia pure forfettariamente, del danno non patrimoniale; il passaggio di proprietà sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute entro trenta giorni dal provvedimento di acquisizione; la generalizzata applicazione della procedura anche in caso di annullamento dell'atto 113 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ espropriativo olim esistente; l'impossibilità di paralizzare l'azione restitutoria del privato mediante l'ottenimento di una pronuncia del giudice amministrativo di acquisizione del bene in favore della pubblica amministrazione (cd. acquisizione in via giudiziaria); la comunicazione alla Corte dei conti del provvedimento di acquisizione. Appunto sulla base di tali elementi differenziali – per vero, a suo tempo già rilevati da Sez. 1, n. 01804/2013, cit. –, mentre l'art. 43 prevedeva un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva commesso l'illecito, addirittura a dispetto di un giudicato che avesse disposto il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato, l'art. 42-bis configurerebbe una sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma stessa. Alla luce di una siffatta ricostruzione dell'istituto dell'acquisizione sanante sussistono, dunque, valide ragioni per disattendere l'idea (che è alla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato anteriore alla sentenza ora in commento, e di cui si è detto all'inizio di questo capitolo, nel senso di qualificare non come misura di natura indennitaria, bensì risarcitoria, l'indennizzo di cui all'art. 42-bis, con le già descritte conseguenze in tema di riparto della giurisdizione) che il provvedimento di acquisizione sanante sia da considerare espressione di un potere "rimediale" della pubblica amministrazione. Secondo la Corte costituzionale, siffatto modo di ragionare omette «di considerare che, se pure il presupposto di applicazione della norma sia "l'indebita utilizzazione dell'area" – ossia una situazione creata dalla pubblica amministrazione in carenza di potere (per la mancanza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità dell'opera o per l'annullamento o la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l'adozione dell'atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con l'adozione di tale atto, quest'ultima riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino». Inoltre, la procedura semplificata di cui all'art. 42-bis appare, secondo la Corte costituzionale, compatibile con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali poiché risponde all'esigenza primaria di eliminare la 114 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ défaillance structurelle, stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, cit., del fenomeno delle espropriazioni "indirette" ove si ponga mente agli elementi di novità costituiti dal carattere non retroattivo dell'acquisto, della necessaria rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione e, infine, dallo stringente obbligo motivazionale che circonda l'adozione del provvedimento, obbligo che – come conclude la Corte costituzionale – «deve essere interpretato, (...), nel senso che l'adozione dell'atto è consentita – una volta escluse, all'esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita – solo quando non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà». 6. Espropriazione di fondi agricoli. Sull'indennità aggiuntiva ex art. 17 della l. n. 865 del 1971, Sez. 1, n. 03706/2015, Mercolino, Rv. 634472, ribadendo la consolidata giurisprudenza della Corte al riguardo – tra le tante si rinvia a Sez. 1, n. 12306/2008, Forte, Rv. 603942 –, ha affermato che l'art. 17 cit., nel riconoscere il diritto alla indennità aggiuntiva in favore dei soggetti che traggono i propri mezzi di sussistenza dalla coltivazione del suolo (fittavolo, mezzadro, colono, compartecipante, proprietario coltivatore diretto), condiziona la concreta erogazione del beneficio all'utilizzazione diretta agraria del terreno, ravvisabile in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte dell'istante avvenga con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia. Pertanto, è escluso dal novero dei soggetti aventi diritto a tale beneficio l'imprenditore agricolo – il quale esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata – senza che tale esclusione possa ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza, avuto riguardo alla differenza esistente tra il predetto e i soggetti menzionati dall'art. 17. Posta tale fondamentale distinzione tra il coltivatore e l'imprenditore agricolo ai fini del diritto all'indennità aggiuntiva, Sez. 1, n. 17972/2015, Giancola, Rv. 636780 ulteriormente precisa – conformemente all'orientamento già espresso al riguardo da Sez. 1, n. 02270/2001, Morelli, Rv. 543894 – che detta indennità aggiuntiva non spetta a qualsiasi coltivatore (anche di fatto) del fondo espropriato, ma a chi, sulla base di uno dei rapporti giuridici 115 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ espressamente elencati dalla detta norma, lo coltivava all'epoca del procedimento espropriativo. Quanto al requisito dell'abbandono del terreno coltivato, previsto dall'art. 17, comma 2, della l. n. 865 del 1971 ai fini del riconoscimento dell'indennità in discorso, Sez. 1, n. 19079/2015, Giancola, Rv. 636677, scrutinando un particolare caso in cui il terreno era incluso all'interno di una riserva naturale, ha affermato che detto requisito – cui il citato art. 17, comma 2 (applicabile ratione temporis), subordina il riconoscimento dell'indennità aggiuntiva in favore dei fittavoli, mezzadri e coloni –, «sussiste anche nel caso in cui, indipendentemente dalla materiale trasformazione e/o dismissione del fondo, ricorra un'oggettiva incompatibilità tra le forme di suo legale utilizzo agro-silvo- pastorale e le finalità pubbliche sottese alla procedura ablativa, che comportino la perdita della attitudine del suolo allo sfruttamento agricolo». Al riguardo, la Corte motiva osservando che «dato il tenore letterale della disposizione, che, devolve all'interprete l'individuazione delle cause suscettibili di indurre il contemplato effetto abbandonico, deve ritenersi in via esegetica ed in coerenza con la ratio legis e col contenuto della tutela cui l'indennità aggiuntiva è preordinata, che la costrizione prevista dalla norma sia ravvisabile non solo nella sopravvenuta perdita materiale del terreno da parte del coltivatore (qualificato), per effetto di relativo rilascio spontaneo o coattivo o comunque di utilizzazione del suolo ablato da parte dell'espropriante, ma anche e più in generale nell'eventuale, seppure inusuale, situazione oggettiva, legittimamente e direttamente indotta dalla specifico scopo pubblicistico cui l'esproprio è finalizzato, la quale in sé implichi la perdita dell'attitudine del suolo alla specifica utilizzazione agricola convenzionalmente consentita e costituente essenziale prerogativa del rapporto agrario. In tale evenienza, infatti, il protrarsi della permanenza del coltivatore sul fondo, pur senza dismissione del suolo e, quindi, mantenendone la relativa disponibilità, non può ulteriormente ed utilmente tradursi in lecito ed economicamente proficuo sfruttamento agricolo del terreno, con definitiva compromissione dell'attività di lavoro e di guadagno del coltivatore, il che ragionevolmente integra l'evento costrittivo contemplato dal citato art. 17». Infine, sul particolare profilo della determinazione dell'indennità di espropriazione dei terreni agricoli ubicati nella provincia autonoma di Bolzano, Sez. 1, n. 08313/2015, Lamorgese, Rv. 635021 puntualizza che, a mente dell'art. 8, comma 3, della l. provinciale 15 aprile 1991, n. 10, il "giusto prezzo" di tali terreni va quantificato tenendo conto del "tipo di coltura in atto" sulla base delle loro concrete caratteristiche al momento del decreto di stima. Pertanto, si devono valutare le possibilità reali ed effettive di trarre da essi reddito, escludendo quelle astratte e prescindendo dalle pur 116 CAP. VIII - L'ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ legittime aspettative del proprietario di utilizzarli per determinati scopi produttivi, seppure abbiano costituito oggetto di un obbligo assunto in via negoziale da terzi, se divenuto concretamente ineseguibile. 7. Espropriazione parziale. Sul tema sovviene Sez. 1, n. 17789/2015, Giancola, Rv. 636753, per la quale è configurabile una espropriazione parziale, regolata dall'art. 40 della l. n. 2359 del 1865, quando la vicenda ablativa investa parte di un complesso immobiliare, caratterizzato da un'unitaria destinazione economica, e determini al proprietario un pregiudizio diverso da quello ristorabile mediante l'indennizzo calcolato con riferimento soltanto alla porzione espropriata a causa della compromissione o dell'alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione e del connesso deprezzamento, mentre ricorre la diversa ipotesi, per cui è previsto uno speciale indennizzo, di cui al successivo art. 46 quando il privato abbia subito la menomazione, la diminuzione o la perdita di una o più facoltà inerenti al proprio diritto dominicale a seguito non dell'espropriazione ma dell'esecuzione dell'opera pubblica, sicché la relativa controversia esula dalla competenza in unico grado della corte di appello ex art. 19 della l. n. 865 del 1971 e rientra nella generale cognizione del tribunale. 117 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE PARTE TERZA LE OBBLIGAZIONI E I CONTRATTI CAPITOLO IX LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE (di Paolo Spaziani) SOMMARIO: 1. Le fonti dell'obbligazione. – 1.1. Le "nuove" fonti atipiche. Il contatto sociale. – 1.2. Le fonti atipiche tradizionali. – 2. L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione. – 2.1. Buona fede oggettiva e diligenza. – 2.2. Obbligazioni di mezzi e di risultato. – 2.3. Obbligazioni pecuniarie. – 3. L'adempimento. – 3.1. Legittimazione ad adempiere. – 3.2. Legittimazione a ricevere. – 3.3. Quietanza. – 3.4. Offerta di adempimento e mora credendi. – 3.5. Tempo e luogo dell'adempimento. – 4. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. – 4.1. Cessione in pagamento. – 4.2. Novazione. – 4.3. Remissione. – 4.4. Compensazione. – 5. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato attivo. – 5.1. Cessione del credito. – 5.2. Factoring. – 6. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato passivo. – 6.1. Delegazione. – 6.2. Accollo. – 7. Le obbligazioni plurisoggettive. – 7.1. Obbligazioni solidali. – 7.2. Obbligazioni parziarie. – 8. L'inadempimento e la responsabilità contrattuale. – 8.1. La prova dell'inadempimento. – 8.2. Mora debendi. – 8.3. Reponsabilità per fatto degli ausiliari. – 8.4. Concorso di colpa del creditore. – 8.5. Dovere del creditore di evitare il danno. – 8.6. Prevedibilità del danno. – 8.7. Compensatio lucri cum damno. 1. Le fonti dell'obbligazione. Il panorama delle pronunce sulle fonti dell'obbligazione si è arricchito, nel 2015, di decisioni concernenti le cc.dd. fonti atipiche, contemplate dalla seconda parte dell'art. 1173 c.c. mediante il riferimento ai fatti diversi dal contratto e dal fatto illecito che siano tuttavia idonei a produrre obbligazioni in conformità dell'ordinamento giuridico. 1.1. Le "nuove" fonti atipiche. Il contatto sociale. In un primo ordine di pronunce ha ricevuto conferma l'estensione del principio di atipicità delle fonti dell'obbligazione oltre le fonti atipiche tradizionali, tradizionalmente raggruppate nella categoria dei quasi-contratti. Da un lato, infatti, è stato esplicitamente affermato che l'espressione di chiusura dell'art. 1173 c.c. indica una categoria aperta, che consente, attraverso l'analogia, di individuare fonti dell'obbligazione – diverse dal contratto e dal fatto illecito – ulteriori rispetto a quelle espressamente disciplinate dalla legge, inferendosene (in una fattispecie relativa a rapporti condominiali) la conseguenza che, nell'ipotesi in cui l'esecuzione dei lavori di 118 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE consolidamento di un condominio pericolante abbia apportato un pregiudizio alla proprietà di uno dei condomini, deve individuarsi a favore di quest'ultimo un diritto ad essere indennizzato dal condominio medesimo, la cui responsabilità da atto lecito trova fondamento nell'esigenza di contemperamento di due interessi configgenti (quello del condominio ad eseguire opere necessarie in funzione della tutela della proprietà comune e della pubblica incolumità e quello del singolo comunista a non vedersi menomato nel godimento del proprio diritto di proprietà esclusiva sulla singola unità immobiliare), entrambi ritenuti meritevoli di tutela dall'ordinamento giuridico (Sez. 2, n. 25292/2015, Giusti, in corso di massimazione). Dall'altro lato è stata data continuità all'orientamento che individua tra i fatti idonei a produrre obbligazioni il cd. contatto sociale qualificato, quale rapporto socialmente tipico, che determina in capo ai titolari la nascita di obbligazioni specifiche, la cui violazione espone la parte inadempiente ad una responsabilità di tipo contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. In particolare, facendo applicazione di tale orientamento in un ambito in cui era già stato reiteratemente ribadito (vale a dire il rapporto medico-paziente), la Suprema Corte, per un verso, con Sez. 3, n. 07682/2015, Scarano, Rv. 635102 – nel confermare la decisione con cui il giudice di merito aveva ravvisato la responsabilità di un aiuto primario di ostetricia che, accertato il grave stato di sofferenza del feto sulla base delle inequivocabili risultanze dell'esame del tracciato cardiotocografico e di quello amnioscopico, aveva omesso di procedere, in attesa dell'arrivo del primario, all'esecuzione del parto cesareo, sebbene tale intervento fosse risultato estremamente urgente ed eseguibile anche da un solo medico con l'ausilio di uno strumentista – ha affermato che una simile omissione costituisce inadempimento agli specifici obblighi gravanti sull'aiuto primario, il quale, in caso di assenza o di impedimento del primario, non solo ha il dovere di attivarsi secondo le regole dell'arte medica, avuto riguardo al suo standard professionale di specialista, ma ha anche il dovere di salvaguardare, ai sensi dell'art. 1375 c.c., la vita del paziente; per altro verso, con Sez. 3, n. 06438/2015, Petti, Rv. 634965, ha ritenuto che il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non può essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva. 119 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 1.2. Le fonti atipiche tradizionali. In un secondo ordine di pronunce sono stati invece affermati o ribaditi importanti principi in ordine alle fonti atipiche tradizionali, particolarmente con riguardo alle promesse unilaterali di cui all'art.1988 c.c. 1.3. Precisamente, in relazione alla ricognizione di debito, Sez. 1, n. 18249/2015, Scaldaferri, Rv. 636755, ha affermato che quella compiuta dal procuratore alle grida di un agente di cambio ha il solo effetto, previsto dalla norma codicistica, di far presumere, fino a prova contraria, l'esistenza del rapporto fondamentale, ma non costituisce fonte autonoma di un'obbligazione, né un atto illecito del quale l'agente possa essere chiamato a rispondere per i fatti del suo ausiliare. In relazione alla promessa di pagamento, Sez. 2, n. 07820/2015, Proto, Rv. 635233, ha ribadito che essa non fa sorgere in capo al creditore l'obbligo di rilasciare quietanza, ai sensi dell'art. 1199 c.c., il quale, unitamente al correlato diritto del debitore di ottenerla, consegue soltanto al pagamento e non anche alla mera promessa dello stesso né all'estinzione dell'obbligazione per una causa diversa dal pagamento medesimo. 2. L'oggetto dell'obbligazione. La prestazione. Sotto il profilo dell'oggetto dell'obbligazione (art. 1174 c.c.), nelle pronunce del 2015 sono stati affermati o ribaditi numerosi principi in ordine alla buona fede oggettiva e alla diligenza quali criteri fondamentali di determinazione della prestazione debitoria (artt. 1175 e 1176 c.c.), nonché in ordine alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato e alle obbligazioni pecuniarie (artt.1277 e ss. c.c.). 2.1. Buona fede oggettiva e diligenza. La valenza generale della buona fede in senso oggettivo (o correttezza) e della diligenza quali criteri legali di determinazione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio, ha trovato conferma in numerose pronunce e con riguardo ad obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali diversi ed eterogenei. In materia di obbligazioni professionali (e precisamente di quelle inerenti all'esercizio dell'attività di notaio), Sez. 3, n. 16990/2015, Scarano, Rv. 636622 – nel cassare la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria nei confronti del notaio, il quale aveva rettificato un atto di compravendita, da lui stesso redatto, inserendovi un appezzamento di giardino, retrostante il fabbricato 120 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE compravenduto, senza effettuare le visure che avrebbero permesso di accertare la diversa titolarità del terreno – ha statuito che il notaio richiesto della redazione di un atto pubblico di trasferimento immobiliare ha l'obbligo di compiere le attività preparatorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, procedendo, in particolare, all'effettuazione delle visure catastali e ipotecarie; ed ha precisato che l'omissione di tali attività accessorie è fonte di responsabilità per violazione non già dell'obbligo di diligenza professionale qualificata, ma della clausola generale della buona fede oggettiva o correttezza, ex art. 1175 c.c., quale criterio determinativo ed integrativo della prestazione contrattuale, che impone il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della controparte. In materia di rapporto di assicurazione, Sez. 3, n. 08412/2015, Rossetti, Rv. 635202 – annullando la decisione con cui la corte di merito, facendo applicazione della pertinente circolare dell'ISVAP, aveva escluso che un'impresa assicuratrice, in relazione ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario, avesse l'obbligo di informare il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti potessero essere inferiori al capitale dal medesimo versato – ha affermato che l'assicuratore (come il proprio intermediario o promotore) ha il dovere primario, fondato sul canone di buona fede oggettiva ex artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., di fornire al contraente un'informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, oltre quello di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze, integrando la violazione di tali doveri una condotta negligente ex art. 1176, comma 2, c.c.. Con specifico riferimento all'assicurazione della responsabilità civile, Sez. 3, n. 05479/2015, Rossetti, Rv. 634661, ha affermato che il diritto dell'assicurato alla rifusione, da parte dell'assicuratore, delle spese sostenute per resistere all'azione promossa dal terzo danneggiato, ai sensi dell'art. 1917, comma 3, c.c., va escluso, in ossequio ai doveri di correttezza e buona fede, quando l'assicurato abbia scelto di difendersi senza avere interesse a resistere alla avversa domanda o senza poter ricavare utilità dalla costituzione in giudizio. Riguardo agli obblighi incombenti sul prestatore di lavoro subordinato, Sez. L., n. 00144/2015, Napoletano, Rv. 633863 e Sez. L, n. 02550/2015, Ghinoy, Rv. 634311, hanno statuito che l'art. 2105 c.c., sul dovere di fedeltà, deve integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non 121 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE danneggiare il datore di lavoro, traendone la conseguenza che il lavoratore deve astenersi non solo dalle condotte espressamente vietate ma anche da qualsiasi comportamento che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. In applicazione di questi principi, la prima pronuncia ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore per il compimento di atti di violenza nei confronti della moglie, anch'ella socia della società, all'interno del luogo di lavoro; la seconda pronuncia ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato per lo svolgimento di attività sportiva suscettibile di aggravare le condizioni fisiche del lavoratore, evidenziando che, proprio per motivi di salute, il datore di lavoro aveva assegnato il dipendente a mansioni ridotte e diverse da quelle precedenti. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro pubblico privatizzato, Sez. L, n. 04239/2015, Venuti, Rv. 634584, ha peraltro precisato che la violazione dei principi di correttezza di cui all'art. 1175 c.c. e buona fede di cui all'art. 1375 c.c. si configura solo nell'ipotesi in cui siano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti correlati, sicché le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell'art. 1173 c.c., la loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o fatto idoneo a produrli in conformità dell'ordinamento giuridico. In applicazione di tale principio, la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, nel rigettare il ricorso, ha escluso la possibilità di rinvenire nei canoni generali di buona fede e correttezza il fondamento dell'obbligo dell'INAIL di procedere alla sollecita indizione della procedura per il conferimento degli incarichi di cui all'art. 72 del CCNL relativo ai dirigenti degli enti pubblici non economici, non essendo stabilito alcun termine, per detto adempimento, nella norma contrattuale. 2.2. Obbligazioni di mezzi e di risultato. La ribadita diversità dell'oggetto nelle obbligazioni di mezzi e di risultato è alla base di talune pronunce, le quali muovono dalla premessa tradizionale secondo cui nelle obbligazioni di mezzi (quali quelle del 122 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE professionista intellettuale) il debitore si impegna a prestare la propria attività per raggiungere la finalità sperata, senza peraltro essere tenuto a conseguirla, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore è tenuto conseguire una determinata finalità, senza peraltro essere tenuto ad una specifica attività strumentale. In particolare, Sez. 3, n. 10289/2015, Scrima, Rv. 635467, premesso che l'obbligazione dell'avvocato si qualifica come obbligazione "di mezzi" e che la sua responsabilità professionale presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., ha ribadito il principio secondo cui tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale. Diversamente, Sez. 2, n. 17048/2015, Lombardo, Rv. 636137, premesso che l'obbligazione di redigere un progetto di ingegneria è "di risultato" perché ha ad oggetto la sua realizzabilità, ha affermato che essa è esattamente adempiuta se il progetto presentato dal professionista sia valido e tecnicamente ed astrattamente idoneo al conseguimento del finanziamento pubblico, restando irrilevante l'omessa concreta erogazione del finanziamento medesimo, trattandosi di oggetto estraneo al risultato da garantire e, invece, condizionato da variabili indipendenti dalla prestazione professionale, come la sussistenza di fondi sufficienti presso la pubblica amministrazione o la preferenza da quest'ultima accordata al perseguimento di certe finalità pubbliche, piuttosto che di altre. Con riguardo alla responsabilità degli ingegneri, infine, Sez. 3, n. 16275/2015, D'Amico, Rv. 636618 – movendo dal presupposto che la nozione di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (circostanza che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c.) ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l'esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza –, ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto la responsabilità dell'ingegnere incaricato della redazione di un progetto di sopraelevazione di un fabbricato, di cui aveva garantito la fattibilità, senza avere acquisito una completa conoscenza delle strutture di 123 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE fondazione, né dell'originario progetto dell'edificio, ravvisando in tale contegno gli estremi della colpa grave. 2.3. Obbligazioni pecuniarie. Riguardo alle obbligazioni pecuniarie, un primo ordine di pronunce ha affermato, o ribadito, la natura di debiti di valuta (con conseguente applicazione del principio nominalistico di cui all'art. 1277, comma 1, c.c. e della regola sulla debenza degli interessi moratori di cui all'art. 1224, comma 1, c.c.) di talune tipologie particolari di obbligazioni, rispetto alle quali si era posto il dubbio se esse non rientrassero piuttosto tra i debiti di valore. Questo dubbio è stato sciolto anzitutto in relazione alle obbligazioni pecuniarie aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro in valuta estera convertibile in moneta italiana sulla base di un semplice calcolo aritmetico con riferimento al tasso ufficiale di sconto. Al riguardo, Sez. 1, n. 19084/2015, Lamorgese, Rv. 636675, con riguardo ad una fattispecie concernente un aiuto comunitario ai produttori di olio, da corrispondere in ecu (il cui valore di conversione in lire era fissato dall'art. 1 del reg. CEE n. 1502 del 1985), ha statuito che tali obbligazioni integrano debiti di valuta, insuscettibili di trasformarsi in debiti di valore a seguito di costituzione in mora del debitore, traendo argomento sia dalla facoltà che quest'ultimo ha, ex art. 1278 c.c., di convertire la moneta estera in quella avente corso legale anche solamente all'atto del pagamento, sia dalla regola della perpetuatio obligationis di cui all'art.1221 c.c.. La natura di debito di valuta è stata riaffermata anche con riferimento al debito del condividente donatario che, in sede di divisione ereditaria, abbia optato per la collazione per imputazione, mantenendo la proprietà del bene oggetto della donazione ma acquisendo un debito pecuniario di importo pari al valore del bene medesimo, che appartiene alla massa ereditaria, in sostituzione del detto bene, sin dalla data di apertura della successione e che è soggetto al principio nominalistico di cui all'art. 1277 c.c.. Premessa tale natura, Sez. 2, n. 05659/2015, Oricchio, Rv. 634713, ne ha inferito la conseguenza che devono dunque essere imputati non i frutti civili dell'immobile oggetto di collazione ma gli interessi legali sulla somma oggetto del detto debito pecuniario, con decorrenza dall'apertura della successione. La natura di debiti di valuta è stata ribadita, ancora, con riguardo all'obbligazione di pagamento dei canoni di locazione e con riguardo all'equo compenso per la cd. sorpresa geologica, dovuto 124 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE all'appaltatore, ai sensi dell'art. 1664, comma 2, c.c., per i maggiori oneri derivanti da difficoltà di esecuzione conseguenti a cause geologiche. Da tale natura, con riguardo alla prima tipologia di obbligazioni, Sez. 3, n. 19222/2015, Petti, Rv. 636885, ha tratto argomento per affermare che la rivalutazione è dovuta solo per la parte eccedente il danno da ritardo coperto dagli interessi; con riguardo alla seconda tipologia, Sez. 1, n. 17782 /2015, Campanile, Rv. 636687, ha inferito che l'equo compenso previsto dall'art. 1664, comma 2, c.c., non perde la natura di debito di valuta anche se liquidato, secondo equità, prendendo a base i maggiori esborsi dell'appaltatore e adeguandoli agli indici della sopravvenuta svalutazione monetaria. La decisione in esame ha peraltro precisato che, in assenza di un'espressa statuizione al riguardo, l'adeguamento al parametro inflattivo non può ritenersi comprensivo degli interessi, che sono quindi dovuti, con decorrenza dall'intimazione di pagamento ovvero dalla proposizione della domanda da parte dell'appaltatore e non già dalla formulazione di un'eventuale riserva, non implicando quest'ultima la costituzione in mora della stazione appaltante. Un secondo ordine di pronunce è tornato sulle conseguenze dell'inadempimento delle comuni obbligazioni pecuniarie di valuta, consistenti nella corresponsione degli interessi moratori (quale liquidazione forfetaria minima del danno per il ritardo nel pagamento: art.1224, comma 1, c.c.), e, eventualmente, del maggior danno (suscettibile di risarcimento, in aggiunta a quello minimo liquidato con gli interessi moratori, ove provato: art. 1224, comma 2, c.c.), stigmatizzandone – nel solco del tradizionale orientamento inaugurato da Sez. U, n. 01712/1995, Sgroi, Rv. 490480 – la differenza rispetto ai debiti di valore, in relazione ai quali è invece dovuta la rivalutazione monetaria. In questa prospettiva la Suprema Corte, con Sez. U, n. 05743/2015, Petitti, Rv. 634625, ha riaffermato il principio secondo il quale il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del "maggior danno" ai sensi dell'art. 1224, comma 2, c.c., e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta. Con particolare riferimento al maggior danno, nel 2015 si è ripetutamente statuito – in conformità con l'orientamento espresso da Sez. U, n. 19499/2008, Amatucci, Rv. 604419 – che esso è 125 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE determinato in via presuntiva nell'eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva del (o dall'attività svolta dal) creditore. Tale orientamento – dal quale la Suprema Corte si era momentaneamente scostata nel 2014 con Sez. 2, n. 20131/2014, Manna, Rv. 632479 – è stato ribadito sia da Sez. 6-3, n. 03954/2015, Ambrosio, Rv. 634449, sia da Sez. 2, n. 03029/2015, Mazzacane, Rv. 634554, la quale ultima ha ritenuto che il maggior danno non può essere riconosciuto sulla base della semplice qualità di imprenditore commerciale del creditore e sulla mera presunzione dell'impiego antinflazionistico delle somme di denaro dovute, poiché esso può ritenersi esistente in via presuntiva soltanto nei casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, indipendentemente dalla qualità soggettiva o dall'attività svolta dal creditore, Resta, per contro, fermo che, qualora il creditore domandi per il titolo indicato una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio, sarà onerato di provare, anche in via presuntiva, l'an e il quantum di tale pregiudizio e, in particolare, ove si tratti di un imprenditore, sarà onerato di dimostrare di avere fatto ricorso al credito bancario, sostenendone i relativi interessi passivi, ovvero quale fosse la produttività della propria impresa per le somme in essa investite, attraverso la produzione dei relativi bilanci, restando a carico del debitore la prova contraria. Un terzo ordine di pronunce è infine tornato sul tema degli interessi corrispettivi e compensativi. In particolare, Sez. 1, n. 20868/2015, Mercolino, Rv. 637415, ha statuito che la domanda di corresponsione degli interessi, non accompagnata da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta al conseguimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, sono dovuti, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l'ipotesi della mora del creditore. Al riguardo, la decisione in rassegna ha precisato che la funzione primaria degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie è appunto quella corrispettiva, collegata alla loro natura di frutti civili della somma dovuta, nonché, nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa, consistente nel compensare la 126 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE parte del mancato godimento dei frutti della cosa, eventualmente consegnata all'altra parte prima di ricevere la controprestazione. La funzione risarcitoria, propria degli interessi di mora, ha invece – secondo la pronuncia in esame – carattere secondario, presupponendo l'accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora ex lege del debitore, e quindi la proposizione di un'espressa domanda, distinta da quella del pagamento del capitale. Per contro, Sez. 6-1, n. 22179/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha affermato, in tema di contratto di conto corrente bancario, la nullità della clausola che, in ordine agli interessi passivi, faccia inizialmente riferimento ad un tasso certo, aritmeticamente determinato, prevedendone, tuttavia, la successiva variabilità in base agli usi su piazza, in quanto preclusiva della possibilità di individuare, con precisione e chiarezza, i parametri cui fare riferimento per determinare, in concreto, il saggio praticato nel corso del rapporto contrattuale. 3. L'adempimento. La Suprema Corte è tornata più volte sui temi della legittimazione ad adempiere e a ricevere (artt. 1180 e 1188 c.c.), della quietanza (art.1199 c.c.) e della mora credendi (artt. 1206 e ss. c.c.). Diverse pronunce, inoltre, si sono soffermate sul tempo (artt. 1183 e ss. c.c.) e sul luogo (art. 1182 c.c.) dell'adempimento. 3.1. Legittimazione ad adempiere. In ordine alla legittimazione ad adempiere (quale competenza ad eseguire la prestazione, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del debito, spettando, oltre al debitore, ai suoi ausiliari, agli autorizzati e, di massima, a tutti i terzi, se il creditore non abbia un apprezzabile interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione: art. 1180 c.c.) si segnala Sez. L, n. 17516/2015, Venuti, Rv. 636943, la quale, in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro (e con riguardo all'ipotesi di pagamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro apparente, sul quale non è configurabile un'obbligazione contributiva concorrente con quella del datore reale), ha ribadito il principio secondo cui tale pagamento può avere efficacia satisfattiva al pari di quello eseguito da qualsiasi terzo, non assumendo rilevanza la consapevolezza dell'altruità del debito, in quanto, nell'ipotesi di indebito soggettivo, anche il pagamento effettuato per errore è qualificabile, in forza del coordinamento tra gli artt. 1180 e 2036 c.c., come pagamento di debito altrui con efficacia estintiva dell'obbligazione, ove ricorrano le condizioni di irripetibilità di cui all'art. 2036, comma 3, c.c.. 127 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 3.2. Legittimazione a ricevere. In ordine alla legittimazione a ricevere (quale competenza ad accettare la prestazione con effetto liberatorio per il debitore, che può sussistere indipendentemente dalla titolarità del credito, spettando, oltre al creditore, al suo rappresentante, ai soggetti da lui indicati e a quelli che sono a ciò autorizzati dalla legge o dal giudice: art. 1188 c.c.), si segnalano Sez. 3, n. 14671/2015, Vincenti, Rv. 636179, e Sez. 2, n. 20345/2015, Manna, Rv. 636599. La prima sentenza, con riguardo all'ipotesi di mandato all'incasso senza rappresentanza, ha statuito che il mandatario non è legittimato ad agire in giudizio per conseguire l'adempimento del terzo debitore, non essendo titolare in proprio di alcun diritto di credito e non essendo munito neppure del necessario potere rappresentativo per far valere il credito altrui. La seconda sentenza, in tema di forma della procura, ha ritenuto che la regola secondo la quale essa non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere (art. 1392 c.c.), trova applicazione con riguardo agli atti unilaterali negoziali, ai sensi dell'art. 1324 c.c., ma non anche con riguardo agli atti giuridici in senso stretto, come la ricezione della prestazione, traendone il corollario per cui la rappresentanza a ricevere l'adempimento, ex art. 1188 c.c., può risultare da una condotta concludente, dimostrabile con ogni mezzo, incluse le presunzioni. 3.3. Quietanza. Avuto riguardo alla natura della quietanza, quale dichiarazione di scienza (con cui il creditore attesta il fatto consistente nella ricezione del pagamento in essa indicato), e alla funzione di essa, quale prova documentale precostituita con valore di confessione stragiudiziale (con cui il debitore può dare la piena dimostrazione del pagamento medesimo), è stato tralatiziamente affermato, come è noto (cfr., ad es., Sez. 3, n. 13189/2013, D'Amico, Rv. 626737), che la dichiarazione del creditore di ricevere la prestazione ad integrale soddisfacimento di quanto dovutogli (c.d. quietanza a saldo), per quanto usuale nella prassi negoziale, di regola non può assumere né valore probatorio (in quanto non ha ad oggetto l'accadimento di un fatto) né efficacia dispositiva del diritto di credito (in quanto un tale significato negoziale, proprio della rinuncia o della transazione, non può desumersi con certezza da un atto avente natura di dichiarazione di scienza e non di volontà). La volontà di rinuncia ad eventuali altre pretese creditorie o all'eventuale differenza della prestazione può peraltro emergere dal 128 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE complessivo contenuto del documento o da specifici elementi di fatto, nel qual caso l'atto non assume un contenuto meramente dichiarativo ma si qualifica (anche) come negozio unilaterale di remissione (art. 1236 c.c.) o come contratto di transazione (art. 1965 c.c.). Tali principi sono stati ripetutamente ribaditi nel 2015, in quanto Sez. L, n. 09120/2015, Blasutto, Rv. 635291, (nel confermare la sentenza di merito che aveva interpretato la quietanza liberatoria come negozio di rinunzia avuto riguardo non solo ad alcuni riferimenti testuali contenuti nella stessa ma anche al pregresso svolgimento di intese negoziali, rivelatrici della comune intenzione delle parti di definire ogni pretesa o rivendicazione comunque riferibile al precorso rapporto di lavoro subordinato, con contestuale costituzione, in funzione al tempo stesso transattiva e novativa, di un diverso rapporto di collaborazione autonoma) e Sez. L, n. 18094/2015, Amendola, Rv. 637023, (nel confermare la sentenza di merito che, qualificando come quietanza a saldo la dichiarazione del dipendente, resa prima dell'erogazione delle competenze di fine rapporto, di non avere altre pretese fondate sulle prestazioni di lavoro, aveva escluso che, a fronte dell'indicazione dell'importo complessivo da corrispondere una tantum, fosse stato oggetto di consapevole rinuncia il computo ai fini del TFR dell'assegno percepito durante il distacco all'estero), hanno affermato che la quietanza a saldo deve essere intesa, di norma, come mera espressione del convincimento soggettivo del creditore di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto quale dichiarazione di scienza priva di efficacia negoziale, salvo che nella stessa non siano ravvisabili gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto, ove, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia rilasciata con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti. 3.4. Offerta di adempimento e mora credendi. Anche nel 2015 la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi sia sull'offerta non formale (che esclude la responsabilità del debitore per il ritardo, se il creditore l'abbia illegittimamente rifiutata: art. 1220 c.c.) sia sull'offerta formale (che ha l'effetto di costituire in mora il creditore, accollandogli il rischio dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile al debitore, nonché l'obbligo di risarcire a quest'ultimo il danno derivante dal ritardo: artt. 1206 e ss. c.c.). 129 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE In ordine alla prima, Sez. 3, n. 21924/2015, Scrima, in corso di massimazione, ha ribadito il principio, secondo cui, per conseguire la finalità di escludere la mora del debitore, ex art. 1220 c.c., l'offerta non formale della prestazione deve essere reale ed effettiva, ciò che si verifica allorché essa rivesta i caratteri della serietà, tempestività e completezza e consista nell'effettiva introduzione dell'oggetto della prestazione dovuta nella sfera di disponibilità del creditore, nei luoghi indicati dall' art. 1182 c.c. per l'adempimento dell'obbligazione, sicché quest'ultimo possa aderirvi limitandosi a ricevere la prestazione stessa, senza ulteriori accordi. In ordine alla seconda, Sez. 3, n. 08711/2015, Barreca, Rv. 635204, ha affermato che il creditore è legittimato ad agire in executivis anche se costituito in mora credendi, in quanto il relativo atto di costituzione, e la conseguente offerta di restituzione, valgono unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall'art. 1207 c.c., ma non anche a determinare la liberazione del debitore, che resta subordinata, dalla legge, all'esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato. 3.5. Tempo e luogo dell'adempimento. Con riguardo al tempo in cui la prestazione deve essere eseguita (artt. 1183 e ss. c.c.) Sez. 3, n. 11110/2015, Stalla, Rv. 635426, è tornata ad affermare – in conformità ad un risalente precedente delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12210/1990, Taddeucci, Rv. 470319) – che, in tema di locazione, la tolleranza del locatore nel ricevere il pagamento del canone a mezzo bonifico bancario, anziché presso il proprio domicilio in moneta avente corso legale, non implica, di per sé, salvo prova contraria gravante sul conduttore, anche l'accondiscendenza ad ottenere la materiale disponibilità di quanto dovutogli oltre il termine all'uopo pattuito, di tal che, in difetto di quella prova, i rischi di ritardi o disguidi derivanti dal ricorso al sistema bancario sono a carico del conduttore. Con riguardo al luogo nel quale la prestazione deve essere eseguita (art.1182 c.c.), Sez. 6-3, n. 10858/2015, Cirillo, Rv. 635495, ha ribadito che, in tema di vendita, la clausola con la quale si prevede che il prezzo sia pagato per mezzo delle ccdd. ricevute bancarie non determina lo spostamento del luogo di adempimento dal domicilio del creditore (art. 1182, comma 3, c.c.) a quello del debitore (art. 1182, comma 4, c.c.) – né, conseguentemente, incide sul forum destinatae solutionis, ai fini della della competenza per territorio di cui all'art. 20 c.p.c. –, in quanto le ricevute bancarie non 130 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE hanno efficacia di obbligazione cartolare ma sono destinate soltanto a facilitare la riscossione delle rate del credito per mezzo dei servizi bancari, salvo che tale modalità di pagamento sia stata convenuta con carattere esclusivo ed il creditore abbia rinunziato espressamente al suo diritto di ricevere il pagamento nel proprio domicilio, ai sensi dello stesso art. 1182 e dell'art. 1498, comma 3, c.c.. Sez. 6-3, n. 00270/2015, Cirillo, Rv. 634013, sulla premessa che, sotto il profilo sostanziale, nelle obbligazioni aventi per oggetto il pagamento di somme di denaro delle pubbliche amministrazioni, il luogo dell'adempimento è fissato dalle norme di contabilità pubblica (eventualmente in deroga all'art. 1182 c.c.) in quello della sede di tesoreria dell'ente, ha ribadito che, tuttavia, sotto il profilo processuale (e ai fini della competenza per territorio), il forum destinatae solutionis individuato da dette norme non è né esclusivo né inderogabile, ma solo alternativo, ai sensi dell'art.20 c.p.c., a quelli previsti dagli artt.18 e 19 c.p.c.. Va infine rilevato che, in considerazione del contrasto interpretativo formatosi sui rapporti tra la disposizione di cui al comma 3 e quella di cui al comma 4 dell'art.1182 c.c. – e sui limiti del reciproco ambito di applicazione (da talune pronunce esssendosi ritenuto che l'obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore soltanto ove sia stato convenzionalmente predeterminato il quantum della somma da pagare: cfr., ad es., Sez. 6- 3, n. 21000/2011, Vivaldi, Rv. 619404; da altre pronunce essendosi invece affermato il diverso principio secondo cui il luogo dell'adempimento deve identificarsi nel domicilio del creditore in tutti i casi in cui questi abbia chiesto in giudizio il pagamento di una somma specifica da lui puntualmente indicata, sebbene l'entità dell'importo non sia stato predeterminato nel contratto: cfr., ad es., Sez. 6-3, n. 10837/2011, Lanzillo, Rv. 617804), Sez. 6-2, n. 23527/2015, D'Ascola (ordinanza interlocutoria), ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite di un ricorso involgente la questione surrichiamata. 4. Modi di estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. Numerose sono state, nel 2015, le pronunce che hanno fatto applicazione delle regole contenute negli artt. 1230 e ss. c.c. (in particolare, in tema di novazione, remissione e compensazione), nonché nell'art. 1198 c.c. (cessione di credito in luogo di adempimento). 131 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 4.1. Cessione in pagamento. Con riguardo al trasferimento di cambiali in sostituzione della prestazione originaria dedotta in obbligazione, Sez. 2, n. 07820/2015, Proto, Rv. 635232 – premessa la qualificazione della fattispecie come cessione in pagamento (art. 1198 c.c.), anziché come dazione in pagamento (art.1197 c.c.), con conseguente collegamento dell'effetto estintivo dell'obbligazione non al momento dell'esecuzione della prestazione sostitutiva (datio in solutum) ma al momento della riscossione del credito verso il debitore ceduto (cessio pro solvendo), salva diversa volontà delle parti – ha affermato il principio per cui la volontà di conferire ai titoli efficacia pro soluto, con conseguente immediata estinzione dell'obbligazione di pagamento, deve essere espressa in modo univoco ed inequivocabile. 4.2. Novazione. La ribadita necessità, in funzione dell'efficacia estintiva della novazione oggettiva, della compresenza dei due requisiti dell'intento novativo (animus novandi) e della diversità, per oggetto o per titolo, della obbligazione sostitutiva (aliquid novi) costituisce la premessa comune di due diverse decisioni, l'una volta ad attribuire i medesimi effetti novativi alla sostituzione consensuale del bene venduto perché affetto da vizi (Sez. 2, n. 08109/2015, Oricchio, Rv. 635032), l'altra volta ad affermare la revocabilità, ai sensi dell'art. 2901, comma 1, n. 1), c.c., quale atto a titolo gratuito, dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale, se sussiste la conoscenza (c.d. scientia damni) del pregiudizio arrecato ai creditori, il cui credito anteriore non può considerarsi estinto per novazione oggettiva a seguito della mera modificazione quantitativa della precedente obbligazione e per il differimento della sua scadenza (Sez. 6-3, n. 02530/2015, Cirillo, Rv. 634264). 4.3. Remissione. Efficacia estintiva dell'obbligazione viene attribuita alla condotta con cui il creditore restituisca al debitore il titolo originale del credito, in conformità alla valutazione legale tipica di tale comportamento, espressa dall'art. 1237 c.c. Questa condotta, precisamente, può integrare per facta concludentia un negozio unilaterale di remissione con cui il creditore rinuncia gratuitamente al proprio credito (con conseguente verificarsi dell'effetto estintivo non satisfattivo previsto dall'art. 1236 c.c.) oppure può seguire all'adempimento del debitore, e dunque all'avvenuto soddisfacimento dell'interesse creditorio, attraverso l'esecuzione della prestazione dovuta. 132 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE L'efficacia estintiva della restituzione volontaria del titolo originale del credito, fatta dal creditore al debitore, è stata ribadita da Sez. 3, n. 01455/2015, Carluccio, Rv. 634067, la quale ha tuttavia affermato un principio parzialmente innovativo in tema di ripartizione dell'onere della prova tra le parti del rapporto obbligatorio. Invero, mentre tradizionalmente si era ritenuto che fosse il creditore onerato di fornire la prova contraria atta a vincere la presunzione di avvenuto pagamento collegata al possesso del titolo da parte del debitore (Sez. U, n. 07503/1986, Fiduccia, Rv. 449544; Sez. 1, n. 13462/2010, Bernabai, Rv. 613444), la decisione in rassegna ha invece statuito che sia il debitore, che vuole giovarsi dell'effetto liberatorio, a dover provare la volontarietà della restituzione da parte del creditore o da persona ad esso riferibile. 4.4. Compensazione. Numerose e rilevanti sono state, nel 2015, le pronunce in tema di compensazione. In primo luogo è stata ribadita – con Sez. 3, n. 16800/2015, Armano, Rv. 636862, e con Sez. 3, n. 16994/2015, D'Amico, Rv. 636258 – la distinzione tra compensazione tecnica, che presuppone la reciproca autonomia dei due debiti che si estinguono per le quantità corrispondenti (art. 1241 c.c.) e che deve formare oggetto di eccezione di parte (art. 1242 c.c.), e compensazione atecnica, fondata su partite di dare e avere che trovano la loro fonte in un unico rapporto delle quali il giudice può tenere conto officiosamente. In secondo luogo, la Suprema Corte è tornata sui presupposti di operatività della compensazione, consistenti nella reciprocità, omogeneità, certezza, liquidità (o facilità di liquidazione, nella compensazione giudiziale) ed esigibilità dei debiti (art. 1243 c.c.). In particolare, Sez. 1, n. 17338/2015, Didone, Rv. 636525, ha escluso che ricorra il requisito della reciprocità (e che conseguentemente possa operare la compensazione) tra il debito del soggetto che, a seguito di revocatoria fallimentare, sia tenuto alla restituzione di una somma ricevuta in pagamento dal fallito e i cerditi da lui vantati verso il fallito, ancorché ammessi al passivo, atteso che il primo è un debito verso la massa dei creditori e non verso il fallito. Il requisito della liquidità è stato invece escluso – da Sez. L, n. 01695/2015, Tria, Rv. 634306 – con riguardo ai crediti contestati in separato giudizio, dei quali si è quindi affermata l'insuscettibilità di compensazione sia legale che giudiziale (salvo, con riguardo a quest'ultima, che, nel corso del giudizio di cui si tratta, la parte interessata alleghi ritualmente che il credito contestato è stato 133 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE definitivamente accertato nell'altro giudizio con efficacia di giudicato) e persino di compensazione atecnica, sul rilievo che essa non può essere utilizzata per dare ingresso ad una sorta di "compensazione di fatto", sganciata da ogni limite previsto dalla disciplina codicistica. Sulla premessa che anche il requisito della certezza vada inteso non solo in senso sostanziale (così da doversi escludere, ad es., con riguardo alle obbligazioni derivanti da contratti soggetti a condizione sospensiva) ma pure in senso processuale (così da doversi ritenere necessaria la non contestazione in giudizio del debito da opporre in compensazione), si è posta la questione se sussista il predetto requisito allorché il credito sia fondato su sentenza non passata in giudicato. Poiché su tale questione si è determinato un contrasto – in quanto al tradizionale orientamento secondo cui la compensazione, quale mezzo di estinzione ope legis delle reciproche obbligazioni, presuppone il definitivo accertamento delle medesime, non essendo applicabile a situazioni provvisorie (in tal senso già Sez. 3, n. 04074/1974, Bacconi, Rv. 372688; successivamente, tra le tante, Sez. 3, n. 08338/2011, De Stefano, Rv. 617667 e Sez. 3, n. 09668/2013, Campanile, Rv. 626309), si è di recente contrapposto il diverso indirizzo secondo cui può essere opposto in compensazione anche il credito ancora sub iudice in un altro giudizio, salve le diverse modalità di coordinamento dei due procedimenti secondo che il diverso giudizio penda dinanzi allo stesso giudice e nel medesimo grado oppure penda presso un altro ufficio giudiziario o in grado di impugnazione (Sez. 3, n. 23573/2013, Frasca, Rv. 628728) – Sez. 3, n. 18001/2015, Vivaldi (ordinanza interlocutoria) ha rimesso gli atti al primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle sezioni Unite, di un ricorso involgente la questione medesima. In terzo luogo, sotto il profilo processuale, la Suprema Corte, con Sez. L, n. 04605/2015, Venuti, Rv. 634597, nel pronunciarsi sulla rilevanza dell'eccezione di compensazione ai fini dell'interruzione della prescrizione, ha ribadito che essa può assumere rilievo, sotto il profilo della ricognizione di debito, solo in quanto sia effettuata con l'intenzione di riconoscere la sopravvivenza dell'obbligazione, di tal che, se da un lato deve escludersi l'efficacia interruttiva dell'eccezione di compensazione totale, per quella parziale spetta al giudice di merito verificare se, per le modalità e i termini con i quali è proposta, possa implicare la volontà di riconoscere la persistenza del debito. 134 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 5. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato attivo. Nel 2015 diverse pronunce hanno affrontato le problematiche connesse con le vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo, particolarmente in tema di cessione del credito e factoring. 5.1. Cessione del credito. La valenza generale della regola della libera cedibilità dei crediti (art. 1260 c.c.), salve le specifiche deroghe stabilite dai divieti di cessione legali (artt. 447 e 1261 c.c.) o negoziali (art. 1260, comma 2, c.c.), è stata riaffermata attraverso un'interpretazione rigorosa di quest'ultima disposizione. Sez. 3, n. 00825/2015, Stalla, Rv. 633970, traendo argomento non solo dal principio dell'affidamento nella normale trasferibilità del credito (la cui cessione non determina di regola pregiudizio per il debitore ceduto e non esige il suo consenso), ma anche dal principio della normale inefficacia del contratto nei confronti dei terzi (art. 1372, comma 2, c.c.), ha infatti statuito che il patto che esclude la cedibilità del credito non può essere opposto dal debitore ceduto al terzo cessionario se non sia dimostrato che il cessionario abbia avuto conoscenza effettiva di tale patto al tempo della cessione. In materia di cessione dei crediti vantati dal socio verso la società, Sez. 1, n. 16049/2015, Nazzicone, Rv. 636152, e Sez. l, n. 16049/2015, Nazzicone, Rv. 636151, hanno affrontato il problema degli obblighi di garanzia del cedente, ai sensi dell'art. 1266 c.c.. Nella prima massima è stato affermato il principio secondo cui la garanzia dell'esistenza del credito (veritas nominis) in favore del cessionario opera in ipotesi di cessione del diritto di credito agli utili, posta in essere dal socio dopo che l'assemblea, a seguito dell'approvazione del bilancio, abbia deliberato di non distribuirli imputandoli a riserva. Nella seconda massima è stato affermato il principio secondo cui la medesima garanzia opera anche in ipotesi di cessione, separatamente dalla vendita della partecipazione sociale, del diritto di credito alla restituzione di un'erogazione effettuata dal socio in favore della società, soltanto qualora risulti che la causa concreta del negozio societario posto in essere sia riconducibile ad un versamento assimilabile a capitale di rischio, in quanto, in tal caso, il trasferimento della partecipazione sociale include, quale bene "di secondo grado", quello di ogni posta esistente nel patrimonio sociale, incluso il denaro ricevuto dalla società; la garanzia non opera, invece, nelle ipotesi di finanziamento del socio o di versamento finalizzato ad un futuro aumento del capitale 135 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE nominale, dai quali deriva il diritto di credito del socio alla restituzione, l'uno ai sensi dell'art. 1813 c.c. in tema di mutuo e l'altro qualora venga successivamente meno la causa giustificativa dell'attribuzione patrimoniale eseguita in favore della società, onde il trasferimento della partecipazione sociale di regola non include anche tale credito, che può formare oggetto autonomo di diritti. Con riguardo alle cessioni di crediti aventi ad oggetto somme dovute dalla pubblica amministrazione – le quali, ove riguardino l'amministrazione statale sono soggette alla forma vincolata prevista dall'art. 69, comma 3, del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e devono essere notificate all'amministrazione medesima – Sez. 3, n. 02760/2015, Stalla, Rv. 634391, e Sez. 1, n. 20739/2015, Genovese, Rv. 637439, hanno statuito che la norma citata, avente carattere eccezionale rispetto al regime generale della cessione dei crediti, non trova operatività in materia di cessione dei crediti da corrispettivo da appalto vantati nei confronti degli enti locali, effettuata prima dell'entrata in vigore del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, non essendo suscettibile di applicazione analogica o estensiva con riguardo ad amministrazioni diverse da quella statale. 5.2. Factoring. In tema di factoring, la Suprema Corte, con Sez. 1, n. 19716/2015, Mercolino, Rv. 637272, ha ribadito l'orientamento secondo cui, anche dopo l'entrata in vigore della legge 21 febbraio 1991, n. 52, questo contratto si configura come una convenzione atipica, caratterizzata dalla cessione, da parte di un imprenditore (cedente o fornitore) ad un altro imprenditore (factor), dei crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa, la cui causa dipende dalla concreta finalità perseguita dalle parti (alternativamente: causa vendendi, causa mandati, cessione in funzione di garanzia, cessione in funzione solutoria, ecc.) e nella quale l'efficacia traslativa varia nel tempo a seconda del modo di atteggiarsi dell'accordo, in quanto riconducibile al momento dello scambio dei consensi (art. 1376 c.c.) nel caso in cui la cessione sia globale ed abbia ad oggetto crediti esistenti, ovvero al momento in cui gli stessi vengano ad esistenza se si tratta di crediti futuri (art. 1472 c.c.), o ancora al momento del perfezionamento della cessione, qualora la convenzione preveda la necessità di trasmettere i singoli crediti con distinti negozi. Su tali premesse, la pronuncia in esame ha dunque statuito che nell'ipotesi in cui il contratto postuli una cessione dei crediti a titolo oneroso in favore del factor, quest'ultimo acquisisce la titolarità dei crediti medesimi e, quindi, la legittimazione alla loro riscossione in 136 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE nome e per conto proprio, e non in qualità di semplice mandatario del cedente, di tal che il pagamento eseguito dal debitore ceduto si configura come l'adempimento, non di un debito del cedente verso il factor, ma di un debito proprio del debitore ceduto verso quest'ultimo, con l'ulteriore conseguenza che, seppur eseguito dopo il fallimento del cedente, non comportando alcuna sottrazione di risorse alla massa, non è sanzionato con l'inefficacia prevista dall'art. 44 della legge fallimentare. Con riferimento alla specifica ipotesi di vendita di un bene mobile e cessione del credito al factor da parte del venditore, Sez. 3, n. 02869/2015, Cirillo, Rv. 634396, ha statuito che la legittimazione passiva in ordine alla domanda di riduzione del prezzo, conseguente all'esistenza di vizi della cosa venduta, spetta alla società venditrice e non al factor, atteso che quest'ultimo non è cessionario del contratto di compravendita ma soltanto del credito relativo al corrispettivo, e che il compratore (debitore ceduto) potrebbe solo opporre al factor, ove fosse da questi convenuto in giudizio per il pagamento del debito, le eccezioni opponibili al cedente, ma non già agire direttamente contro il factor con azioni volte alla risoluzione o alla modifica di un contratto al quale costui è rimasto estraneo. 6. Modificazioni soggettive dell'obbligazione dal lato passivo. Riguardo alle vicende che comportano la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato passivo si segnalano decisioni in tema di delegazione (art. 1268 c.c.) e di accollo (art. 1273 c.c.). 6.1. Delegazione. In termini di delegazione di pagamento è stato ricostruito (da Sez. 3, n. 10545/2015, Stalla, Rv. 635520) il rapporto tra correntista e banca da lui incaricata di eseguire il bonifico in favore del terzo beneficiario, con la particolarità, rispetto alla disciplina generale contemplata dall'art. 1269 c.c., che alla banca delegata è preclusa, pur in mancanza dell'espresso divieto del correntista delegante, la possibilità di assumere un'autonoma obbligazione verso il creditore delegatario, al fine di compensare i crediti dalla stessa eventualmente vantati, ove tale assunzione si ponga in contrasto con il rapporto di mandato generale conferito dal correntista all'ente creditizio, di cui l'esecuzione del bonifico su ordine del correntista, avente natura di negozio giuridico unilaterale con efficacia vincolante ai sensi dell'art. 1856 c.c., costituisce una specificazione. 137 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE 6.2. Accollo. Premesso che la disciplina codicistica dell'accollo esterno (quale figura specifica di contratto a favore di terzo che determina una modificazione soggettiva dell'originaria obbligazione) contempla la possibilità che all'assunzione, da parte dell'accollante, dell'obbligazione verso il creditore si accompagni la liberazione del debitore originario ove il creditore aderisca alla convenzione (art. 1273, comma 2, c.c.), la Suprema Corte ha affrontato la questione se l'effetto liberatorio per il debitore originario consegua ex lege alla speciale disciplina contemplata dall'art. 2 della legge regionale siciliana 10 ottobre 1994, n. 37, il quale ha previsto l'accollo a carico della Regione delle garanzie fidieiussorie concesse a favore delle cooperative agricole insolventi da parte dei loro soci. Al riguardo, Sez. 1, n. 21713/2015, Valitutti, in corso di massimazione, ha chiarito che tale disposizione, a differenza dell'analoga norma statale di cui all'art. 1, comma 1-bis, del decreto- legge 20 maggio 1993, n. 149 (convertito in legge 19 luglio 1993, n. 167), non determina, in deroga alla richiamata regola contenuta nell'art. 1273, comma 2, c.c., la liberazione dei soci delle predette società dal debito da loro assunto con la concessione delle garanzie, in mancanza di una dichiarazione dei creditori di adesione all'accollo, in quanto la competenza legislativa nella materia dell'ordinamento civile è riservata alla potestà esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l, Cost.) e il legislatore regionale non può derogare alle norme del codice civile, sia che si tratti di norme imperative sia che si tratti di norme dispositive derogabili. 7. Le obbligazioni plurisoggettive. La Suprema Corte è tornata con diverse decisioni sul tema delle obbligazioni solidali (artt. 1292 e ss. c.c.) e si è pronunciata anche sulle obbligazioni parziarie (art. 1314 c.c.). 7.1. Obbligazioni solidali. Dalla nozione di solidarietà passiva – quale istituto che consente al creditore, nell'interesse del quale è previsto, di ottenere l'adempimento dell'intera obbligazione da uno qualsiasi dei condebitori, senza avere alcuna influenza nei rapporti interni tra condebitori solidali, fra i quali l'obbligazione si divide secondo quanto risulta dal titolo o, in mancanza, in parti uguali – ha tratto argomento Sez. 3, n. 21774/2015, Travaglino, in corso di massimazione, per affermare che, nell'ipotesi in cui il creditore abbia convenuto in giudizio più debitori sostenendo la loro responsabilità solidale e invece il giudice abbia accertato la 138 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE responsabilità esclusiva di uno di essi, con esclusione del rapporto di solidarietà, il debitore condannato, ove non abbia proposto alcuna domanda di rivalsa nei confronti del preteso condebitore solidale, non ha un interesse ad impugnare tale sentenza, perché essa non aggrava la sua posizione di debitore dell'intero, né pregiudica in alcun modo il suo eventuale diritto di rivalsa, non essendo stato dedotto in giudizio il rapporto interno che lo lega all'altro debitore. Il problema della sussistenza o meno del vincolo di solidarietà passiva di cui all'art. 1294 c.c. si è posto con riguardo a particolari figure di obbligazioni soggettivamente complesse ex latere debitoris. Tale problema è stato risolto positivamente (da Sez. 2, n. 04162/2015, Proto, Rv. 634416) con riguardo all'obbligazione, gravante sui comproprietari, che si siano occupati della gestione del bene comune, di rendere il conto ai comunisti non gestori e di restituire la quota dei frutti loro spettante, in ragione del carattere unitario della causa obligandi e della res debita. Il medesimo problema è stato invece risolto negativamente (da Sez. L, n. 10116/2015, Macioce, Rv. 635634) con riguardo alle obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi nell'interesse della famiglia, in relazione alle quali si è negato che l'altro coniuge acquisisca di regola la qualità di condebitore solidale, pur in presenza di un regime di comunione legale, fatto salvo il principio di affidamento del creditore che abbia ragionevolmente confidato nell'apparente realtà giuridica, desumibile dallo stato di fatto, che il coniuge contraente agisse anche in nome e per conto dell'altro. In applicazione di questi principi, la pronuncia in esame ha ritenuto che il credito vantato dalla collaboratrice domestica per le obbligazioni assunte dalla moglie, da cui promanavano le quotidiane direttive del servizio, rende coobbligato anche il marito, datore della provvista in danaro ordinariamente utilizzata per la corresponsione della retribuzione sì da ingenerare l'affidamento di essere l'effettivo datore di lavoro. Con riguardo alle cause di estinzione delle obbligazioni diverse dall'adempimento relative ad uno solo dei condebitori solidali (art. 1300 e ss. c.c.) Sez. 3, n. 19541/2015, Cirillo, Rv. 636884, e Sez. 1, n. 20107/2015, Cristiano, Rv. 637280, hanno statuito che la regola di cui all'art. 1304, comma 1, c.c., la quale consente, in deroga al principio generale dell'inefficacia del contratto rispetto ai terzi, che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all'atto di transazione che abbia 139 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE ad oggetto l'intero debito e non riguarda la transazione parziale la quale, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, opera unicamente tra il creditore e il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne. Sez. 3, n. 01453/2015, Carluccio, Rv. 634093, ha affermato che l'accettazione del pagamento parziale da uno dei debitori, con rilascio di quietanza e senza riserva di azione nei suoi confronti per il residuo, integra gli estremi della rinuncia alla solidarietà a favore dell'adempiente (art. 1311, comma 2, n. 1, c.c.), con conservazione dell'azione in solido nei confronti degli altri condebitori, non rinvenendosi nella specie i diversi estremi della remissione del debito liberatoria per gli altri coobbligati (art. 1301, comma 1, c.c.), giacché l'effetto della rinuncia è solo quello di ridurre l'importo del debito residuo verso il debitore parzialmente adempiente e non di abdicare al diritto di esigere dagli altri debitori il pagamento di quanto ancora dovuto. Per altro verso, Sez. 3, n. 11179 /2015, Vincenti, Rv. 635566, ha statuito che, in tema di risarcimento dei danni da circolazione stradale, la proposizione dell'azione risarcitoria da parte del danneggiato nei confronti di uno solo dei conducenti dei veicoli coinvolti in uno scontro, non implica di per sé una remissione tacita del debito nei confronti del corresponsabile del danno, né una rinuncia alla solidarietà, presupponendo la prima un comportamento inequivoco che riveli la volontà del creditore di non avvalersi del credito, e la seconda che il creditore agisca nei confronti di uno dei condebitori solidali solo per la parte del debito gravante su quest'ultimo. Sotto il profilo processuale (e con specifico riguardo all'estensione agli altri debitori, secundum eventum litis, degli effetti della sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei condebitori in solido), Sez. 3, n. 12919/2015, Rubino, Rv. 635908 – nel ribadire il consolidato orientamento secondo cui l'effetto espansivo della sentenza favorevole ad un debitore (art.1306, comma 2, c.c.) opera in favore degli altri debitori solo se essi siano rimasti estranei al giudizio in cui è stata resa –, ha infine statuito che, nell'ipotesi in cui contro la sentenza di primo grado (che abbia accolto la domanda risarcitoria dell'attore contro il convenuto e quella di garanzia del convenuto contro il terzo garante) quest'ultimo abbia proposto gravame impugnando il capo che abbia accertato la responsabilità del garantito, ottenendo una sentenza a sé favorevole, così da escludere l'obbligo di versare alcunché a titolo di garanzia, il 140 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE convenuto, obbligato principale, che pur abbia impugnato la sentenza ma non quel capo, neppure in via incidentale, non può giovarsi della pronuncia favorevole al garante, essendosi sul punto formato nei suoi confronti il giudicato. 7.2 Obbligazioni parziarie. Con riguardo ai debiti ereditari, al carattere parziario dell'obbligazione dei coeredi, tenuti al pagamento in proporzione delle loro quote (artt. 752, 754 e 1295 c.c.), fa da contraltare l'unicità genetica del rapporto obbligatorio, atteso che il debito di ciascun coerede ha comunque la sua fonte nell'unica obbligazione del de cuius. In ragione di tali caratteri, Sez. 2, n. 10808/2015, Matera, Rv. 635656, ha dunque ritenuto che, nell'ipotesi in cui il creditore invochi la condanna all'adempimento di una pluralità di coeredi, ognuno per la sua quota, ricorre in sede di gravame una fattispecie di litisconsorzio necessario processuale, non essendo configurabile l'esistenza originaria di una pluralità di autonomi rapporti tra creditore e singoli eredi. Carattere parziario assumono anche le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio, in quanto i singoli condomini sono di norma tenuti in misura proporzionale al valore della rispettiva proprietà. Peraltro, la clausola contrattuale che preveda espressamente la ripartizione della spesa in base alle singole unità immobiliari e non alle rispettive quote millesimali vale – secondo Sez. 2, n. 06282/2015, Parziale, Rv. 634732 – a determinare una valida deroga alla regola dell'attuazione parziaria dei debiti dei condomini, atteso il carattere derogabile della disposizione di legge (art. 1123 c.c.) che consente all'autonomia delle parti di disporre in senso diverso. 8. L'inadempimento e la responsabilità contrattuale. Anche nel 2015 le decisioni in tema di responsabilità contrattuale si dividono tra quelle che attengono ai presupposti della stessa, quale soggezione all'obbligo di risarcimento e alle altre conseguenze dell'inadempimento (ripartizione dell'onere della prova tra creditore e debitore: art.1218 c.c.; mora debendi: artt.1219 e ss. c.c.; responsabilità per fatto degli auliari: art. 1228 c.c.) e quelle che attengono alle regole di determinazione del danno risarcibile (concorso di colpa del creditore: art. 1227, comma 1, c.c.; dovere del creditore di evitare il danno: art.1227, comma 2, c.c.; principio del danno prevedibile: art. 1225 c.c.; compensatio lucri cum damno). 8.1. La prova dell'inadempimento. La Suprema Corte, con Sez. 3, n. 00826/2015, Stalla, Rv. 634361, ha dato ulteriore 141 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE continuità all'orientamento (prevalso a seguito del contrasto composto da Sez. U, n. 13533/2001, Preden, Rv. 549956, e consolidatosi nella giurisprudenza successiva), secondo cui, in tema di prova dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) di una obbligazione, il creditore che azioni rimedi contrattuali (azione di adempimento, di risoluzione del contratto, di risarcimento del danno) deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'esatto adempimento. In piena conformità allo storico precedente delle Sezioni Unite, la pronuncia in rassegna ha poi precisato che eguale criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile quando è sollevata eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione. 8.2. Mora debendi. In tema di mora debendi assume rilievo la decisione (Sez. 1, n. 19084/2015, Lamorgese, Rv. 636676), con cui è stato chiarito che, con riguardo ai debiti delle pubbliche amministrazioni, la costituzione in mora dell'ente non avviene ex re, ai sensi dell'art. 1219, comma 2, n. 3, c.c. ma ex persona, ai sensi dell'art. 1219, comma 1, c.c. (atteso che l'obbligazione non ha carattere di obbligazione portable ma di obbligazione querable), di tal che gli interessi moratori non decorrono automaticamente dalla scadenza del termine di adempimento, ma decorrono dalla data dell'intimazione o richiesta scritta di costituzione in mora. 8.3. Responsabilità per fatto degli ausiliari. Della regola che attribuisce al debitore la responsabilità per i danni cagionati dai terzi di cui si avvale nell'adempimento dell'obbligazione (art. 1228 c.c.) si è fatta ripetuta applicazione con riferimento al rapporto tra il sanitario e la struttura privata o pubblica in cui esso opera, atteso, da un lato, che Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984 – sulla premessa che il rapporto tra paziente e struttura sanitaria ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo, sorgono a carico della struttura sanitaria, tra gli altri, l'obbligo di messa a disposizione del personale medico e 142 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE paramedico – ha statuito che la responsabilità della struttura nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto; e considerato, dall'altro lato, che Sez. 3, n. 06243/2015, Vincenti, Rv. 635072, ha chiarito che l'azienda sanitaria locale (a.s.l.) è responsabile ex art. 1228 c.c. del fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell'esecuzione di prestazioni curative che siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge. L'art.1228 c.c. è stato ritenuto applicabile (da Sez. 6-3, n. 03261/2015, Vivaldi, Rv. 634394), anche al rapporto tra ufficiale giudiziario e agente postale incaricato di eseguire la notificazione, sul rilievo che il servizio di notificazioni a mezzo posta si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l'ufficiale giudiziario che la esegue, il quale può avvalersi, quale ausiliario, dell'agente postale, assumendo la responsabilità, nei confronti del richiedente la notifica, per i danni derivanti dal ritardo, imputabile all'agente postale, nella spedizione o nel recapito dell'atto notificato. L'operatività della regola sulla responsabilità per fatto degli ausiliari è stata invece negata con riguardo al rapporto tra la società Enel Distribuzione s.p.a e il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (GRTN s.p.a.), nel regime (ritenuto applicabile ratione temporis) disciplinato dal decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79. Al riguardo, Sez. 6-3, n. 02964/2015, Vivaldi, Rv. 634702, ha infatti escluso la responsabilità di Enel Distribuzione s.p.a per il danno patito dagli utenti finali della rete di distribuzione in seguito alla mancata fornitura di energia elettrica da parte del Gestore, sul rilievo che la GRTN s.p.a. non può reputarsi ausiliaria della società di distribuzione, ma, per la sua autonomia e indipendenza da tutti i soggetti operanti nel settore elettrico, ha una posizione di supremazia e di monopolio nella gestione della rete di trasmissione e non soggiace ad alcun potere direttivo e di controllo da parte di ENEL distribuzione s.p.a.. 8.4. Concorso di colpa del creditore. Avuto riguardo alla circostanza che la regola di cui all'art. 1227, comma 1, c.c., pur 143 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE fondata sul principio di stretta causalità, esige tuttavia pur sempre la presenza della colpa quale requisito legale della rilevanza causale del fatto concorrente del creditore danneggiato dall'inadempimento, sono state oggetto di diverso apprezzamento due fattispecie in tema di intermediazione mobiliare e finanziaria. Invero, per un verso, Sez. 3, n. 18613/2015, Rubino, Rv. 636983, ha ribadito che la violazione da parte del promotore finanziario degli obblighi di comportamento che la legge pone a suo carico non esclude la configurabilità di un concorso di colpa dell'investitore, qualora questi tenga un contegno significativamente anomalo ovvero, sebbene a conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento, ometta di adottare comportamenti osservanti delle regole dell'ordinaria diligenza o avalli condotte del promotore devianti rispetto alle ordinarie regole del rapporto professionale con il cliente e alle modalità di affidamento dei capitali da investire, così concorrendo al verificarsi dell'evento dannoso per inosservanza dei più elementari canoni di prudenza ed oneri di cooperazione nel compimento dell'attività di investimento. Per altro verso, Sez. 1, n. 17333/2015, Acierno, Rv. 636540, ha affermato che in tema di intermediazione finanziaria, l'intermediario che sia rimasto inadempiente agli specifichi obblighi informativi previsti dalla legge con riferimento alle operazioni inadeguate, non può invocare l'attenuazione della sua responsabilità, ex art. 1227 c.c., per non avere l'investitore condiviso i suggerimenti (nella specie, a diversificare gli investimenti o a disinvestire) da lui ricevuti dopo l'esecuzione dell'ordine di acquisto ed entro il termine di scadenza dell'investimento, atteso che una siffatta condotta non comporta un'esposizione volontaria ad un rischio, né viola una regola di comune prudenza. 8.5. Dovere del creditore di evitare il danno. È stato ribadito (da Sez. 3, n. 15750/2015, Vivaldi, Rv. 636176) il principio per cui, diversamente dal concorso di colpa (che incide sul nesso di causalità e può essere pertanto rilevato d'ufficio, se risulta dagli atti del giudizio), l'omesso uso da parte del debitore dell'ordinaria diligenza che avrebbe permesso di evitare il verificarsi o l'aggravamento del danno (art. 1227, comma 2, c.c.) può essere accertato da giudice, al fine di escludere o ridurre il risarcimento, solo se esso abbia formato oggetto di eccezione da parte del debitore, dato che il dedotto comportamento che la legge esige dal 144 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE creditore costituisce autonomo dovere giuridico, espressione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede. 8.6. Prevedibilità del danno. La regola – enunciata tra i criteri di determinazione del danno risarcibile esclusivamente nell'ambito della responsabilità contrattuale (arg. ex art. 2056 c.c.) – che, nell'ipotesi di inadempimento o ritardo meramente colposo, limita il risarcimento al danno prevedibile al tempo in cui è sorta l'obbligazione, è stata richiamata dalla Suprema Corte in una rilevante pronuncia in tema di contratto di trasporto di cose. Sez. 3, n. 07201/2015, Lanzillo, Rv. 635201, ha infatti ribadito che, sebbene ai contratti di trasporto stipulati ed eseguiti anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo 21 novembre 2005, n. 286, non trovi applicazione la specifica limitazione di responsabilità prevista dall'art. 1696 c.c. (nel testo riformulato dall'art. 10 del citato decreto legislativo) per i danni derivanti da perdita od avaria delle cose trasportate, tuttavia il vettore può sempre giovarsi della limitazione generale prevista dall'art. 1225 c.c., che sancisce l'irrisarcibilità dei danni imprevedibili se non nell'ipotesi limite di inadempimento doloso. In altra rilevante pronuncia della medesima Sezione ha, poi, trovato nuova conferma la tesi dell'inapplicabilità della limitazione al risarcimento dei pregiudizi derivanti da illecito extracontrattuale, in quanto Sez. 3, n. 20932/2015, Rossetti, in corso di massimazione, ha statuito che, in tema di responsabilità aquiliana, costituisce "danno risarcibile" qualunque pregiudizio che in assenza dell'illecito non si sarebbe verificato, a prescindere dalla sua prevedibilità. 8.7. Compensatio lucri cum damno. Sul presupposto che a fondamento di questa regola pretoria di determinazione del danno risarcibile si pone l'esigenza che la misura del risarcimento sia calibrata sul pregiudizio effettivo causato dall'inadempimento, tenendo conto di tutte le conseguenze dello stesso (e quindi non solo di quelle negative, ma anche di quelle positive), si ritiene, tralatiziamente, che il vantaggio rilevante ai fini della compensatio (il quale deve quindi essere detratto dal quantum del risarcimento) sia soltanto quello che ha causa diretta nell'inadempimento (art. 1223 c.c.) e non anche quello che trae la sua fonte da un titolo diverso e che trova nell'inadempimento la semplice occasione. Tali considerazioni erano alla base del tradizionale orientamento della Suprema Corte volto ad escludere l'operatività della regola della compensazione del lucro col danno con riguardo 145 CAP. IX - LE OBBLIGAZIONI IN GENERALE agli indennizzi e alle provvidenze erogati dalle compagnie di assicurazione e dagli istituti previdenziali (e, in particolare, in ordine a quanto percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o reversibilità, di assegni o equo indennizzo), sul presupposto che tali erogazioni trovano fondamento in un titolo diverso dall'inadempimento o dall'illecito. Peraltro, nel 2014, a tale tradizionale orientamento (pur ripetutamente ribadito da Sez. 3, n. 05504/2014, Amatucci, Rv. 630209, e da Sez. 3, n. 20548/2014, Scarano, Rv. 632962) se ne è contrapposto uno contrario, secondo il quale dall'ammontare del risarcimento dovuto al familiare superstite deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità, in considerazione della funzione indennitaria di questo trattamento che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla morte del congiunto, con conseguente necessità di ridurre la misura del risarcimento (Sez. 3, n. 13537/2014, Rossetti, Rv. 631440). Avuto riguardo a questo contrasto, Sez. 3, n. 04447/2015, Vincenti (ordinanza interlocutoria), ha ritenuto opportuno investire le Sezioni Unite della questione se dall'ammontare del risarcimento debba detrarsi o meno – in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno – quanto già erogato al danneggiato dall'assicuratore sociale/ente previdenziale a titolo di pensione di inabilità o reversibilità, di assegni o equo indennizzo. 146 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE CAPITOLO X IL CONTRATTO IN GENERALE (di Francesco Cortesi e Paola D'Ovidio) SOMMARIO: 1. Contratto atipico – 2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione – 3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale – 4. Condizioni generali e clausole vessatorie – 5. Oggetto – 6. Causa – 7. Forma – 8. Preliminare del preliminare, preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre – 9. Condizione – 10. Interpretazione e qualificazione del contratto – 11. Esecuzione secondo buona fede. – 12. Clausola penale e caparra – 13. Rappresentanza e ratifica – 14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi – 15. Simulazione – 16. Nullità del contratto – 17. Annullabilità e rescissione del contratto – 18. Risoluzione del contratto. 1. Contratto atipico. In sintonia con orientamenti già espressi dalla Suprema Corte, Sez. 1, n. 15370/2015, Scaldaferri, Rv. 636156, ha ribadito come rientri nella autonomia privata convenire la unilaterale o reciproca assunzione di un prefigurato rischio futuro, estraneo al tipo contrattuale prescelto, a tal stregua modificandolo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, purchè ciò avvenga nel rispetto dei criteri di meritevolezza di cui all'art. 1322, comma 2, c.c.. In applicazione di tale principio la Corte ha confermato la valutazione del giudice di merito che non aveva ravvisato l'esistenza ex ante di uno squilibrio tra le prestazioni delle parti di un contratto di finanziamento in lire con clausola parametrica in yen, avendo entrambe assunto il rischio delle oscillazioni del cambio, a quel tempo notoriamente più favorevole alla valuta straniera. In una diversa fattispecie, la Suprema Corte, Sez. 6-3, n. 19559/2015, De Stefano, Rv. 637208, ha invece ritenuto non meritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c. l'interesse perseguito mediante un contratto atipico, fondato sullo sfruttamento delle preoccupazioni previdenziale dell'utenza da parte di operatori professionali ed avente ad oggetto il compimento di operazioni negoziali complesse relative alla gestione di fondi comuni comprensivi anche di titoli di dubbia redditività, il cui rischio sia unilateralmente trasmesso sul cliente, al quale, invece, il prodotto venga presentato come rispondente alle esigenze di previdenza complementare, a basso rischio e con libera possibilità di disinvestimento senza oneri. Paola D'Ovidio ha redatto i par. da 1 a 9 e Francesco Cortesi quelli da 10 a 18. 147 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE La medesima pronuncia ha infatti evidenziato come un simile contratto si ponga in contrasto con i principi desumibili dagli artt. 38 e 47 Cost. sulla tutela del risparmio e l'incentivo delle forme di previdenza, anche privata, ed ha conseguentemente ritenuto inefficace per l'ordinamento un contratto atipico il quale, ricorrendo le predette circostanze, si traduca nella concessione, all'investitore di un mutuo, di durata ragguardevole, finalizzato all'acquisto di prodotti finanziari della finanziatrice, e nel contestuale conferimento a quest'ultima di un mandato per l'acquisto dei prodotti anche in situazione di potenziale conflitto di interessi. In tema di leasing, le Sezioni Unite sono state investite della questione di massima di particolare importanza concernente le azioni direttamente proponibili dall'utilizzatore nei confronti del venditore e, segnatamente, quella di risoluzione della vendita per inadempimento di quest'ultimo. La chiave di volta della questione, ha chiarito Sez. U, n. 19785/2015, Spirito, Rv. 636742, risiede nella configurazione strutturale del contratto in discorso, posto che, se lo si ravvisa come contratto unitario plurilaterale, è agevole farne discendere l'esperibilità dell'azione di risoluzione da parte dell'utilizzatore contro il fornitore, essendo quest'ultimo considerato anch'egli parte del contratto di compravendita, mentre ciò non è possibile se l'interprete, pur riconoscendo l'indiscutibile collegamento esistente tra i due negozi, tiene ben distinti il contratto di vendita dal contratto di locazione, poiché in questa seconda ipotesi, il contratto di vendita è, per l'utilizzatore, res inter alios acta. Le Sezioni Unite hanno quindi risolto la questione osservando che l'operazione di leasing finanziario si caratterizza per l'esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di leasing propriamente detto, concluso tra concedente ed utilizzatore, e quello di fornitura, concluso tra concedente e fornitore, allo scopo, noto a quest'ultimo, di soddisfare l'interesse dell'utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa. È proprio in forza di tale collegamento, prosegue la Corte, che l'utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all'adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguentemente sofferto, e ciò pur restando ferma l'individualità propria di ciascun tipo negoziale. Tuttavia, la medesima pronuncia precisa che, in mancanza di un'espressa previsione normativa al riguardo, l'utilizzatore non può, invece, esercitare l'azione di risoluzione, o di riduzione del prezzo, del contratto di vendita intercorso tra il fornitore ed il concedente, se non in presenza di specifica clausola contrattuale con la quale gli 148 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE venga dal concedente trasferita la propria posizione sostanziale, restando il relativo accertamento rimesso al giudice di merito, poiché riguarda non la legitimatio ad causam ma la titolarità attiva del rapporto. Le Sezioni Unite, con la medesima sentenza, hanno affrontato anche il tema della tutela dell'utilizzatore, in particolare al fine di individuare i rimedi da quest'ultimo esperibili nelle ipotesi di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria che la rendano inidonea all'uso. Sul punto, la sentenza afferma che occorre distinguere l'ipotesi in cui i vizi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall'utilizzatore) da quella in cui siano emersi successivamente alla stessa perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore, atteso che nella prima ipotesi, assimilabile a quello della mancata consegna, il concedente, informato della rifiutata consegna, in forza del principio di buona fede, è tenuto a sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore e, ricorrendone i presupposti, ad agire verso quest'ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo, mentre nel secondo caso l'utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l'eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, e il concedente, una volta messo a conoscenza dei vizi, ha i medesimi doveri di cui all'ipotesi precedente. In ogni caso, conclude la sentenza delle Sezioni Unite, l'utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente. In altro ambito, ovvero quello del rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero), merita attenzione Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984, la quale ha ravvisato la fonte di tale rapporto in un "atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo". In forza di un simile contratto, prosegue la sentenza, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Sulla base di tali premesse sistematiche, la Corte approda alla conclusione che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai 149 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE sensi dell'art. 1218 c.c., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell'art. 1228 c.c., all'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto. 2. Conclusione del contratto, presunzione di conoscenza, proposta e accettazione. Sulla operatività della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. si segnalano due interessanti pronunce relative, rispettivamente, l'una, all'ipotesi in cui il destinatario dell'atto sia utilizzatore di casella postale, l'altra, ad un procedimento di irrogazione di sanzioni disciplinari. In particolare, Sez. 3, n. 02070/2015, Frasca, Rv. 634392, ha chiarito che il luogo di pervenimento della corrispondenza all'indirizzo del destinatario, utilizzatore del servizio di casella postale, va individuato, agli effetti dell'art. 1335 c.c.., nell'ufficio di destinazione presso il quale l'ente postale, pervenuta la corrispondenza, ne rileva la riferibilità al destinatario, provvedendo all'attività di inserimento nella casella, senza che rilevi che questa sia allocata, per il ritiro, presso altro ufficio del medesimo luogo. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva la disdetta di un contratto di locazione pervenuta all'ufficio postale entro il termine di preavviso, ma consegnata all'addetto al ritiro dopo la scadenza dello stesso, a causa di un errore dell'ufficio postale che aveva comportato il temporaneo mancato inserimento della raccomandata nella casella postale assegnata al destinatario, con conseguente impossibilità di tempestivo ritiro. Nel settore lavoristico, di rilievo è invece la pronuncia di Sez. L, n. 03984/2015, Buffa. Rv. 634588, la quale ha puntualizzato che, nell'ambito del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. non opera nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dell'allontanamento del lavoratore dal domicilio e, dunque, dell'impedimento dello stesso a prendere conoscenza della contestazione inviata. Il principio è stato affermato con riferimento ad una fattispecie in cui è stata ritenuta irrituale la convocazione per 150 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE l'audizione a difesa prevista dalla contrattazione collettiva di settore, in quanto il lavoratore ne aveva avuto cognizione solo al rientro nel domicilio, al termine di un periodo di ferie ritualmente autorizzato dal datore di lavoro. In relazione ai contratti conclusi dalla P.A. e con specifico riferimento ai contratti a trattiva privata, sia pure preceduti da una gara ufficiosa, Sez. 1, n. 10743/2015, Lamorgese, Rv. 635483, ha chiarito che l'atto di aggiudicazione non comporta la conclusione del contratto, bensì, semplicemente, l'effetto di individuazione dell'offerta migliore, cui segue la fase delle trattative precontrattuali. In tali casi, precisa infatti la sentenza, diritti ed obblighi per la P.A. ed il privato contraente derivano solo dalla formale stipulazione del contratto, la cui esistenza non può pertanto essere desunta dal comportamento concludente delle parti, consistito nella materiale esecuzione della prestazione. Peculiare è, inoltre, la situazione esaminata da Sez. 1, n. 05689/2015, Lmorgese, Rv. 634681, in tema di cessione in proprietà di alloggi residenziali pubblici. Tale pronuncia precisa che, laddove il procedimento attivato con la presentazione della domanda di riscatto si concluda con l'accettazione e la comunicazione del prezzo da parte dell'amministrazione, l'assegnatario in locazione, in mancanza di fatti impeditivi sopravvenuti (come la decadenza o la revoca dell'assegnazione), diviene titolare di un diritto soggettivo alla stipula del contratto di compravendita, suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica ai sensi dell'art. 2932 c.c. Ben diversa, invece, è la posizione dell'assegnatario in locazione nel caso in cui l'amministrazione non abbia comunicato l'accettazione della domanda di riscatto e l'indicazione del relativo prezzo di acquisto: in tale evenienza, puntualizza la sentenza, non sorge alcun diritto quand'anche la legge indichi già i criteri per la determinazione del prezzo sulla base di parametri vincolanti, giacché non può ritenersi venuta meno la discrezionalità tecnica dell'amministrazione nella valutazione della sussistenza dei presupposti per l'accoglimento della domanda. Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 10020/2015, Mercolino, Rv. 635433, ha puntualizzato che l'efficacia dei contratti conclusi con la P.A. è subordinata all'approvazione ministeriale ai sensi dell'art. 19 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, norma che richiede un provvedimento espresso, adottato dall'organo competente nella forma solenne prescritta dalla legge, la cui esistenza non può desumersi dalla condotta dell'Amministrazione. 151 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Sulla base di tali considerazioni, la pronuncia ha quindi affermato che, ai fini del perfezionamento del vincolo contrattuale, è insufficiente la mera aggiudicazione pronunciata in favore del contraente, pur se accompagnata dal provvedimento con il quale sia stato preventivamente autorizzato il relativo impegno di spesa ai sensi dell'art. 104, comma 2, del r.d. 23 maggio 1924, n. 827. In tema di conclusione del contratto nel settore degli appalti pubblici, Sez. 1, n. 10750/2015, Genovese, Rv. 635581, ha escluso che l'aggiudicazione provvisoria, la quale ha natura di atto endoprocedimentale, benché generi tra le parti situazioni giuridiche preliminari tutelabili in sede giurisdizionale, possa determinare l'instaurazione del rapporto contrattuale finale tra la stazione appaltante e l'aggiudicatario. La pronuncia precisa infatti che tale risultato può conseguire solo all'aggiudicazione definitiva, la quale non è un atto meramente confermativo o esecutivo, ma è un provvedimento affatto autonomo e diverso rispetto all'aggiudicazione provvisoria, anche quando ne recepisca interamente i contenuti. Infine, con riferimento al contratto di donazione che non sia ancora perfetto, per la mancanza della notificazione al donante dell'atto pubblico di accettazione del donatario, ai sensi dell'art. 782, comma 2 c.c., Sez. 2, n. 07821/2015, Matera, Rv. 635042, ha affermato che va riconosciuto in capo all'accipiens il solo animus detinendi e non l'animus possidendi, trattandosi di negozio traslativo non ancora venuto ad esistenza in quanto privo dell'elemento conclusivo di una fattispecie a formazione progressiva. 3. Integrazione del contratto e responsabilità precontrattuale. L'operatività della norma in materia di integrazione contrattuale è stata affrontata da Sez. 3, n. 05209/2015, Stalla, Rv. 634698, con specifico riferimento al contratto di somministrazione di acqua potabile da parte del Comune. La citata pronuncia ha statuito che l'addebito all'utente, non già in base al consumo effettivo, ma secondo il criterio del "minimo garantito", non può basarsi su di una previsione programmatica contenuta nel regolamento comunale con cui venga ammessa l'eterodeterminazione delle tariffe di utenza da parte dell'ente comunale, ma, al contrario, richiede una specifica delibera comunale che ne fissi i parametri dell'an e del quantum, i quali devono ritenersi imprescindibili al fine di consentirne l'inserimento automatico ex art. 1339 c.c. nel contratto di fornitura. 152 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Un altro caso in cui ha trovato applicazione l'art. 1339 c.c. è offerto da Sez. 3, n. 03596/2015, Sestini, Rv. 634782, la quale si è pronunciata in materia di locazioni ad uso abitativo, con specifico riguardo ai casi in cui sia intervenuta la rinnovazione tacita di un contratto con canone ultralegale, successivamente all'entrata in vigore della legge 9 dicembre 1998, n. 431: tale situazione, afferma la pronuncia citata, legittima il conduttore ad esercitare l'azione prevista dall'art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392, onde ottenere l'applicazione del canone cd. equo, determinato ai sensi degli artt. 12 e ss. della legge da ultimo citata, a decorrere dall'origine del contratto e fino alla sua naturale scadenza, ivi compreso il periodo successivo alla rinnovazione tacita avvenuta nel vigore della legge n. 431 del 1998, con sostituzione imperativa del canone convenzionale ai sensi dell'art. 1339 c.c. Interessanti precisazioni sulla responsabilità precontrattuale nella materia assicurativa sono rinvenibile in Sez. 3, n. 08412/2015, Rossetti, Rv. 635202, che ha sottolineato il dovere primario, gravante sull'assicuratore (come sul suo intermediario o promotore) ai sensi degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, nonché di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze. La violazione di tali doveri, osserva la pronuncia in discorso, integra quindi una condotta negligente ex art. 1176, comma 2, c.c. In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che un'impresa assicuratrice avesse l'obbligo, in relazione ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario, di informare il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti potessero essere inferiori al capitale dal medesimo versato, e ciò anche se la circolare dell'ISVAP, disciplinante ratione temporis la materia, nulla prevedeva a riguardo. Con riferimento alla responsabilità precontrattuale della P.A., Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222 e Rv. 635220, ha chiarito che la stessa non è responsabilità da provvedimento, ma responsabilità da comportamento, in relazione alla quale non rileva dunque la legittimità del provvedimento adottato nella procedura ad evidenza pubblica, ma la correttezza del comportamento tenuto durante le trattative e la formazione del contratto. Pertanto, la P.A. che abbia preteso l'anticipata esecuzione del contratto in attesa dell'approvazione tutoria, poi negata, risponde ex art. 1337 c.c., in considerazione dell'affidamento ragionevolmente ingenerato nell'altra parte. 153 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Peraltro, si legge nella medesima sentenza, in presenza di norme che deve conoscere ed applicare in modo professionale, come quella sulla registrazione del contratto da parte della Corte dei conti, la P.A. che non informi il privato su quanto potrebbe determinare l'invalidità o inefficacia del contratto risponde per culpa in contrahendo, salva la prova concreta dell'irragionevolezza dell'altrui affidamento; da notare che, secondo la pronuncia di cui si discorre, nell'accertare se il privato abbia confidato senza colpa nella validità ed efficacia del contratto con la P.A., agli effetti dell'art. 1338 c.c., il giudice di merito deve verificare in concreto se la norma violata fosse conoscibile dal cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione della norma stessa e della conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Deve invece escludersi che si versi in una ipotesi di responsabilità precontrattuale, con conseguente limitazione del danno risarcibile al solo interesse negativo per perdità di chances e per rimborso delle spese sostenute, nel caso in cui una ASL, avendo accertato, all'esito di una procedura selettiva per il conferimento dell'incarico di medico fiscale, il diritto dell'aspirante ad assumere l'incarico, non adempia all'obbligo di far espletare quell'incarico: in tal caso, afferma infatti Sez. L, n. 18159/2015, Amendola, Rv. 636418, il risarcimento del conseguente danno ha natura contrattuale senza che, in senso contrario, possa opporsi la carenza di affidamento da parte del sanitario in ragione della tempestiva comunicazione dell'esito negativo. La configurabilità di una responsabilità di natura precontrattuale è stata altresì esclusa da Sez. 1, n. 12262/2015, Nazzicone, Rv. 635617, con riferimento al comportamento dell'intermediario finanziario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest'ultimo i rischi dell'investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene: siffatta ipotesi, chiarisce infatti la pronuncia citata, configura una responsabilità di natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro intercorrente tra le parti, sicché il danno invocato dal cliente medesimo non può essere limitato al mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale. 4. Condizioni generali e clausole vessatorie. Su questo argomento è stata data continuità all'ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale in tema di individuazione delle ipotesi soggette alla 154 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE disciplina dell'art. 1341 c.c.. Sulla scia di precedenti pronunce, Sez. 1, n. 07605/2015, DeMarzo, Rv. 634932, ha, infatti, ribadito che un contratto è qualificabile "per adesione" secondo il disposto dell'art. 1341 c.c., e come tale soggetto, per l'efficacia delle clausole cosiddette vessatorie, alla specifica approvazione per iscritto, solo quando sia destinato a regolare una serie indefinita di rapporti e sia stato predisposto unilateralmente da un contraente: ne consegue, precisa la pronuncia, che tale ipotesi non ricorre quando risulta che il negozio è stato concluso mediante trattative intercorse tra le parti. Quanto alla natura vessatoria o meno di alcune specifiche clausole, merita menzione Sez. 6-3, n. 14737/2015, Frasca, Rv. 636089, che ha ricondotto tra le clausole sancite a carico del contraente aderente, anche quelle di proroga tacita o di rinnovazione del contratto, se predisposte dal contraente più forte nell'ambito di un contratto per adesione. Siffatte clausole, precisa la medesima pronuncia, sono pertanto prive di efficacia a norma dell'art. 1341, comma 2, c.c., qualora non siano specificamente approvate per iscritto dal contraente aderente, e ciò anche quando hanno carattere di reciprocità e bilateralità. Ancora, la natura di clausola vessatoria, e la conseguente necessità di specifica approvazione scritta, è stata ravvisata da Sez. 6-1, n. 15278/2015, Ragonesi, Rv. 636044, nell'espressa designazione convenzionale di un foro territoriale esclusivo, contenuta in un contratto bancario per adesione, in quanto siffatta clausola presuppone una inequivoca e concorde volontà delle parti volta ad escludere la competenza degli altri fori previsti dalla legge. La sentenza citata merita attenzione anche per aver dato continuità ad un indirizzo, già affermatosi nella giurisprudenza della Corte, secondo il quale, per ritenere integrata la specifica approvazione per iscritto, non è necessaria la trascrizione integrale del contenuto della clausola, essendo sufficiente il richiamo, mediante numero o titolo, alla clausola stessa, in quanto in tal modo viene suscitata l'attenzione del sottoscrittore, permettendogli di conoscerne il contenuto. Sulla stessa linea, si pone anche sez. 3, n. 22984/2015, De Stefano, in corso di massimazione, che ha ritenuto rispettato l'obbligo della specifica approvazione per iscritto della clausola vessatoria, a norma dell'art. 1341 c.c., anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che quest'ultimo non sia accompagnato da un'indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto. 155 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE In materia di comodato, Sez. 3, n. 13363/2015, Rossetti, Rv. 635801, ha ritenuto vessatoria la clausola che ponga a carico del comodatario tutti i rischi derivanti dalla gestione della cosa data in comodato, e ciò sul rilievo che una tale clausola non è riproduttiva di alcuna regola legale ma, anzi, deroga al generale principio per il quale il comodante non è affatto esonerato per i danni causati dalla cosa data in comodato, posto che ai sensi dell'art. 2051 c.c. anche tale soggetto risponde dei danni derivanti a terzi dalla res commodata, conservandone la custodia. Non è stata invece ritenuta avente carattere di vessatorietà la clausola di durata del contratto con divieto di recesso anticipato, pur inserita nelle condizioni condizioni generali predisposte da una delle parti in relazione ad un rapporto ad esecuzione continuata o periodica. In proposito, Sez. 6-3, n. 17579/2015, Lanzillo, Rv. 636924, ha infatti affermato che una clausola di tale tenore non è particolarmente onerosa ai sensi dell'art. 1341, comma 2, c.c., poiché non sancisce la tacita proroga o rinnovazione del contratto, né limita la facoltà di opporre eccezioni, concernendo piuttosto la pattuizione di un termine, anche non suscettibile di deroga, alla normale disciplina dei contratti di durata. Merita segnalazione, inoltre, sez. 3, n. 22891/2015, Frasca, in corso di massimazione, che ha ritenuto non vessatoria la pattuizione cosiddetta "a richiesta fatta" ("claims made"), inserita - a prescindere dalla sua veste grafica di clausola contrattuale (o meno) - in un contratto assicurativo, quando costituisce espressione di un accordo delle parti diretto a delimitare l'oggetto stesso del contratto, dovendosi ritenere in tal caso realizzata una lecita deroga al modello legale tipico previsto dall'art. 1917, comma 1, c.c.; la medesima pronuncia ha altresì precisato che la stessa clausola "claims made", per contro, presenta natura vessatoria quando, nell'economia complessiva della polizza, si atteggi a "condizione" volta a limitare l'oggetto del contratto siccome definito da altra clausola, e ciò in ragione della funzione limitativa che svolge, in tale ipotesi, della precedente e piu' ampia previsione contrattuale. 5. Oggetto. Meritano attenzione in primo luogo alcune pronunce che hanno riguardato l'oggetto contrattuale desumibile da determinate tipologie di contratti assicurativi. Così, Sez. 3, n. 02469/2015, Travaglino, Rv. 634437, ha precisato che, qualora le parti del contratto abbiano espressamente subordinato l'operatività della garanzia assicurativa all'adozione, da parte dell'assicurato, di specifiche misure di sicurezza, il giudice non 156 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE può sindacare la loro concreta idoneità ad evitare l'evento dannoso, e quindi, ove questo si verifichi indipendentemente da tale inosservanza, non può riconoscere l'obbligo dell'assicuratore a corrispondere l'indennizzo ove vi sia comunque stata la mancata adozione delle misure pattuite per la difesa del bene protetto. A tale conclusione la pronuncia citata è pervenuta osservando che dette clausole non realizzano una limitazione di responsabilità dell'assicuratore, ma individuano e delimitano l'oggetto stesso del contratto ed il rischio dell'assicuratore. Nella fattispecie esaminata dalla Corte, il principio così espresso ha determinato l'esclusione dell'obbligo di indennizzo a carico dell'assicuratore in relazione ad un furto avvenuto mediante l'uso fraudolento delle chiavi autentiche di una cassaforte, in presenza di una clausola contrattuale che escludeva il rischio garantito nell'ipotesi di impiego sia pur fraudolento di chiavi vere. Ancora in materia assicurativa, Sez. 3, n. 12896/2015, Pellecchia, Rv. 635935, ha chiarito l'oggetto di un contratto di assicurazione con clausola "loan receipt" nel senso seguente: l'assicuratore, in caso di sinistro, non paga l'indennizzo all'assicurato ma glielo versa a titolo di mutuo, sotto condizione che sarà restituito solo per la parte che l'assicurato riuscirà a recuperare e, contestualmente, con la costituzione in pegno del credito dell'assicurato verso il responsabile a favore dell'assicuratore, cui viene conferito mandato per la relativa riscossione. La pronuncia citata precisa altresì che l'assicuratore, ove versi la somma sulla base di un "loan receipt", ha altresì diritto di surroga ex art. 1916 c.c. e, conseguentemente, può agire contro il responsabile in nome proprio. Con riferimento all'assicurazione per la responsabilità civile conseguente all'attività professionale esercitata da un commercialista, Sez. 3, n. 12872/2015, Carluccio, Rv. 635882, ha affermato che deve ritenersi coperto dalla garanzia (salva espressa esclusione contrattuale) anche il caso in cui l'assicurato, nell'espletamento della attività di ausiliare di giustizia come curatore fallimentare, si renda responsabile di danno ingiusto ai sensi degli artt. 2043 c.c. e 38, comma 1, l.fall.. La ratio di tale conclusione, si legge nella motivazione della citata pronuncia, va rinvenuta nella circostanza che le funzioni di curatore fallimentare rientrano tra quelle previste dalla legge per il commercialista, che quale professionista intellettuale non esaurisce la sua attività nell'ambito del contratto di prestazione d'opera intellettuale, ma resta professionista privato anche quando espleta 157 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE un incarico giudiziario (curatore fallimentare, consulente tecnico d'ufficio), in relazione al quale svolge pubblici poteri. Di sicuro interesse è anche la puntualizzazione dell'oggetto contrattuale offerta da Sez. 1, n. 16544/2015, Salvago, Rv. 636501, in relazione ad un contratto d'appalto di opere pubbliche nel quale le parti abbiano fatto riferimento ad una norma legislativa (nella specie, l'art. 32 della l. n. 109 del 1994, in tema di arbitrato). La pronuncia osserva infatti che, in tale ipotesi, il contenuto della norma stessa viene recepito nella dichiarazione negoziale formandone elemento integrante, sicché l'estensione e i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula, mentre le successive vicende di detta norma possono spiegare influenza sul rapporto solo se e quando le parti manifestino, anche tacitamente, la volontà di tenerne conto a modificazione dei pregressi accordi. Interessanti sono, inoltre, le considerazioni di Sez. 2, n. 08109/2015, Oricchio, Rv. 635032, sulle conseguenze che derivano dalla sostituzione dell'oggetto della compravendita, avvenuta con il consenso delle parti: in una tale evenienza, afferma la pronuncia di cui si discorre, si producono gli stessi effetti della novazione oggettiva prevista dall'articolo 1230 c.c., sussistendone entrambi i requisiti dell'aliud novi e dell'animus novandi, con la conseguenza che le parti si ritrovano nelle identiche posizioni con i rispettivi oneri ed obblighi. 6. Causa. L'illeicità della causa concreta perseguita dalle parti ha determinato la declaratoria di nullità del contratto in alcune significative pronuncie intervenuta sulla questione. Tra queste, si segnala Sez. 3, n. 19220/2015, Petti, Rv. 637085, che ha dichiarato nullo, ex art. 1343 c.c., proprio per l'illiceità della causa concreta, un contratto di locazione avente ad oggetto un locale seminterrato da adibire ad attività lavorativa, in quanto diretto a realizzare un godimento del bene corrispondente ad un'attività vietata dall'ordinamento con norma imperativa, costituita dall'art. 8 d.P.R. n. 303 del 1956, applicabile ratione temporis, Analogamente, Sez. 1, n. 01625/2015, Nazzicone, Rv. 634838, ha ritenuto affetto da nullità, per illiceità della causa in concreto, il contratto di sale and lease back, ove violi il divieto di patto commissorio, salvo che le parti, con apposita clausola (cd. patto marciano), abbiano preventivamente convenuto che al termine del rapporto – effettuata la stima del bene con tempi certi e modalità 158 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE definite, tali da assicurare una valutazione imparziale ancorata a parametri oggettivi ed autonomi ad opera di un terzo – il creditore debba, per acquisire il bene, pagare l'importo eccedente l'entità del suo credito, sì da ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni e da evitare che il debitore subisca una lesione dal trasferimento del bene in garanzia. La medesima pronunciaha peraltro ha precisato che la previsione di differenti modalità di stima del bene, per come emerse nella pratica degli affari, è ammissibile purché dalla struttura del patto marciano in ogni caso risulti, anticipatamente, che il debitore perderà la proprietà del bene ad un giusto prezzo, determinato al momento dell'inadempimento, con restituzione della differenza rispetto al maggior valore, mentre non costituisce requisito necessario che il trasferimento della proprietà sia subordinato al suddetto pagamento, potendosi articolare la clausola marciana nel senso di ancorare il passaggio della proprietà sia al solo inadempimento, sia alla corresponsione della differenza di valore. In materia tributaria, è degna di nota Sez. 5, n. 00405/2015, Olivieri, Rv. 634069, che ha fondato l'accertamento della sussistenza di una condotta elusiva sulla causa concreta del contratto. In tale ottica, la sentenza citata ha precisato che l'opzione del soggetto passivo per l'operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un "indebito" vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale. Da tale premessa la Corte è approdata ad escludere che ricada nell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, un contratto di "sale and lease back", caratterizzato dalla "clausola tandem", in virtù della quale la banca finanziatrice subentra alla società di leasing nel credito per i canoni residui, in quanto tale operazione, pur procurando al contribuente un risparmio d'imposta, collegato all'accelerata deducibilità della prima maxi-rata, consente di realizzare un concreto interesse, che rientra nella libertà d'iniziativa economica, sostituendo un pregresso debito bancario con un finanziamento a condizioni migliori, e non risulta, pertanto, irragionevole rispetto alle ordinarie logiche d'impresa. Sulla stessa linea si pone anche Sez. 5, n. 17175/2015, Olivieri, Rv. 636360, la quale, sempre con riferimento ad un contratto di "sale and lease back", ha ribadito che la scelta di un'operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad 159 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione però che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d'impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale. 7. Forma. Di sicuro interesse, per la frequente ricorrenza della fattispecie, è Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, relativa al contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n. 431. Un simile contratto, afferma la pronuncia citata, è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d'ufficio, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale; fa eccezione l'ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. In concreto, precisa la medesima sentenza, l'abuso deve ritenersi realizzato ove "il locatore ponga in essere una inaccettabile pressione (una sorta di violenza morale) sul conduttore al fine di costringerlo a stipulare il contratto in forma verbale, mentre, nel caso in cui tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità". In materia di comunione, Sez. 2, n. 14694/2015, Manna, Rv. 635902, ha ribadito che l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra i partecipanti solo se l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l'utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, sottolinea la detta pronuncia, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che, trattandosi di beni immobili, deve essere espresso in forma scritta ad substantiam. Con riferimento ai contratti ultranovennali di affitto di fondi rustici a coltivatore diretto, interessante è la precisazione di Sez. 3, n. 10136/2015, Cirillo, Rv. 635455, circa la portata dell'art. 41 della 160 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE legge 3 maggio 1982, n. 203, il quale stabilisce la validità ed efficacia anche nei confronti dei terzi di tali contratti, pur se stipulati in forma verbale e non trascritti: si tratta, osserva la citata pronuncia, di una deroga alla disciplina di cui agli artt. 1350, n. 8), e 2643, n. 8), c.c., secondo cui tutti i contratti di locazione immobiliare ultranovennali (e quindi anche quelli agrari) debbono farsi a pena di nullità per atto pubblico o scrittura privata, ma non agli artt. 2923 c.c. e 560 c.p.c., sicchè, in caso di pignoramento del bene oggetto del rapporto agrario, il contratto ultranovennale è opponibile all'aggiudicatario d'asta solo se recante data certa anteriore al pignoramento e, se non trascritto, solo nei limiti di un novennio dall'inizio della locazione. Nell'ipotesi di contratto preliminare di compravendita immobiliare per persona da nominare, Sez. 2, n. 15944/2015, Picaroni, Rv. 636202, ha ritenuto soddisfatto il requisito della forma scritta della dichiarazione di nomina ex art. 1402 c.c. ove la electio amici sia avvenuta in sede di assemblea dei soci di una società cooperativa, quale promittente venditrice, con verbalizzazione e sottoscrizione da parte del socio assegnatario, promissario acquirente, nonché del terzo nominato. Anche la risoluzione consensuale di un contratto preliminare riguardante il trasferimento, la costituzione o l'estinzione di diritti reali immobiliari è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam, al pari del contratto risolutorio di un definitivo, rientrante nell'espressa previsione dell'art. 1350 c.c., in quanto, come osservato da Sez. 2, n. 13290/2015, Nuzzo, Rv. 635893, la ragione giustificativa dell'assoggettamento del preliminare alla forma ex art. 1351 c.c. – da ravvisare nell'incidenza che esso spiega su diritti reali immobiliari, sia pure in via mediata, tramite l'assunzione di obbligazioni – si pone in termini identici per il contratto risolutorio del preliminare stesso. Da notare invece che, come ritenuto da Sez. 6-5, n. 21764/2015, Caracciolo, Rv. 636996, la semplice modifica della clausole di un contratto per il quale la forma scritta è richiesta solo ad probationem e non ad substantiam (nella specie, si trattava di un contratto di affitto di azienda stipulato in forma pubblica ex art. 2556 c.c.), così come la risoluzione consensuale, non deve essere pattuita necessariamente con un accordo esplicito dei contraenti, potendo risultare anche da un comportamento tacito concludente. Sui limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, si è espressa Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634413", sottolineando che tali 161 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE limiti, così come quelli di valore previsti dall'art. 2721 c.c.. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo, qual è il curatore che agisce in revocatoria fallimentare. In applicazione di tale principio la Corte ha quindi ritenuto ammissibile la prova per presunzioni dell'accordo, intervenuto tra il fallito ed il convenuto nel giudizio di revocatoria, diretto a porre in essere una situazione di coesistenza di reciproci debiti allo scopo di ottenerne l'estinzione per compensazione in danno degli altri creditori. Quale coerente applicazione di tale assunto, Sez. 2, n. 05165/2015, Migliucci, Rv. 634706, ha ritenuto l'inammissibilità della prova testimoniale (salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento) e di quella per presunzioni, in relazione ad una contraversia instaurata per accertare l'esistenza di un rapporto di agenzia tra le parti ed ottenere il pagamento dei relativi compensi provvisionali: il contratto di agenzia, infatti, deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 1742, comma 2, c.c., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, sicché la prova della sua esistenza non può rivacarsi, come nella specie asserito, neppure dai documenti comprovanti l'effettuazione delle prestazioni riconducibili al rapporto. Va tuttavia ricordato che, in mancanza di espressa previsione normativa della forma scritta, vige nel nostro ordinamento il principio generale di libertà di forma, in applicazione del quale Sez. L, n. 04176/2015, Nobile, Rv. 634576, ha ritenuto valido l'accordo aziendale anche se non stipulato per iscritto, affermando conseguentemente che non è necessaria la forma scritta neppure per la ratifica di un accordo aziendale stipulato da falsus procurator, ossia da organizzazione aziendale priva di rappresentanza, e che, pertanto, la ratifica potrebbe intervenire anche per facta concludentia. Con riferimento, infine, ai contratti stipulati con la P.A., Sez. 1, n. 05263/2015, Nappi, Rv. 634726, ha ricordato che gli stessi devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta con la sottoscrizione di un unico documento, salva la deroga prevista dall'art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, per i contratti con le imprese commerciali, che possono essere conclusi attraverso atti non contestuali, a mezzo di corrispondenza "secondo l'uso del commercio". Anche in quest'ultimo caso, precisa la sentenza citata, 162 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE non è comunque sufficiente che da atti scritti risultino comportamenti attuativi di un accordo solo verbale e, pertanto, le fatture prodotte in giudizio dalla P.A. convenuta non possono rappresentare la forma scritta dell'accordo e non sono neppure suscettibili di rappresentare un comportamento processuale implicitamente ammissivo del diritto sorto dall'atto negoziale non esibito. Su tale argomento è intervenuta anche Sez. 1, n. 12316/2015, Valitutti, Rv. 635756, la quale ha puntualizzato che i menzionati contratti stipulati dalla P.A. a trattativa privata ai sensi dell'art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, pur richiedendo in ogni caso la forma scritta ad substantiam, possono anche non risultare da un unico documento, ove siano stipulati secondo l'uso del commercio e riguardino ditte commerciali. Peraltro, la medesima pronuncia ribadisce che, ai fini del perfezionamento del contratto, occorre in ogni caso lo scambio di proposta e accettazione, non potendo ritenersi sufficiente che la forma scritta investa la sola dichiarazione negoziale della Amministrazione, né che la conclusione del contratto avvenga per facta concludentia, con l'inizio dell'esecuzione della prestazione da parte del privato attraverso l'invio della merce e delle fatture, secondo il modello dell' accettazione tacita previsto dall'art. 1327 c.c. Il requisito della forma scritta ad substantiam per i contratti della P.A. si atteggia, però, in modo peculiare nel contratto di patrocinio legale, in quanto, come chiarito da Sez. 6-3, n. 03721/2015, Amendola, Rv. 634430, in tale ipotesi il predetto requisito è soddisfatto mediante il rilascio al difensore, ai sensi dell'art. 83 c.p.c., con atto pubblico o scrittura privata autenticata, di una procura generale alle liti purché in essa sia puntualmente fissato l'ambito delle controversie per le quali opera. 8. Preliminare del preliminare, preliminare ed esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre. Merita in primo luogo risalto Sez. U, n. 04628/2015, D'Ascola, Rv. 634761, la quale, rivisitando un precedente orientamento espresso dalla stesse Sezioni Unite (con sentenza n. 8038 del 2009), ha affermato che la stipulazione di un contratto "preliminare di preliminare", ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l'esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un 163 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La medesima pronuncia ha precisato, altresì, che la violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, è idonea a fondare, per la mancata conclusione del contratto stipulando, una responsabilità contrattuale da inadempimento di una obbligazione specifica sorta nella fase precontrattuale. La nozione di "causa concreta" è stata la chiave di lettura utilizzata dalle Sezioni Unite nella citata sentenza per riconsiderare gli approdi schematici ai quali erano pervenute in passato dottrina e giurisprudenza (quest'ultima definendo il "preliminare del preliminare" come "una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela"): tale via interpretativa ha, infatti, condotto le Sezioni Unite ad osservare che dietro la stipulazione contenente la denominazione di "preliminare del preliminare" vi possono essere situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche, ma alle quali corrisponde una "causa concreta" meritevole di tutela, sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale che vede intensificato e meglio praticato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c. In tema di contratto preliminare di vendita, Sez. 2, n. 04164/2015, Matera, Rv. 634464, ha opportunamente precisato che il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell'altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l'acquisto del promissario direttamente dall'effettivo proprietario. La medesima sentenza ha sviluppato tale principio affermando che il promissario acquirente, il quale ignori che il bene, all'atto della stipula del preliminare, appartenga in tutto od in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo, in quanto il promittente venditore, fino a tale momento, può adempiere all'obbligazione di fargli acquistare la proprietà del bene, acquistandola egli stesso dal terzo proprietario o inducendo quest'ultimo a trasferirgliela. Affrontando il particolare caso di un contratto preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa, Sez. 6-2, n. 01866/2015, D'Ascola, Rv. 635010, ha ritenuto che, qualora uno dei promittenti venditori sia stato dichiarato fallito anteriormente alla 164 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE stipula del preliminare, la relativa dichiarazione di volontà è invalida, sicché va escluso che l'accordo si sia concluso, ovvero che il promissario acquirente possa agire ex art. 2932 c.c. nei confronti dei restanti promittenti, in quanto, in mancanza di prova contraria, le singole manifestazioni di volontà dei contraenti non hanno specifica autonomia perché destinate a fondersi in un'unica dichiarazione negoziale sul presupposto che il bene costituisca un "unicum" inscindibile. Qualora invece si versi in una ipotesi di preliminare di vendita nel quale il promissario acquirente si sia riservato la facoltà di nominare un terzo fino al tempo del rogito ma la electio amici non sia intervenuta prima di tale momento, Sez. 2, n. 04169/2015, Parziale, Rv. 634705, ha ritenuto che lo stesso promissario possa agire per l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto effettuando la nomina al più tardi in seno alla domanda giudiziale, risultando invece tardiva la nomina intervenuta in corso di giudizio, con conseguente consolidamento degli effetti del contratto in capo all'originario contraente. Interessante è anche la puntualizzazione di Sez. 2, n. 21855/2015, Nuzzo, Rv. 636876, in merito alla dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia a norma dell'art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, la quale, avendo natura negoziale, deve essere fatta dalla parte, sicché la sentenza ex art. 2932 c.c. non può essere pronunciata in base a una dichiarazione del difensore del promissario acquirente. È stato infine evidenziato da Sez. 6-3, n. 08607/2015, Carluccio, Rv. 635149, con specifico riferimento al preliminare di locazione, che la sentenza ex art. 2932 c.c.. non ha efficacia retroattiva e vale solo per il futuro, sicché è inidonea ad assicurare tutela al promittente locatore per il periodo pregresso relativamente ai canoni non percepiti, i quali possono, invece, essere ottenuti tramite le domande di risarcimento del danno o indennità d'occupazione. A fronte di tale principio, e dunque in considerazione della non idoneità della norma invocata ad assicurare il bene della vita chiesto dall'attore, è stata rigettata l'azione ex art. 2932 c.c. promossa con riferimento ad un preliminare di locazione a termine, avente scadenza anteriore alla data dell'eventuale sentenza, finalizzata ad ottenere il pagamento di tutti i canoni pregressi. 9. Condizione. In materia di condizione, di particolare interesse è la fattispecie esaminata da Sez. 2, n. 05411/2015, Picaroni, Rv. 634905, con rifemento all'ipotesi in cui l'acquisto della 165 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE proprietà immobiliare sia subordinato alla condizione sospensiva del rilascio della concessione edilizia: in tal caso, chiarisce la citata pronuncia, la verifica dell'avveramento dell'evento dedotto in condizione si estende alla valutazione della legittimità della concessione edilizia rilasciata poiché, nelle controversie tra privati derivanti dall'esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici, ciò che rileva è la lesione di diritti soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime, mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente. Secondo Sez. 2, n. 02119/2015, Scalisi, Rv. 634208, inoltre, le parti di un contratto preliminare avente ad oggetto un terreno lottizzando possono condizionare risolutivamente l'efficacia del contratto stesso alla mancata approvazione entro un certo termine del piano di lottizzazione, quale momento autonomo rispetto alla convenzione: ciò in quanto, chiarisce la sentenza in discorso, il piano di lottizzazione costituisce presupposto logico-giuridico della conseguente convenzione di lottizzazione, e il relativo procedimento amministrativo si perfeziona con la sua approvazione da parte del Comune, ai sensi dell'art. 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, mentre la stipula della convenzione stessa e la sua trascrizione ne costituiscono condizioni di efficacia. 10. Interpretazione e qualificazione del contratto. Con riferimento all'individuazione dei canoni ermeneutici rilevanti nell'attività ricostruttiva della volontà delle parti, degna di particolare rilievo è Sez. 1, n. 05102/2015, Nazzicone, Rv. 634641, che ha sottolineato come fra i criteri enunciati dall'art. 1362 c.c. (il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale) non esista un preciso ordine di priorità, essendo gli stessi destinati ad integrarsi a vicenda nell'ottica di un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione, che devono fondersi ed armonizzarsi nell'apprezzamento dell'atto negoziale. Nella stessa pronunzia si è precisato che "la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l'integrazione (il senso complessivo)" costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico, nel quale l'oggetto della ricerca è il significato obiettivo del testo. Ed in tale ottica, il senso letterale delle parole è il primo, ma non esclusivo strumento, imponendosi un'indagine comprensiva dell'elemento logico attraverso gli altri canoni interpretativi che devono fondersi ed armonizzarsi fra loro. 166 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Tale impostazione, si è infine specificato, mantiene la sua validità anche quando a redigere l'atto sia un pubblico ufficiale, le cui espressioni linguistiche, pur tenuto conto del maggiore tecnicismo che al soggetto pertiene, vanno interpretate sempre secondo i canoni generali degli artt. 1362 c.c. e ss. Una significativa declinazione di tale principio, in materia di assicurazione sanitaria, è quella rinvenibile in Sez. 3, n. 17020/2015, Stalla, Rv. 636323, che nel contesto di un'operazione ermeneutica diretta ad individuare gli interventi previsti in contratto come rimborsabili, ha affermato che una corretta implicazione di tutti i criteri normativi impone di verificare se nel testo contrattuale la descrizione degli interventi provvisti di copertura sia formulata con riguardo allo scopo terapeutico perseguito e non già alle tecniche utilizzate per la sua realizzazione, così da includervi anche quelle che, sebbene non previste espressamente dalla lettera del contratto, possano considerarsi più avanzate ma al contempo sempre rivolte al medesimo obiettivo. Ciò, invero, in quanto la ricostruzione della volontà dei contraenti non può limitarsi al senso letterale delle parole, ma considerare anche le finalità concretamente perseguite dalle parti; il dato testuale, infatti, pur assumendo un rilievo interpretativo fondamentale, non è in sé dirimente a tal fine, potendosi ritenere definitivamente acquisito il significato delle dichiarazioni negoziali solo al termine del processo ermeneutico da estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore. Tale metodo ricostruttivo è necessario anche in presenza di espressioni che appaiano in sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un'espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione, ovvero se posta in relazione al comportamento complessivo delle parti. In tema di qualificazione, si segnalano due pronunzie relative agli atti unilaterali che si collocano in linea di continuità con una posizione già assunta da alcune pronunzie degli anni precedenti, concernente la questione della natura – negoziale o di mera dichiarazione di scienza – delle quietanze liberatorie. Sez. L, n. 09120/2015, Blasutto, Rv. 635291, ha ribadito che detta quietanza – ove rilasciata "a saldo di ogni pretesa" – deve essere intesa di regola come semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto come semplice dichiarazione di scienza; 167 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE diversamente, ove nella quietanza siano ravvisabili specifici elementi – contenuti nella stessa dichiarazione o desumibili aliunde – donde emerga che la parte l'ha resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti, la stessa va qualificata come negozio di rinunzia o transazione. Per tale ragione, la Corte ha nella specie attribuito valore negoziale ad una quietanza rilasciata dal prestatore di lavoro al proprio datore, in relazione alla quale erano emerse intese negoziali pregresse che rivelavano il comune intento delle parti di definire ogni pretesa riferibile al rapporto di lavoro subordinato e di costituirne uno di collaborazione autonoma, in funzione al tempo stesso transattiva e novativa. In forza del medesimo, richiamato, principio, Sez. L, n. 18094/2015, Amendola, Rv. 637023, ha invece ritenuto non ravvisabili gli estremi di un negozio abdicativo nella dichiarazione di un dipendente resa prima dell'erogazione delle competenze di fine rapporto, di non avere pretese fondate sulla prestazione dopo aver ricevuta una somma una tantum, con conseguente esclusione di ogni rinunzia dello stesso al computo nel TFR di un assegno percepito durante un periodo di distacco all'estero. 11. Esecuzione secondo buona fede. Al tema dell'esecuzione del contratto secondo buona fede sono ispirate alcune pronunzie relative al rapporto di lavoro subordinato. In particolare Sez. L, n. 16465/2015, Roselli, Rv. 636749, ha ravvisato la contrarietà a buona fede, e perciò l'idoneità a costituire illecito disciplinare, nell'espletamento da parte del lavoratore di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia quando, pur non derivando da tale comportamento un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, questa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente. Ancora, Sez. L, n. 18972/2015, Blasutto, Rv. 637045, in materia di pubblico impiego cd. privatizzato, ha affermato che gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, rivestendo natura negoziale, sono soggetti all'applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., che obbligano la P.A. a valutazioni comparative motivate, pur restando la scelta rimessa alla discrezionalità datoriale. La Corte ha conseguentemente ritenuto che, ove la P.A. non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni della selezione, l'illegittimità della stessa renda necessaria una nuova 168 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE valutazione datoriale, senza possibilità di un intervento sostitutivo del giudice. Al principio di buona fede nell'esecuzione contrattuale è poi ispirata la decisione Sez. 3, n. 19212/2015, Scarano, Rv. 637014, che affrontando il tema della completezza del consenso informato in ambito chirurgico ha ritenuta la responsabilità del medico non solo nel caso di completa omissione di informazioni attinenti alla natura, ai rischi ed alle possibilità di successo della terapia, ma anche quando il consenso sia acquisito con modalità improprie (ed in specie verbalmente), avuto riguardo alle condizioni soggettive del paziente ed alla natura dei trattamenti da eseguire. 12. Clausola penale e caparra. In tema di reductio ad aequitatem della penale A tale In tema di caparra confirmatoria, e sempre con riferimento ai poteri convenzionalmente stabilita dalle parti, Sez. 6-1, n. 17731/2015, Cristiano, Rv. 636526, nel ribadire che la scelta di ridurre la penale e la misura della riduzione costituiscono l'esito di un apprezzamento riservato al giudice del merito, ha però sottolineato la necessità che questi espliciti le ragioni che lo hanno indotto a ritenere eccessivo l'importo originario. specifico riguardo vengono in rilievo due criteri, ovvero (a) la valutazione dell'interesse del creditore all'adempimento alla data di stipulazione del contratto e (b) l'effettiva incidenza dell'adempimento sullo squilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, il tutto a prescindere da una rigida ed esclusiva correlazione con l'effettiva entità del danno subito. officiosi del giudice, è stato poi riaffermato da Sez. 2, n. 19502/2015, Manna, Rv. 636568, che in presenza di una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, poiché la risoluzione e la nullità producono effetti diversi sul piano risarcitorio ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni. Infine, in merito ai rapporti fra caparra confirmatoria e tutela della parte non inadempiente, Sez. 1, n. 05095/2015, Scaldaferri, Rv. 634687, ha ribadito il principio, introdotto da altre pronunzie recenti, secondo cui la ritenzione della caparra confirmatoria consiste in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta a consentire l'immediata definizione del rapporto in caso di 169 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE inadempimento, evitando l'instaurazione di un contenzioso per la liquidazione. Infatti il recesso previsto dal secondo comma dell'art. 1385 c.c. configura una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone l'inadempimento della controparte ed è destinata a divenire operante con la semplice sua comunicazione a quest'ultima; sicché la parte non inadempiente, provocata tale risoluzione mediante diffida ad adempiere, ha diritto di ritenere quanto ricevuto a titolo di caparra confirmatoria come liquidazione convenzionale del danno da inadempimento. 13. Rappresentanza e ratifica. Il tema del contratto concluso dal rappresentante senza poteri è stato oggetto di rilevanti pronunzie che ne hanno riguardato tanto gli aspetti processuali – con particolare riferimento alla proponibilità della relativa eccezione – quanto quelli sostanziali, nella specie attinenti alla forma ed agli effetti della ratifica. Sotto il profilo processuale, le Sezioni Unite sono state investite della questione di massima di particolare importanza se l'inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d'ufficio o solo su eccezione di parte. In tal senso, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – cui, da ultimo, si era attenuta anche Sez. 1, n. 05105/2015, Didone, Rv. 634774 – si attestava nel senso di ritenere che il contratto concluso dal rappresentante senza poteri non fosse invalido ma soltanto inefficace nei confronti dello pseudo- rappresentato, fino all'eventuale ratifica di questo, e tale inefficacia (temporanea) fosse rilevabile unicamente su eccezione del falso rappresentato e non d'ufficio; ed invero, in sede remittente tale orientamento era stato ritenuto non adeguatamente giustificato alla luce dell'inesistenza di un vincolo giuridico, nonché confliggente con il principio – ormai largamente affermato – secondo cui il giudice del merito può rilevare d'ufficio la mancata conclusione del contratto per difetto d'incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell'inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell'accertamento di un controdiritto, materia di eccezione in senso proprio. A tale ultimo approdo sono giunte le Sezioni Unite con la sentenza Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, affermando che la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto da parte dello pseudo-rappresentato integra una mera difesa; ciò in 170 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE quanto l'esistenza di un effettivo potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice – ove ciò risulti dagli atti – non può non tenerne conto anche in mancanza di una specifica richiesta di parte. In linea con tale statuizione si colloca Sez. 1, n. 20564/2015, Valitutti, 637344, che per il caso in cui lo pseudo-rappresentato agisca in giudizio formulando una domanda che presupponga l'efficacia del contratto concluso in suo nome dal falsus procurator, ovvero si costituisca adottando un contegno processuale univocamente significativo della sua volontà di fare proprio tale contratto, l'originale carenza rappresentativa è superata in virtù di una ratifica tacita del negozio, il che ulteriormente esclude la possibilità di un suo rilievo officioso. Quanto, poi, alla forma ed agli effetti della ratifica, si connotano di particolare rilievo Sez. 2, n. 11453/2015, Mazzacane, Rv. 635511, secondo cui la ratifica del preliminare di vendita immobiliare stipulato dal falsus procurator può anche consistere nell'atto di citazione col quale il rappresentato chiede la risoluzione per inadempimento del promissario acquirente, implicando tale domanda l'univoca volontà del dominus di far proprio l'operato del rappresentante senza poteri, e Sez. 6-3, n. 05906/2015, Cirillo, Rv. 634904, che in un'ipotesi di ratifica del contratto contenente clausole vessatorie ne ha ritenuta l'estensione anche a queste ultime (ancorchè mai formalmente sottoscritte dal rappresentato), non potendo il ratificante arbitrariamente scindere il contenuto della ratifica ed ipotizzare che essa sia operativa per certe clausole e non per altre. In tema di rappresentanza apparente, una peculiare applicazione del principio dell'affidamento in tema di responsabilità delle associazioni sportive si deve a Sez. 3, n. 01451/2015, Vincenti, Rv. 634092, che ha attribuito rilievo alla cd. apparenza di diritto "colpevole" stabilendo che l'associazione non riconosciuta risponde con il proprio fondo comune delle obbligazioni assunte dal rappresentante apparente, ove abbia colpevolmente ingenerato nel terzo di buona fede la ragionevole convinzione in ordine all'esistenza di poteri di rappresentanza non corrispondenti a quelli risultanti in base allo statuto. Al principio dell'apparenza è ispirato anche quanto puntualizzato da Sez. 3, n. 05208/2015, Stalla, Rv. 634929, che ne ha considerati i risvolti applicativi in tema di efficacia dell'atto di costituzione in mora. 171 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE La pronunzia, in particolare, ha preso in considerazione l'effetto interruttivo della mora sulla prescrizione, e muovendo dal presupposto della piena efficacia in tal senso dell'atto di costituzione indirizzato al rappresentante del debitore, ha ritenuto l'idoneità a tal fine dell'atto inviato dal difensore del creditore a quello del debitore una volta appurato che questi possa considerarsi rappresentante effettivo o apparente del primo; tale ultima ipotesi, in particolare, ha ritenuto ricorrere quando il difensore del debitore abbia risposto in nome e per conto del cliente ad una richiesta di pagamento, facendo valere in via stragiudiziale le ragioni del proprio assistito. Quanto, infine, alla forma della procura, di particolare rilievo appare Sez. 2, n. 20345/2015, Manna, Rv. 636599, in relazione alla rappresentanza a ricevere il pagamento di cui all'art. 1188, comma 1, c.c.; detta pronunzia ha affermato infatti che, trattandosi di atto materiale, tale ultima non è soggetta al rispetto di oneri formali (che la regola dettata dall'art. 1392 c.c. impone ai soli atti unilaterali negoziali) e può così risultare da una condotta concludente, dimostrabile con ogni mezzo, incluse le presunzioni. 14. Contratto per persona da nominare e contratto a favore di terzi. In tema di contratto per persona da nominare, si segnalano alcune pronunzie di rilievo relative alla electio amici. Sez. 2, n. 15944/2015, Picaroni, Rv. 636020, ha affermato che in ipotesi di contratto preliminare di compravendita immobiliare per persona da nominare il requisito formale della dichiarazione di nomina è soddisfatto ove la electio amici avvenga in sede di assemblea dei soci della promittente venditrice con verbalizzazione e sottoscrizione da parte del socio assegnatario, promissario acquirente, nonché del terzo nominato. Per l'ipotesi in cui la electio amici non sia intervenuta prima del rogito, come pattuito in sede di contratto preliminare, Sez. 2, n. 04169/2015, Parziale, Rv. 634705, ha precisato che la nomina può essere validamente effettuata dal promissario acquirente che agisca per l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto, purchè, al più tardi in seno alla domanda giudiziale, derivandone, ove svolta in corso di giudizio, la sua tardività ed il conseguente consolidamento degli effetti del contratto in capo a se stesso. Di particolare interesse è poi Sez. 3, n. 09595/2015, Vincenti, Rv. 635312, relativa all'ipotesi di impugnazione per revocatoria dell'acquisto da parte del terzo nominato. 172 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE La pronunzia in questione – in conformità ai principi consolidati in tema di accertamento dei presupposti per l'esercizio dell'azione nell'ambito di vendite immobiliari attuate secondo la scansione contratto preliminare/contratto definitivo – ha infatti ritenuto che l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 2901, comma 1, n. 2), c.c., sia anzitutto valutato con riguardo al nominato ed al momento di accettazione della nomina; e solo ove tale valutazione dia esito negativo debba aversi riguardo agli stati soggettivi del nominante, trovando applicazione l'art. 1391 c.c., poiché nel contratto per persona da nominare i rapporti tra il dichiarante e la persona nominata sono regolati dalla disciplina della rappresentanza volontaria. Con riferimento al contratto a favore di terzi, si segnala regolato dalla Convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956 (resa esecutiva in Italia con l. 6 dicembre 1960, n. 1621), per l'ipotesi di subtrasporto su iniziativa del vettore. Logico corollario di tale impostazione è la legittimazione del destinatario, quale beneficiario del contratto, ad esercitare nei confronti del subvettore tutti i diritti derivanti dalla sua sostituzione al mittente, compreso quello di esigere il risarcimento del danno per la perdita o l'avaria delle cose. Alla disciplina del contratto a favore di terzi è poi stata ricondotta da Sez. L., n. 10724/2015, Buffa, Rv. 635668, anche l'ipotesi del contratto di assicurazione stipulato dal datore di lavoro in favore dei propri dipendenti ai sensi dell'art. 4 del r.d.l. 8 gennaio 1942 n. 5 (in sostituzione dell'iscrizione al Fondo per l'indennità agli impiegati, previsto dal medesimo decreto); con la conseguenza che, per l'ipotesi di diminuzione di rendimento dei premi ricollegabile a determinazioni datoriali (quali in specie l'omessa riliquidazione delle spettanze di fine rapporto mediante inclusione nell'indennità di buonuscita delle differenze del rendimento dei premi di polizza), si configura una revoca del contratto a favore di terzi a suo tempo stipulato, ed il "congelamento" del capitale è efficace nei confronti di coloro che, assunti successivamente alla stipula della convenzione, non potessero aver dichiarato di volerne profittare. 15. Simulazione. In tema di simulazione va dato particolare risalto alle pronunzie relative alla prova dell'accordo simulatorio. Di sicuro rilievo è Sez. 1, n. 15845/2015, Genovese, Rv. 636446, che ha precisato come il principio di prova scritta idoneo a Sez. 3, n. 14665/2015, Amendola, Rv. 636093, che ne ha esteso la disciplina al contratto di trasporto internazionale di merci su strada 173 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE consentire l'ammissione della prova testimoniale per l'accertamento tra le parti della simulazione assoluta (art. 1417 c.c.) può anche essere costituito da una scrittura non firmata (nella specie, un'intervista rilasciata dalla parte ad un giornalista) purché le dichiarazioni in essa contenute siano state espressamente o tacitamente accettate dal dichiarante, del quale non è così necessaria la sottoscrizione. In tema di prova dell'interposizione fittizia di persona, Sez. Sez. 6 -2 , n. 13634/2015, Giusti, 635906, ne ha ribadita la soggezione ai limiti di cui all'art. 1417 c.c., vertendosi in ipotesi di simulazione relativa. Da tale regola la pronunzia ha fatto discendere la legittimazione del coniuge in regime di comunione legale, estraneo all'accordo simulatorio, a far valere la simulazione con libertà di prova rispetto all'acquisto di un bene non personale effettuato dall'altro coniuge durante il matrimonio mediante apparente intestazione a persona diversa, atteso che tale simulazione impoverisce il patrimonio della comunione legale vulnerando il diritto previsto dall'art. 177, lett. a), c.c. Sullo stesso tema va poi segnalato quanto puntualizzato da , n. 0 Sez. 2 4738/2015, Bursese, Rv. 634675, che ai fini dell'applicazione del relativo regime probatorio ha precisato che in sede di allegazione occorre pur sempre evidenziare il dato imprescindibile della partecipazione all'accordo simulatorio non solo del soggetto interponente e di quello interposto, ma anche del terzo contraente, chiamato ad esprimere la propria adesione all'intesa raggiunta dai primi due secondo un meccanismo effettuale analogo a quello previsto per la rappresentanza diretta. Ove, infatti, manchi in capo al terzo la conoscenza degli accordi intercorsi (ovvero l'adesione ad essi, pur se a lui noti), si verte nella diversa fattispecie dell'interposizione reale di persona. Quanto, infine, alla prova della simulazione del prezzo di compravendita immobiliare, Sez. inerente ad un elemento essenziale del contratto, essa deve risultare per iscritto e soggiace così, fra le parti, ai limiti alla prova 2 , n. 03234/2015, Bucciante, Rv. 6, ha riaffermato la regola secondo cui, trattandosi di prova testimoniale stabiliti dall'art. 2722 c.c.. Un profilo di specifico interesse riveste poi Sez. , n. Rv. 635804, rapporto fra azione di simulazione ed azione revocatoria nei con riferimento al tema del contratti traslativi della proprietà. 63425 13345/2015, Vincenti, 3 174 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Nel ribadire, infatti, la distinzione dei relativi presupposti, la pronuncia ha sottolineato che al fine di ritenere integrati gli estremi della simulazione non è sufficiente la prova dell'alienazione di un bene con l'intento di sottrarlo alla sua generica vocazione di garanzia dei creditori, ma occorre dimostrare che tale alienazione sia stata soltanto apparente, nel senso che né il venditore abbia inteso dismettere la titolarità del diritto, né il compratore abbia inteso acquisirla. Infine, e con riferimento ai profili processuali dell'azione di simulazione, va segnalata Sez. 3, n. 21775/2015, Travaglino, in corso di massimazione, che per il caso di domanda di accertamento della simulazione di un contratto di compravendita ha ritenuto non viziata da ultrapetizione la decisione del giudice di dichiarare la nullità della più ampia operazione negoziale (nella specie: contratto di sale and lease back) in quanto rilevabile d'ufficio, salva la necessaria previa indicazione alle parti ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.c. 16. Nullità del contratto. In questo ambito, un ruolo certamente preminente è rivestito dalla pronunzia Sez. U, n. 04628/2015, D'Ascola, Rv. 634761, che – in relazione al tema della nullità per mancanza di causa – si è pronunziata sulla validità del cd. preliminare di preliminare, ovvero del contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori. Di tale fattispecie era infatti stata precedentemente ritenuta la nullità, non ravvisandosi alcuna meritevolezza di tutela nell'interesse di "obbligarsi ad obbligarsi", in quanto produttivo di un'inutile complicazione. Le Sezioni Unite hanno invece escluso tale nullità, ritenendo che anche nell'accordo con cui le parti si obbligano a concludere un successivo contratto che preveda solamente effetti obbligatori (e con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) possa configurarsi un interesse meritevole di tutela ad una formazione progressiva del contratto fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. Tale interesse, ad avviso delle Sezioni Unite, giustifica la "scissione" delle manifestazioni di consenso, evidenziando che le parti sono incerte ed intendono meglio orientarsi sull'affare, che hanno così esigenza di "fermare", addivenendone al perfezionamento in fasi distinte. 175 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Si tratta, in altre parole, di una progressiva costituzione di vincoli giuridici sull'operazione che le parti hanno inizialmente condivisa negli elementi essenziali, ma della quale intendono fare salva l'esigenza di accertare con certezza la praticabilità prima di definirla in termini più precisi e articolati. In tal senso, ed a titolo esemplificativo delle esigenze di accertamento, la pronunzia ha indicato: a) l'assunzione di elementi di conoscenza sulla persona della controparte; b) la verifica più precisa dello stato della cosa; c) per il caso di compravendita immobiliare, la verifica della situazione urbanistica o l'effettuazione delle necessarie visure e ricerche. Le Sezioni Unite hanno dichiaratamente proceduto, pertanto, ad un'indagine sulla causa del contratto condotta su un binario ben più prossimo alla teoria della cd. causa concreta che non alla tradizionale identificazione di tale elemento essenziale con la "funzione economico-sociale" del negozio, evidenziando in particolare che "l'indagine relativa alla causa concreta [...] giova sia come criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso [...] la rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale sia l'interesse che il contratto è volto a realizzare". In tale ottica, pertanto, hanno precisato che "una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l'interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all'opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all'art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto [...] se mancano violazioni di una legge imperativa, non v'è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l'interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata. [...] La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere connotata da disvalore, se corrisponde a un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale". Affronta il tema della nullità per mancanza di causa anche Sez. 1, n. 22567/2015, Nappi, in corso di massimazione, escludendone la ricorrenza nell'ipotesi di squilibrio originario fra le prestazioni di un contratto di acquisto di quote societarie. La Corte ha rilevato che nei contratti di scambio la mancanza di causa si configura piuttosto come impossibilità giuridica di una 176 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE delle prestazioni, e lo squilibrio economico originario non priva il contratto di causa, vigendo nell'ordinamento il principio di autonomia negoziale; ragion per cui, nel caso di contratto caratterizzato dallo scambio fra un bene ed un prezzo solo l'indicazione di un prezzo meramente apparente o simbolico – e come tale privo di valore – varrebbe quale causa di nullità, mentre un prezzo notevolmente inferiore al valore della controprestazione pone solo un problema concernente l'adeguatezza e l'effettiva corrispettività delle prestazioni. Infine, e sempre con riferimento alla causa, merita di essere richiamata Sez. 3, n. 05201/2015, Scarano, Rv. 636073, relativa ad una fattispecie in tema di prelazione agraria caratterizzata dal ricorso ad una operazione negoziale complessa avente ad oggetto il trasferimento di un fondo agricolo a mezzo di strumenti contrattuali che, pur leciti, erano finalizzati, nel loro nesso teleologico, ad impedire che l'affittuario esercitasse la prelazione; la Corte ha ritenuto la necessità di procedere, in tal caso, ad un'indagine circa l'effettivo perseguimento dell'obiettivo vietato dalla legge il cui accertamento positivo non comporta la nullità dei contratti, esulando la fattispecie dalla previsione dell'art. 1418 c.c. e dalla tutela generalizzata di cui all'art. 1421 c.c., ma consente al titolare del diritto di retratto, attraverso un meccanismo di protezione che richiama le nullità relative, l'esercizio del medesimo diritto, mediante sostituzione dell'acquirente voluto dal venditore con il soggetto individuato dalla legge. 634967, Un significativo novero di pronunzie ha poi riguardato il tema della nullità per contrarietà a norme imperative, in relazione ad un'ampia gamma di fattispecie negoziali. Sez. 2 , n. 01680/2015, Manna, Rv. ha riaffermato la nullità della clausola contenuta nel contratto di vendita di un'unità immobiliare di un condominio con la quale viene esclusa dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, da intendersi come tutte quelle aventi un'oggettiva e concreta destinazione al servizio anche solo di una parte delle unità di proprietà individuale. Infatti, anche in tale ultimo caso, vertendosi in ipotesi di cd. condominio parziale, tale clausola finirebbe con il concretare la rinunzia di un condomino alle parti comuni, vietata dal capoverso dell'art 1118 c.c. Ancora, Sez. 1, n. 19658/2015, Nappi, 637261, ha escluso che la vendita di un immobile abusivo eseguita nell'ambito di una procedura concorsuale possa soggiacere alla nullità prevista dall'art. 177 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE 40, comma 2, della l. 28 febbraio 1985 n. 47, non applicabile alla fattispecie. Sempre in tema di vendita immobiliare, poi, è stato riaffermato da Sez. 2, n. 18261/2015, Migliucci, Rv. 636444, il principio secondo cui gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono nulli, ai sensi dell'art. 40, comma 2, della l. n. 47 del 1985, sia nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso (nullità di carattere formale). In materia locatizia va poi segnalata Sez. 3, n. 17026/2015, De Stefano, Rv . 636316, concernente la particolare ipotesi di locazione ad uso non abitativo rinnovatosi alla prima scadenza in difetto di disdetta motivata ex art. 27 della l. 27 luglio 1978, n. 392. La Corte ha ritenuto la nullità dell'accordo successivamente intervenuto fra le parti per la stipula di un nuovo contratto con retrodatazione della decorrenza, durata residua (misurata a far tempo dalla data della stipula) inferiore a quella legale ed aumento retroattivo del canone, affermando che si tratta di un accordo chiaramente violativo delle disposizioni inderogabili in materia di durata minima ed immodificabilità del canone in costanza di rapporto. Sempre in materia locatizia, merita di essere segnalata per le sue rilevanti implicazioni sul piano processuale Sez. 3, n. 21930/2015, Sestini, Rv. 637565, secondo cui nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di disporre il rilascio di un immobile per finita locazione, il giudice può rilevare la nullità del contratto, in quanto avente ad oggetto un alloggio di edilizia residenziale pubblica e stipulato in violazione dell'art. 26, comma 5, della legge n. 513 del 1977, ma, al tempo stesso, attribuire all'attore il bene della vita domandato, sul rilievo della carenza di un titolo giustificativo del godimento dello stesso da parte del convenuto, atteso che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato non osta alla attribuzione all'attore del bene reclamato per ragioni giuridiche diverse da quelle dallo stesso prospettate. Di particolare interesse per i suoi profili interpretativi del contenuto dell'art. 1418 c.c. è Sez. 1, n. 07752/2015, Lamorgese, Rv. 634972, che in materia di appalto di opere pubbliche ha affermato che l'ipotesi di nullità per contrarietà a norme imperative di cui all'art. 21 della l. 13 settembre 1982, n. 646 – che vieta all'appaltatore di opere pubbliche di concederle in subappalto senza 178 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE l'autorizzazione dell'autorità competente – si riferisce esclusivamente ai subappalti di opere o servizi, escluso ogni altro contratto derivato dall'appalto, quantunque ad esso strumentale od accessorio; e ciò in un'ottica di stretta interpretazione del precetto invalidante, che diversamente interpretato finirebbe col comportare un'eccessiva limitazione dell'ambito applicativo del subappalto, in contrasto con la normativa comunitaria che lo ritiene strumento idoneo a favorire la concorrenza. Ancora, Sez. 2, n. 03816/2015, Scalisi, Rv. 634523, ha ritenuto la nullità del contratto di cessione della quota sociale di una cooperativa edilizia a contributo statale ex art. 1418, comma 1, c.c. per violazione delle norme imperative contenute negli artt. 91 e 105 del r.d. 28 aprile 1938, n. 1165, che, rispettivamente, vietano la cessione delle quote sociali, e la realizzazione di atti speculativi su alloggi assoggettati – in quanto destinatari di erogazioni pubbliche – al soddisfacimento dell'interesse all'abitazione degli assegnatari e delle loro famiglie appartenenti alle categorie elencate nel citato art. 91. Di conseguenza è stato affermato l'obbligo del cessionario di rimborsare al cedente, ai sensi dell'art. 109 del r.d. citato, la somma versata alla cooperativa per il terreno nonché, nella misura del minor importo tra lo speso ed il migliorato, il costo dei lavori e miglioramenti eseguiti in proprio dall'assegnatario. Da ultimo, Sez. 3, n. 05216/2015, Spirito, Rv. 634660, ha affrontato il tema delle relazioni fra ordinamento sportivo e sistema civilistico in punto alle conseguenze – sul piano della validità del contratto – delle violazioni del primo. Nella fattispecie, concernente l'ipotesi di un contratto di assistenza professionale intervenuto fra un calciatore professionista ed un procuratore in violazione delle regole dell'ordinamento sportivo (per non essere il procuratore iscritto all'apposito albo federale), e senza l'osservanza delle prescrizioni formali richieste, la Corte ha ritenuto che tali violazioni si riflettano necessariamente sulla validità del contratto perché, pur non determinandola direttamente per violazione di norme imperative (quali non sono i regolamenti propri dell'ordinamento sportivo), incidono tuttavia sull'idoneità del contratto ad attuare la sua funzione nello specifico sistema ove essa deve esplicarsi, e quindi sulla sua idoneità a realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico. In tema di nullità per mancanza di forma, un rilievo preminente compete alla pronunzia delle Sezioni Unite, investite 179 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE della questione di massima di particolare importanza relativa alla prescrizione di forma scritta del contratto di locazione di cui all'art. 1, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n. 431. Di tale previsione le Sezioni Unite sono state chiamate a specificare se si tratta di prescrizione ad substantiam ovvero ad probationem tantum, e, nel primo caso, se l'eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione (alla luce della disposizione di cui all'art. 13, comma 5 della stessa legge) ovvero debba intendersi come una nullità assoluta. Con la sentenza Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, le Sezioni Unite hanno affermato che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile anche d'ufficio, essendo la prescrizione funzionale all'esigenza pubblicistica di contrasto all'evasione fiscale; a tanto fa eccezione la sola ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. Meritevole di segnalazione è infine Sez. 1, n. 12316/2015, Valitutti, Rv. 635756, che, in materia di contratti stipulati dalla P.A. a trattativa privata ai sensi dell'art. 17 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, ha affermato che il prescritto requisto della forma scritta ad substantiam è soddisfatto anche ove il consenso negoziale non risulti un unico documento (in conformità a pratiche commerciali diffuse nell'ambito dei contratti di impresa), essendo tuttavia necessario che il perfezionamento del contratto si evinca dallo scambio di proposta e accettazione e non sufficiente una forma scritta che investa la sola dichiarazione negoziale della P.A. La stessa pronunzia ha poi escluso, per le medesime ragioni, che la conclusione del contratto possa avvenire per facta concludentia, con l'inizio dell'esecuzione della prestazione da parte del privato secondo il modello previsto dall'art. 1327 c.c. 17. Annullabilità e rescissione del contratto. In tema di annullabilità dovuta ad incapacità, mette conto segnalare Sez. 1, n. 03456/2015, Genovese, Rv. 635534, che, riaffermando il principio in base al quale in caso di contratto concluso dall'incapace naturale non è legittimata a proporre la relativa domanda la controparte che intenda far prevalere le proprie ragioni su quelle del presunto incapace, ne ha fatta applicazione ad una fattispecie di conferimento di incarico professionale ad avvocato per proporre ricorso per 180 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE cassazione, escludendo che il controricorrente potesse far valere l'asserito vizio della procura rilasciata da soggetto ricoverato in un centro di recupero per tossicodipendenti fin da data anteriore al rilascio della procura medesima. Sul medesimo argomento va inoltre segnalata Sez. L, n. 19458/2015, De Marinis, Rv. 637238, che per l'ipotesi di incapacità naturale di uno dei contraenti ha ritenuto, ai fini dell'annullamento, che la sussistenza del gravissimo pregiudizio a carico dell'inapace costituisca un indizio dell'ulteriore requisito della malafede dell'altro contraente, ma non lo provi in sè. Un'ipotesi di annullamento dovuto a violenza morale, seppure riferita ad un atto unilaterale quale il recesso del lavoratore, è quella presa in esame da Sez. L, n. 15161/2015, D'Antonio, Rv. 636414. La fattispecie concerneva le dimissioni rassegnate dal lavoratore e riconducibili ad una condotta datoriale intimidatoria ed obiettivamente ingiusta, della quale veniva riconosciuta l'idoneità a costituire una decisiva coazione psicologica, in correlazione con il particolare contesto ambientale lavorativo (il clima aziendale era pervaso da dicerie che prospettavano il licenziamento o le dimissioni del lavoratore pur a fronte di un fatto inidoneo a giustificare la risoluzione del rapporto); circostanze, tutte queste, idonee ad integrare un vizio del consenso invalidante secondo l'accertamento del giudice di merito che la Corte ha ritenuto insindacabile nei suoi profili intrinseci. Per il caso in cui la violenza morale sia consistita nella minaccia di far valere un diritto, Sez. 1, n. 20305/2015, Ferro, Rv. 637342,, ha riaffermato la necessità che questa sia comunque diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, il che si verifica quando l'autore della condotta ne persegua un fine ultimo che sia diverso da quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto in questione nonché esorbitante ed iniquo rispetto al suo oggetto. Sez. 3, n. 12892/2015, Pellecchia, Rv. 635929, ha riaffermato che ai fini dell'annullamento del contratto per consenso viziato da dolo occorre che i raggiri usati siano stati tali che, senza di essi, l'altra parte non avrebbe prestato il proprio consenso, ovvero si sia ingenerata in essa una rappresentazione alterata della realtà, provocando nel suo meccanismo volitivo un errore da considerarsi essenziale ai sensi dell'art. 1429 c.c. Non è dunque sufficiente a produrre l'annullamento del contratto – ha proseguito la Corte – una qualunque influenza psicologica sull'altro contraente, occorrendo da parte del deceptor una 181 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE condotta munita di efficienza causale sulla determinazione volitiva della controparte. Una specifica segnalazione sul tema merita infine Sez. 3, n. 12083/2015, Armano, Rv. 635561, che ha affrontato il problema dell'azionabilità dei rimedi conseguenti a vizi del consenso da parte del convenuto per l'adempimento del contratto, esprimendosi in senso affermativo sia pur con un'opportuna distinzione. La Corte ha infatti affermato che il convenuto può sollevare la relativa questione in forma di domanda ove non sia ancora decorso il termine prescrizionale; ovvero sollevare eccezione di annullamento ai sensi dell'art. 1442, ultimo comma, c.c., senza alcuna soggezione ai limiti di prescrizione, all'unico scopo di paralizzare la pretesa di controparte. In tema di rescissione del contratto merita di essere segnalata Sez. 6-2, n. 01651/2015, Manna, Rv. 634016, che ha riaffermato il principio secondo cui in tema di rescissione per lesione l'approfittamento dello stato di bisogno implica la consapevolezza, da parte del contraente in posizione di vantaggio, tanto dello stato di bisogno altrui quanto dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali che ne deriva, non essendo sufficiente una mera ipotesi in tal senso. Muovendo da tale considerazione, si è esclusa la praticabilità del rimedio in difetto di prova dell'utilizzo consapevole, da parte dell'acquirente di un immobile asseritamente avvantaggiato, delle condizioni di ristrettezza economica in cui versava l'alienante. 18. Risoluzione del contratto. Con riferimento alla risoluzione per inadempimento si segnalano diverse pronunzie che hanno riguardato il tema della non scarsa importanza dell'inadempimento ai fini del rilievo di idoneità dello stesso a dar luogo al rimedio risolutorio. Nel richiamare il principio che impone, al riguardo, una valutazione di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, dalle quali sia possibile desumere l'alterazione dell'equilibrio contrattuale, Sez. 2, n. 10995/2015, Proto, Rv. 635646, ne ha fatto coerente applicazione in una fattispecie di vendita con riserva di proprietà, valutando in termini di gravità l'inadempimento del compratore non solo in ragione del numero delle rate scadute ed impagate, ma anche avuto riguardo all'intenzione che costui aveva manifestata prima del giudizio di non voler provvedere al pagamento dei ratei successivi. 182 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Un'altra applicazione specifica di tale principio è contenuta nella pronunzia Sez. 1, n. 12321/2015, Genovese, Rv. 635695, attinente al settore degli appalti pubblici. La sentenza ha affermato che l'inadempimento del committente alla prescrizione di cui all'art. 5 del r.d. 25 maggio 1895, n. 350 – che impone alla stazione appaltante una verifica del progetto, in relazione al terreno e ad altre invarianti – giustifica la risoluzione del contratto solo se ritenuto prevalente su altre e contrapposte inadempienze e sempreché renda praticamente impossibile l'esecuzione dell'opera da parte dell'appaltatore, dovendosi, invece, escludere che una tale violazione possa essere considerata in sé come causa di improseguibilità dell'opera. Di particolare interesse per i risvolti applicativi nell'ambito dei contratti aventi ad oggetto un'obbligazione di risultato è Sez. 2, n. 17048/2015, Lombardo, Rv. 636137, che ha confermato il rigetto della domanda di risoluzione di un contratto d'opera relativo ad un progetto destinato ad un possibile finanziamento pubblico sulla base del fatto che il finanziamento non era poi stato erogato. La Corte ha osservato che il risultato prefissato consisteva nella realizzabilità del progetto, ovvero nella sua intrinseca validità ed astratta idoneità al conseguimento del finanziamento pubblico, sicché l'omessa concreta erogazione non poteva rilevare in un'ottica valutativa dell'adempimento contrattuale, trattandosi di elemento estraneo al risultato da garantire ed invece condizionato da variabili indipendenti dalla prestazione professionale commissionata. La valutazione della gravità nell'ambito del contratto di lavoro subordinato è poi oggetto della pronunzia Sez. L, n. 14310/2015, Doronzo, Rv. 635986, resa in tema di licenziamento cd. per scarso rendimento. In proposito la Corte ha osservato che, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie e proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire indice di inesatta esecuzione della prestazione, fino a connotarla della necessaria gravità, sulla scorta di una valutazione complessiva condotta per un'apprezzabile periodo di tempo. Quanto ai presupposti della risoluzione, in ambito di contratti con la P.A., Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635221, ha dato applicazione al consolidato principio secondo cui, in pendenza o assenza di una condicio juris di efficacia del contratto, questo – 183 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE quantunque perfetto nei suoi elementi costitutivi – non è suscettibile di risoluzione per inadempimento, rimedio che ne presuppone l'efficacia, ed ha così escluso la praticabilità del rimedio nei confronti di un'amministrazione, a prescindere da ogni valutazione del relativo comportamento, mancando il prescritto visto al contratto da parte della Corte dei conti. Quanto invece agli effetti del rimedio risolutorio, di particolare interesse è Sez. 6-1, n. 04267/2015, Ragonesi, Rv. 634448, che, nello specifico settore dei contratti di durata ha sottolineato l'esigenza di rispettare l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni anche una volta intervenuta la risoluzione. Pertanto, vertendosi in ambito di locazione, la pronunzia ha ritenuto il diritto del locatore alle sole controprestazioni del locatario riferibili al periodo di effettivo godimento del bene, e non anche a quelle ulteriori (come l'intero canone annuale di locazione da corrispondersi in via anticipata in base al contratto), prive di giustificazione causale a seguito dello scioglimento del rapporto. Il tema della rinunziabilità degli effetti della risoluzione, tuttora oggetto di soluzioni contrastanti, è affrontato da Sez. 3, n. 20768/2015, Rossetti, Rv. 637455, che si è espressa in senso negativo riaffermando che la facoltà di rinunziare alla risoluzione, in quanto teoricamente esercitabile sine die, lederebbe il legittimo affidamento del debitore sullo scioglimento del contratto. La materia dei rapporti fra risoluzione giudiziale e stragiudiziale, ed in specie dei relativi profili processuali, è oggetto di Sez. 3, n. 11864/2015, Stalla, Rv. 635478. Tale pronunzia ha ribadito il principio secondo cui la risoluzione di un contratto sulla base di una clausola risolutiva espressa non può essere pronunciata d'ufficio, ma postula la corrispondente e specifica domanda giudiziale della parte nel cui interesse quella clausola è stata prevista, così escludendo che a fronte di un'ordinaria domanda ex art. 1453 c.c. la parte potesse mutarla in richiesta di accertamento dell'avvenuta risoluzione ope legis di cui all'art. 1456 c.c. A tanto la Corte è addivenuta avuto riferimento sia alla radicale difformità delle due pretese (l'una volta ad una pronunzia costitutiva, l'altra ad una dichiarativa), sia alla diversità dei fatti che le fondano, costuiti nel primo caso dall'inadempimento grave e colpevole e nel secondo dalla violazione della clausola risolutiva espressa. Ancora con riferimento alla correlazione fra risoluzione giudiziale e clausola risolutiva espressa, Sez. 3, n. 18320/2015, 184 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE Carluccio, Rv. 637458 e Rv. 637459, ha precisato che la parte che rinunzi ad avvalersi della clausola non riconosce, per ciò solo, la perdita di importanza dell'inadempimento ivi contemplato, che – anzi – nell'eventuale giudizio ex art. 1453 c.c. fondato su reciproche inadempienze assume rilievo preponderante nella valutazione comparativa, stante l'originario risalto che le parti intesero attribuire alla specifica obbligazione. D'interesse per i profili processuali dell'azione di risoluzione è poi Sez. 6-2, n. 16388/2015, Giusti, Rv. 636169, riferita ai rapporti fra quest'ultima e l'azione di esatto adempimento. La pronunzia in questione afferma che la regola contenuta nel capoverso dell'art. 1453 c.c., secondo cui non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la restituzione, incontra una deroga nella fattispecie della vendita di cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli non dichiarati dal venditore e ignorati dal compratore. Qui, infatti, l'art. 1482 c.c. subordina la risoluzione del contratto all'inutile decorso del termine stabilito dal giudice per liberare la cosa dai vincoli; pertanto, la domanda giudiziale di risoluzione non ha l'effetto immediato di precludere alla parte inadempiente la possibilità di liberare la cosa dal vincolo, ed ove il venditore vi provveda tempestivamente al compratore è poi consentito di domandare l'adempimento del contratto in luogo della sua risoluzione. Infine, e quanto ai rapporti fra risoluzione e recesso, va richiamata Sez. 1, n. 05095/2015, Scaldaferri, Rv. 634687, che, ribadendo l'orientamento ormai prevalente, ha affermato che il recesso previsto dal secondo comma dell'art. 1385 c.c. configura una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, presupponendo l'inadempimento della controparte. Tale recesso, infatti, non è sussumibile nella previsione dell'art. 1373 c.c., alla quale fa piuttosto riferimento il distinto istituto della caparra penitenziale (art. 1386 c.c.), e costituisce nient'altro che una forma di risoluzione di diritto del contratto, destinata a divenire operante con la semplice comunicazione alla controparte. La Corte ha pertanto conclusivamente sottolineato come l'alternativa tra le due ipotesi regolate dai commi secondo e terzo dell'art. 1385 c.c. – tra le quali la parte non inadempiente può scegliere quella che ritiene più conveniente per sè – non sia tra recesso e risoluzione, bensì tra due discipline della risoluzione, la seconda delle quali consiste nel chiedere, indipendentemente dalla 185 CAP. X - IL CONTRATTO IN GENERALE prevista caparra, la liquidazione del danno subito nella sua effettiva entità che dovrà essere provata. 186 CAPITOLO XI I SINGOLI CONTRATTI (di Francesco Cortesi e Francesco Federici)* CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il contratto di appalto privato. – 3. L'appalto di opere pubbliche. – 4. L'assicurazione. – 4.1. Assicurazione contro i danni. – 4.2. Assicurazione della responsabilità civile. – 4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a. – 4.4. Assicurazione sulla vita. – 5. Il comodato. – 6. Prelazione e riscatto nei contratti agrari. – 7. I contratti bancari (rinvio). – 8. I contratti finanziari (rinvio). – 9. Fideiussione e garanzie atipiche. – 10. Il giuoco e la scommessa. – 11. La locazione. – 11.1. Locazione ad uso abitativo. – 11.2. Locazione ad uso non abitativo. – 11.3. Disciplina della locazione in generale. – 12. Il mandato. – 13. La mediazione. – 14. Il mutuo. – 15. La transazione. – 16. Il trasporto. – 17. La vendita. – 18. I contratti atipici di leasing e factoring. 1. Premessa. Anche nel 2015 la produzione giurisprudenziale in materia di contratti tipici è stata particolarmente copiosa ed anche quest'anno l'appalto (sia privato che di opere pubbliche), l'assicurazione, la locazione e la vendita sono stati i contratti sui quali si è registrato il maggior numero di pronunce. Sono stati generalmente ribaditi principi già noti, ma si registra anche l'insorgenza di qualche contrasto, così come l'intervento delle Sezioni Unite a composizione di altri. Si darà conto nei §§ che seguono di tale giurisprudenza, esaminando in ordine alfabetico i più importanti contratti tipici. Va infine segnalato che per un ordine sistematico si è preferito trattare dei contratti bancari e di quelli finanziari nella parte dedicata al diritto dei mercati finanziari. 2. Il contratto di appalto privato. Significativa è la produzione giurisprudenziale in tema di responsabilità dell'appaltatore, in particolare con riferimento al tema dei rimedi caducatori e conservativi spettanti al committente in presenza di vizi o difformità dell'opera appaltata. Nell'ambito dei rimedi conservativi, Sez. 2, n. 04161/2015, Abete, Rv. 634721, ha precisato che quando il committente li esperisce egli ha il diritto di conseguire la medesima utilità economica che avrebbe ottenuto se l'inadempimento dell'appaltatore non si fosse verificato; tale utilità va determinata (nei limiti del valore dell'opera o del servizio) in relazione al quantum * Sono da attribuire a Francesco Cortesi i §§ 2, 3, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 15, 16, 17 e 18; a Francesco Federici i §§ 4, 10, 12, 13, 14 e 17; per i §§ 7 e 8 vi è rinvio al capitolo XX 187 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI necessario per l'eliminazione dei vizi e delle difformità ovvero al quantum monetario per cui gli stessi vizi e difformità incidono sull'ammontare del corrispettivo in denaro pattuito, e non può tradursi nell'acquisizione di un'utilità economica eccedente. Sez. 2, n. 01585/2015, Abete, Rv. 633976, ha poi precisato che nel giudizio così promosso dal committente, ove venga disposta consulenza tecnica d'ufficio al fine di accertare la sussistenza di vizi o difformità in capo all'opera appaltata, in relazione a quanto venga così riscontrato il committente non è tenuto alla denuncia contemplata a pena di decadenza dall'art. 1667, comma 2, c.c., atteso che la controparte già conosce – o è in grado di conoscere – l'esito dell'indagine peritale. Secondo Sez. 2, n. 01186/2015, Proto, Rv. 633973, quando sia richiesta l'eliminazione dei vizi per le opere già eseguite ma non ancora ultimate non si applica la garanzia ex art. 1668 c.c., presupponendo la stessa il totale compimento dell'opera; il committente può dunque far valere la comune responsabilità contrattuale ex artt. 1453 e 1455 c.c., non preclusa dalle disposizioni di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c. che integrano, senza negarli, i normali rimedi in materia di inadempimento contrattuale. Con riferimento allo specifico rimedio della risoluzione, Sez. 1, n. 03455/2015, Salvago, Rv. 634453, ha riaffermato il principio secondo cui la relativa statuizione soggiace alla regola generale di retroattività dettata dall'art. 1458 c.c.; pertanto, pronunciata la risoluzione i crediti ed i debiti derivanti dal contratto si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti, per ciascuno dei quali si verifica, a prescindere dall'imputabilità dell'inadempimento, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum. D'interesse è poi certamente il principio riaffermato da Sez. 2, n. 04366/2015, Mazzacane, Rv. 634639, in relazione alla tutela risarcitoria del committente in presenza di una domanda di risoluzione. La Corte ha infatti statuito che la domanda risarcitoria correlata a quella di risoluzione non può essere accolta per mancanza dei presupposti ove i vizi dell'opera non siano risultati tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione così da giustificare lo scioglimento del contratto; la correlazione fra le due domande, infatti, postula ch'esse si fondino sulla medesima causa petendi, circostanza – quest'ultima – evincibile dal tipo di pregiudizio lamentato. 188 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI In materia di responsabilità dell'appaltatore per gravi difetti dell'opera si segnalano due pronunzie che giungono ad una divergente applicazione del principio con riferimento alla medesima fattispecie, consistita nella realizzazione di opere su un edificio preesistente. Sez. 2, n. 10658/2015, Piccialli, Rv. 635463, decidendo su una pretesa risarcitoria rivolta nei confronti dell'appaltatore di opere di consolidamento di un corpo di fabbrica ha ritenuto che la responsabilità ex art. 1669 c.c. trovi applicazione esclusivamente quando siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un immobile preesistente, anche se destinate per loro natura a lunga durata. In fattispecie analoga, concernente opere di rafforzamento dei solai e delle rampe di scale di un immobile condominiale, la successiva Sez. 2, n. 22553/2015, Falaschi, Rv. 637031, è invece giunta a soluzione opposta, affermando che risponde ai sensi dell'art. 1669 c.c. anche l'autore di opere su preesistente edificio, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la sua funzionalità globale. Quest'ultima pronunzia, tuttavia, giustifica la diversa impostazione ermeneutica, osservando che la norma suddetta distingue tra «edificio o altra cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata», da un lato, e «opera», dall'altro, e che tale ultima non si identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio; cosicchè anche il termine «compimento», ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé considerato, bensì l'opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio. Ed ancora, precisa la Corte, l'etimologia del termine «costruzione» non va necessariamente ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull'edificio pregresso che abbiano i requisiti dell'intervento costruttivo. Da ultimo, e con riferimento ai risvolti del tema della responsabilità per vizi nei rapporti fra committente e direttore dei lavori, merita una menzione anche Sez. 3, n. 07370/2015, Lanzillo, Rv. 635038, secondo cui il direttore dei lavori, quale rappresentante del committente, deve avere le competenze necessarie a controllare 189 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI la corretta esecuzione delle opere da parte dell'appaltatore e dei suoi ausiliari; altrimenti egli è tenuto ad astenersi dall'accettare l'incarico o a delimitare, sin dall'origine, le prestazioni promesse, rispondendo nei confronti del committente se non rileva in corso d'opera l'inadeguatezza delle opere, sebbene affidate ad altro professionista, salvo che dimostri che i vizi potevano essere verificati solo a costruzione ultimata. 3. L'appalto di opere pubbliche. Diverse e di un certo rilievo sono le pronunzie che hanno riguardato, sotto vari profili, il tema del corrispettivo. Sez. 1, n. 06911/2015, Nappi, Rv. 634896, ha affermato che l'art. 343 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F – nel prevedere l'ipotesi dell'introduzione in un progetto di gara pubblica, già in corso di esecuzione, di variazioni e di aggiunte non previste, che diano luogo ad alterazione dei prezzi dell'appalto, imponendo una distinta sottomissione od un'appendice al contratto principale – non considera tale distinta sottomissione come fatto genetico di un nuovo rapporto ma come patto aggiuntivo dell'originario contratto, cui la seconda pattuizione è causalmente collegata, rinvenendo la sua ragion d'essere nella necessità di adeguare l'esecuzione dell'opera alle esigenze della P.A. Per l'ipotesi di prezzo determinato a corpo od a forfait Sez. 1, n. 05262/2015, Nappi, Rv. 634653, ha precisato che in tal caso il prezzo convenuto è fisso ed invariabile ex art. 326 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. F; pertanto, ove risulti rispettato dalle parti l'obbligo di comportarsi secondo buona fede ex art. 1175 c.c. – in particolare con la rappresentazione da parte dall'appaltante di tutti gli elementi che possono influire sulla previsione di spesa dell'appaltatore – grava su quest'ultimo il rischio relativo alla ulteriore quantità di lavoro che si renda necessaria rispetto a quella prevedibile, dovendosi ritenere che la maggiore onerosità dell'opera rientri nell'alea normale del contratto, con deroga all'art. 1664 c.c.. In proposito la Corte ha ulteriormente precisato che ciò non comporta un'alterazione della struttura o della funzione dell'appalto, che resta un contratto non aleatorio, potendo venire qui in considerazione solo situazioni che finiscano per incidere sulla natura stessa della prestazione. Sez. 1, n. 17782/2015, Campanile, Rv. 636687, ha poi affrontato il tema della cd. sorpresa geologica, affermando che l'equo compenso dovuto all'appaltatore ai sensi dell'art. 1664, comma 2, c.c. per i conseguenti maggiori oneri derivanti da 190 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI difficoltà esecutive rappresenta una forma indennitaria di integrazione del corrispettivo e, pertanto, costituisce un debito di valuta anche se liquidato, secondo equità, prendendo a base i maggiori esborsi dell'appaltatore ed adeguandoli agli indici della sopravvenuta svalutazione monetaria. Gli interessi sono così dovuti con decorrenza dall'intimazione di pagamento ovvero dalla proposizione della domanda da parte dell'appaltatore, e non già dalla formulazione di un'eventuale riserva, non implicando quest'ultima la costituzione in mora della stazione appaltante. Sez. 1, n. 25798/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha ribadito il principio in base al quale il contratto di appalto pubblico è soggetto ad onere di forma scritta ad substantiam, conseguentemente escludendo che il relativo consenso possa formarsi sulla base di scritti successivi atteggiantisi come proposta e accettazione fra assenti; ciò, invero, per ragioni non formali ma di tipo sostanziale, essendo necessario che di opere con corrispettivi di un certo rilievo a carico delle casse pubbliche vi sia certezza dell'esatta consistenza ed articolazione nonché delle risorse stanziate per il loro pagamento, con forme e tempi precisamente stabiliti. Va infine segnalata Sez. 1, n. 15571/2015, Sambito, Rv. 636201, che ha affermato che l'approvazione del contratto da parte dell'organo di controllo costituisce (anche in ipotesi di sussistenza delle ragioni di urgenza che consentano l'esecuzione anticipata dei lavori), condicio iuris dell'efficacia del contratto; solo da tale momento, pertanto, sorge l'obbligo di pagamento del corrispettivo da parte della stazione appaltante, con il correlato diritto dell'appaltatore a percepire gli interessi moratori a far data dal ritardo nell'adempimento di tale obbligazione (e non dall'eventuale anticipata esecuzione dei lavori). Il tema dell'aggiudicazione è ad oggetto di Sez. 1, n. 10748/2015, Genovese, Rv. 635582, secondo cui la forza vincolante per la P.A. del processo verbale di aggiudicazione definitiva e la sua intangibilità trovano un limite, ove il contratto non sia stato ancora stipulato, nell'interesse pubblico apprezzabile che giustifica l'esercizio dei poteri di autotutela, con possibilità di pervenire alla revoca dell'aggiudicazione a seguito del riesame degli atti adottati che inducano ad un diverso apprezzamento della situazione preesistente. Sullo stesso tema, Sez. 1, n. 10750/2015, Genovese, Rv. 635581, ha precisato che l'aggiudicazione provvisoria, avente natura di atto endoprocedimentale, non può mai determinare l'instaurazione del rapporto contrattuale finale tra la stazione 191 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI appaltante e l'aggiudicatario, che si determina solo con l'aggiudicazione definitiva, autonoma e diversa dalla prima anche quando ne recepisca interamente i contenuti. Non diversamente Sez. 1, n. 10743/2015, Lamorgese, Rv. 635483, ha precisato che nel sistema di contrattazione a trattativa privata, sia pure preceduta da una gara ufficiosa, i diritti e gli obblighi delle parti derivano solo dalla formale stipulazione del contratto e non dall'atto di aggiudicazione, che ha unicamente l'effetto di consentire l'individuazione dell'offerta migliore cui segue la fase delle trattative precontrattuali; né rileva, ai fini della dimostrazione dell'esistenza di un contratto formale, il comportamento concludente delle parti consistito nella materiale esecuzione della prestazione. Degna di menzione, infine, è Sez. 1, n. 10076/2015, Lamorgese, Rv. 635381, che con riferimento alla sospensione dei lavori di cui all'art. 30, comma 2, del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, ha affermato che le ragioni di pubblico interesse o necessità che ne legittimano l'ordine vanno identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute, non previste né prevedibili dalla P.A. con l'uso dell'ordinaria diligenza. La ricorrenza di tale carattere è stata così esclusa dalla Corte con riferimento alle esigenze turistiche o di balneazione connesse al luogo dei lavori, ricorrenti sistematicamente in periodi dell'anno ben precisi, e come tali non qualificabili come imprevedibili, bensì apprezzabili dalla stazione appaltante già nella predisposizione del programma dei lavori. 4. L'assicurazione. Nel 2015 molte sono le pronunce della S.C in materia di assicurazione, con grande attenzione, come di consueto, al tema della assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione di veicoli (r.c.a.). 4.1. Assicurazione contro i danni. Alcune pronunce si sono soffermate sugli obblighi delle parti del contratto, con alcuni interessanti principi, accomunati dall'obbligo di osservanza delle regole di correttezza e buona fede contrattuale. In particolare Sez. 3, n. 08412/2015, Rossetti, Rv. 635202 – in una fattispecie in cui una impresa assicuratrice, per una polizza sulla vita a contenuto finanziario, non aveva informato il cliente del rischio che i rendimenti da essa garantiti potessero essere inferiori al capitale versato dall'assicurato, ritenendosi non vincolata da doveri informativi perché la circolare ISVAP, ratione temporis applicabile, nulla sul punto prevedeva –, ha affermato 192 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI l'obbligo dell'assicuratore di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, nonché l'obbligo di proporre al cliente polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze. La violazione di tali obblighi, espressione dei doveri primari dell'assicuratore e riconducibili agli artt. 1175, 1337, 1375 c.c., è stata sussunta nella condotta negligente di cui all'art. 1176 c.c. Sul versante degli obblighi dell'assicurato si segnala invece il principio affermato da Sez. 3, n. 12086/2015, Stalla, Rv. 635562, a proposito delle inesatte o reticenti dichiarazioni del contraente. La pronuncia afferma che per l'annullamento del contratto di assicurazione ai sensi dell'art. 1892, comma 1, c.c., perché sia integrato l'elemento soggettivo del dolo non è necessario che l'assicurato ponga in essere artifici o altri mezzi fraudolenti, essendo invece sufficiente la coscienza e volontà di rendere una dichiarazione inesatta o reticente. Integra invece la colpa grave la dichiarazione inesatta o reticente che sia frutto di grave negligenza, con coscienza dell'inesatezza della dichiarazione o della reticenza, unitamente alla consapevolezza dell'importanza dell'informazione omessa o inesatta rispetto alla conclusione o alle condizioni del contratto. Sempre a proposito degli obblighi dell'assicurato è interessante Sez. 3, n. 13355/2015, Rubino, Rv. 635980, che con riguardo all'avviso dell'assicuratore in caso di sinistro, prescritto dall'art. 1913 c.c. e sanzionato dall'art. 1915 c.c. – che prevede distinte conseguenze a seconda della natura dolosa o colposa della omissione –, chiarisce che per la dolosa inadempienza dell'assicurato, con l'effetto di perdere il diritto all'indennità, non è richiesto lo specifico e fraudolento intento di arrecare danno all'assicuratore, ma è sufficiente la consapevolezza dell'obbligo previsto dalla norma e la cosciente volontà di non osservarlo. Quanto agli obblighi dell'assicuratore, e all'area dei fatti risarcibili, Sez. 3, n. 01430/2015, Petti, Rv. 634497, chiarisce che la società assicuratrice è obbligata ai sensi dell'art. 1900, comma 2, c.c., non solo quando il sinistro è stato cagionato con dolo o colpa grave da soggetto del quale l'assicurato deve rispondere, ma anche nell'ipotesi in cui l'autore del sinistro indennizzabile sia un terzo, ancorchè contrattualmente legato all'assicurato, salvo che una apposita clausola negoziale, valida solo se specificamente approvata per iscritto in quanto limitativa della responsabilità dell'assicuratore, non abbia escluso l'indennizzabilità dei danni derivanti da colpa grave delle persone incaricate della custodia del bene assicurato. Il 193 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI principio è interessante tanto più se si considera la fattispecie al vaglio del giudice di legittimità, ossia la richiesta di indennizzo da parte del noleggiatore per il furto dell'autovettura lasciata dall'utilizzatore aperta e con le chiavi inserite. Con riguardo al rapporto tra le parti contraenti, nell'ambito dei criteri interpretativi del contratto assicurativo, in una ipotesi di identificazione degli interventi medici rimborsabili, Sez. 3, n. 17020/2015, Stalla, Rv. 636323, afferma che qualora l'operazione ermeneutica sia diretta ad individuare gli interventi previsti da una assicurazione sanitaria come rimborsabili, il rispetto dei criteri di cui agli artt. 1362, 1363, 1369, 1370 c.c. impone di verificare se nel testo contrattuale la descrizione di quegli interventi afferisca allo scopo terapeutico perseguito (nella specie si trattava della rimozione di adenomi maligni) e non già alle tecniche utilizzate per la sua realizzazione (solo quelle chirurgiche e non anche quelle radioterapiche), nella prima ipotesi potendosi includere nel contratto anche quelle che, sebbene non espressamente previste dalla lettera del contratto, potessero considerarsi più avanzate ma al contempo sempre rivolte al medesimo obiettivo (come poi accertato nel caso di specie). Nella perimetrazione dell'oggetto del contratto, altrettanto significativa è poi Sez. 3, n. 02409/2015, Travaglino, Rv. 634437, che, in relazione ad un contratto di assicurazione per furto del contenuto di una cassaforte, in cui era stato limitato il rischio garantito escludendosi l'indennizzo nella ipotesi di impiego sia pur fraudolento di chiavi vere, ha affermato che qualora le parti abbiano espressamente subordinato l'operatività della garanzia assicurativa all'adozione, da parte dell'assicurato, di determinate misure di sicurezza, il giudice non può sindacare la loro concreta idoneità ad evitare l'evento dannoso, e quindi, ove questo si verifichi indipendentemente da tale inosservanza, non può riconoscere l'obbligo dell'assicuratore a corrispondere l'indennizzo anche quando non adottate le misure pattuite per la difesa del bene protetto. Confermando infatti un precedente orientamento giurisprudenziale, come da Sez. 3, 10194/2010, Amatucci, Rv. 612664, il principio si fonda sulla considerazione che dette clausole non realizzano una delimitazione di responsabilità dell'assicuratore, ma individuano e delimitano l'oggetto stesso del contratto e il rischio dell'assicuratore stesso. Di particolare interesse, in ordine alla identificazione dell'oggetto del contratto e alle conseguenze ad esso riconducibili, è Sez. 3, n. 05197/2015, Rossetti, Rv. 634697, secondo cui, in tema di 194 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI assicurazione contro i danni da infortuni, l'invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia e non può quindi sussistere prima della sua cessazione. Ne consegue che se un contratto di assicurazione prevede il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale. Peculiare è poi la decisione assunta in tema di clausola "loan receipt", da Sez. 3, n. 12896/2015, Pellecchia, Rv. 635935. Si tratta di una clausola, di derivazione anglosassone, in forza della quale il danneggiato riceve in luogo dell'indennizzo un prestito quale anticipazione di denaro da parte della compagnia di assicurazione, la cui restituzione è subordinata all'esito fruttuoso della azione contro il responsabile del danno. Avendo promosso la compagnia assicurativa azione in surrogazione del danneggiato, la convenuta danneggiante (per correttezza la sua rappresentante in Italia) eccepiva l'inapplicabilità della surroga ex art. 1916 c.c., per la mancanza del carattere di indennità della somma già corrisposta alla assicurata. La decisione, chiarisce invece la frequenza nei formulari nordamericani della suddetta clausola, secondo cui l'assicuratore non paga l'indennizzo ma glielo versa a titolo di mutuo, sotto condizione che sarà restituito solo per la parte che l'assicurato riuscirà a recuperare. Al contempo il credito dell'assicurato verso il danneggiante è costituito in pegno in favore della restituzione del mutuo, conferendo all'assicuratore mandato per riscuoterlo. A parte alcuni profili di nullità del meccanismo, adombrate dalla pronuncia, essa, comunque, secondo l'interpetazione del contratto stipulato tra le parti, riconosce che per aver versato la somma al danneggiato sulla base della loan receipt, all'assicuratore spetta il diritto di surroga e pertanto l'azione contro il responsabile in nome proprio e non dell'assicurato. Ai presupposti per l'insorgenza del diritto all'indennizzo, nella ipotesi di stipula di una pluralità di assicurazioni per il medesimo bene, è invece rivolta Sez. 3, n. 07349/2015, Scarano, Rv. 635148, la quale afferma che nell'ipotesi di stipula di più assicurazioni per lo stesso oggetto o interesse l'assicurato, che agisca contro l'assicuratore per il pagamento dell'indennità contrattualmente dovuta, è tenuto a provare che il cumulo tra l'indennizzo richiesto e le somme già riscosse presso altri assicuratori per il medesimo sinistro non superi l'ammontare del danno subìto, poiché tale circostanza, secondo quanto previsto dall'art. 1910, comma 3, c.c., rappresenta un fatto 195 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI costitutivo del diritto da lui azionato, in assenza del quale non vi è danno indennizzabile. Quanto alla natura dell'indennizzo cui è tenuto l'assicuratore, e alle conseguenze ad essa riconducibili, Sez. 3, n. 15868/2015, Cirillo, Rv. 636369, afferma che nella assicurazione contro i danni il pagamento dell'indennizzo costituisce debito di valore poiché assolve ad una funzione di reintegrazione della perdita subita dal patrimonio dell'assicurato; ne deriva che esso è soggetto alla automatica rivalutazione per il periodo intercorso tra il sinistro e la liquidazione, senza che abbia rilevanza l'inadempimnto o il ritardo colpevole dell'assicuratore. La pronuncia si pone peraltro nel solco di un orientamento ben consolidato, come attestano Sez. 3, 10488/2009, Fico, Rv. 608089, e Sez. 3, 04753/2001, Lupo, Rv. 545379. Nell'alveo dei limiti di efficacia e validità di clausole inserite in contratti assicurativi contro i danni trova invece collocazione Sez. 3, n. 13312/2015, Pellecchia, Rv. 635911. La pronuncia, in un caso di clausola compromissoria, che prevedeva l'obbligo del pagamento del compenso dell'arbitro rispettivamente nominato e di metà di quello dovuto al terzo, inserita nelle condizioni generali di contratto, ha affermato che se la clausola preveda un meccanismo di corresponsione dell'onorario agli arbitri, correlato al valore della causa, ma non in misura proporzionale, e indipendente dall'esito della controversia, ha natura vessatoria se limiti il diritto dell'assicurato ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli del sinistro. Infatti, soprattutto nella controversie di modesto valore, la sentenza denuncia che l'esborso di rilevanti somme per gli onorari degli arbitri, non proporzionate a quelle riconoscibili a titolo risarcitorio, abbia una valenza dissuasiva dal ricorso all'arbitrato, così favorendo comportamenti dilatori dell'assicuratore, in pregiudizio del diritto di difesa dell'assicurato. Una argomentazione analoga già era contenuta in Sez. 3, n. 07176/2015, Lanzillo, Rv. 635028, in materia di assicurazione contro gli infortuni, ove si riconosce l'abusività, ai sensi dell'art. 1469 bis e segg. c.c. (ratione temporis applicabile) della clausola contrattuale che subordini il diritto dell'assicurato di agire in giudizio al previo esperimento di perizia contrattuale arbitrale sulla quantificazione dei danni, se comportante un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto. Evenienza, questa, nel caso di specie riconosciuta, perché la clausola prevedeva che la decisione arbitrale, presa a maggioranza, fosse definitivamente vincolante per entrambe le parti, ponendo a carico dell'assicurato, anche quando il lodo avesse confermato integralmente la congruità 196 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI della sua richiesta, le intere spese del proprio arbitro e la metà di quelle del presidente del collegio, nonché attribuendo al collegio peritale la facoltà di rinviare ad libitum la propria decisione senza limiti temporali "ove se ne riscontri l'opportunità", con il solo potere, ma non l'obbligo, di concedere all'assicurato un anticipo sull'indennizzo, peraltro senza determinazione della misura minima. 4.2. Assicurazione della responsabilità civile. In tema di obbligo di comportamento secondo buona fede della parte assicurata per la responsabilità civile, una interessante pronuncia ha esaminato l'inutile costituzione in giudizio e opposizione avverso la domanda del danneggiato. In particolare Sez. 3, n. 05479/2015, Rossetti, Rv. 634661 e 634662, ha valutato la condotta dell'assicurato sotto una duplice angolazione, quella dell'obbligo di salvataggio, disciplinato negli artt. 1914 e 1915 c.c., e quella del rimborso delle spese processuali, trattate dall'art. 1917, comma 3, c.c. Sotto il primo profilo ha affermato che l'obbligo di salvataggio si applica anche al contratto di assicurazione della responsabilità civile, concretizzandosi nell'imporre all'assicurato di evitare di resistere al giudizio promosso contro di lui dal terzo danneggiato, quando da tale resistenza non possa ricavare alcun beneficio. La pronuncia poi manifesta altrettanto disvalore, quando inutili ed antieconomiche si rivelano le condotte processuali tenute dall'assicurato, a proposito delle spese di causa da quest'ultimo sostenute, escludendo il diritto alla rifusione delle spese per resistere all'azione promossa dal terzo danneggiato, che di regola l'art. 1917, comma 3, c.c. pone a carico dell'assicuratore, ma che in questo caso, in ossequio ai doveri di correttezza e buona fede, non vanno riconosciute se l'assicurato abbia scelto di difendersi senza avere interesse a resistere alla avversa domanda, o senza poter ricavare utilità dalla costituzione in giudizio. Sempre in tema di responsabilità civile, con riguardo all'oggetto della garanzia, si segnala Sez. 3, n. 12872/2015, Carluccio, Rv. 635882, secondo la quale qualora il commercialista, nell'espletamento della attività di ausiliare di giustizia come curatore fallimentare, sia responsabile di danno ingiusto ai sensi degli artt. 2043 c.c. e 38, comma 1, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, l'assicuratore della responsabilità civile per la sua attività professionale deve tenerlo indenne, salvo che non risulti espressamente concordata una esclusione contrattuale, atteso che le 197 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI funzioni di curatore fallimentare rientrano tra quelle previste dalla legge per il commercialista. Infatti, la professione esercitata non si esaurisce nell'ambito del contratto di prestazione d'opera intellettuale, restando un professionista privato anche nell'espletamento di un incarico giudiziario, ancorchè in relazione ad esso siano esercitati pubblici poteri, come nella ipotesi di curatore fallimentare o consulente tecnico d'ufficio. Quanto alla prescrizioni dei diritti in materia assicurativa, è interessante Sez. 3, n. 18317/2015, Stalla, Rv. 636859, per la quale l'effetto sospensivo della prescrizione, disciplinato dall'art. 2952, comma 4, c.c., si verifica anche se la comunicazione all'assicuratore della richiesta risarcitoria provenga dal danneggiato o da un terzo e non dall'assicurato. Si nega peraltro rilevanza, ai fini della operatività di tale effetto, alla omessa esatta determinazione del quantum risarcitorio, sempreché l'atto sia univoco nell'esplicitare la volontà di ottenere il ristoro di tutti i danni subiti, con conseguente certa e concreta esposizione del patrimonio dello stesso assicurato. Cogliendo poi aspetti processuali relativi alla vigenza del contratto assicurativo, Sez. 3, n. 11108/2015, Rossetti, Rv. 635439, afferma che, alla stregua di quanto disposto dall'art. 1903 c.c., comma 2, c.c., l'agente di rappresentanza della società assicurativa non può promuovere di sua iniziativa la domanda di accertamento negativo della esistenza del contratto, con la conseguente inopponibilità all'assicuratore di qualunque sentenza pronunciata tra l'agente e l'assicurato. Ne discende anche che l'assicurato non ha titolo esecutivo nei confronti dell'assicuratore per chiedere la restituzione del premio. Interessante è anche Sez. 3, n. 25608/2015, Vincenti, (in corso di massimazione), sotto il profilo della insussistenza di una obbligazione diretta della assicuratrice verso il danneggiato, ancorchè sia già stato eseguito un pagamento in esecuzione di una provvisionale adottata nel giudizio penale a carico del responsabile civile. Nella specie i parenti del deceduto in un incidente di lavoro avevano convenuto direttamente la compagnia presso cui era assicurata la società, datrice di lavoro del congiunto al momento del sinistro, e, al rigetto della richiesta risarcitoria verso l'assicuratrice, avevano censurato la pronuncia anche sotto il profilo dell'omesso inquadramento della fattispecie nella espromissione cumulativa. La S.C. ha respinto la pretesa ricostruzione del rapporto giuridico tra danneggiati e assicurazione, riconducendo la vicenda nell'alveo dell'art. 1917, comma 2, c.c. In particolare ha escluso ogni rilevanza, se non nei termini normativi indicati, alla circostanza che la 198 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI assicuratrice avesse già provveduto al pagamento della provvisionale, così come determinata in favore della parti civili costituite nel processo penale celebrato nei confronti dei rappresentanti legali della società assicurata, evidenziando che della espromissione tra creditore e terzo mancava sia la spontaneità dell'assunzione dell'obbligazione, sia la preesistenza di rapporti tra debitore e terzo. Va infine segnalata Sez. 3, n. 22891/2015, Frasca, in corso di massimazione, che, in una controversia per danni da responsabilità medica, ha trattato della clausola assicurativa "claims made", letteralmente traducibile in "a richiesta fatta". È una clausola che, in termini estremamente semplificati, senza cioè considerare le numerose varianti applicative, comporta che l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi, durante il periodo di efficacia del contratto (o anche di quelli commessi negli anni immeditamente prossimi alla conclusione del contratto, generalmente due o tre), purchè la richiesta di risarcimento sia pervenuta durante il tempo della assicurazione. Essa dunque si distingue dal contratto concluso alla stregua dell'art. 1917 c.c., che importa l'obbligo della assicurazione di tenere indenne l'assicurato per tutti i sinistri accaduti durante il periodo assicurativo, anche se la richiesta risarcitoria pervenga successivamente alla scadenza del contratto. È da segnalare che, rilevandosi difformi indirizzi giurisprudenziali sulla validità e vessatorietà della clausola claims made, è stata chiesta la rimessione della questione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 376, comma 2, c.p.c. Tuttavia la pronuncia menzionata, precisando che va distinta la questione portata alla attenzione delle Sezione Unite, volta a valutare la validità, e in via gradata la vessatorietà della clausola, quando unica regola disciplinante l'oggetto del contratto assicurativo, nel caso al suo esame afferma invece che la "claims made" si inserisce negli artt. 1341 e 1342 c.c., così delimitando la garanzia assicurativa, quando effettivamente limita l'oggetto contrattuale già definito in modo più ampio da altra o altre clausole regolatrici dell'atto negoziale stipulato tra le parti. 4.3. Assicurazione obbligatoria della r.c.a. Nella assicurazione per responsabilità civile occupa come di consueto una posizione prioritaria, per numero di pronunce e questioni emerse, l'assicurazione obbligatoria della r.c.a. Deve innanzitutto segnalarsi Sez. U, n. 08620/2015, Ambrosio, Rv. 635401, con riferimento all'ambito di operatività della 199 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI garanzia per R.C.A. Mentre risulta ormai da tempo pacifico che nel concetto di circolazione vadano compresi sia i veicoli in movimento che quelli in stato di quiete (arresto, fermata, sosta), le Sezioni Unite sono intervenute a composizione di un contrasto giurisprudenziale relativo all'area applicativa della disciplina della assicurazione obbligatoria, in particolare se comprensiva di talune ipotesi di sosta, riferibili al veicolo che svolga specifiche operazioni funzionali alle caratteristiche proprie del mezzo. Infatti un primo orientamento equiparava semplicemente lo stato di quiete al movimento, includendo nella disciplina dettata in materia di assicurazione obbligatoria il veicolo per il solo fatto di sostare su strada o area pubblica o ad essa equiparata. Un secondo orientamento riteneva necessaria la verifica di un nesso eziologico tra il sinistro e la circolazione, e, prima ancora, se il rapporto tra le funzioni esplicate in quel momento dal veicolo in sosta e l'evento dannoso potesse essere sussunto nell'alveo della circolazione, oppure se la fattispecie lesiva fosse riconducibile ad una area deputata alla circolazione per mera occasionalità, senza dunque rapportarsi in alcun modo alla circolazione medesima. Per tali ragioni, in una causa nella quale si era determinato un sinistro mortale per l'imperita manovra da parte del conducente di un mezzo in sosta, munito di un braccio meccanico di sollevamento, in conseguenza della quale un cassone metallico, in fase di caricamento, era scivolato travolgendo la vittima, con ordinanza n. 5054 del 4 marzo 2014 la 3 Sez. aveva rimesso alle SS. UU. la questione "dei limiti e delle condizioni di applicabilità del concetto di circolazione stradale tanto sotto il profilo statico/logistico quanto sotto quello operativo/funzionale, e dei limiti e delle condizioni di applicabilità del concetto in parola alla sosta di un veicolo sottoposto al regime della assicurazione obbligatoria". Le Sezioni Unite hanno affermato che il concetto di circolazione stradale di cui all'art. 2054 c.c. include anche la posizione di arresto del veicolo e ciò in relazione sia all'ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia alle operazioni propedeutiche alla partenza o connesse alla fermata, sia, ancora, rispetto a tutte le operazioni che il veicolo è destinato a compiere e per il quale può circolare sulle strade. Dunque anche quelle speciali per le quali il mezzo è utilizzato. Dal principio così elaborato la pronuncia trae l'ulteriore assunto, secondo cui per l'operatività della garanzia per R.C.A. è necessario che il veicolo, nel suo trovarsi sulla strada di uso pubblico o sull'area ad essa parificata, mantenga le caratteristiche che lo rendano tale in termini 200 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI concettuali, e quindi, in relazione alle sue funzionalità non solo sotto il profilo logico ma anche di eventuali previsioni normative, risultando invece indifferente l'uso che in concreto se ne faccia, semprechè esso rientri nelle caratteristiche del veicolo medesimo. Secondo il principio affermato può pertanto dedursi che esula dall'ambito di operatività della garanzia per R.C.A. l'ipotesi della autovettura utilizzata come autobomba, mentre va inclusa una fattispecie come quella da cui è stata originata la controversia poi risolta dalla Sezioni Unite. Sulla questione è tornata Sez. 3, n. 24622/2015, Rossetti, in corso di massimazione, che ha applicato il medesimo principio, ritenendo dunque operativa la garanzia per R.C.A., ad un caso in cui il danno era stato arrecato dal braccio meccanico seagente, che costituiva un parte del veicolo assicurato. Interessante, e nel solco di una interpretazione ormai consolidata in merito alla rilevanza del luogo del sinistro, è Sez. 3, n. 05854/2015, Vivaldi, Rv. 635073, che a proposito di incidenti di volo, afferma che la disciplina sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per circolazione di veicoli non si applica ove il sinistro, che nel caso specifico era stato cagionato dall'elica di un aereo da diporto già atterrato, si sia verificato in una zona interna dell'aeroporto, adibita per la sosta e le manovre degli aeromobili, poiché tale normativa presuppone che il sinistro sia avvenuto in strade o aree ad uso pubblico, o a queste equiparate, che siano accessibili ad un molteplicità indifferenziata di persone. Con riferimento invece alla azione diretta ex art. 141 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, va segnalata Sez. 3, n. 16181/2015, Armano, Rv. 636047, la quale afferma come il terzo trasportato, che si avvalga della azione diretta nei confronti dell'impresa di assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro, deve dare prova del danno subito e non anche delle concrete modalità dell'incidente allo scopo di individuare la responsabilità dei rispettivi conducenti, perché tale ultimo accertamento è irrilevante ai fini dell'art. 141 cit. Alcune pronunce poi hanno rivolto l'attenzione ad aspetti processuali o ai presupposti per l'introduzione della domanda risarcitoria. Così Sez. 3, n. 07685/2015, Rossetti, Rv. 635101, ha affermato che la pluralità di danneggiati, prevista dall'art. 140 del d.lgs. n. 209 del 2005, ha introdotto una ipotesi di litisconsorzio necessario, e la sua natura di norma processuale, in difetto di espressa previsione, non è suscettibile di applicazione retroattiva, 201 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI così che non può trovare applicazione ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore. Quanto alla messa in mora dell'assicurazione, è interessante l'affermazione di Sez. 3, n. 15749/2015, Petti, Rv. 636190, secondo la quale, nella responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli, la condizione di proponibilità della domanda prevista dall'art. 22, legge 24 dicembre 1969, n. 990 (ratione temporis applicabile), ossia la richiesta rivolta all'assicuratore tramite raccomandata, non può assolversi con mezzi equipollenti, quale il fax, se essi non consentano di provare l'avvenuta ricezione da parte del destinatario. Sullo stesso tema si segnala anche Sez. 3, n. 07089/2015, Cirillo, Rv. 635117, secondo la quale l'art. 22 della legge 990 del 1969 (ratione temporis applicabile, ma analogo principio opera anche in relazione all'art. 145 del d.lgs. 209 del 2005), ai sensi del quale l'azione per il risarcimento dei danni causati dalla circolazione dei veicoli a motore può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni da quello in cui il danneggiato abbia chiesto il risarcimento del danno all'assicuratore del danneggiante, non trova applicazione nell'ipotesi in cui il medesimo assicuratore, convenuto in giudizio per l'integrale risarcimento, proceda alla chiamata in garanzia impropria di un altro danneggiante, nonché del suo assicuratore, per sentirlo dichiarare corresponsabile dei danni lamentati dall'attore, ai fini della ripartizione interna ex art. 2055 c.c. dell'obbligazione solidale, atteso che tale domanda non estende l'oggetto dell'accertamento del giudice di merito. A tal propostito peraltro deve menzionarsi Sez. 3, n. 22981/2015, Sestini, in corso di massimazione, la quale ribadisce che, in tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli con obbligo di assicurazione, anche la proponibilità della domanda riconvenzionale, avanzata dal convenuto nei confronti dell'attore, è subordinata alla richiesta di risarcimento dell'asicuratore e al decorso dei sessanta giorni ex art. 22 della legge n. 990 del 1969. Con riguardo alle procedure liquidatorie dirette del danno ex art. 149 della legge 209 del 2005, Sez. 3, n. 11154/2015, Carleo, Rv. 635465, afferma un importante principio, particolarmente utile soprattutto quando si consideri la sua rilevanza pratica. Nell'ambito della richiesta inoltrata dall'assicurato al proprio assicuratore per il risarcimento del danno subito dalla propria autovettura, in un sinistro cagionato da terzi, la pronuncia, richiamando l'art. 9, comma 2, d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254, emanato in attuazione 202 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI dell'art. 150, comma 1, della legge n. 209 del 2005 – il quale esclude la debenza al danneggiato dei compensi di assistenza professionale diversi da quelli medico-legale per i danni alla persona –, ha affermato che la norma non riguarda le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima quando il sinistro presenti particolari problemi giuridici, ovvero quando il danneggiato non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore. Si è ritenuto infatti che quella disciplina abbia voluto escludere solo le spese che non siano ritenute effettivamente necessarie, dovute, invece, in caso contrario, purchè sussistente il nesso causale tra esse ed il sinistro assicurato. La pronuncia, anzi, afferma che se non fosse questo il senso della norma, essa sarebbe nulla per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e dunque, attesane la natura regolamentare, da disapplicare. Ancora interessante è poi Sez. 3, n. 24205/2015, Barreca, in corso di massimazione, che a proposito dell'offerta di pagamento ai sensi dell'art. 148 d.lgs. n. 209 del 2005, afferma che la comunicazione dell'offerta dell'impresa assicurativa, non accettata dal danneggiato, ed il pagamento della somma offerta, non esonerano il danneggiato, che agisca in giudizio per il risarcimento dei danni causati dal medesimo sinistro, dall'onere di allegazione e di prova, mentre il pagamento effettuato prima del giudizio dall'assicuratore esclude la sua mora, imputandosi come un acconto della liquidazione definitiva. Nel panorama della giurisprudenza di legittimità dedicata alla assicurazione per danni da circolazione di veicoli, ed in particolare in materia dei sistemi di indennizzo per l'ipotesi di intervento del Fondo di Garanzia Vittime della Strada, si segnala Sez. 3, n. 00274/2015, Rossetti, Rv. 633963 e 633964, che ha affermato due principi. Essa intanto inquadra la posizione processuale della impresa designata. Sul punto, infatti, dichiara che l'impresa designata ai sensi dell'art. 19 della legge n. 990 del 1969, ratione temporis applicabile, e ora dell'art. 286 del d.lgs n. 209 del 2005, non è un rappresentante del Fondo di Garanzia, né dell'ente gestore Consap s.p.a., ma è legittimata in proprio quale soggetto passivo dell'azione risarcitoria e dell'azione esecutiva, assumendo l'obbligazione diretta nei confronti della vittima e agendo ex art. 1705 c.c. come mandataria ex lege, senza rappresentanza del Fondo, il quale è solo tenuto a rifondere l'importo versato dall'impresa designata. Quanto all'intervento del Fondo di Garanzia, ha meglio circoscritto i presupposti oggettivi e soggettivi per l'applicazione dell'art. 19 della legge n. 990 del 1969, precedentemente vigente, e ora degli 203 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI artt. 286 e 283 del d.lgs n. 209 del 2009. Infatti chiarisce che, nel caso di sinistro cagionato da veicolo non identificato, l'obbligo risarcitorio nei confronti della vittima, in linea con l'art. 1, comma 4, della direttiva CE del Consiglio del 30 dicembre 1983, n. 84/5, trasfuso nell'art. 10, comma 1, della direttiva CE del 16 settembre 2009, n. 2009/103, sorge non solo nei casi in cui il responsabile si sia dato alla fuga nella immediatezza del fatto, ma anche quando la sua identificazione sia stata impossibile per circostanze obiettive, da valutare caso per caso, e che non siano imputabili a negligenza della vittima. Dunque l'intervento del Fondo non è dato dal fatto, pur oggettivamente rilevante, della immediata fuga dell'autovettura danneggiante, quanto dalla impossibilità di identificazione del mezzo per ragioni che non siano riconducibili alla negligenza del danneggiato. Ed infatti, per escludere un difetto di conformità del diritto interno a quello comunitario, sulla negligenza della vittima insiste Sez. 3, n. 18308/2015, Scarano, Rv. 636918. In essa si afferma come l'intervento del Fondo di Garanzia postuli, in linea con la disciplina menzionata nella precedente pronuncia, che i danni siano stati causati da veicolo rimasto non identificato per circostanze obiettive e non imputabili a negligenza della vittima, sicchè, ai fini della statuizione sulla risarcibilità del danno da parte dell'impresa designata per il Fondo, non sussistono i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea quando la mancata identificazione del veicolo sia ascrivibile alla violazione di regole di ordinaria diligenza e comune prudenza da parte del danneggiato. Quanto poi ai limiti oggettivi di intervento del Fondo di Garanzia, in applicazione della disciplina dettata dagli artt. 19 e 25 della legge n. 990 del 1969, e ora dagli artt. 283 e segg. del d.lgs. 209 del 2005, Sez. 3, n. 05595/2015, Spirito, Rv. 634891, afferma che la menzionata normativa concerne i soli casi in cui il sinistro sia stato cagionato o da veicolo non identificato, o da veicolo non coperto da assicurazione, oppure, ancora, da veicolo assicurato presso impresa che si trovi in stato di liquidazione coatta amministrativa al momento del sinistro, o vi venga posta successivamente. La specificità delle ipotesi esclude dunque, prosegue la decisione, che, ove il danneggiato agisca in forza di polizza accessoria per danni al conducente nei confronti della propria compagnia assicuratrice, e questa sia in seguito posta in liquidazione coatta amministrativa, l'azione possa essere proseguita né nei suoi confronti, né verso l'impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, 204 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI occorrendo piuttosto che lo stesso danneggiato si insinui al passivo della procedura liquidatoria ed eserciti il proprio diritto in sede concorsuale. Sempre con riguardo ai limiti di intervento del Fondo di Garanzia per i danni causati dalla circolazione di veicolo non identificato, Sez. 3, n. 24214/2015, Rossetti, (in corso di massimazione), ha affermato che il presupposto del "danno grave alla persona", richiesto dall'art. 283, comma 2, d.lgs. n. 209 del 2005, per la risarcibilità del danno alle cose, va identiificato nel riconoscimento di una invalidità superiore al 9%, ai sensi dell'art. 138 del medesimo decreto legislativo. Le conclusioni trovano fondamento nella constatazione che la qualificazione del danno alla persona come grave va desunta dalla medesima disciplina assicurativa e non va invece ricercata in altri contesti normativi, quali ad esempio il sistema penale. Deve ancora accennarsi alla pronuncia di Sez. 3, n. 10124/2015, Rossetti, Rv. 635437, in tema di risarcimento del danno derivante da sinistri avvenuti all'estero. Premesso che l'art. 152 del d.lgs. n. 209 del 2005 prevede che «l'impresa di assicurazione comunica tempestivamente ai centri di informazione di tutti gli Stati membri il nome e l'indirizzo del proprio mandatario per la liquidazione dei sinistri designato in ciascuno Stato membro», la decisione afferma che il mandatario per la liquidazione è un mandatario con rappresentanza ex lege dell'assicuratore del responsabile, sicchè, nel rispetto delle regole sulla giurisdizione e sulla competenza, può agire o essere convenuto in giudizio in nome e per conto del mandante, al fine di ottenere una sentenza eseguibile da o nei confronti di costui. Per concludere sul tema dell'assicurazione per responsabilità civile da circolazione di veicoli, può segnalarsi Sez. 3, n. 09319/2015, Sestini, Rv. 635317, relativa al rapporto tra l'azione di surrogazione dell'assicuratore sociale ex art. 28, comma 2, della legge n. 990 del 1969, e quella di ripetizione esperibile ai sensi del comma 4 dell'art. 28 della medesima legge. Il giudizio era stato introdotto a seguito di sinistro stradale, in cui erano rimasti coinvolti il conducente ed i suoi trasportati, e nel quale erano intervenuti anche l'Inps e l'Inail per l'esercizio, rispettivamente, dei diritti di surrogazione e di rivalsa per l'assegno di invalidità erogato dal primo ente ad uno dei soggetti infortunati e per il recupero delle somme erogate dal secondo ente alle altre parti coinvolte. Riconosciuta la responsabilità del conducente e tuttavia, in rapporto all'importo risarcitorio liquidato, verificatane l'insufficienza a 205 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI soddisfare entrambi gli enti, il giudice di merito aveva dato prevalenza alla domanda dell'Inail. La Corte di legittimità, accogliendo in parte le ragioni impugnatorie dell'Inps, ha affermato che l'azione di surrogazione proposta dall'ente gestore dell'assicurazoine sociale ai sensi dell'art. 28, comma secondo, della legge n. 990 del 1969 (applicabile ratione temporis) è autonoma rispetto a quella di ripetizione, esperibile nei confronti del danneggiato ai sensi della stessa norma, ma comma quarto, per il pregiudizio da questi arrecato al credito azionato in via surrogatoria, sicchè la possibilità di esercizio di quest'ultima non giustifica il rigetto dell'azione di surrogazione, quando l'assicuratore del responsabile del sinistro abbia accantonato le somme occorrenti ai fini del rimborso delle spese sostenute dall'assicuratore sociale per prestazioni erogate all'assistito. 4.4. Assicurazione sulla vita. Deve segnalarsi in materia la Sez. 3, n. 19210/2015, Frasca, Rv. 636951, relativamente alla interpretazione della clausola di attribuzione dell'indennizzo a favore degli eredi testamentari o legittimi. In particolare si afferma che, nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore di terzo, la disciplina secondo cui, per effetto della designazione, il beneficiario acquista un proprio diritto ai vantaggi assicurativi, si interpreta nel senso che ove sia prevista per la morte dello stipulante la corresponsione dell'indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, le parti abbiano voluto individuare non solo i destinatari dei diritti nascenti dal negozio con riferimento alle concrete modalità successorie, ma anche determinare l'attribuzione dell'indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto. Infatti, in assenza di diverse specificazioni, lo scopo perseguito dallo stipulante è, in conformità della natura del contratto, quello di assegnare il beneficio nella stessa misura regolata dalla successione. 5. Il comodato. In tema di comodato, di notevole rilievo è Sez. 3, n. 13363/2015, Rossetti, Rv. 635801, che ha sancito la natura vessatoria della clausola che ponga a carico del comodatario tutti i rischi derivanti dalla gestione della cosa data in comodato. A fondamento di tale statuizione la corte ha osservato che detta clausola non riproduce alcuna regola legale; infatti, ai sensi dell'art. 2051 c.c. il comodante non è affatto esonerato dalla responsabilità per i danni derivati a terzi dalla res commodata, poiché ne conserva la disponibilità giuridica e non è dunque spogliato del potere di vigilanza e controllo tipico del custode. 206 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI In materia di responsabilità del comodatario per illegittima occupazione di immobile, Sez. 3, n. 15757/2015, D'Amico, Rv. 636177, ha ritenuto sussistente un danno patrimoniale in capo al comodante la cui configurazione dipende dall'atteggiarsi del tipo di godimento sul bene medesimo nel momento in cui si verifica l'occupazione. In particolare, ha precisato la pronunzia in questione, ove esista un godimento diretto od indiretto si concretizza un danno emergente da rapportare alle utilità che il comodante avrebbe potuto acquisire dal bene se non occupato; mentre ove tale situazione non esista può ipotizzarsi un lucro cessante, da identificare nell'impossibilità di realizzare la modalità di godimento diretto che era stata programmata prima dell'occupazione, ovvero una modalità di godimento indiretto che si sia presentata medio tempore e resa impossibile dall'occupazione. Di tale danno – ha infine precisato la Corte – la prova compete sempre al comodante, ma il giudice può provvedere alla liquidazione facendo applicazione di criteri equitativi (quali, nel caso di specie, l'individuazione del corrispettivo della locazione a terzi, trattandosi di comodato precario). Alla disciplina del comodato fa espresso riferimento l'importante pronunzia Sez. 1, n. 17971/2015, Acierno, Rv. 637179, che ha assimilato alla posizione del comodatario la relazione con l'immobile adibito a casa familiare assegnato al genitore collocatario di figli minori nati da una relazione di convivenza more uxorio dopo la rottura dell'unione; ciò, invero, in ragione della pregressa affectio familiaris che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto della relazione di convivenza. Sez. 3, n. 13340/2015, Sestini, Rv. 635792, infine, si caratterizza per l'importanza dei suoi risvolti processuali nell'affronto di tematiche proprie della disciplina del contratto. Tale decisione ha infatti ritenuto che ove l'attore alleghi in giudizio l'esistenza di un rapporto di comodato ed il convenuto eccepisca la sussistenza di un rapporto di locazione, la mancata prova di tale ultimo rapporto implica l'accoglimento della domanda attorea, poiché l'eccezione del convenuto postula il riconoscimento dell'intervenuta consegna della cosa per uso determinato e, dunque, in difetto di diverse allegazioni, l'esistenza del comodato, dal quale discende l'obbligo della restituzione su richiesta del comodante, essendo onere del comodatario invocare l'esistenza di un termine, ovvero la mancata scadenza dello stesso. 207 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 6. Prelazione e riscatto nei contratti agrari. Con riferimento al diritto di prelazione e riscatto agrario previsto dall'art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, Sez. 3, n. 06904/2015, Cirillo, Rv. 634930, ha affermato che esso, comportando una limitazione del diritto di proprietà, non può essere riconosciuto al di fuori delle ipotesi tassativamente previste, sicché non spetta al confinante nudo proprietario, in quanto tale privo della qualità di coltivatore diretto del fondo, che non ha poteri di godimento del bene, di cui potrebbe non diventare mai pieno proprietario. Sul medesimo tema, Sez. 3, n. 07183/2015, Carleo, Rv. 635049, ha precisato che il coltivatore diretto che intende esercitare la prelazione agraria, ai sensi dell'art. 8, legge 26 maggio 1965, n. 590, nonché dell'art. 7, legge 14 agosto 1971, n. 817, su un fabbricato rurale messo in vendita, deve dimostrare che esso sia pertinenza del fondo in quanto funzionalmente adibito al servizio dell'impresa agraria, e che perciò sia rimasto nella sua disponibilità in base all'originario contratto agrario. In applicazione dell'enunciato principio, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto soggetto a prelazione un fabbricato rurale il cui rapporto pertinenziale col terreno coltivato era stato interrotto in conseguenza della sua concessione in comodato a terzi per fini abitativi. Ancora, Sez. 3, n. 25747/2015, Barreca, in corso di massimazione, ha affermato che il diritto di prelazione di cui all'art. 7, legge 14 agosto 1971, n. 817, sussiste anche nell'ipotesi in cui, in occasione dell'alienazione, siano creati artificiosi diaframmi al fine di eliminare il requisito della confinanza fisica tra i suoli, onde precludere l'esercizio del diritto di prelazione. Allo scopo, peraltro, non è sufficiente che una porzione di fondo sia stata riservata alla parte alienante esclusivamente al fine di evitare il sorgere del diritto di prelazione e, qualora questa, per le sue caratteristiche e dimensioni, sia idonea allo sfruttamento coltivo autonomo, perché ricorra la frode ai danni del confinante prelazionario è necessario che la stessa sia lasciata nella disponibilità materiale dell'acquirente e da questi utilizzata uti dominus o comunque in modo da compromettere l'esercizio, anche futuro, del diritto di prelazione. Infine, Sez. 3, n. 25756/2015, Barreca, in corso di massimazione, ha affermato che il diritto in questione sussiste in favore del coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti in caso di trasferimento a titolo oneroso che abbia ad oggetto il diritto dell'enfiteuta, a norma dell'art. 965 c.c.. 208 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Ai rapporti fra prelazione agraria e strumenti urbanistici sono dedicate tre pronunzie di particolare rilievo. Sez. 3, n. 07182/2015, Carleo, Rv. 635051, ha specificato che la prelazione agraria ex art. 8, comma 2, della l. 26 maggio 1965, n. 590, è consentita soltanto quando il terreno abbia destinazione agricola in base al piano regolatore, restandone così esclusi tutti i fondi aventi destinazione urbana, quali ad esempio quelli vincolati a verde privato. Sez. 3, n. 12230/2015, Rubino, Rv. 635789, ha poi statuito che la mera previsione, contenuta nello strumento urbanistico, di un mutamento di destinazione del fondo da agricolo ad edilizio costituisce, ai sensi della norma richiamata, ragione ostativa all'esercizio del diritto di prelazione, sicché, a maggior ragione, il diritto non sussiste nell'ipotesi, inversa, in cui sia prospettabile un cambio da edilizio ad agricolo, attesa l'irrilevanza della mera potenzialità di uno sfruttamento futuro del terreno per detto scopo. Sulla stessa linea di pensiero si pone infine Sez. 6-3, n. 03717/2015, Amendola, Rv. 634489, secondo cui l'esercizio della prelazione agraria è precluso nel caso in cui il nuovo piano regolatore, pur ancora in itinere, preveda per il terreno, a differenza dello strumento edilizio vigente, una destinazione non agricola, ove lo stesso, ancorché successivamente non approvato, risulti adottato al momento della conclusione del contratto. Dei rapporti fra diritto di prelazione e principio di buona fede si è occupata Sez. 3, n. 07181/2015, Carleo, Rv. 635047, rilevando la contrarietà a tale principio del comportamento del promissario acquirente di un fondo rustico concesso in mezzadria il quale, pur gravando sul promittente alienante l'obbligo di notificare al coltivatore la proposta di alienazione, agli effetti dell'art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590, si attivi per contattare il prelazionario al fine di ottenerne l'eventuale rinuncia al suo diritto solo dopo un notevole periodo di tempo dalla stipula del preliminare, così omettendo un doveroso comportamento collaborativo ai fini della realizzazione dell'affare e tenendo prolungatamente nella più completa incertezza la sorte del rapporto giuridico. Sugli aspetti più specifici dell'esercizio del diritto di retratto, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 19234/2015 Rubino, Rv. 636978, secondo cui la condizione ostativa all'esercizio del diritto da parte del proprietario del fondo confinante – prevista dall'art. 7, comma 2, n. 2, della legge 14 agosto 1971, n. 817, e costituita dall'esistenza di un rapporto di affitto sul fondo oggetto del diritto – non viene meno quando, al momento in cui il fondo è venduto al 209 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI terzo, pendano trattative non ancora definite per la cessazione del rapporto di affitto; persiste infatti, in tali casi, l'insediamento del coltivatore titolare del contratto agrario. Una tematica affine è quella oggetto di Sez. 3, n. 12900/2015, Ambrosio, Rv. 635936, che ha ritenuto che costituisca condizione impeditiva del sorgere del diritto di prelazione la presenza, sul fondo oggetto di trasferimento, di un insediamento che tragga origine da un rapporto agrario qualificato, ovvero che, quantunque atipico, presupponga la qualità di coltivatore diretto e non sia precario, ma effettivo e stabile. Pertanto, non vale a concretare tale condizione ostativa la formale stipula di un contratto di affitto del fondo cui non corrisponda l'effettivo insediamento dell'affittuario sul fondo stesso, bensì una temporanea presenza predisposta ed attuata proprio per escludere l'altrui diritto di prelazione; né rileva la presenza provvisoria di un conduttore sul fondo dopo che questi abbia rinunciato ad avvalersi del diritto di continuazione del rapporto. Non è peraltro necessario, ha specificato la Corte, che l'insediamento abbia una durata minima da rapportarsi al biennio previsto per il riconoscimento del diritto di prelazione da parte del proprietario confinante, essendo diverse le due posizioni e dovendo il coltivatore diretto insediato sul fondo ricevere una tutela autonoma, differenziata e poziore rispetto al diritto riconosciuto al proprietario confinante. Ancora, sui profili applicativi dell'istituto va segnalata Sez. 3, n. 06094/2015, Carleo, Rv. 634888, che ha ritenuto che la prelazione spetti al coltivatore diretto affittuario di una porzione di un più ampio fondo anche nel caso in cui il locatore intenda alienare a terzi una quota indivisa dell'intero fondo, purché il prelazionario provi che la porzione da lui coltivata sia autonoma sul piano strutturale, funzionale e produttiva, e che lo scorporo della parte oggetto del suo diritto non pregiudichi notevolmente la possibilità di coltivazione del fondo unitariamente considerato ovvero non comporti l'imposizione, sulle restanti aree, di servitù ed oneri reali, che ne compromettano l'esclusività del godimento e ne menomino il valore di scambio. La Corte ha osservato che, soddisfatte tali condizioni, non osta all'esercizio del diritto di prelazione la circostanza che nel caso di futura divisione del fondo al coltivatore diretto possa essere assegnata una porzione diversa da quella effettivamente coltivata, trattandosi di rischio connesso allo stato di indivisione, e necessariamente noto al coltivatore al momento dell'esercizio della prelazione. 210 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Ancora, sui presupposti per l'esercizio della prelazione ed in particolare sul requisito della contiguità dei fondi, Sez. 3, n. 19251/2015, Sestini, Rv. 636976, ha ritenuto che detto requisito sussista anche se i fondi sono separati da un canale di scolo delle acque, quando – in mancanza di prova contraria – si presuma la comunanza dello stesso ai sensi dell'art. 897 c.c.; per converso, viene meno il rapporto di contiguità quando il canale è pubblico, poiché la funzione pubblica (irrigua) che esso così esercita a servizio di una pluralità di fondi è incompatibile con la funzione di mera delimitazione del confine. In relazione a specifiche fattispecie di possibile operatività del riscatto, Sez. 3, n. 17009/2015, Cirillo, Rv. 636322, ha precisato che ove la parte agisca in retratto iure successionis essa deve dimostrare la sussistenza dei presupposti normativi con riferimento al soggetto in luogo del quale il riscatto viene esercitato, in quanto l'esercizio iure successionis comporta una sorta di cristallizzazione della situazione che va verificata in rapporto alla sola posizione del defunto. Sez. 3, n. 05201/2015, Cirillo, Rv. 636073, ha invece preso in esame il caso in cui le parti del rapporto traslativo diano corso ad un'operazione negoziale complessa, che si articola attraverso strumenti contrattuali in sé leciti ma finalizzati, nel loro nesso teleologico, ad impedire che l'affittuario eserciti la prelazione; tale operazione, ha sostenuto la Corte, assicurando l'obiettivo che la legge vieta, deve costituire oggetto di indagine processuale, il cui accertamento, se positivo, non comporta la nullità dei contratti, ma consente al titolare del diritto di retratto, attraverso un meccanismo di protezione che richiama le nullità relative, l'esercizio del medesimo diritto, mediante sostituzione dell'acquirente voluto dal venditore con il soggetto individuato dalla legge. I contratti di affitto agrario, ed in particolare l'ipotesi di morosità del conduttore, costituiscono l'oggetto di Sez. 3, n. 17008/2015, Cirillo, Rv. 636320; detta pronunzia ha interpretato il disposto di cui all'art. 5, comma 4, della l. n. 203 del 1982 – secondo il quale la morosità del conduttore costituisce grave inadempimento idoneo a far risolvere il contratto ove si concreti nel mancato pagamento del canone per «almeno una annualità» –intendendo che la condizione posta per la risoluzione consiste nella sussistenza di un credito in favore della parte concedente per una somma pari ad almeno un'annualità di canone. La Corte ha così escluso che la risoluzione possa essere pronunziata nella sola ipotesi in cui il conduttore abbia omesso di corrispondere il canone per almeno una annualità, soluzione quest'ultima che porterebbe a ritenere 211 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI irrilevante, per la risoluzione del contratto, la corresponsione annuale di una somma irrisoria, in contrasto con la lettera e soprattutto con lo spirito della legge, per il quale rileva l'ammontare dei canoni complessivamente non pagati dal conduttore piuttosto che l'arco temporale in cui questi non abbia versato alcun corrispettivo al concedente. Alla disciplina del rapporto di affitto agrario fa riferimento anche Sez. 3, n. 25758/2015, Barreca, in corso di massimazione, che per l'ipotesi in cui l'affittuario abbia realizzato sul fondo una costruzione non autorizzata dal concedente, il conseguimento della concessione edilizia in sanatoria non fa venir meno l'inadempimento del primo ove il concedente abbia chiesto, ma non ottenuto, l'eliminazione dell'opera abusiva mediante la contestazione e diffida, fatta salva la valutazione della realtiva gravità in sede giudiziale ai fini di un'eventuale pronunzia risolutoria. Di particolare interesse, in materia di acquisto ex lege da parte dell'erede coltivatore di fondi rustici compresi nelle quote di altri coeredi, è Sez. 3, n. 17006/2015, Rubino, Rv. 636307, secondo cui tale fattispecie, come disciplinata dall'art. 4 della l. 31 gennaio 1994, n. 97, presuppone, in capo al titolare della posizione soggettiva, un precedente rapporto di affitto coattivo ex art. 49 della l. 3 maggio 1982, n. 203; tra le due fattispecie esiste infatti una necessaria consequenzialità, nascendo la prima solo alla scadenza della seconda, cosicché deve escludersi, in assenza di specifica previsione normativa, che tale diritto sussista quando il coerede coltivatore era legato al de cuius da un ordinario rapporto contrattuale preesistente alla morte di quest'ultimo. Con la stessa decisione la Corte ha ulteriormente precisato che l'art. 49, comma 1, della l. 3 maggio 1982, n. 203, nel prevedere, in caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, la costituzione ex lege di un rapporto di affitto agrario (decorrente dalla data di apertura della successione) in favore di quello tra gli eredi che a tal momento risulti aver esercitato o continui ad esercitare attività agricola, non si applica ove tra il de cuius ed uno degli eredi fosse stato in precedenza concluso un regolare contratto agrario. In tal caso, infatti, l'erede stesso, in qualità di concessionario ex contractu, continua ad usufruire del godimento del fondo rustico ai sensi della (diversa e successiva) disposizione di cui al terzo comma del medesimo articolo (a mente della quale «i contratti agrari non si sciolgono per la morte del concedente»). 212 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI In tema di trascrizione dei contratti agrari, Sez. 3, n. 06839/2015, Cirillo, Rv. 635046, ha specificato che la disposizione di cui all'art. 41 della l. 3 maggio 1982, n. 203, secondo cui i contratti ultranovennali, anche se verbali o non trascritti, sono validi ed hanno effetto pure riguardo ai terzi, deroga unicamente agli artt. 1350, n. 8), e 2643, n. 8), c.c., e non al complesso della disciplina in materia di trascrizione; conseguentemente ha ritenuto prevalente sul contratto agrario ultranovennale successivamente concluso l'anteriore trascrizione di una domanda giudiziale volta al conseguimento di un diritto con esso incompatibile. Infine, Sez. 3, n. 05864/2015, Sestini, Rv. 634781, ha statuito che ove l'affittuario abbia eseguito, sul fondo del locatore, opere non conformi alle norme edilizie e insuscettibili di sanatoria, al medesimo non spetta l'indennizzo ai sensi degli artt. 16 e 17 della l. 3 maggio 1982, n. 203, la cui attribuzione varrebbe a fargli conseguire un vantaggio da attività illecita che è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c., tanto più che le opere – in quanto non sanabili – non sono idonee a determinare un effettivo aumento di valore del fondo. 7. I contratti bancari. (rinvio). Si veda il capitolo XXI. 8. I contratti finanziari (rinvio). Si veda il capitolo XXI. 9. Fideiussione e garanzie atipiche. In materia di fideiussione, particolarmente significative appaiono due pronunzie che si inseriscono nell'ormai nutrita produzione concernente i rapporti fra detto tipo contrattuale ed il contratto autonomo di garanzia. La prima di esse, Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv. 636497, dopo aver ribadito che il contratto autonomo di garanzia si caratterizza rispetto alla fideiussione per l'assenza dell'accessorietà della garanzia, ed individuata tale caratteristica quale fondamentale termine distintivo fra i due rapporti, ne ha fatto discendere il rilievo dell'inopponibilità delle eccezioni di merito derivanti dal rapporto principale. Da tanto, la Corte ha ulteriormente osservato che ai fini dell'esperimento della exceptio doli, il garante non può limitarsi ad allegare circostanze di fatto idonee a costituire oggetto di un'eccezione che potrebbe essere opposta al creditore anche dal debitore garantito, ma deve far valere una condotta abusiva del creditore, il quale, nel chiedere la tutela giudiziale del proprio diritto, 213 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI abbia fraudolentemente taciuto, nella prospettazione della vicenda, situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto azionato ed aventi efficacia modificativa o estintiva dello stesso, ovvero abbia esercitato tale diritto al fine di realizzare uno scopo diverso da quello riconosciuto dall'ordinamento, o comunque all'esclusivo fine di arrecare pregiudizio ad altri, o, ancora, contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui. Nel caso di specie la Corte ha pertanto ritenuto insufficiente – ai fini dell'integrazione del dolo di un creditore che aveva agito per conseguire l'intero importo oggetto della garanzia nonostante l'avvenuta esecuzione di collaudi parziali – la semplice allegazione di tale ultima circostanza, senza fornire la prova dell'avveramento di quelle specifiche condizioni che contrattualmente giustificassero l'estinzione parziale della garanzia. Nel senso dell'irrilevanza di una distinzione fra i due contratti si è invece espressa Sez. 1, n. 18702/2015, Salvago, Rv. 636762, che, in materia di garanzia per l'esatto adempimento di un appalto di opera pubblica, ha affermato la possibilità del garante di eccepire, nei confronti del beneficiario, l'estinzione della polizza rilasciata a garanzia della regolare esecuzione dell'opera a causa della scadenza del termine previsto dall'art. 5 della l. 10 dicembre 1981 n. 741 per l'approvazione del certificato di collaudo, e ciò indipendentemente dalla qualificazione della stessa in termini di fideiussione o contratto autonomo di garanzia. La specificità di tale ultimo contratto, infatti, comporta che il garante non possa opporre al creditore le eccezioni attinenti alla validità del rapporto principale, ma non anche quelle attinenti alla validità e all'efficacia dello stesso contratto di garanzia. Sul tema dei rapporti fra creditore e garante va infine segnalata Sez. 1, n. 16836/2015, Di Virgilio, Rv. 636447, che per l'ipotesi in cui la durata di una fideiussione sia correlata non alla scadenza dell'obbligazione principale ma al suo integrale adempimento, ha stabilito che l'azione del creditore nei confronti del fideiussore non è soggetta al termine di decadenza previsto dall'art. 1957 c.c. 10. Il giuoco e la scommessa. Sul tema nel 2015 va segnalata una sola interessante pronuncia, in materia di giuoco del lotto, relativa ad una fattispecie nella quale il raccoglitore delle scommesse, dopo l'effettuazione delle giocate e la consegna delle relative ricevute allo scommettitore, per imperizia aveva annullato le medesime giocate, risultate poi vincenti. Sez. 3, n. 15731/2015, 214 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Pellecchia, Rv. 636174, a proposito della responsabilità contrattuale del raccoglitore delle giocate, ha innanzitutto evidenziato che si distinguono due rapporti obbligatori, quello tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello tra lo scommettitore e il gestore monopolista del lotto. Nell'ambito del primo rapporto ha affermato che il raccoglitore della scommessa è obbligato alla valida registrazione della scommessa e alla consegna al giocatore della relativa ricevuta; inoltre, anche successivamente alla stampa della ricevuta, è tenuto ad una condotta idonea ad evitare una possibile invalidazione della giocata, altrimenti configurandosi un inesatto adempimento del contratto, di cui il raccoglitore risponde anche per fatto del proprio dipendente. Sulla base di tale principio la Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito, che nella descritta fattispecie aveva riconosciuto la responsabilità dello scommettitore. 11. Locazione. Nutrita ed articolata è la produzione in materia di locazione, che conviene esaminare tenendo distinti gli ambiti delle locazioni abitative e non abitative per poi riportare alcune rilevanti pronunzie che hanno affermato principi di rilievo con riferimento alla disciplina generale del tipo contrattuale. 11.1. Locazione ad uso abitativo. Di assoluto rilievo, al riguardo, sono le due coeve pronunzie delle Sezioni Unite concernenti, rispettivamente, il tema della forma scritta prevista dall'art. 1, comma 4, della l. 9 dicembre 1988 n. 431 e l'accordo dissimulato di maggiorazione del canone. Con la prima di esse, Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, le Sezioni Unite hanno affermato che il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile anche d'ufficio, essendo la prescrizione funzionale all'esigenza pubblicistica di contrasto all'evasione fiscale; a tanto fa eccezione la sola ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. Con la seconda, Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636471, dopo aver premesso che l'accordo occulto di maggiorazione del canone ed il contratto di locazione a canone apparente costituiscono parti di un'unica convenzione negoziale – essendo innegabile l'unità strutturale del procedimento simulatorio – e che in tale contesto la cd. controdichiarazione non ha valore 215 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI negoziale, ma unicamente interpretativo e probatorio, hanno affermato che la sanzione di nullità di cui all'art. 13, comma 1, della l. n. 431 del 1998 ha ad oggetto esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, mentre resta valido il contratto registrato con il canone apparente. Le Sezioni Unite hanno poi ulteriormente precisato che il patto occulto, in quanto nullo, non è sanato dalla registrazione tardiva, che costituisce una circostanza extranegoziale inidonea a spiegare effetti sul piano della validità del contratto. Con riferimento al pagamento di canone in misura eccedente rispetto a quella consentita, Sez. 6-3, n. 13424/2015, Cirillo, Rv. 635920, collocandosi nel solco di alcune più risalenti pronunzie, ha affermato che l'obbligo restitutorio dell'accipiens è soggetto alla regola generale di cui all'art. 2033 c.c., secondo la quale gli interessi sulle somme da restituire decorrono dal giorno della domanda giudiziale se questi era in buona fede ovvero dal pagamento se era in mala fede; e che spetta in ogni caso al conduttore la prova della mala fede, che va fornita con la dimostrazione di essere stato indotto dal locatore alla corresponsione del canone in misura eccedente nonostante la sua volontà contraria, a meno che tale situazione soggettiva non emerga da altre circostanze di fatto. Ancora, e sempre con riferimento all'inderogabilità delle norme a tutela del conduttore, Sez. 3, n. 19207/2015, Travaglino, Rv. 637196, ha affermato che l'azione di nullità dei patti contrari alla legge ex art. 79 della l. 27 luglio 1978 n. 392 è unitaria e non va perciò riproposta per ogni successiva frazione temporale del rapporto locativo, quali che siano i titolari dal lato attivo. La Corte ha pertanto precisato che in caso di domanda di ripetizione del canone ultralegale, già definitivamente accolta nei confronti degli originari locatori che avevano poi alienato l'immobile nelle more del giudizio, gli aventi causa di questi che siano stati successivamente convenuti per le stesse ragioni non possono invocare la decadenza per superamento del termine semestrale dalla cessazione del contratto, ma, quali successori a titolo particolare nel diritto controverso, solo la prescrizione decennale dell'actio iudicati. La questione dei rapporti fra rinnovo della locazione abitativa e jus superveniens è oggetto di Sez. 3, n. 19231/2015, Frasca, Rv. 636999, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra locazione rinnovata tacitamente ed esplicitamente – dell'art. 14, comma 5, della l. n. 431 del 1998 nella sua interpretazione (conforme al diritto vivente) 216 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI secondo cui, qualora le parti di un contratto già regolato dalla l. n. 392 del 1978, dopo l'entrata in vigore della l. n. 431 del 1998 lo abbiano lasciato tacitamente rinnovare per mancata disdetta, questo rimane regolato, quanto alla durata, da tale ultima legge e quanto al canone da quelle della l. n. 378 del 1992, ivi compreso l'art. 79 della stessa legge. Tale effetto, infatti, non dipende da una scelta irragionevole del legislatore ma dall'inerzia del locatore il quale, pur potendo dare disdetta, ha consentito l'operatività del meccanismo di tacito rinnovo. Con riferimento ad un rapporto di locazione fra unico proprietario e distinti conduttori di unità immobiliari del medesimo edificio, Sez. 6-3, n. 03947/2015, Ambrosio, Rv. 634537, ha affermato che la prescrizione biennale del diritto al rimborso degli oneri accessori posti a carico dei conduttori decorre dalla data di chiusura della gestione annuale dei servizi accessori, secondo la cadenza con cui questa in concreto si svolge nell'ambito del rapporto di locazione, in quanto l'unico proprietario ha la possibilità di elaborare il consuntivo ed accertare, così, se le spese effettuate per quell'immobile locato superino o meno gli acconti periodicamente percepiti alla chiusura della gestione annuale, senza che rilevi che, successivamente alla chiusura della gestione, sia stata venduta taluna delle unità abitative. Ancora, in materia di locazioni di immobili urbani Sez. 3, n. 02752/2015, Carleo, Rv. 634434, ha affermato che l'art. 1606, comma 1, c.c. – a tenore del quale, nel caso in cui il diritto del locatore sulla cosa locata si estingua con effetto retroattivo, le locazioni da lui concluse, aventi data certa, sono mantenute purché siano state fatte senza frode e non eccedano il triennio – presuppone unicamente la sussistenza del diritto del locatore alla data di stipula del contratto di locazione, indipendentemente da vicende successive idonee a comportarne retroattivamente l'estinzione, sicché essa trova applicazione anche nell'ipotesi in cui il diritto del locatore sulla cosa si estingua, con effetto retroattivo, per risoluzione del preliminare da cui gli era derivato il possesso della cosa locata. 11.2. Locazione ad uso non abitativo. Sez. 3, n. 08705/2015, Scrima, Rv. 635206, ha riaffermato il principio di libera determinazione del canone, specificando che – poiché l'art. 79 della legge 27 luglio 1978, n. 392 mira a garantire l'equilibrio sinallagmatico del contratto secondo la valutazione operata dal legislatore – non vi sono limiti all'autonomia negoziale con riguardo 217 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI alla possibile fissazione di un canone in misura inferiore a quella originariamente concordata ove ciò si giustifichi nella rinuncia, da parte del conduttore, ai diritti derivantigli dal contratto di locazione, ivi compreso quello alla corresponsione dell'indennità di avviamento commerciale. Diverse sono poi le pronunzie concernenti i profili dello scioglimento del rapporto. Sez. 3, n. 17026/2015, De Stefano, Rv. 636316, ha affermato che ove le parti, in pendenza di un contratto di locazione non abitativa rinnovatosi alla prima scadenza per mancata disdetta motivata, si accordino per la stipula di un nuovo contratto con retrodatazione della decorrenza e misura del canone che comporti una durata residua (computata a far tempo dalla data della stipula, inferiore a quella legale) ed un aumento retroattivo del canone, danno vita ad un accordo nullo; e ciò in quanto le relative clausole violano le norme in materia di durata minima ed il divieto di modifica dell'entità del canone in costanza di rapporto. Al tema del recesso del conduttore è riferita Sez. 3, n. 13368/2015, Vivaldi, Rv. 635800, che ai fini del valido ed efficace esercizio del relativo diritto ha evidenziato come strettamente necessario il fatto che i gravi motivi siano enunciati nella stessa comunicazione di recesso – come espressamente previsto dall'art. 27, comma 8, della l. n. 392/1978 – ed ha così escluso che il conduttore possa esplicitarli successivamente. Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 06985/2015, Rossetti, Rv. 634988, ha affermato che l'eventuale manifestazione da parte del conduttore prima della scadenza del contratto della sua volontà di escluderne il rinnovo automatico non priva lo stesso di validità od efficacia e così non gli inibisce l'accesso al diritto di recedere dal contratto ove sopravvengano i richiamati giusti motivi, che integrano un vizio del sinallagma contrattuale al quale questi è legittimato a reagire. Nella stessa decisione è precisato che la dichiarazione di recesso, avente natura di atto unilaterale recettizio, produce effetto per il sol fatto di pervenire al domicilio del locatore, non occorrendo anche la mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, circa l'esistenza o rilevanza dei motivi addotti. Di particolare interesse, per la specificità dei suoi profili applicativi, è Sez. 3, n. 19220/2015, Petti, Rv. 637085, che ha dichiarato la nullità per illiceità della causa di un contratto avente ad oggetto un locale seminterrato da adibire ad attività lavorativa di natura industriale; la Corte ha qui fatto espresso riferimento alla 218 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI teoria della causa concreta, sanzionando il fatto che l'accordo era diretto a realizzare un godimento del bene corrispondente ad un'attività vietata dall'ordinamento con norma imperativa. Sez. 3, n. 19531/2015, Vincenti, Rv. 637002, nel prendere in esame la fattispecie di contratto di locazione connesso ad affitto di azienda, ha affermato che in tal caso è consentito al locatore, ove il cessionario si renda inadempiente, di agire ex art. 36 della l. n. 392 del 1978 nei confronti del cedente per il pagamento del canone, salvo che egli stesso abbia dichiarato espressamente di liberarlo, senza che assuma alcun rilievo la dilatazione temporale del vincolo obbligatorio per l'intervenuta rinnovazione tacita del contratto. Un'interessante precisazione si trova in Sez. 3, n. 13317/2015, Vivaldi, Rv. 635803, con riferimento a quanto previsto dai commi 3 e 4 dell'art. 37 della l. n. 392 del 1978 che – con riguardo agli immobili adibiti all'uso di più professionisti, artigiani o commercianti – disciplinano, nel caso di morte o di recesso dell'unico titolare della locazione, la successione nel contratto degli altri; tali disposizioni, ha chiarito la pronunzia, presuppongono che l'uso plurimo sia stato previsto contrattualmente o anche successivamente consentito dal locatore, sicché ove la destinazione dell'immobile in favore di più soggetti non sia stata prevista nel contratto stipulato dal locatore con uno soltanto di questi, l'eventuale occupazione di fatto dell'immobile da parte degli altri non li legittima a subentrare nel contratto. È stato anche puntualizzato, con Sez. 3, n. 07715/2015, Stalla, Rv. 635118, che ove lo svolgimento dell'attività commerciale da parte del conduttore uscente prosegua per un certo periodo di tempo dopo la scadenza contrattuale, il termine annuale di riferimento relativo all'indennità di cui all'art. 34, comma 2, della l. n. 392 del 1978, va computato con riguardo non alla data di scadenza del contratto, ma a quella di effettiva cessazione dell'attività mediante rilascio dell'immobile, in quanto solo in tale momento si origina quel pregiudizio economico, oggetto di riparazione ex lege, costituito dalla perdita dell'avviamento, poiché tale ultimo elemento deve ritenersi connaturato all'operatività dell'azienda ed alla sua localizzazione mediante contatto diretto con il bacino d'utenza. Infine, in tema di locazione di immobili alberghieri, Sez. 3, n. 09286/2015, Scrima, Rv. 635280, ha precisato che l'art. 29, comma 2, della l. n. 392 del 1978, ha natura speciale rispetto al comma 1, coerente con lo scopo di assicurare una più ampia durata di tali rapporti; ne consegue che soltanto nelle specifiche ipotesi ivi 219 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI previste al locatore è consentito negare la rinnovazione del contratto alla prima scadenza, restando esclusa la possibilità di esercitare la facoltà di diniego per necessità abitativa contemplata, per gli altri immobili destinati ad uso diverso dall'abitazione, di cui al comma 1 della norma richiamata. 11.3. Disciplina della locazione in generale. Collocandosi nel solco di un già stabile orientamento che muove dal rilievo del fatto che l'obbligazione di pagamento dei canoni di locazione costituisce un debito di valuta, Sez. 3, n. 19222/2015, Petti, Rv. 636885, ha precisato che sull'importo di spettanza del locatore, ai sensi dell'art. 1224 c.c., si computa la rivalutazione monetaria solo per la parte eccedente il danno da ritardo coperto dagli interessi. Alcune significative pronunzie concernono poi il tema degli obblighi del conduttore. Sez. 3, n. 15721/2015, Rubino, Rv. 636375, ha opportunamente delineato i confini dell'obbligo di custodire la cosa locata in una fattispecie concernente l'ipotesi di incendio della stessa. La Corte ha infatti ricondotto tale obbligo al novero degli obblighi contrattuali di custodia (rinvenibili in questa come nella disciplina di altri tipi contrattuali, siano essi coincidenti con il contenuto della prestazione tipica, ovvero alla stessa accessori, ovvero ancora accessori alla prestazione di consegna in forza della clausola generale espressa dall'art. 1177 c.c.), tutti relativi ai danni che subisce la cosa che il soggetto è tenuto a custodire. Ha perciò affermato che l'obbligo di custodia a carico del conduttore deriva dal combinato disposto dell'art. 1590 c.c., (restituzione della cosa locata) con l'art. 1177, cassando la decisione del giudice di merito che, nella fattispecie, aveva richiamato il contenuto della responsabilità del custode di cui all'art. 2051 c.c. (sulla base del quale può invece fondarsi la responsabilità del conduttore o del proprietario o di entrambi, a seconda dei casi, verso i terzi per i danni provocati nei loro confronti dalla cosa in custodia). La Corte ha conseguentemente precisato che l'art. 1588 c.c., in base al quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio ove non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone una presunzione di colpa a suo carico, superabile con la dimostrazione di aver adempiuto agli obblighi di custodia con la diligenza richiesta dal caso concreto, e che sia stata identificata in modo positivo la causa dell'incendio a lui non imputabile. Infine, ed a tale ultimo riguardo, 220 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI ha specificato che non attiene al contenuto della prova liberatoria verso il locatore l'individuazione dei soggetti in concreto responsabili dell'incendio. Sempre in relazione alla responsabilità ex art. 1588 c.c., Sez. 3, n. 12706/2015, Stalla, Rv. 635774, ha affermato che essa sussiste anche per fatto del terzo – ai sensi del comma 2 della norma richiamata – ove il danno si sia verificato nel tempo in cui a questo è stato consentito il godimento della cosa, purché si tratti di fatti ricollegabili a scelte del conduttore nelle modalità d'uso e nella vigilanza della cosa locata, e non quando l'uso della cosa locata da parte del terzo non sia stato consentito ed anzi sia stato addirittura vietato. Infine, merita uno specifico richiamo Sez. 6-3, n. 08607/2015, Carluccio, Rv. 635149, concernente il tema del contratto preliminare di locazione. Tale pronunzia ha affermato che l'eventuale sentenza ex art. 2932 c.c., che tenga luogo del contratto non concluso, non ha efficacia retroattiva e vale solo per il futuro, sicché è inidonea ad assicurare tutela al promittente locatore per il periodo pregresso relativamente ai canoni non percepiti; questi possono invece essere ottenuti tramite le domande di risarcimento del danno o indennità d'occupazione. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di esecuzione in forma specifica di un preliminare di locazione a termine con scadenza anteriore alla data dell'eventuale sentenza. 12. Mandato. Con riferimento alla diligenza del mandatario, è interessante segnalare Sez. 3, n. 14664/2015, Amendola, Rv. 636659. In una fattispecie in cui un mandatario – all'epoca dei fatti dipendente delle Ferrovie dello Stato – aveva acquistato per conto del mandante una autovettura usata che si era poi rivelata inefficiente, la pronuncia, emessa all'esito di una controversia in cui il mandante aveva chiesto l'accertamento delle responsabilità del mandatario ed il risarcimento dei danni, ha affermato che nel contratto di mandato la diligenza del mandatario, per obbligazioni inerenti l'esercizio di un'attività professionale, deve essere valutata ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c., e non alla stregua di un generico riferimento ad una "diligenza qualificata", la quale non trovi fondamento nella attività esercitata. Affermando tale principio la Corte ha cassato la sentenza di merito che invece aveva riconosciuto la responsabilità del mandatario, evidenziando che questi non era 221 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI neppure un concessionario di veicoli, né vi era prova di specifiche competenze professionali nel settore. In tema di mandato all'incasso senza rappresentanza poi, interessante è Sez. 3, n. 14671/2015, Vincenti, Rv. 636179, secondo cui il mandatario non è legittimato ad agire in giudizio per conseguire l'adempimento del terzo debitore, non essendo munito di alcun potere rappresentativo, né avendo acquisito in capo a sé alcun diritto di credito. Il principio risulta affermato in relazione ad una fattispecie in cui una società, mandataria all'incasso senza rappresentanza dei crediti delle società mandanti, aveva agito in nome proprio senza essere titolare dei diritti che intendeva tutelare giudizialmente, nel qual caso ne è stata esclusa sia la legittimazione ad causam, sia la legittimazione sostanziale. Altrettanto interessante è Sez. 2, n. 07038/2015, Nuzzo, Rv. 634829, in ordine alla irrevocabilità del mandato in rem propriam e al rapporto con il negozio gestorio sottostante. In una fattispecie di vendita di un immobile da parte del mandatario, pur dopo la revoca della procura, la pronuncia ha affermato che nel mandato conferito nell'interesse del mandatario con attribuzione di procura, l'irrevocabilità del mandato è limitata al rapporto interno tra il mandante e il mandatario, e per conseguenza la validità del contratto concluso dal mandatario con il terzo resta subordinata alla permanenza del potere di rappresentanza e all'assenza di revoca della procura. Va infine segnalata, Sez. 3, n. 19529/2015, Vincenti, Rv. 636986, che, con riferimento agli atti idonei a interrompere la prescrizione, afferma che il riconoscimento del diritto è idoneo ad interrompere la prescrizione a norma dell'art. 2944 c.c., purchè provenga da colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere, ossia dal soggetto con poteri dispositivi del diritto ovvero dal terzo che, autorizzato dal primo, risulti abilitato ad agire in suo nome e per suo conto. E in tal senso si è affermato che il conferimento ad un legale del mandato a transigere costituisse condizione sufficiente per riconoscere in capo al professionista i poteri dispositivi del rapporto sostanziale oggetto della proposta transattiva, il cui invio per missiva alla controparte, avendo valore di riconoscimento del diritto, valeva anche da atto interruttivo della prescrizione. 13. Mediazione. Con riferimento alla diligenza del mediatore deve segnalarsi Sez. 2, n. 18140/2015, Falaschi, Rv. 637022, la quale – in un caso in cui il mediatore aveva comunicato la regolarità 222 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI edilizia di una veranda, che invece non era neppure condonabile – afferma che, in tema di compravendita immobiliare, il mediatore che abbia fornito alla parte interessata alla conclusione dell'affare informazioni sulla regolarità urbanistica dell'immobile, tuttavia omettendo di controllare la veridicità di quelle ricevute, non ha assolto l'obbligo di corretta informazione in base al criterio della media diligenza professionale, per ciò intendendosi non solo l'obbligo di comunicare le circostanze note, o conoscibili per un professionista, secondo la comune diligenza, ma anche il divieto di fornire quelle delle quali non abbia consapevolezza e che non abbia controllato. In caso contrario è responsabile per i danni sofferti dal cliente. Quanto al diritto alla provvigione, è interessante Sez. 3, n. 01120/2015, Travaglino, Rv. 633989, la quale afferma che non sussiste il diritto alla provvigione quando una prima fase delle trattative avviate con l'intervento di un mediatore non dia risultati positivi, mentre accade che la conclusione dell'affare, cui le parti successivamente ugualmente pervengono, sia del tutto indipendente dall'opera del mediatore che pur le aveva poste originariamente in contatto. La pronuncia, pur nel solco di un orientamento preesistente, è interessante, trattando di una fattispecie in cui un primo mediatore aveva occasionalmente accompagnato presso l'abitazione della venditrice una potenziale acquirente, ciò che dal giudice di merito era stato ritenuto sufficiente per riconoscere il diritto del mediatore alla provvigione, senza tuttavia che fosse stato valutato se la rispresa delle trattative tra le parti fosse intervenuta per effetto di iniziative del tutto nuove, quale la lettura di un annuncio su un giornale, a distanza di un anno da quell'incontro, e l'offerta di vendita pubblicata nella bacheca di un'altra agenzia di mediazione, in alcun modo ricollegabili al primo incontro o da questo condizionate, così da escludere ogni rilevanza alla attività posta in essere dall'originario mediatore. Sempre ai fini dell'insorgenza del diritto alla provvigione, Sez. 2, n. 21836/2015, De Chiara, Rv. 615141, in ordine all'oggetto della mediazione e ai requisiti che si richiedono alla attività del mediatore, afferma che costituisce affare, ai sensi dell'art. 1754 c.c., qualunque operazione di natura economica che sia idonea a generare un rapporto obbligatorio tra le parti. Deve tuttavia trattarsi di una operazione che, pur in senso generico o empirico, sia sufficientemente individuata nella sua consistenza storica. 223 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI 14. Il mutuo. Tra le pronunce dedicate al contratto di mutuo merita di essere segnalata Sez. 3, n. 17194/2015, Rubino, Rv. 636304 e Rv. 636305, innanzitutto in ordine al perfezionamento del negozio, con specifico riferimento al caso in cui abbia ad oggetto del denaro. Sul punto la sentenza afferma che la consegna idonea a perfezionare il contratto reale di mutuo non va intesa nei soli termini di materiale e fisica traditio del denaro, rivelandosi invero sufficiente il conseguimento della sua disponibilità giuridica da parte del mutuatario, ricavabile anche dalla integrazione di quel contratto con il separato atto di quietanza a saldo. Il principio è spiegato alla luce della progressiva dematerializzazione dei valori mobiliari e della loro sostituzione con annotazioni contabili, tanto più che sia la normativa antiriciclaggio, che le misure normative tese a limitare l'uso del contante nelle transazioni commerciali, hanno accentuato l'utilizzo di strumenti alternativi al trasferimento materiale del denaro. La pronuncia peraltro affronta anche un aspetto processuale, relativo alla idoneità del contratto di mutuo a fungere da titolo esecutivo. Sul punto afferma che ai sensi dell'art. 474 c.p.c. occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell'atto di erogazione e quietanza, o di quietanza a saldo quando esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge. Sez. 3, n. 19522/2015, Barreca, Rv. 636882 e Rv. 636881, si occupa, in tema di credito al consumo, della ipotesi di inadempimento del fornitore di beni e servizi e della conseguente azione diretta del consumatore contro il finanziatore, prevista dall'art. 125 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (ratione temporis applicabile, e attualmente trasfuso nell'art. 42 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206). Sul punto la pronuncia afferma che tale azione si aggiunge alle comuni azioni contrattuali per le quali non vigono le condizioni stabilite da detta norma, spettando invece al giudice, in applicazione dei principi generali, individuare gli effetti del collegamento negoziale istituito per legge tra il contratto di finanziamento e quello di vendita. Anzi proprio sul collegamento negoziale, la sentenza, ribadendo un principio già asserito da Sez. 3, n. 20477/2014, Barreca, Rv. 632435, afferma anche che ai sensi degli artt. 121 e 124 del d.lgs. n. 385 del 1993 -nel testo sempre applicabile ratione temporis-, tra i contratti di credito al consumo finalizzati all'acquisto di determinati beni o servizi, ed i contratti di acquisto dei medesimi beni o servizi, ricorre 224 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI un collegamento negoziale di fonte legale, che prescinde dalla sussistenza di una esclusiva del finanziatore per la concessione di credito ai clienti dei fornitori. Dunque la pronuncia, nell'ipotesi in cui un acquirente acquisti un bene da un determinato venditore/fornitore, ad un tempo finanziando l'acquisto con un credito al consumo contratto con un finanziatore e sottoscritto presso il venditore, per un verso riconosce il collegamento negoziale tra i due rapporti contrattuali posti in essere, di compravendita e di mutuo, per altro verso riconosce al consumatore sia l'azione diretta verso il finanziatore ai sensi dell'art. 125 cit., sia la libertà di espletare le comuni azioni contrattuali, tra cui la sospensione del pagamento delle rate con l'exceptio inadimpleti contractus (nel caso di specie giustificata dal fatto che il venditore non aveva poi più consegnato la merce acquistata con il finanziamento). Interessante è anche Sez. 3, n. 14631/2015, Vivaldi, Rv. 636165, in materia di credito agrario. La pronuncia, per spiegare l'estensione della efficacia del privilegio speciale sui frutti pendenti, chiarisce che il mutuo disciplinato dall'art. 44, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, come sostituito dall'art. 1 del d.l. 4 gennaio 1994, n. 1, convertito nella l. 17 febbraio 1994, n. 135, ha quale finalità il finanziamento dell'impresa in sé considerata, a prescindere dalla persona fisica dell'imprenditore, sicchè il privilegio legale speciale sui frutti pendenti, di cui alla lett. a) della norma, grava anche sulle annate ulteriori fino all'estinzione del credito garantito, ed è opponibile ai terzi ai sensi dell'art. 2747, comma 2, c.c., senza necessità di trascrizione. 15. La transazione. In tema di transazione, di particolare interesse è la portata di Sez. 3, n. 19541/2015, Cirillo, Rv. 636884, relativa agli effetti della transazione nei confronti del condebitore in solido. La pronunzia in questione ha stabilito che l'art. 1304, comma 1, c.c. – nel consentire, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, che il condebitore in solido possa avvalersi della transazione tra il creditore e uno dei condebitori – si riferisce esclusivamente all'atto di transazione che abbia ad oggetto l'intero debito e non include la transazione parziale. Quest'ultima, infatti, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne. 225 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Sulla base dell'affermato principio, la Corte ha escluso che in una controversia relativa alla responsabilità per danni da attività medico-chirurgica espletata presso una clinica privata la struttura sanitaria potesse avvalersi della transazione stipulata ante litem fra gli aventi diritto ed il medico responsabile con accordo limitato alla fase dell'esecuzione (in guisa di pactum de non petendo), in quanto avente ad oggetto una mera anticipazione di quanto da costoro preteso nei confronti di tutti gli obbligati. Una questione analoga, e tuttavia distinta nei presupposti fattuali, è quella oggetto di Sez. 3, n. 15860/2015, D'Amico, Rv. 636191, anch'essa relativa ad una fattispecie di responsabilità medica originata da una domanda attinente al solo operato del medico, e non anche della struttura, convenuta solo in ragione del rapporto lavorativo col professionista. In tale ipotesi, ha affermato la Corte, la transazione tra medico e danneggiato (con conseguente cessazione della materia del contendere) impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura sanitaria convenuta per fatto altrui, poiché esclude la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del professionista e fa così venir meno la responsabilità della struttura senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c. Mette poi conto segnalare due pronunzie che hanno riguardato il tema dell'annullamento della transazione su pretesa temeraria a norma dell'art. 1971 c.c. Sez. L, n. 19023/2015, Tricomi, Rv. 636931, ha affermato che tale rimedio presuppone la presenza di due elementi, uno obiettivo e uno soggettivo, ossia che la pretesa fatta valere dalla parte nei cui confronti si chiede l'annullamento sia totalmente infondata e che la parte versi in mala fede, ovvero che, pur consapevole dell'infondatezza della propria pretesa, essa l'abbia dolosamente sostenuta. Sulla base di tale principio la Corte ha escluso l'annullabilità della transazione relativa ad una domanda di accertamento della natura subordinata di rapporto di lavoro giornalistico, per carente consapevolezza, in capo al preteso datore, della temerarietà della pretesa di qualificare come autonomo il rapporto medesimo tenuto conto di una serie di circostanze fattuali. Sez. 3, n. 12691/2015, Barreca, Rv. 635769, ha invece escluso che ai fini dell'annullamento la temerarietà della pretesa possa essere provata per mezzo delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di transazione circa l'effettiva sussistenza di reciproche concessioni; ciò in quanto il riconoscimento di un fatto a sè sfavorevole e 226 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI favorevole all'altra parte non ha natura confessoria, per mancanza di animus confitendi, ove costituisca l'oggetto di una delle reciproche concessioni di un contratto di transazione, poiché non integra una dichiarazione di scienza che sia fine a se stessa, ma s'inserisce nel contenuto del contratto transattivo ed è strumentale rispetto al raggiungimento dello scopo di questo, il che fa venir meno, nella rappresentazione interna che l'autore si forma della propria dichiarazione, la basilare caratteristica che alle confessioni conferisce forza probante. 16. Il trasporto. In tema di contratto di trasporto, nel corso del 2015 la Suprema Corte ha pronunciato diverse sentenze di rilievo, concernenti tanto la disciplina domestica quanto quella del trasporto internazionale. Di notevole importanza, per i suoi risvolti ermeneutici, è Sez. 3, n. 14670/2015, Vincenti, Rv. 636091, che ha ritenuto configurabile un appalto di servizi di trasporto e non un mero contratto di trasporto nel caso in cui le parti abbiano pianificato, con una disciplina ed un corrispettivo unitario e con l'apprestamento di idonea organizzazione da parte del trasportatore, l'esecuzione di una serie di trasporti aventi carattere di prestazioni continuative in vista del raggiungimento di un risultato complessivo rispondente alle esigenze del committente (nella specie, il commissionario si era obbligato a provvedere al trasporto, con annesso scarico e consegna, dei pali per le linee elettriche gestite dall'ENEL). Con riferimento alla responsabilità del vettore per perdita od avaria delle cose trasportate, Sez. 3, n. 09305/2015, D'Amico, Rv. 635281, ha affermato che ove il vettore restituisca soltanto una parte della merce affidatagli egli resta soggetto all'obbligazione risarcitoria, fatto salvo il suo diritto di dimostrare la sussistenza di cause di esclusione della responsabilità per perdita o avaria, allo scopo di limitare il risarcimento dovuto, da determinarsi secondo i criteri di cui all'art. 1696 c.c., e mediante la prova di quali e quante cose siano state riconsegnate regolarmente. Sullo stesso tema, e nel solco di quanto affermato in alcune più remote pronunzie, Sez. 1, n. 16554/2015, Genovese, Rv. 636333, ha ritenuto che – vertendosi in ambito di responsabilità ex recepto – la prova liberatoria del vettore non possa essere fatta coincidere con la dimostrazione che il carico è stato oggetto di un furto, se il fatto è avvenuto con modalità tali da evidenziare l'omessa adozione di cautele idonee ad evitarlo; occorre dunque 227 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI accertare che i fatti, ancorché riconducibili ad un reato, si siano svolti con modalità talmente atipiche ed abnormi da doversi ritenere del tutto imprevedibili ed inevitabili, anche mediante l'assunzione di adeguate misure di prevenzione. In punto al danno conseguente alla perdita od avaria, Sez. 1, n. 16554/2015, Genovese, Rv. 636334, ha stabilito che esso può essere legittimamente liquidato dal giudice del merito con riferimento alle risultanze della fattura emessa dal mittente nei confronti del destinatario, poiché corrisponde ad una presunzione semplice che nei normali rapporti fra imprenditori commerciali venga praticato il prezzo di mercato quando si tratti di merci che hanno una quotazione risultante da mercuriali o comunque in base a contrattazioni largamente generalizzate. Sez. 3, n. 09312/2015, Scrima, Rv. 635316, affronta il tema del danno alla persona del viaggiatore da ritardi o interruzioni nello specifico settore del trasporto ferroviario. Secondo la Corte tale danno è risarcibile – in deroga all'art. 1681 c.c. (ed in forza di quanto previsto dal precedente art. 1680) – alle condizioni stabilite dall'art. 11, paragrafo quarto, del r.d.l. 11 ottobre 1934, n 1948, convertito nella l. 4 aprile 1935, n. 911, norma ancora oggi applicabile in forza di quanto stabilito dall'art. 3, comma 1 bis, lett. e), del d.l. 22 dicembre 2008, n. 200, convertito in l. 18 febbraio 2009, n. 9, e dal d.lgs. 1° dicembre 2009, n. 179. In particolare, il risarcimento – limitato al danno derivato al viaggiatore dal ritardo, dalla soppressione del treno, da mancata coincidenza o da interruzioni del servizio – deve avvenire alle condizioni previste dagli artt. 9 e 10 del medesimo r.d.l. n. 1948 del 1934, ovvero mediante il diritto di valersi di un treno successivo per l'effettuazione o la prosecuzione del viaggio od attraverso il rimborso del prezzo corrisposto. In tema di trasporto internazionale, di merci su strada, Sez. 3, n. 07201/2015, Lanzillo, Rv. 635200, ha affermato che l'applicabilità della normativa dettata dalla convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956 (resa esecutiva con la l. 6 dicembre 1960, n. 1621) postula che le parti contraenti abbiano in tal senso manifestata la loro volontà, sia attraverso l'inserimento nella lettera di vettura dell'indicazione che il trasporto è assoggettato al regime di cui alla predetta convenzione (art. 6, par. L, lett. K), sia – in mancanza della lettera di vettura – attraverso pattuizioni, anche orali, dimostrabili con qualunque mezzo di prova. In ambito applicativo della citata Convenzione, Sez. 3, n. 14665/2015, Amendola, Rv. 636093, ha precisato che qualora il 228 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI vettore abbia affidato di sua iniziativa l'esecuzione totale o parziale del trasporto ad altro vettore – che viene così ad assumere la qualifica di subvettore – anche il rapporto di subtrasporto è configurabile come contratto a favore di terzi, sicché il destinatario, quale beneficiario del contratto, è legittimato ad esercitare nei confronti del subvettore i diritti derivanti dalla sua sostituzione al mittente, compreso quello di esigere il risarcimento del danno per la perdita o l'avaria delle cose. In tema di trasporto internazionale marittimo, Sez. 3, n. 12087/2015, Stalla, Rv. 635475, richiamandosi tanto alla disciplina desumibile dalla Convenzione di Bruxelles del 25 agosto 1924, quanto al contenuto dell'art. 422 c.n., ha ritenuto che le operazioni di caricamento e stivaggio della merce riguardino attività accessorie al trasporto, così da rientrare nella sfera di rischio, costo e responsabilità del vettore. Pertanto, ha precisato la Corte, eventuali clausole derogatrici (quali quella cd. free in, liner out) possono incidere sulle spese e non sulla responsabilità di questi; e quando le attività in questione sono state effettuate da un ausiliario del vettore, l'azione risarcitoria spettante al destinatario della merce per i danni conseguenti a negligenza o colpa nel loro svolgimento è soggetta al termine di prescrizione annuale sancito dall'art. 438 c.n. e dall'art. VI, quarto comma, della citata Convenzione, restando, invece, inapplicabile la corrispondente normativa riguardante l'appalto di servizi. Nel medesimo ambito si colloca Sez. 3, n. 05488/2015, Spirito, Rv. 634657, concernente i profili applicativi della Convenzione internazionale in materia di polizza di carico, firmata a Bruxelles il 25 agosto 1924, e modificata dai Protocolli del 1968 e del 1979 (complesso normativo denominato comunemente Regole dell'Aja-Visby). La Corte ha affermato che tale normativa si applica esclusivamente al trasporto per mare, dal suo momento iniziale – comprendente la cd. operazione di caricazione, vale a dire il complesso di attività preliminari al carico delle merci – e fino alla cd. scaricazione, intesa come il complesso delle attività di scarico e di consegna al destinatario. È invece estranea a tale ambito applicativo, e resta quindi assoggettata alle regole del codice civile, la fattispecie in cui il destinatario non si presenti al momento della cd. scaricazione per la consegna della merce ed il vettore ne effettui il deposito in magazzino di terzi, dando così vita ad un contratto autonomo rispetto a quello di trasporto. 229 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Infine, si segnalano due pronunzie in tema di trasporto internazionale aereo. La prima, Sez. 3, n. 14667/2015, Vincenti, Rv. 636276, ha precisato che ai sensi della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 in materia di trasporto aereo internazionale, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. n. 12 del 2004, ove il vettore aereo internazionale si renda responsabile del ritardo nella consegna al passeggero del proprio bagaglio (art. 19 della Convenzione), la limitazione della responsabilità risarcitoria dello stesso vettore, fissata dall'art. 22, n. 2, della Convenzione nella misura di mille diritti speciali di prelievo per passeggero, opera in riferimento al danno di qualsiasi natura, e dunque non solo alla componente di pregiudizio meramente patrimoniale, ma anche a quella non patrimoniale, da risarcire, ove trovi applicazione il diritto interno, ai sensi dell'art. 2059 c.c., quale conseguenza seria della lesione grave di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati. Con la seconda, Sez. 3, n. 14666/2015, Amendola, Rv. 636658, si è affermato che la responsabilità del vettore aereo internazionale per i danni derivanti da lesioni personali o morte del trasportato, regolata dalla della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 12 del 2004) contempla, quale "evento" unicamente quello esterno al passeggero, inusuale e inatteso rispetto alle normali condizioni di operatività del trasporto, la prova del quale grava sempre in capo all'attore, e il cui accertamento fa sorgere a carico del vettore l'onere di provare il fatto del danneggiato ovvero, se i danni superano i centomila diritti di prelievo, la non riferibilità alla propria organizzazione ed attività dell'evento lesivo. 17. La vendita. Le pronunce sul contratto di vendita sono numerose, toccando molte delle principali questioni giuridiche del tipo negoziale in esame. 17.1. Alcune sentenze riguardano come di consueto la materia della garanzia per vizi, con utili puntualizzazioni e chiarimenti. Di particolare interesse è Sez. 2, n. 17138/2015, Parziale, Rv. 636416, secondo la quale in tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, e per l'ipotesi in cui l'azione di riduzione del prezzo sia concorrente con quella di risoluzione – ossia nei casi in cui non vi siano usi che per determinati vizi escludano la risoluzione, come prevede l'ultima parte dell'art. 1492, comma 1, c.c. – è inammissibile la domanda di riduzione esperita in subordine rispetto alla 230 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI proposizione in via principale dell'azione di risoluzione, atteso che entrambe le azioni si ricollegano ai medesimi presupposti, cioè alla sussistenza di vizi con le caratteristiche fissate dall'art. 1490 c.c., che stabilisce una disciplina della materia completa e non integrabile con le regole dell'art. 1455 c.c. sull'importanza dell'inadempimento, restando quindi esclusa la configurabilità di un rapporto di subordinazione fra le rispettive domande, dovendo invece il compratore scegliere l'una o l'altra. Dunque, secondo la pronuncia vi è una netta distinzione tra la disciplina dettata in materia di risoluzione dall'art. 1455 c.c. e quella dettata dagli artt. 1490 c.c. e segg., non integrandosi, e comunque non avendo rilievo per quest'ultima, il requisito dell'importanza dell'inadempimento, come invece esige la disciplina generale sulla risoluzione. Una diversa ricostruzione del rapporto tra la disciplina generale della risoluzione e la normativa dedicata alla tutela del compratore per vizi della cosa venduta sembra invece resa da Sez. 3, n. 06401/2015, Stalla, Rv. 634986. La controversia riguardava la compravendita di una imbarcazione da diporto, rivelatasi inidonea, materialmente e legalmente, all'uso cui era destinata, in base non solo agli esiti di una consulenza tecnica d'ufficio, ma anche a risultanze tecniche ufficiali – Capitaneria di Porto – e a riscontri obiettivi, costituiti dal sequestro penale dell'imbarcazione per inidoneità alla navigazione. La S.C. ha affermato che, in materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della gravità dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1455 c.c. per la risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, risultando insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione congrua e immune da vizi logici e giuridici. Dunque, tenendo conto che nel corpo della motivazione si fa espresso riferimento agli effetti restitutori e risarcitori di cui agli artt. 1493 e 1494 c.c., la pronuncia da per scontata, nell'esame della domanda risolutoria, la valutazione della gravità dell'inadempimento in presenza di vizi redibitori. Il principio affermato nella prima delle sentenze menzionate appare in sintonia con quanto espresso da Sez. 2, n. 22415/2004, Goldoni, Rv. 578466, e n. 03398/1996, Spagna Musso, Rv. 496945, mentre sembra in contrasto con l'interpretazione resa da Sez. 2, n. 21949/2013, Carrato, Rv. 628314, e dalla lontana Sez. 2, n. 00914/1986, Viale, Rv. 444439. Invece per la seconda pronuncia riportata del 2015 il rapporto di conformità/difformità è esattamente invertito. 231 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI Mentre infatti le prime due pronunce sono in tutto conformi alla n. 17138 del 2015, escludendosi ogni integrazione tra le regole della risoluzione e quelle in tema garanzia per vizi della cosa venduta, nelle altre due, al contrario, l'esercizio dell'azione redibitoria è collegato al principio generale sancito dall'art. 1455 cod. civ., sicchè alla azione si è legittimati soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza. In particolare, proprio con riflessi sul concetto di "gravità" del vizio della cosa, che legittima l'acquirente all'esercizio della azione di risoluzione del contratto, la sentenza n. 21949 del 2013 aveva affermato che gli artt. 1490 e 1492 c.c. in tema di azione redibitoria, al pari dell'art. 1497 c.c., vanno interpretati con riferimento al principio generale sancito dall'art. 1455 c.c., con la conseguenza che l'esercizio dell'azione è legittimato soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza, i quali non sono distinti in base a ragioni strutturali, ma solo in funzione della loro capacità di rendere la cosa inidonea all'uso cui era destinata o di diminuirne in modo apprezzabile il valore, secondo un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito. Sul punto si registrano ulteriori arresti, che hanno proposto ricostruzioni alternative del rapporto tra gli artt. 1492 e 1455 c.c. in ordine ai presupposti per l'esercizio dell'azione di risoluzione in essi contenute. Ad es. Sez. 2, n. 22416/2004, Colarusso, Rv. 578330, ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata sull'assunto che la prima norma (1492) aprirebbe a possibilità di risoluzione del contratto troppo ampie ed eccentriche rispetto a quelle previste dalla seconda (1455), basata invece sull'inadempimento di non scarsa importanza –, perché ha ritenuto che i ristretti termini di decadenza dell'azione ex art. 1492 c.c. compensano l'apparente maggiore ampiezza del ricorso alla azione risolutiva, e soprattutto ha considerato che nell'ipotesi di vizi della cosa il legislatore avrebbe già operato a monte una valutazione dell'importanza dell'inadempimento in relazione ai presupposti dell'inidoneità della cosa all'uso cui è destinata o dell'apprezzabile diminuzione del suo valore. Deve dunque dedursi che per questa pronuncia il concetto di gravità dell'inadempimento è distinto tra le due fattispecie normative. Una diversa ricostruzione ha offerto anche Sez. 2, n. 10922/2005, Migliucci, Rv. 581189, che, sia pur partendo da altra questione, ha sostenuto che vi è differenza tra la fattispecie contemplata dall'art. 1497 c.c., la cui gravità dell'inadempimento è ricondotta alla fattispecie dell'art. 1453 c.c. e dunque alla non scarsa 232 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI importanza dell'inadempimento medesimo, e quella prevista dagli artt. 1490 e 1492 c.c. in tema di vizi della cosa, ontologicamente distinti e dunque (implicitamente) autonomi rispetto al requisito della non scarsa importanza, richiesto dall'art. 1455 c.c. Trattasi comunque di questione interpretativa sulla quale non si registra, negli anni, un orientamento univoco. La giurisprudenza di legittimità del 2015 ha dedicato attenzione anche ad altri aspetti dei vizi redibitori, afferenti a profili soggettivi od oggettivi della fattispecie regolata dagli artt. 1490 e segg., c.c. Sotto il primo aspetto Sez. 2, n. 21524/2015, Manna, Rv. 636828, afferma che l'ignoranza incolpevole del venditore, agli effetti dell'art. 1494 c.c., integra una eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio purchè risultante ex actis. Inoltre Sez. 2, n. 02115/2015, Scalisi, Rv. 634117, in un caso in cui la cosa affetta da vizi redibitori rientrava in una vendita a catena, sostiene che il principio di autonomia di ciascuna vendita non impedisce al rivenditore di proporre nei confronti del proprio venditore domanda di rivalsa di quanto versato all'acquirente a titolo di risarcimento del danno, quando l'inadempimento del rivenditore sia direttamente connesso e consequenziale alla violazione degli obblighi contrattuali verso di lui assunti dal primo venditore. Sotto il secondo profilo, in tema di prescrizione dell'azione redibitoria, Sez. 2 n. 22903/2015, Nuzzo, Rv. 637163, afferma che la prescrizione è interotta dalla comunicazione diretta dal compratore al venditore in ordine alla volontà di esercitarla, seppur riservando ad un momento successivo la scelta del tipo di tutela, dovendosi escludere che la riserva concerna un diritto diverso da quello in relazione al quale si interrompe la prescrizione. Altrettanto utile, seppure afferente alla possibile risoluzione di vizi redibitori mediante una sostituzione novativa dell'oggetto del contratto, è Sez. 2, n. 08109/2015, Oricchio, Rv. 635032, secondo cui la sostituzione dell'oggetto della compravendita, avvenuta con il consenso delle parti, ha gli stessi affetti della novazione oggettiva prevista dall'art. 1230 c.c., sussistendone entrambi i requisiti dell'aliud novi e dell'animus novandi, con la conseguenza che le parti si ritrovano nelle identiche posizioni con i rispettivi oneri e obblighi. Quanto alla modalità di denuncia dei vizi della cosa venduta, Sez. 2, n. 25027/2015, Nuzzo, (in corso di massimazione), afferma che ai sensi degli artt. 1492 e 1495 c.c. essa non deve consistere necessariamente nella analitica esposizione dei vizi che presenta il 233 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI bene, poiché in considerazione della finalità della denunzia, ossia di portare a conoscenza del venditore le intenzioni del compratore, ad un tempo assicurandogli la verifica tempestiva della veridicità delle doglianze, una denuncia generica può essere idonea allo scopo, sempreché con essa il venditore sia reso edotto che il compratore abbia riscontrato, pur in maniera non ancora chiara e completa, che la cosa sia affetta da vizi che la rendono inidonea all'uso cui è destinata, o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. 17.2. Alcune pronunce sono dedicate alla evizione, totale o parziale. In particolare Sez. 6-2, n. 16388/2015, Giusti, Rv. 636169, afferma che in materia di vendita di cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli non dichiarati dal venditore e ignorati dal compratore – dunque secondo l'esatta e completa previsione normativa –, l'art. 1482 c.c., che si applica indifferentemente alla vendita perfetta e al preliminare di vendita, mentre attribuisce al compratore la facoltà di sospendere il pagamento del prezzo, subordina tuttavia la risoluzione del contratto per inadempimento all'inutile decorso del termine stabilito dal giudice per liberare la cosa dai vincoli. Da tale ricostruzione della disciplina ne consegue che la domanda giudiziale di risoluzione, in deroga alla disposizione dell'art. 1453, comma 3, c.c., non ha l'effetto immediato di precludere alla parte inadempiente la possibilità di adempiere la propria obbligazione, cioè di liberare la cosa dal vincolo, sicchè, ove il promittente venditore liberi tempestivamente la cosa venduta dal vincolo, deve ritenersi consentito al compratore, in deroga al citato art. 1453, di domandare l'adempimento del preliminare di vendita in luogo della risoluzione di esso. La sentenza, dunque, offre una interpretazione coerente della disciplina, tenendo conto che l'esistenza di garanzie reali o di altri vincoli sulla cosa, non comporta necessariamente l'evizione, ma ne costituisce un pericolo in tal senso. Sez. 2, n. 18259/2015, Parziale, Rv. 636417, evidenzia la diversa risarcibilità della ipotesi di evizione totale a seconda che si rilevi o meno un coinvolgimento dello stato soggettivo del venditore, indifferentemente per dolo o colpa. Infatti la sentenza afferma che nella ipotesi di evizione totale il venditore deve normalmente risarcire al compratore il danno nei limiti del cd. interesse negativo, costituito dalla restituzione del prezzo, dal rimborso delle spese della vendita e dai frutti, che l'acquirente abbia dovuto corrispondere a colui dal quale sia stato evitto, oltre gli accessori e le spese giudiziali. Qualora però sia stata accertata la 234 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI condotta dolosa o colposa del venditore, in riferimento alla particolare causa determinativa dell'evizione, egli è obbligato al risarcimento integrale del danno, comprensivo anche del lucro cessante, ponendosi la causa di evizione sullo stesso piano giuridico dell'inadempimento. Distinguendosi dalle questioni relative alla rilevanza dell'elemento soggettivo inerente il venditore, ma altrettanto utile a circoscrivere vicende giuridiche collocabili nell'alveo delle ipotesi di evizione, Sez. 2, n. 05561/2015, Matera, Rv. 634977, afferma che gli atti ablatori di un bene compravenduto, posti in essere in esecuzione di un vincolo di piano regolatore preesistente al contratto, vanno ricondotti alla disciplina della garanzia per evizione totale o parziale, poiché per effetto di tali atti il compratore subisce la perdita totale o parziale del bene. Il compratore pertanto ha diritto di far valere la relativa garanzia per il solo fatto obiettivo della perdita del diritto acquistato, diritto del tutto indipendente non solo dalla eventuale colpa del venditore, ma anche dalla stessa conoscenza della possibile causa di evizione, in quanto originata dal vincolo imposto da una prescrizione generale di contenuto normativo, come tale assistita da presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari. In relazione alla mancanza di qualità della merce venduta, disciplinata dall'art. 1497 c.c., viene riconosciuta la possibilità del ricorso all'autotutela, ex art. 1460 c.c., da Sez. 2, n. 08102/2015, Abete, Rv. 635024. La pronuncia in particolare chiarisce che il compratore può sollevare l'eccezione di inadempimento per mancanza delle qualità promesse dal venditore, a prescindere dalle responsabilità di quest'ultimo, poiché è di per sé meritevole di tutela l'interesse dell'acquirente a non eseguire la prestazione in assenza della controprestazione, così da non trovarsi in una situazione di diseguaglianza rispetto all'alienante. 17.3. Con riferimento ad ipotesi di vendita di cosa parzialmente altrui, di cui all'art. 1480 c.c., Sez. 2, n. 20347/2015, Picaroni, Rv. 636598, afferma che la relativa disciplina si configura sulla base del bene alienato al momento della stipula del negozio, ed è indifferente se trattasi di alienazione di un bene del quale il venditore ne abbia una titolarità limitata ad una porzione materiale, oppure se di esso ne abbia una quota dell'intero. Invece la conoscenza o l'ignoranza che sul punto abbia il compratore si riflettono sulle conseguenze dell'atto, perché solo nella seconda ipotesi l'acquirente ha diritto alla risoluzione contrattuale, 235 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI subordinata peraltro anche alla prova, alla stregua del criterio oggettivo di cui all'art. 1455 c.c., che non avrebbe acquistato quel bene se non nella sua interezza. Diversamente, in carenza di uno dei due menzionati requisiti, all'acquirente è riconosciuto solo il diritto alla riduzione del prezzo, corrispondente alla parte che non ha potuto acquistare. Dunque, nell'actio quanti minoris, solo la prima delle ipotesi contemplate dall'art. 1480 c.c. accorda al compratore la scelta tra la domanda di risoluzione e quella di riduzione del presso con conservazione del contratto. Nel 2015 poche pronunce si sono poi occupate di alcune tipologie di vendita o di questioni specifiche al tipo negoziale della compravendita. Sez. 2, n. 18263/2015, Bianchini, Rv. 637188, trattando della vendita a corpo e alla possibilità di riduzione del prezzo, chiarisce che in essa il prezzo è stabilito in relazione alla entità globale del bene, indipendentemente dalle sue dimensioni reali, sicchè non si procede a diminuzione salvo che la misura reale sia inferiore di un ventesimo rispetto a quella contenuta nel contratto. Infatti è solo il superamento di tale quota a determinare il venir meno della presunzione di indifferenza delle parti rispetto al minor valore dell'immobile, con conseguente applicazione delle ordinarie regole di riduzione del corrispettivo in caso di non corrispondenza tra qualità promesse e cosa trasferita. Sez. 6-3, n. 12800/2015, Lanzillo, Rv. 635767, è intervenuta sulla prova dell'acquisto al dettaglio dei beni di consumo. Sul punto la pronuncia ha chiarito che la prova richiesta all'acquirente in ordine alla effettività dell'acquisto presso il rivenditore, a fronte di una tipologia negoziale semplificata, che si limita ad un incontro verbale delle volontà e ad uno scambio reale della cosa e del prezzo, può essere fornita mediante la produzione dello scontrino fiscale rilasciato dal venditore. Ciò trova fondamento nel fatto che il documento sia ritenuto idoneo e sufficiente a tale scopo, soprattutto se il rivenditore da cui risulti rilasciato commercializzi la tipologia di articolo acquistato e il prezzo del bene corrisponda al suo valore. Per contro, la contestazione dell'acquisto da parte del venditore, che afferma come lo scontrino dimostri solo il prezzo pagato, ma non che l'acquirente sia proprio il reclamante, potendo essersi avvalso del documento fiscale rilasciato ad altri, assume la valenza di una vera e propria eccezione, che, secondo le regole dell'onere probatorio, incombe a carico di chi la sollevi. Quanto alle spese accessorie del contratto di vendita, di cui all'art. 1475 c.c., in una fattispecie relativa alla vendita di una unità 236 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI immobiliare, e relativamente alle (proporzionali) spese sostenute per l'acquisto del terreno su cui il fabbricato era stato eretto, nonché per la regolarizzazione e l'accatastamento del fabbricato, Sez. 2, n. 03514/2015, Scalisi, Rv. 634715, afferma che la menzionata norma, che in difetto di contraria specifica pattuizione pone a carico del compratore le spese accessorie della vendita, riguarda i soli esborsi necessari per la conclusione del contratto. Chiarisce però che il predetto onere grava sul compratore verso il venditore sia quando debba pagare direttamente dette spese alle persone o agli organi cui sono dovute, sia quando debba rimborsare al venditore quanto da questi pagato, costituendo obbligazioni corrispettive del sinallagma della compravendita, il cui inadempimento può giustificare la risoluzione. Merita poi d'essere segnalata Sez. 2, n. 10995/2015, Proto, Rv. 635646, in tema di vendita con riserva di proprietà, secondo la quale, in un caso di valutazione della gravità dell'inadempimento dell'acquirente ai fini della risoluzione del contratto, l'importanza dell'inadempimento deve riferirsi sia al numero delle rate scadute e non pagate al momento della domanda giudiziale, sia all'intenzione manifestata dal compratore prima del giudizio di non voler provvedere al pagamento dei ratei successivi. 17.4. Devono infine menzionarsi alcune pronunce in tema di preliminare di vendita. Tra esse, a parte la pronuncia delle Sez. U, n. 04628/2015, D'Ascola, Rv. 634761, in tema di preliminare di preliminare, per la quale si rinvia al capitolo precedente, una interessante decisione riguarda il contratto preliminare ed il successivo fallimento del promittente venditore. Sul punto Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343, ha affermato che il curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile non può sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi dell'art. 72 del r.d. n. 267 del 1942 con effetto verso il promissario acquirente ove questi abbia trascritto prima del fallimento la domanda ex art. 2932 c.c. e la domanda stessa sia stata accolta con sentenza trascritta, in quanto, a norma dell'art. 2652, n. 2), c.c., la trascrizione della sentenza di accoglimento prevale sulla iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese. La questione era stata foriera di opposte conclusioni, anche a prescindere dalle modifiche portate al citato art. 72 dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, e nonostante già Sez. U., n. 12505/2004, Marziale, Rv. 574280, avesse negato al curatore la facoltà di sciogliersi dalla obbligazione se la 237 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI domanda ex art. 2932 c.c. fosse stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento. In particolare può distinguersi un orientamento contrario, sintetizzato da Sez. 1, n. 09076/2014, Correnti, Rv. 630213, che aveva riconosciuto al curatore la facoltà di sciogliersi dal contratto preliminare, ottenendo il rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica trascritta prima della dichiarazione di fallimento, sull'assunto che l'effetto prenotativo della trascrizione vale per le sentenze dichiarative non per quelle costitutive, ed un orientamento favorevole, di cui vi è condivisione in Sez. 2, n. 16160/2010, Piccialli, Rv. 613933, che pur teneva conto della medesima successione temporale delle trascrizioni, e asseriva anche l'irrilevanza della successiva trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica. Sempre in tema deve anche segnalarsi Sez. 6-2, n. 01866/2015, D'Ascola, Rv. 635010, la quale, nella ipotesi di contratto preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa – nella specie si trattava di un immobile –, afferma che qualora uno dei promittenti venditori sia stato dichiarato fallito anteriormente alla stipula del preliminare, la relativa dichiarazione di volontà è invalida, sicchè va escluso che l'accordo si sia concluso, ovvero che il promissario acquirente possa agire ex art. 2932 c.c. nei confronti dei restanti promittenti, in quanto, in mancanza di prova contraria, le singole manifestazioni di volontà dei contraenti non hanno specifica autonomia perché destinate a fondersi in un'unica dichiarazione negoziale sul presupposto che il bene costituisca un unicum inscindibile. Alcune pronunce si sono occupate del preliminare di vendita per persona da nominare. Sulla necessità della forma scritta della dichiarazione di nomina Sez. 2, n. 15944/2015, Picaroni, Rv. 636020, afferma che in ipotesi di contratto preliminare di compravendita immobiliare per persona da nominare, ricorre il requisito della forma scritta della dichiarazione di nomina ex art. 1402 c.c., ove la electio amici sia avvenuta in sede di assemblea dei soci di una società cooperativa, quale promittente venditrice, con verbalizzazione e sottoscrizione del socio assegnatario, promissario acquirente, nonché del terzo nominato. Quanto al termine entro cui nominare il terzo Sez. 2, n. 04169/2015, Parziale, Rv. 634705, afferma che in caso di preliminare di vendita nel quale il promissario acquirente si sia riservato la facoltà di nominare un terzo fino al tempo del rogito, qualora la electio amici non sia intervenuta prima di tale momento e lo 238 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI stesso promissario agisca per l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto, occorre che la nomina venga effettuata al più tardi in seno alla domanda giudiziale, derivandone la sua tardività, ove invece svolta nel corso del giudizio, con conseguente consolidamento degli effetti in capo all'originario contraente. In ordine poi all'elemento soggettivo nel caso di azione revocatoria, Sez. 3, n. 09595/2015, Vincenti, Rv. 635312, afferma che in tema di preliminare di vendita per persona da nominare, se l'acquisto del terzo per electio amici del promissario acquirente sia impugnato in revocatoria, l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 2901, comma 1, c.c., deve essere valutato riguardo al nominato e con riferimento al momento dell'accettazione della nomina. Invece, se tale valutazione dà esito negativo, prevale lo stato soggettivo del nominante, trovando applicazione l'art. 1391 c.c. Non meno interessante è poi Sez. 2, n. 25528/2015, Manna, (in corso di massimazione), relativamente alla configurabilità della opzione di preliminare di vendita a favore di terzo. La pronuncia, in tema di rapporti di lottizzazione edilizia e delle relative obbligazioni, sulla premessa della ammissibilità di un contratto preliminare di compravendita a favore di terzo – trattandosi di una particolare forma di fare che si realizza con la prestazione del consenso alla stipula del futuro negozio traslativo della proprietà - ritiene tanto più ammissibile il contratto di opzione a favore di terzo, nell'ipotesi in cui il soggetto promittente non si obbliga con l'altro stipulante solo a prestare il suo consenso alla definitiva vendita di un suo bene a favore di un terzo, ma si vincola, per effetto del negozio bilaterale di opzione, alla propria dichiarazione di irrevocabile proposta contrattuale, sicchè al terzo beneficiario, pur sempre libero di accettare o meno, sarà sufficiente la semplice accettazione perché a suo favore si producano gli effetti del contratto, per la conclusione del quale l'opzione è stata accordata. Sempre in tema di preliminare, con riguardo alla ratifica del contratto, va ancora segnalata Sez. 3, n. 11453/2015, Mazzacane, Rv. 635511, secondo cui l'atto scritto di ratifica del preliminare di vendita immobiliare stipulato dal falsus procurator può esser costituito dall'atto di citazione con il quale il rappresentato chiede la risoluzione per inadempimento del promissario acquirente, in quanto tale domanda implica l'univoca volontà del dominus di far proprio l'operato del rappresentante senza poteri. Quanto ai criteri risarcitori da mancata stipulazione del contratto definitivo, sia pur confermando principi già affermati, è 239 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI utile segnalare Sez. 3, n. 22979/2015, Carluccio, in corso di massimazione, che riconosce al promissario acquirente, a titolo di liquidazione del danno per mancata stipulazione del definitivo imputabile al promittente venditore, una somma consistente nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento in cui l'inadempimento è divenuto definitivo ed il prezzo pattuito. Infine, con riferimento al preliminare di vendita di cosa altrui, Sez. 2, n. 04164/2015, Matera, Rv. 634464, chiarisce come il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell'altra parte, può adempiere la propria obbligazione, procurando l'acquisto del promissario direttamente dall'effettivo proprietario. Ne discende che il promissario acquirente, il quale ignori che il bene, all'atto della stipula del preliminare, appartenga in tutto od in parte ad altri, non può agire per la risoluzione prima della scadenza del termine per la conclusione del contratto definitivo, potendo il promittente venditore sino a tale momento adempiere alla obbligazione facendo comunque acquistare la proprietà del bene al promissario, o mediante l'acquisto che egli stesso può fare dal terzo, o comunque inducendo quest'ultimo a trasferire il bene oggetto del preliminare al promissario acquirente. 18. I contratti atipici di leasing e factoring. In materia di leasing, primaria importanza nell'anno in corso ha rivestito la pronunzia Sez. U, n. 19785/2015, Spirito, Rv. 636742. La pronunzia ha tratto origine dalla proposizione della questione di massima di particolare importanza, concernente – con riguardo ai presupposti sostanziali e processuali di applicazione dell'art. 1705, comma 2, c.c. alla locazione finanziaria – le azioni direttamente proponibili dall'utilizzatore nei confronti del venditore. In particolare, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite aveva ad oggetto, per il caso di leasing finanziario, la legittimazione dell'utilizzatore – oltreché a far valere la pretesa all'adempimento del contratto di fornitura e al risarcimento del danno conseguente – anche a proporre la domanda di risoluzione del contratto di vendita fra il fornitore e la società di leasing, come effetto naturale del contratto di locazione finanziaria od invece soltanto in presenza di specifica clausola contrattuale con la quale gli veniva trasferita la posizione sostanziale del concedente. La pronunzia ha preso le mosse dal fondamentale rilievo in base al quale l'operazione di leasing finanziario si caratterizza per l'esistenza di un collegamento negoziale tra il leasing propriamente detto (concluso tra concedente 240 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI ed utilizzatore) ed il contratto di fornitura concluso tra concedente e fornitore, allo scopo – noto a quest'ultimo – di soddisfare l'interesse dell'utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa. In forza di tale collegamento, ha proseguito la decisione, pur restando ferma l'individualità propria di ciascun tipo negoziale, l'utilizzatore è legittimato a far valere la pretesa all'adempimento del contratto di fornitura ed al conseguente risarcimento del danno; ma in mancanza di un'espressa previsione normativa al riguardo egli non può, invece, esercitare l'azione di risoluzione (o di riduzione del prezzo) del contratto di vendita tra il fornitore ed il concedente, cui resta estraneo. Ciò, invero, a meno che non lo consenta una specifica clausola contrattuale con la quale il concedente gli trasferisca la propria posizione sostanziale, il cui accertamento compete al giudice di merito poiché riguarda non la legitimatio ad causam ma la titolarità attiva del rapporto. In punto alla tutela dell'utilizzatore per l'ipotesi di vizi della cosa concessa in leasing, la Corte ha poi coerentemente distinto l'ipotesi in cui i vizi siano emersi prima della consegna (poi rifiutata dall'utilizzatore) da quella in cui siano emersi in epoca successiva, perché nascosti o taciuti in mala fede dal fornitore. Nella prima ipotesi, il concedente, informato della rifiutata consegna, in forza del principio di buona fede è tenuto a sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nonché ad agire verso quest'ultimo per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo ove ne ricorrano i presupposti; nel secondo caso l'utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore per l'eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, fermi restando gli stessi doveri del concedente che sia stato messo a conoscenza dei vizi. In ogni caso, l'utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già eventualmente pagati al concedente. In tema di factoring, un'interessante puntualizzazione proviene da Sez. 1, n. 19716/2015, Mercolino, Rv. 637272, che ha il pregio di ricostruire lo schema del contratto con riferimento alla specifica ipotesi in cui esso comporti una cessione dei crediti a titolo oneroso in favore del factor. In tal caso, ha precisato la Corte, a quest'ultimo è attribuita la titolarità dei crediti e, quindi, la legittimazione alla loro riscossione in nome e per conto proprio e non in qualità di semplice mandatario del cedente. Pertanto, il pagamento eseguito dal debitore ceduto si configura come l'adempimento non di un debito del cedente verso 241 CAP. XI - I SINGOLI CONTRATTI il factor, ma di un debito suo proprio verso quest'ultimo; ne consegue che, ove esso sia stato eseguito dopo il fallimento del cedente, non sussiste alcuna sottrazione di risorse alla massa ed esso non è sanzionato con l'inefficacia prevista dall'art. 44 l.fall. Infine, sempre in ambito di factoring, Sez. 3, n. 02869/2015, Cirillo, Rv. 634396, ha affermato che se il credito oggetto di cessione deriva dalla compravendita di un bene mobile che sia poi risultato affetto da vizi redibitori, la legittimazione passiva in ordine alla domanda di riduzione del prezzo spetta alla società venditrice e non al factor. Quest'ultimo, infatti, non è cessionario del contratto di compravendita ma soltanto del credito relativo al corrispettivo; d'altro canto, l'acquirente/debitore ceduto che fosse convenuto in giudizio dal factor per il pagamento del debito potrebbe opporgli soltanto le eccezioni opponibili al cedente e non già agire direttamente contro di lui per la risoluzione o la modifica di un contratto al quale è rimasto estraneo. 242 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE CAPITOLO XII LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE (di Donatella Salari) SOMMARIO: 1. La ripetizione di indebito. – 2. L'ingiustificato arricchimento. – 3. La gestione di affari. 1. La ripetizione di indebito. La Suprema Corte con Sez. 6- 3, n. 10856/2015, Carluccio, Rv. 635601, ha affrontato il tema dell'indebito oggettivo sotto il profilo dell'interesse ad impugnare dichiarando inammissibile il ricorso per cassazione per difetto d'interesse allorché, rigettata l'azione di ripetizione per essere stata esercitata nei confronti di soggetto diverso dal convenuto, l'accertamento del carattere indebito dello spostamento patrimoniale, contenuto nella motivazione e nel dispositivo della sentenza, venga a costituire capo autonomo della sentenza non idonea a stabilizzarsi nel giudicato. In tema di ripetibilità dei contributi previdenziali, Sez. L, n. 12124/2015, Buffa, Rv. 635632, ha precisato che nel caso di reintegrazione del lavoratore – disposta interinalmente – dal Giudice di merito ed annullato dalla S.C., che ha ritenuto legittimo il licenziamento, non sono dovuti alla P.A. i contributi maturatisi medio tempore durante la riviviscenza del rapporto di lavoro e ricollegati, in forza dell'art. 6 del d.l. 14 aprile 1939, n. 636, convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, al pagamento della retribuzione con la conseguenza che essi possano essere ripetuti dal datore di lavoro a titolo d'indebito oggettivo. In tema di locazione si segnala, invece, Sez. 6-3, n. 13424/2015, Cirillo, Rv. 635920, che ha ribadito il principio secondo il quale, nel caso di violazione di norme imperative in materia di determinazione del canone legale, il conduttore ha diritto non solo alla ripetizione di quanto indebitamente versato a titolo di canone extralegale, ma anche agli interessi sulle somme non dovute, secondo il principio della buona fede o meno dell'accipiens, ex art. 2033 c.c., la quale ultima non consegue dal solo fatto dell'avvenuto esborso extra legale dei canoni non dovuti, ma va dimostrata attraverso la prova della prevaricazione operata sulla volontà contraria del conduttore dal locatore medesimo, salve diverse emergenze che dimostrino, nel caso concreto, la mala fede del locatore. 243 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE A tale proposito va evidenziato che la prescrizione sugli interessi delle somme versate in eccesso rispetto al canone legale non possono considerarsi inquadrabili nell'art. 2948 n. 4 c.c. sicché trova applicazione quella decennale da ricollegare o al momento del pagamento o alla domanda, nel caso di buona fede dell'accipiens, così Sez. 3, n. 02297/2015, Frasca, in corso di massimazione, secondo la quale gli interessi dovuti in relazione alla ripetizione di una prestazione indebita sono soggetti alla stessa prescrizione ordinaria decennale dell'indebito e non a quella di cui all'art. 2948, n. 4), c.c., considerato che l'obbligazione relativa agli interessi deriva direttamente dalla legge, in virtù di una previsione che la rende partecipe della stessa natura della condictio indebiti e della sua collocazione nel sistema delle fonti delle obbligazioni In tema di giurisdizione con Sez. U, n. 17591/2015, Di Cerbo, Rv. 636103, la S.C. ha statuito che la domanda avanzata ex art. 2033 c.c. da parte dell'ente pubblico nei confronti di un funzionario onorario ed avente per oggetto quanto versato in esecuzione di una delibera nulla – perché assunta in carenza di potere – rientra nella giurisdizione del giudice ordinario in assenza di un rapporto di pubblico impiego che possa dirsi instaurato tra il funzionario onorario e l'ente. In materia di pubblico impiego privatizzato si segnala, poi, Sez. L, n. 15082/2015, Patti, Rv. 636393, che ha affermato come l'azione di ripetizione d'indebito – mediante trattenuta – non possa essere esercitata dal datore di lavoro (amministrazione pubblica privatizzata, già Ministero delle Poste e Telecomunicazioni) ove la liquidazione dell'indennità di buonuscita debba essere ricalcolata nel caso di erogazione dell'indennità di buonuscita a seguito di licenziamento poi dichiarato illegittimo seguito da successiva reintegra e collocamento in quiescenza del lavoratore medesimo, giacché, in tal caso, non trova applicazione l'art. 4, comma 1, del d.p.r. n. 1032 del 1973 "considerato che l'interruzione del rapporto in forza del provvedimento giudiziale è solo di fatto e non di diritto". Un caso paradigmatico di azione ex art. 2033 c.c. è quella scrutinata da Sez. 2, n. 19502/2015, Manna, Rv. 636568, ove si afferma che «la nullità della causa adquirendi e con essa del relativo contratto costituisce ipotesi addirittura paradigmatica di ripetizione di indebito oggettivo, ai sensi dell'art. 2033 c.c.» in una vicenda nella quale il contratto preliminare di vendita era stato dichiarato nullo dal giudice del merito per violazione di una norma imperativa che proibiva la vendita del fondo da parte dell'assegnatario prima del pagamento 244 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE integrale del prezzo. In questa ipotesi concreta emerge, dunque, secondo l'insegnamento consolidato della S.C., non un inadempimento, ma un vizio genetico che determina la nullità del contratto e il venir meno del relativo vincolo. Ne deriva che da tale fattispecie sorge l'azione di ripetizione d'indebito da parte del promittente acquirente, il quale – per quanto sopra detto – può solo pretendere la restituzione della caparra, ma non il suo doppio, senza che il giudice, qualificando la domanda come di restituzione d'indebito oggettivo, incorra in ultrapetizione. In relazione all'indebito soggettivo di cui all'art. 2036 c.c. la S.C. con Sez. L, Sentenza n. 17516/2015, Venuti, Rv. 636943, ha affermato che in tema contributi dovuti agli enti previdenziali, ove si verifichi l'interposizione fittizia di mano d'opera, va esclusa un'obbligazione contributiva concorrente del datore di lavoro apparente, salva l'ipotesi satisfattiva di pagamenti eseguiti da terzi ai sensi dell'art. 1180, comma 1, c.c., oppure dallo stesso datore di lavoro fittizio, sia pure nella consapevolezza della pertinenza del debito in capo ad altro soggetto, considerato che il combinato disposto degli artt. 1180 e 2036 comporta l'efficacia estintiva del pagamento del debito altrui in presenza delle condizioni di cui all'art. 2036, comma 3, c.c. Un'ipotesi particolare di azione ex art. 2033 c.c. si riscontra nel caso esaminato da Sez. 3, n. 12908/2015, Stalla, Rv. 635950, che in tema di sovrapprezzo sullo zucchero importato, dichiarato incompatibile con normativa comunitaria ai sensi dell'art. 95 del trattato CEE (sentenza n. 73/1979 della Corte di Giustizia CEE) ha ritenuto che la legittimazione passiva rispetto all'azione di cui all'art. 2033 c.c. spetti oggi al Ministero del Tesoro, ora dell'Economia poiché tale dicastero è succeduto nelle funzioni liquidatorie (d.m. 22 febbraio 2000) della Cassa conguaglio zucchero e, pertanto, nelle correlate responsabilità patrimoniali già facenti capo a detto ente. 2. L'ingiustificato arricchimento. La S.C. con S.U. n. 06919/2015, Bernabai, Rv. 634768, ha affrontato, innanzitutto, il tema del riparto tra la giurisdizione ordinaria e amministrativa in un caso di azione di giustificato arricchimento proposta in via subordinata, insieme a quella di adempimento da un'azienda municipalizzata che aveva disimpegnato il servizio di accoglienza per il Giubileo dell'anno 2000 prospettando un'obbligazione di finanziamento pubblico – che è stata esclusa dalla Corte – per l'assenza di un diritto soggettivo in favore di chi ha esercitato il servizio considerato che detto diritto sorge solo allorché la P.A. 245 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE provveda al finanziamento in base ai criteri definiti in sede amministrativa. Ne deriva che la domanda avente per oggetto il corrispettivo del servizio involge la giurisdizione amministrativa ed è diversa da quella di ingiustificato arricchimento che va, invece, separata e demandata al giudice ordinario perché essa prescinde da provvedimenti di tipo autoritativo-discrezionali. Rimane, così, confermata la giurisdizione ordinaria sulle azioni di indebito arricchimento in virtù della sua natura civilistica che involge situazioni di diritto soggettivo perfetto, ancorché riferite alla P.A. Sulla natura di elemento costitutivo o meno dell'elemento d'approvazione da parte della P.A. dell'utilità derivante dall'ingiustificato arricchimento le S.U. sono intervenute a dirimere un contrasto di giurisprudenza – sollevato con ordinanza interlocutoria del 23 settembre 2014 – ove era stata rilevata la sussistenza di difformità tra alcune decisioni che consideravano ammissibile la valutazione di utilità dell'opera da parte del giudice di merito che poteva, pertanto, accertare se e fino a che punto l'opera o la prestazione fossero state effettivamente fruite dalla P.A. laddove altra giurisprudenza maggioritaria privilegiava come indispensabile il riconoscimento – anche implicito – dell'utilità da parte di organi titolari del potere di esprimere la volontà dell'ente pubblico, fermo restando il carattere sussidiario dell'azione. Le S.U. hanno, invece, inteso privilegiare una considerazione oggettiva dell'arricchimento senza causa autonomo rispetto al riconoscimento esplicito o implicito dell'ente beneficiato richiamando la funzione dell'art. 2041 c.c., e della correlativa azione intesa come rimedio generale schiettamente privatistico, così demandando alla P.A. l'onus probandi circa il rifiuto dell'arricchimento o l'impossibilità del rifiuto nel caso di arricchimento imposto, perché non conosciuto, laddove l'attore avrà solo l'onere di provare il fatto oggettivo dell'arricchimento che potrà essere accertato dal Giudice quanto all'utilità che la P.A. ne abbia tratto e pertanto "il riconoscimento dell'utilità da parte dell'arricchito non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. ha solo l'onere di provare il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di "arricchimento imposto". Il carattere strettamente oggettivo dell'utilitas emerge anche da Sez. 2, n. 10663/2015, Bursese, Rv. 635462, ove si afferma che 246 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE l'azione dell'art. 2041 c.c. – qualora riguardi il terzo che abbia fruito dell'indebita locupletazione – può essere promossa solo contro costui, giacché in "ipotesi di «arricchimento indiretto», l'azione ex art. 2041 cod. civ. è esperibile soltanto contro il terzo che abbia conseguito l'indebita locupletazione nei confronti dell'istante in forza di rapporto meramente di fatto (e perciò gratuito) con il soggetto obbligato verso il depauperato, resosi insolvente nei riguardi di quest'ultimo". Inoltre la S.C. con Sez. 1, n. 13511/2015, Lamorgese, Rv. 635687, ha affermato che seppure la soppressa USL abbia fruito dell'utilitas, l'azione d'indebito arricchimento – stante la successione ex lege delle Regioni – non può gravare sui nuovi enti costituiti in ASL, a mente dello art. 6 comma 1, della l. 23 dicembre 1994 n. 724. Con riferimento all'azione per indebito arricchimento esercitata nei confronti della Pubblica Amministrazione,la S.C. ha, inoltre, affermato Sez. 1, n. 18567/2015, Salvago, Rv. 636705, che in un caso di lavori effettuati presso un ospedale su ordine dal presidente della USL ed al di fuori di ogni delibera, o contratto, essendo sorto il relativo impegno di spesa in violazione dell'art. 23 del d.l. n. 66 del 1989, applicabile ratione temporis, il rapporto obbligatorio s'instaura direttamente con il funzionario che ne risponde, con la conseguenza che va esclusa l'esperibilità dell'azione ex art. 2041 c.c. verso l'ente in quanto tale. Ne deriva che è verso costui che il depauperato è tenuto ad agire con azione diretta e personale, venendo così meno il presupposto della residualità del rimedio previsto dall'art. 2041 c.c. che non è ammissibile ove esista altra azione esperibile non solo nei confronti di chi abbia fruito dell'arricchimento, ma anche verso persona diversa dall'ente. Sulla stessa scia si colloca anche Sez. 3, n. 18878/2015, Scrima, Rv. 637042, nell'escludere il presupposto dell'azione ex art. 2041 c.c. laddove non si riscontri l'identità del fatto produttivo dell'impoverimento e dell'arricchimento. In tal caso l'azione de qua va esclusa se non vi è unicità del fatto costitutivo dello spostamento patrimoniale privo di causa, come nel caso del proprietario di un immobile che aveva bonificato a proprie spese i danni da infiltrazioni causati all'appartamento sottostante e che, di poi, aveva esperito l'azione di arricchimento nei confronti del danneggiato, che, a sua volta, era stato ristorato dalla compagnia assicuratrice del condominio. La S.C. si è anche occupata della ripartizione degli oneri probatori tra le parti con Sez. 3, n. 18804/2015, Stalla, Rv. 636890, in punto di determinazione dell'indennizzo dovuto ex art. 2041 c.c. 247 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE al depauperato precisando innanzitutto che è certo possibile per il giudice ricorrere alla liquidazione in via equitativa, a mente degli artt. 1226 e 2056 c.c., del quantum debeatur attraverso un'equa aestimatio del pregiudizio ogni volta non sia possibile stabilirne la misura precisa purché il danneggiato-depauperato provi la difficoltà probatoria se non l'impossibilità dimostrativa dell'esatto ammontare del danno. In applicazione di tale principio la S.C. ha, pertanto, confermato la sentenza della Corte di merito che aveva escluso l'indennizzo de quo, stante l'assenza di quale che sia allegazione attendibile del professionista che, agendo ex art. 2041 c.c. per prestazioni professionali svolte in favore di un Ente locale ed assunte a base della pretesa locupletazione, aveva omesso di depositare il progetto che assumeva avere elaborato in favore di detto Ente. Ancora, in tema di attività professionale svolta a favore della P.A. Sez. 3, n. 19886/2015, Rossetti, Rv. 637195, ha chiarito che il quantum dell'indennizzo per ingiustificato arricchimento reclamato dal professionista che abbia svolto la propria attività a favore della P.A, in assenza di un contratto scritto, non può essere parametrato alla tariffa professionale applicabile in un'ipotesi di opera svolta in favore di un privato, né in base all'onorario che avrebbe vincolato la P.A. se la prestazione ricevuta avesse avuto una fonte contrattuale. 3. La gestione di affari. Di notevole interesse nella ricostruzione giurisprudenziale della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c. un caso di prohibitio domini che, secondo la S.C, può essere manifestata non solo tacitamente, ma anche con comportamenti concludenti tali da escludere quella possibilità d'intromissione nella sfera patrimoniale altrui che il nostro ordinamento consente ove sussista l'impossibilità per l'interessato di provvedere. La S.C., infatti, Sez. 3, n. 13203/2015, Vincenti, Rv. 636007, ha ritenuto che nella gestione d'affari la presenza del gestito ovvero la sua consapevolezza non elidono, per ciò solo, il presupposto della negotiorum gestio laddove effettivamente il dominus non possa provvedere direttamente, a meno che l'inazione di costui non equivalga ad una prohibitio domini. Ne deriva che, in tal caso, l'opposizione dell'interessato, anche implicita o tacita, all'intervento del gestore deve fare escludere la fattispecie di cui all'art. 2028 c.c. Va pertanto corretta, secondo la S.C., la motivazione del giudice di merito che aveva escluso, nel caso scrutinato, la negotiorum gestio per difetto del requisito dell'absentia domini, dal momento che, nel caso concreto, si era manifestata, piuttosto, un vera e propria 248 CAP. XII - LE OBBLIGAZIONI NASCENTI DALLA LEGGE prohibitio desumibile dalla «rumorosa opposizione» - manifestata, anche mediaticamente, da una coerede nei confronti della gestione del patrimonio del de cuius. 249 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE CAPITOLO XIII LA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE (di Irene Ambrosi, Paola D'Ovidio e Donatella Salari) SOMMARIO: 1. Il danno non patrimoniale. - 1.1. Il danno da perdita della vita. - 1.2. Il danno alla salute. - 1.3. Il danno da perdita del rapporto parentale. - 1.4. Il danno da disinteresse del genitore verso il figlio. - 1.5. Il danno da perdita dell'identità personale 1.6. Il danno da lesione dell'identità sessuale. - 1.7. Il danno da lesione del diritto di autodeterminazione. - 1.8. Il danno da lesione dell'altrui reputazione. - 1.9. Il danno ambientale. - 1.10. Il danno da vacanza rovinata. - 2. Il danno patrimoniale. - 2.1. Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica. - 2.2. Il danno patrimoniale futuro. - 2.3. Compensato lucri cum damno. - 3. La liquidazione del danno non patrimoniale. - 3.1. Il principio della omnicomprensività del risarcimento. - 3.2. La liquidazione in via equitativa. - 3.3. Parametri di quantificazione del danno: Tabelle di Milano. - 3.4. La liquidazione del danno biologico permanente. - 4. Il concorso di colpa del danneggiato. - 5. La responsabilità precontrattuale. - 6. La legittimazione passiva dello Stato in tema di responsabilità da mancata attuazione di direttive comunitarie. - 7. Il risarcimento in forma specifica. - 8. Le responsabilità presunte. Genitori e maestri (art. 2048 c.c.). - 8.1. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). - 8.2. Attività pericolose (art. 2050 c.c.). - 8.3. Cose in custodia (art. 2051 c.c.). - 8.4. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). - 8.5. danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). - 8.6. Danno da prodotto. 1. Il danno non patrimoniale. Nell'anno 2015 la funzione nomofilattica della Corte ha avuto modo di verificare la tenuta dei principi enucleati nel 2008 in tema di responsabilità extracontrattuale ed espressi con le cd. sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 (n. 26972/2008, n. 26973/2008, n. 26974/2008 e n. 26975/2008) e del loro significato di tutela rispetto alla lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale fonte di obbligo risarcitorio. Come noto, esse hanno, da una parte confermato che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge o quando determinato da una fattispecie di reato, dall'altra che l'obbligazione risarcitoria sorge anche allorché essa non sia prevista in modo espresso, ma deve ammettersi sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., in conseguenza di una condotta che abbia attinto in modo significativo un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge, sicchè il risarcimento del danno non patrimoniale può emergere come esito della lesione di interessi della persona di livello costituzionale. Ciò conferma, peciò, che la nozione di danno morale (inscritto nella più ampia categoria Irene Ambrosi ha redatto i par. 1.3, 1.4, da 5 a 7 e 8.5 e 8.6, Paola D'Ovidio ha redatto i par. da 2 a 2.3, 4 e 8.3 e Donatella Salari ha redatto i par. da 1 a 1.2, da 1.5 a 1.10, da 3 a 3.4, da 8 a 8.2 e 8.4. 250 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE del danno non patrimoniale) può essere disancorata dal rilievo penale concreto della condotta illecita; così Sez. 1, n. 13085/2015, Lamorgese, Rv. 635733, ha affermato che il pregiudizio non patrimoniale risarcibile a mente degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. in un caso di accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico protetto integrante un atto di concorrenza sleale, non richiede necessariamente che la condotta illecita costituisca un reato, né, a maggior ragione, che sia stata pronunciata condanna penale passata in giudicato. Ne deriva che il giudice civile può liberamente accertare il fatto, poiché è sufficiente che esso sia astrattamente previsto come reato. Ne consegue che la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi della condotta illecita. Con riferimento ai rapporti tra giudizio civile e penale in tema di risarcimento del danno, Sez. 3, n. 25447/2015, D'Amico, in corso di massimazione, ha ribadito il consolidato principio secondo cui, ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 (nell'ambito di altri giudizi civili) c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma 2, c.p.p. Nel caso scrutinato, la corte di merito, infatti, aveva affermato l'impossibilità di ricostruire i fatti. 1.1. Il danno da perdita della vita. Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985, sono intervenute per sanare un consapevole contrasto di giurisprudenza circa la risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito, esclusa, quindi, la questione concernente il risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni sulla quale non si segnala, per vero, alcun contrasto. Con riferimento a tale situazione, infatti, può dirsi consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio che ammette la trasmissione in via ereditaria del credito risarcitorio per quei danni che si verificano nell'arco di tempo tra la lesione pregiudizievole e l'evento morte. Infatti, è certo il diritto al risarcimento che si acquisisce al patrimonio del 251 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE danneggiato e lo stesso è quindi suscettibile di trasmissione agli eredi. La questione che la S.C. era, invece, chiamata a risolvere concerneva il decesso della vittima immediatamente dopo il sinistro o, comunque, dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali. Le Sezioni Unite hanno escluso, in tale evenienza l'esistenza di un diritto risarcitorio iure hereditatis affermando che, in tema di danno non patrimoniale, ove conseguenza dell'illecito sia la morte del danneggiato stesso, la perdita della vita costituisce un bene giuridico autonomo rispetto a quello della salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove «il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo». 1.2. Il danno alla salute. Il principio di onnicomprensività del risarcimento, secondo un'interpretazione conforme a Costituzione, rimane confermato anche in tema di danno alla salute, o biologico, nonché in tema di danno morale di cui all'art. 2059 c.c., entrambi di natura areddituale anche nel caso in cui venga in rilievo la responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato. Ne deriva che l'integrale risarcimento di tali voci di danno spetta al lavoratore ove ve ne siano i presupposti, non essendo esclusa dalla limitazione di responsabilità che si concretizza nel c.d. danno differenziale, il quale impinge, invece, il solo danno di natura patrimoniale, che è tale in quanto riferibile alla riduzione della capacità lavorativa generica, così Sez. L, n. 00777/2015, Manna, Rv. 634051. In ogni caso, ove emergano responsabilità di rilievo penale a norma dell'art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, detto esonero di responsabilità deve, comunque, ritenersi escluso. La tutela della salute del lavoratore dipendente, secondo Sez. L, n. 04757/2015, Buffa, Rv. 635150, va declinata in correlazione con il principio di libertà d'impresa, in ossequio all'art. 41 della Costituzione, pertanto, se tale libertà non é sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale, pur tuttavia, deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute. Ne consegue che deve considerarsi illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni assegnate, laddove risulti che il datore di lavoro non abbia verificato 252 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE l'eventuale assegnazione del medesimo lavoratore a mansioni diverse e di pari livello, così prevenendo trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organizzazione aziendale. La tutela del lavoratore è stata, poi, riaffermata nel diritto al risarcimento del danno morale determinato dalla violazione del dovere di protezione di cui all'art. 2087 c.c.. In proposito, Sez. L, n. 01918, De Marinis, Rv. 634611, ha precisato come dall'obbligo ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro di tutela dell'integrità fisica e psichica del lavoratore discende una responsabilità contrattuale e risarcitoria che ad oggetto il danno morale ricorrente allorché sia configurabile una fattispecie astratta di reato configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata per non avere l'interessato fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c. Il danno alla salute, del pari, non appare sovrapponibile all'indennizzo per causa di servizio, la cui richiesta va pertanto proposta innanzi al giudice amministrativo, così Sez. 3, n. 07194/2015, Carluccio, Rv. 635105. Ne deriva che l'azione intrapresa dal soggetto danneggiato innanzi al giudice amministrativo e volta a conseguire l'indennizzo per causa di servizio, attesa la sua ontologica diversità rispetto all'azione risarcitoria, non è idonea ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2943 c.c. In ogni caso, secondo Sez. 3, n. 07194/2015, Carluccio, Rv. 635104, il diritto all'integrità psico-fisica va sempre ricondotto a criteri univoci d'imputazione a quelle condotte dolose o colpose ascritte ad un terzo. Pertanto, in assenza di un riferimento causale preciso alla condotta illecita che si assume eziologicamente imputabile al responsabile, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento decorre dal concreto manifestarsi del danno, «quale oggettivamente percepibile e riconoscibile dal danneggiato, non solo come lesione della propria integrità psicofisica, ma anche sotto il profilo della riferibilità causale al contegno dell'asserito responsabile, secondo una valutazione tipicamente rimessa al giudice di merito». 1.3. Il danno da perdita del rapporto parentale. La Corte Sez. 3, n. 16992/2015, Scarano, Rv. 636308 è tornata a indagare la complessità del tema della liquidazione del danno non patrimoniale, ribadendo, nel solco tracciato dall'impianto motivazionale della pronuncia Sez. U, n. 26972/2008, Rv. 605493, che «la categoria generale del danno non patrimoniale, che attiene alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita (così come il danno patrimoniale si scandisce in danno emergente e lucro cessante) e si 253 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE articola in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale». In tale ambito, la Corte ha affermato che il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello "sconvolgimento dell'esistenza", rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha cassato la decisione di merito, nella quale, pur dandosi atto che, dalla vicenda della tragica morte del giovane figlio, la madre ne era uscita distrutta nel corpo (trascinando la propria successiva esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo, quasi ossessivo, del defunto, sopravvivendogli per soli otto anni e pesando, al momento del decesso, soltanto kg. 39), aveva, poi, sulla base di tali circostanze, riconosciuto alla medesima il solo danno morale, negandole, però, quello da perdita del rapporto parentale. Sez. 3, n. 25351/2015, De Stefano, in corso di massimazione, ha ritenuto altresì che determina indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del cd. danno morale - non altrimenti specificato - e del cd. danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente, ma unitariamente ristorato. La Corte è poi intervenuta più volte sul tema di parametri utilizzati in materia di liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale da lesione del vincolo parentale. In primo luogo, Sez. 3, n. 09320/2015, Rossetti, Rv. 635319, ha ribadito, confermando un orientamento già affermatosi sul punto (si veda, di recente, Sez. 3, n. 09231/2013, Rv. 626002), il principio della "omnicomprensività" della liquidazione del danno non patrimoniale che comporta l'impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto. Nella fattispecie esaminata, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di merito aveva liquidato unitariamente il danno non patrimoniale patito dai familiari delle vittima di un sinistro stradale, non attribuendo autonomo rilievo al danno da perdita del 254 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE rapporto parentale e a quello alla salute psichica dagli stessi pure subito in conseguenza della morte del proprio congiunto. In secondo luogo, Sez. 3, n. 12717/2015, Sestini, Rv. 635949, ha ritenuto non adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale. Infine, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636631, ha ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito che ha liquidato i danni conseguenti ad un falso riconoscimento di paternità, poi disconosciuto, in base ai parametri utilizzati in materia di perdita del rapporto parentale e di pregiudizi intrafamiliari. In particolare, si è ritenuto che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resti affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo. 1.4. Il danno da disinteresse del genitore verso il figlio. Di sicuro rilievo è la pronuncia Sez. 6-3, n. 003079/2015, Vivaldi, Rv. 634387 che, richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimità dal quale è stata da tempo enucleata la nozione di illecito endofamiliare (per la più recente Sez. 1, n. 26205/2013) ha, su tale base, riaffermato il principio secondo cui la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione, non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma comporta che la relativa violazione, nell'ipotesi in cui provochi la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c., come reinterpretato alla luce dei principi enucleatati dalle Sezioni Unite nella nota decisione n. 26972 del 2008. Facendo applicazione di tali principi, la pronuncia in esame ha ritenuto che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di 255 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE una figlia naturale integra, da un lato, la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e, dall'altro, determina «un'immancabile ferita di quei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano nella Carta costituzionale» (articoli 2 e 30) – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela. Pertanto, secondo la Corte, tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole. 1.5. Il danno da perdita dell'identità personale. L'interpretazione del danno non patrimoniale fondata sulla valorizzazione di diritti di rilievo costituzionale nella valutazione del pregiudizio, prescindendo dal rilievo penale della condotta causativa del danno morale, ha condotto la S.C. ad attribuire rilievo, come tale, al diritto all'identità personale e sociale, il cui vulnus può sostanziarsi anche in un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto, senza che il fatto lesivo costituisca o meno reato, trattandosi di condotta illecita in quanto attinge un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché alla luce di un'interpretazione orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c. a detti valori costituzionali, secondo Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636629, il risarcimento deve essere comunque assicurato. 1.6. Il danno da lesione dell'identità sessuale. In conformità con i principi generali sopra descritti anche le condotte omofobiche, che abbiano investito il diritto inviolabile al proprio orientamento sessuale e alla riservatezza su di esso, sono suscettibili di risarcimento. Ne deriva che, secondo Sez. 3, n. 01126/2015, Travaglino, Rv. 634356, costituisce danno non patrimoniale sub specie di danno morale il diritto al proprio orientamento sessuale, come espressione del diritto inviolabile all'identità sessuale cristallizzato nelle sue tre componenti della condotta, dell'inclinazione e della comunicazione (cd. coming out) in quanto oggetto «di specifica e indiscussa tutela da parte della stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo fin dalla sentenza Dudgeon/Regno unito del 1981». Ne consegue, secondo la S.C., che integra condotta omofobica costitutiva di un danno morale quando gravemente discriminatorie e lesiva del diritto alla privacy, la segnalazione, da parte dell'Ospedale militare, della dichiarazione di omosessualità di un chiamato alla 256 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE leva, esonerato, peraltro, per tale ragione dal servizio militare, alla Motorizzazione civile, con la quale si evidenziava la derivante carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi. In tal caso, secondo la S.C., non condiziona, in senso limitativo, la quantificazione del risarcimento, la circostanza che dette violazioni della riservatezza e dell'orientamento sessuale siano rimaste in un ambito amministrativo atteso che si tratta di tutelate il pregiudizio che attinge diritti inviolabili della persona. 1.7. Il danno da lesione del diritto di autodeterminazione. Sul diritto di autodeterminazione nell'ambito delle cure mediche, si segnala l'interessante pronuncia della Sez. 3, n. 03569/2015, Sestini con cui è stata rimesso alle S.U. un delicato caso di risarcimento da nascita indesiderata (figlia nata con sindrome di Down) ove la madre chiedeva di essere risarcita affermando la responsabilità dei sanitari, i quali – in tesi – non avendola informata dei risultati diagnostici non rassicuranti non le avevano consentito d'interrompere la gravidanza. Costei agiva anche per ottenere il risarcimento dei danni in nome e per conto della figlia. La S.C. ravvisando sulle questioni sollevate un contrasto di giurisprudenza rimetteva gli atti alle S.U. su due questioni. La prima riguarda, innanzitutto, due diversi orientamenti circa la ripartizione dell'onere probatorio, la seconda quella riguardante la legittimazione autonoma del nascituro alla richiesta risarcitoria. Con riguardo alla prima, il contrasto si pone, inoltre, sotto un duplice profilo. Per un verso, riguarda la prova della correlazione causale fra l'inadempimento dei sanitari rispetto alla mancata effettuazione degli approfondimenti diagnostici e la mancata interruzione di gravidanza e, per l'altro, concerne l'emergenza delle condizioni – comunque necessarie – per procedere all'interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione. Un primo filone giurisprudenziale propone, ai fini dell'imputazione colpevole del dovere d'informazione da parte dei sanitari, il criterio della cd. regolarità causale secondo la quale si ritiene che, ove la gestante fosse stata compitamente informata delle patologie del feto, avrebbe senz'altro interrotto la gravidanza così Sez. 3, n. 06735/2002, Rv. 554298, ribadita da Sez., 3. n. 14488/2004, Rv. 575705, da Sez. 3, n. 00013/2010, Rv. 611039 e da Sez. 3 n. 15386/2011, Rv. 618771. Alla luce di questo primo orientamento appare sufficiente, ai fini della prova degli elementi 257 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE costitutivi della responsabilità, allegare l'inadempimento del dovere d'informazione per ritenere implicitamente provata la sussistenza delle condizioni di legge ai fini dell'interruzione della gravidanza, così determinandosi quel pericolo per la salute psico-fisica della donna richiesto dalla legge. Nel caso, invece, di contestazione da parte del convenuto, la pretesa danneggiata dovrebbe provare secondo il principio del «più probabile che non» che, ove fosse intervenuta la corretta informazione sanitaria, sarebbe insorto quel pericoloso turbamento dell'equilibrio psichico o fisico che la legge richiede ai fini dell'aborto terapeutico. A tale impostazione si contrappone l'altro filone giurisprudenziale – Sez. 3, n. 16754/2012, Rv. 623595, e Sez. 3, n. 16754/2012, Rv. 623594 – che enfatizza la necessità, ai fini della responsabilità per nascita indesiderata nel caso di malformazioni genetiche, che vi sia un'espressa ed inequivoca manifestazione di volontà della gestante circa l'interruzione di gravidanza, perché la semplice richiesta di accertamento diagnostico costituirebbe un semplice indizio di un fatto da provare. Pertanto, diviene onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del feto, essa avrebbe interrotto la gravidanza. La seconda delle questioni affrontate dall'ordinanza interlocutoria concerne, invece, l'esistenza del diritto del nascituro a nascere, atteso che secondo un certo orientamento giurisprudenziale il nostro ordinamento tutela nei riguardi del concepito il diritto alla nascita, ovvero in senso più ampio, eventualmente a nascere sano, ma non un diritto «a non nascere» ovvero a «non nascere se non sano». Se così fosse si dovrebbe affermare che il concepito, una volta nato, possa far valere – in proprio – l'omissione d'informazione e, dunque, il ricorso all'aborto terapeutico (v. in tal senso, da ultimo, Sez. 3, n. 10741/2009, Rv. 608387). Le Sezioni Unite Civili, a risoluzione di contrasto, sulla responsabilità medica per nascita indesiderata, hanno affermato che: a) la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l'onere mediante presunzioni semplici; b) il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da «vita ingiusta», poiché l'ordinamento ignora il «diritto a non nascere se non sano» pervenendo alla conclusione che «la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza» devono trovare risposta nei principi generali di solidarietà. Più di recente, Sez. 3, n. 24220/2015, Barreca, in corso di massimazione, ha affermato che il dovere d'informazione della gestante in capo al sanitario fonda quello di autodeterminazione 258 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE della stessa circa ulteriori esami strumentali da effettuarsi in gravidanza laddove quelli effettuati non risultino decisivi, pur in presenza di fattori di rischio per la gravidanza (v. anche sub cap. XIV, par. 1 in tema di responsabilità del medico). 1.8. Il danno da lesione dell'altrui reputazione. La S.C. con Sez. 3, n. 16786/2015, Scrima, Rv. 636253, ha affermato che la valutazione sull'offensività e sulla lesività dell'altrui reputazione dell'espressione usata in sede di interrogatorio formale, nonché l'apprezzamento della stessa espressione come rientrante nell'ambito dell'esercizio del diritto di difesa, costituiscono accertamenti in fatto riservati al giudice di merito, sottratti al giudizio di legittimità ove supportati da «argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto». Emerge, poi, nei nuovi arresti della giurisprudenza della S.C. un rilievo decisivo della verità dei fatti narrati col mezzo della stampa rispetto a dettagli non destinati a renderla dubbiosa, così Sez. 3, n. 17197/2015, Barreca, Rv. 636476, con riferimento ad una indagine penale dove, nonostante alcune inesattezze, rimaneva percepibile la specifica posizione processuale del ricorrente rispetto agli altri indagati. Ancor più recentemente la S.C. con Sez. 3, n. 24221/2015, in corso di massimazione, ha escluso il danno morale da lesione dell'onore e del decoro di una giornalista conseguente all'inserimento di un suo servizio televisivo – nel quale dava notizia di un prodotto in grado di rilevare per gli automobilisti la presenza di un autovelox – all'interno di uno spot pubblicitario riguardante detto dispositivo. La S.C. ha negato rilievo, a fini risarcitori, alla lamentata associazione tra il detto messaggio di reclamizzazione e il volto della giornalista (che si doleva di essere stata indecorosamente presentata – suo malgrado – come sponsor del detto dispositivo), escludendo che potesse invocarsi la mancanza di consenso alla divulgazione dell'immagine ex art. 10 c.c., valorizzando, per contro, la circostanza che detta immagine fosse stata associata ad esigenze divulgative e d'informazione, escludenti l'illegittimità della condotta. 1.9. Il danno da vacanza rovinata. La S.C. con Sez. 3, n. 14662/2015, Amendola, Rv. 636373, ha statuito che nell'ipotesi di danno da vacanza rovinata il pregiudizio non patrimoniale che ne è scaturito non è di per risarcibile (sebbene oggetto di espressa prevsione legislativa), occorrendo pur smpre un'indagine sulla gravità della lesione e sull'intensità del pregiudizio lamentato, onde 259 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE verificane la compatibilità con il principio di tolleranza delle lesioni minime che si fonda, a sua volta, sul dovere di solidarietà sociale previsto dall'art. 2 della Costituzione. 1.10. Il danno ambientale. Anche la condotta antigiuridica consistente nella causazione di un danno inflitto all'integrità ambientale – la cui normativa italiana ha recentemente perseguito un'armonizzazione con quella sia comunitaria che europea – ha portato la S.C. ad affermare, con Sez. 3, n. 09012/2015, De Stefano, Rv. 635218, che in materia di responsabilità per danno ambientale, la regola di cui all'art. 311, comma 3, penultimo periodo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (nel testo attualmente vigente e secondo cui «ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale») mira ad evitare la responsabilità anche per fatti altrui, sicché opera nei casi di plurime condotte indipendenti e non anche in quelli di azioni od omissioni che concorrono, ciascuna nella sua rilevanza causale alla realizzazione di una condotta unitaria di danneggiamento dell'ambiente. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, non soffre limitazione la regola di cui all'art. 2055 c.c. in tema di responsabilità di ciascun coautore della condotta per l'intero evento causato. Inoltre, in tema di prescrizione ed, in particolare, a proposito del pregiudizio morale derivante da danno ambientale, la S.C., con Sez. 3, n. 09012/2015, De Stefano, Rv. 635219, ha affermato – sul presupposto che la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell'ambiente nelle condizioni di danneggiamento – che il termine prescrizionale dell'azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente rimosse dall'autore del danneggiamento, ovvero la eliminazione di dette conseguenze non può realizzarsi per la perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di costui. Inoltre, sempre in tema di risarcimento del danno ambientale nella sua duplice veste di danno patrimoniale e di quello di cui all'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, la S.C., con Sez. 3, n. 06901/2015, Lanzillo, Rv. 635239, ha affermato che le spese per la rimessione in pristino, per la bonifica dei terreni danneggiati, in uno con i danni derivanti dal la perdita di valore del terreno inquinato et similia, costituiscono nomina dello stesso pregiudizio, risultando, pertanto, assoggettate allo stesso termine di prescrizione. Ne consegue che, nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza penale, che contenga anche la statuizione generica circa il risarcimento del danno ambientale, l'azione per la relativa quantificazione si 260 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE prescrive, a norma dell'art. 2953 c.c., nel termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui la sentenza stessa divenga irrevocabile. 2. Il danno patrimoniale. In tema di danno patrimoniale merita particolare attenzione Sez. 3, n. 15757/2015, D'Amico, Rv. 636177, la quale ha chiarito i criteri di individuazione e liquidazione di tale danno nei casi di occupazione abusiva di immobile. Tale pronuncia muove dalla premessa teorica, già consolidata nella giurisprudenza di legittimità, secondo la quale è necessario distinguere il cd. danno-evento dal danno-conseguenza. Difatti, in caso di occupazione senza titolo, il danno-evento è rappresentato dall'instaurarsi sul bene di una situazione di godimento diretto dell'occupante, che preclude il godimento diretto del titolare e nel contempo non gli permette di goderlo indirettamente, cioè conferendone il godimento, ossia la detenzione, ad altri; altra cosa, precisa la menzionata pronuncia, è invece il danno-conseguenza in senso patrimoniale, il quale dipende dall'atteggiarsi del godimento del titolare sul bene al momento in cui si verifica l'occupazione e, successivamente, dal verificarsi di situazioni che, se l'occupazione non esistesse, consentirebbero la fruizione di utilità al titolare del bene. Sulla base di tali considerazioni, la stessa pronuncia ha quindi distinto diverse voci di danno configurabili quali conseguenza del danno-evento da occupazione, affermando che solo quando esista, al momento dell'occupazione, un godimento diretto o indiretto del bene da parte del titolare si concretizza un danno emergente, da rapportare alle utilità che egli avrebbe potuto acquisire dal bene se non occupato, mentre, in caso contrario, può essere al più ipotizzabile un lucro cessante, da identificare nell'impossibilità di realizzare la modalità di godimento diretto che era stata programmata prima dell'occupazione, ovvero una modalità di godimento indiretto che si sia presentata medio tempore e che sia stata resa, del pari, impossibile dall'occupazione. In entrambi i casi, si è inoltre specificato, la situazione determinativa del danno andrà allegata e dimostrata dal titolare del bene. In ordine, poi, alla liquidazione di detti danni, la pronuncia puntualizza che il carattere abusivo dell'occupazione, quando determina la privazione del godimento diretto in essere o di quello che è certo vi sarebbe stato ed è stato precluso, è stimabile economicamente e si risolve nella perdita di un'utilitas che può essere commisurata a quanto si sarebbe potuto lucrare attraverso la concessione a titolo oneroso del godimento del bene. 261 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Con riferimento alla responsabilità del vettore aereo internazionale per il ritardo nella consegna al passeggero del proprio bagaglio, prevista dall'art. 19 della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999, Sez. 3, n. 14667/2015, Vincenti, Rv. 636276, opportunamente chiarisce che la limitazione della responsabilità risarcitoria dello stesso vettore, fissata dall'art. 22, n. 2, della citata Convenzione nella misura di mille diritti speciali di prelievo per passeggero, opera in riferimento al danno di qualsiasi natura patito dal passeggero medesimo e, dunque, non solo nella sua componente meramente patrimoniale, ma anche in quella non patrimoniale, da risarcire, ove trovi applicazione il diritto interno, ai sensi dell'art. 2059 c.c., quale conseguenza seria della lesione grave di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati. Una peculiare forma di riparazione del danno patrimoniale è individuata da Sez. 1, n. 18692/2015, Mercolino, Rv. 636770, nel provvedimento che accolga la richiesta di pubblicazione della sentenza che abbia accertato gli atti concorrenziali in violazione dell'obbligo di non concorrenza derivante dalla cessione di azienda. Si tratta, precisa tale pronuncia, di una ipotesi che, essendo riconducibile all'art. 2557 c.c. e non all'art. 2600 c.c., integra una forma di riparazione del pregiudizio subito dall'imprenditore e non una sanzione autonoma, volta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto leso, come tale rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, nonché indipendente dalla prova di un danno attuale; ne consegue la parificazione, sotto il profilo probatorio, di un siffatto provvedimento con quello che accolga la domanda di risarcimento del danno, richiedendo anche il primo la prova della diminuzione patrimoniale o del mancato guadagno cagionati dalla violazione del divieto. Infine, con riguardo agli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito, Sez. 1, n. 18243/2015, Campanile, Rv. 636751, ha sottolineato che gli stessi hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall'art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, la quale non configura il risarcimento di un maggiore e diverso danno, ma soltanto una diversa espressione monetaria del danno medesimo volta a rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato adeguandola 262 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale. Logico corollario processuale di tale impostazione, è la conseguente affermazione della Corte secondo la quale «nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria, quali componenti indispensabili del risarcimento, tra loro concorrenti attesa la diversità delle rispettive funzioni, e che il giudice di merito deve attribuire gli uni e l'altro anche se non espressamente richiesti, pure in grado di appello, senza per ciò solo incorrere in ultrapetizione». 2.1. Il danno da riduzione della capacità lavorativa generica. In tema di danni alla persona, un'ipotesi di riduzione della capacità lavorativa generica è stata individuata da Sez. 3, n. 12211/2015, Scarano, Rv. 635625, nei casi in cui l'invalidità risulti di tale gravità da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali. In particolare la Corte, con riferimento ad una invalidità accertata nella misura del 25 per cento, ha ritenuto che la conseguente riduzione della capacità lavorativa integrasse non già la lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell'aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e piuttosto derivante appunto dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c. In tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di specifico interesse è la pronuncia di Sez. L, n. 00777/2015, Manna, Rv. 634050, che ha puntualizzato l'ambito di operatività dell'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato nonchè della limitazione dell'azione risarcitoria di quest'ultimo al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione dell'esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale a norma dell'art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124. Sul punto la Corte, accedendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata, ha affermato che l'esonero e la limitazione in discorso riguardano soltanto l'ambito della copertura 263 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE assicurativa, ossia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica e non anche il danno alla salute, o biologico, e il danno morale di cui all'art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale, l'integrale risarcimento dei quali è comunque dovuto al lavoratore ove sussistano i presupposti della responsabilità del datore di lavoro. 2.2. Il danno patrimoniale futuro. Sul tema del danno patrimoniale futuro si segnalano alcune pronunce relative alle modalità della sua liquidazione. In particolare, Sez. 3, n. 02737/2015, D'Amico, Rv. 634501, ha ribadito il principio, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in forza del quale «il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale», sicchè «l'accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati». La pronuncia in questione, applicando tale regola ad una ipotesi di responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato conseguente alla tardiva trasposizione legislativa delle direttive CEE relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva identificato la chance perduta dai medici nella possibilità di godere dei benefici effettivi sullo sviluppo professionale che sarebbero potuti derivare loro da una tempestiva attuazione delle direttive ed aveva liquidato il danno in ragione di un criterio prognostico, basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili. Sullo stesso tema, ulteriori puntualizzazioni sono offerte da Sez. 3, n. 14645/2015, Scarano, Rv. 636090, la quale ha ribadito che la liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica può essere solo equitativa, trattandosi di danno patrimoniale futuro, ma ha anche precisato, richiamando precedenti giurisprudenziali di analogo tenore, che tale liquidazione è diretta alla tendenziale integralità del ristoro e non può dunque essere effettuata in termini "puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all'effettiva natura o entità del danno", dovendo essere congrua, sicché la relativa quantificazione va condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze concrete del 264 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE caso specifico, tenendo conto in particolare della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha cassato la decisione impugnata che aveva apoditticamente liquidato in termini simbolici il danno da incidente stradale subito, durante il servizio, da un militare in ferma volontaria prolungata, poiché questi, pur privato dell'idoneità fisica necessaria a proseguire la carriera militare, non aveva subito pregiudizio per le opportunità di lavoro della vita civile legate al titolo di geometra conseguito. In relazione al profilo probatorio, Sez. 6-3, n. 14517/2015, Carluccio, Rv. 636017, ha evidenziato che il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all'integrità psico-fisica non si riflette automaticamente, né tanto meno nella stessa misura, sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica, con la conseguenza che grava sul danneggiato l'onere di supportare la richiesta risarcitoria con elementi idonei alla prova del pregresso effettivo svolgimento di attività economica, ovvero del possesso di una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata; solo tali elementi, infatti, consentono al giudice di procedere ad una liquidazione del danno patrimoniale futuro con criteri presuntivi, e ciò anche nei casi in cui la ricorrenza dello stesso risulti altamente probabile per l'elevata percentuale di invalidità permanente. Sulla stessa linea si colloca Sez. 3, n. 02758/2015, D'Amico, Rv. 634401, la quale ha escluso che il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante possa farsi discendere in modo automatico dall'accertamento dell'invalidità permanente, poiché tale danno sussiste solo se l'invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. A tal fine, il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere, al momento dell'infortunio, un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo di esso, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali. Il principio in questione ha nella specie trovato applicazione con riferimento ad un caso in cui era stato accertato che l'infortunato, a seguito delle lesioni riportate, non poteva più svolgere le mansioni di agente di pubblica sicurezza stradale e, ciò nonostante, il giudice di merito aveva escluso il risarcimento da invalidità specifica sul presupposto che l'interessato potesse comunque svolgere attività e mansioni diverse rispetto a quelle precedenti: la Corte ha ritenuto viziata tale decisione, in quanto la 265 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE sentenza impugnata aveva però omesso di considerare che la parte ricorrente aveva documentato di avere, dapprima, richiesto di essere assegnata a lavoro alternativo, senza esito, e di essere stata, poi, licenziata per accertata inidoneità. Infine, con riferimento al profilo processuale, Sez. 3, n. 07193/2015, Lanzillo, Rv. 635035, ha distinto la domanda con la quale venga chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, da quella che indichi specifiche e determinate voci di danni: solo la prima, infatti, esprimendo la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, si estende anche al lucro cessante da perdita di chance lavorativa, la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova e, come tale, inammissibile, pur quando in citazione non sia presente alcun riferimento a tale tipo di danno. 2.3. Compensatio lucri cum damno. Sul tema si segnala l'interessante pronuncia di Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636632, che, con riferimento ad un peculiare caso di liquidazione del danno inferto al figlio da un falso riconoscimento di paternità, poi disconosciuto, ha precisato che non si può tenere conto, a titolo di compensatio lucri cum damno, dei benefici ricevuti dal danneggiato in conseguenza dell'adempimento, da parte del falso padre, degli obblighi di mantenimento, non potendosi configurare un effetto lucrativo derivante da prestazioni dovute da chi, a seguito del riconoscimento, seppur falso, abbia assunto lo status di genitore. 3. La liquidazione del danno non patrimoniale. Conformemente ai precedenti arresti giurisprudenziali rimane confermato l'orientamento della Corte rispetto alla categoria del danno non patrimoniale, ed in particolare il principio a mente del quale esso si inscrive in un genere o categoria assai ampia che include la lesione di diritti costituzionalmente garantiti. Ciò però non significa negare la liquidazione di danni diversi, ove se ne riscontri l'esistenza; così Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, 636383, pur ribadendo che in tema di danno non patrimoniale non è consentito duplicare lo stesso danno, catalogandolo attraverso nomi diversi, afferma, tuttavia, che ove emerga la prova che alla lesione dell'integrità psico-fisica della vittima dell'illiecito siano consegiuite un'invalidità permanente ed un'inabilità temporanea, , ambedue vanno risarcite, avendo esse esiti e contenuti diversi, senza che la loro appartenenza ad un'unica categoria giuridica generale livelli la loro diversità e risarcibilità. 266 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Sulla stessa scia Sez. 3, n. 11851/2015, Travaglino, Rv. 635701, ha affermato che nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, come tali, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, va risarcito il danno morale come momento del generale pregiudizio non patrimoniale, in quanto conseguente alla violazione di un interesse di rilievo costituzionale che va tutelato ed è «da tenere distinto dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria». 3.1. Il principio di onnicomprensività del risarcimento. Come già chiarito, la categoria generale del danno non patrimoniale – che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona di tipo areddituale – ha una sua natura complessa rispetto alla quale i nomina iuris hanno funzione solo descrittiva. Ne deriva che tutte voci di danno, ove presenti contemporaneamente come conseguenza della condotta illecita, dovranno essere valutate in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, pur rimanendo il risarcimento operazione di valutazione unitaria, con il limite estremo del divieto di duplicazione risarcitorie indotte dalla proliferazioni di singole voci o descrizioni di danni rispetto allo stesso pregiudizio. Fermi, dunque, tali principi la S.C. ha ritenuto che in caso di liquidazione di un danno non patrimoniale conseguente ad una condotta plurioffensiva il ristoro del pregiudizio sofferto dovrà, è vero, seguire il principio di onnicomprensività – che impedisce, come detto, la duplicazione delle voci risarcitorie liquidabili rispetto allo stesso pregiudizio – senza pero escludere che possa tenersi conto di tanti danni quanti sono i beni pregiudicati dall'illecito. Rileva, al rigauardo – e con riferimento ad una fattispecie di danni da morte – Sez. 3, n. 09320/2015, Rossetti, Rv. 635319, che ha affermato come in materia di responsabilità civile, il principio della onnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto. Ne deriva che va cassata quella decisione nella quale il giudice di merito nel liquidare unitariamente il danno non patrimoniale patito dai familiari delle vittima di un sinistro stradale, non aveva considerato l'autonomo pregiudizio derivante dalla perdita del rapporto 267 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE parentale nonché quello derivante dalla sofferenza psichica dei parenti in esito alla morte del proprio congiunto. 3.2. La liquidazione del danno in via equitativa. Come noto, è pacifico in giurisprudenza che, laddove sia provato il danno, ma l'accertamento del suo ammontare e, dunque, la sua liquidazione, presentino gravi difficoltà, il giudice possa procedere secondo equità esercitando il suo prudente apprezzamento discrezionale. Nell'esercizio di tale potere la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, ma solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o essa macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria. Sulla questione può dirsi consolidato quell'orientamento che, tenendo conto di una certa difficoltà di dimostrazione del danno non patrimoniale, consente – nel rispetto degli oneri di allegazione e prova – la liquidazione di esso in via equitativa con un apprezzamento non sindacabile dal Giudice di legittimità, purché ancorato ad un excursus logico esauriente ed intelligibile. Tale parametro di equità giudiziale integrativa deve, ovviamente, ancorarsi a criteri di congruità logica anche allorché si serva di quei criteri orientativi che si sostanziano nelle tabelle di liquidazione elaborate dagli uffici giudiziari e che sono dirette ad assicurare una certa omogeneità di trattamento nell'ambito di situazioni analoghe. Principi, questi, che sono stati ribaditi – nell'anno 2015 – con particolare riferimento all'ipotesi di danno non patrimoniale per il figlio nato morto da Sez. 3, n. 12717, Sestini, Rv. 635949. Anche in questo particolare caso la S.C. conferma che il danno non patrimoniale, derivante da condotta sanitaria negligente, non può che essere liquidato in via equitativa facendo propri i parametri di riferimento della valutazione equitativa del danno biologico ex artt. 1226 e 2056 c.c., desumibile dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, salvo che non emergano nel caso concreto circostanze che ne sconsigliano l'utilizzo. Tuttavia, nel caso di danno per perdita del rapporto parentale, le tabelle milanesi prevedono una graduazione dal massimo al minimo con riferimento alla «qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta». Ne deriva che detti criteri orientativi devono, con motivazione convincente, non solo essere adattati alle circostanze del caso in concreto scrutinato, tenendo conto che la situazione del 268 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE feto nato morto non è sovrapponibile sic et simpliciter a quella del decesso di un figlio, perché ciò che si valuta è il venir meno di una relazione affettiva solo potenziale. Ne discende, ad avviso della S.C. che il giudice del merito – nel caso di specie – avrebbe dovuto motivare anche sulle ragioni per le quali la valutazione equitativa compiuta lo aveva indotto a liquidare l'ulteriore maggiorazione percentuale prevista in tabella al particolare disvalore sociale della condotta sanitaria tenuta, posto che la valutazione e liquidazione del danno prescinde ovviamente dall'idea del "danno punitivo", escluso dal nostro ordinamento, ma è destinata a ristorare il pregiudizio patito da chi ha subito le conseguenze di una condotta illecita, salvo che questa ultima – nel caso concreto – abbia aggravato il detto pregiudizio. La valutazione equitativa del pregiudizio morale se, dunque agevola gli oneri probatori conseguenti alla richiesta risarcitoria non esime il giudice del merito, pur nella insindacabilità del suo apprezzamento, dal rispetto dei criteri decisionali di congruità e logicità, così Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636629. Inoltre, il criterio di equità integrativa può essere utilizzato - secondo Sez. 1, n. 11464/2015, Ragonesi, Rv. 635654 – anche per determinare la lesione del diritto morale d'autore e, pertanto, in tema di opera derivata, cui l'art. 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633, conferisce autonoma tutela, applicando il cd. principio di reversione degli utili, cioè quantificando il pregiudizio in una quota parte dei proventi realizzati dal titolare dell'opera derivata a seguito del suo sfruttamento. La liquidazione del danno può, inoltre, giovarsi dell'utilizzo dei dati di comune esperienza, integrando come criterio decisorio – in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c – il principio di disponibilità della prova.; cfr. Sez. L, n. 00777/2015, Manna, Rv. 634051, che ha ritenuto di potere desumere il pregiudizio incidente sulla vita di relazione dell'infortunato avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività. In tal caso il danno esistenziale è stato ritenuto desumibile in base a dati di comune esperienza quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni), l'intensità del pregiudizio che lo aveva condotto all'immobilizzazione su sedia a rotelle ele normali ed esperenziali abitudini di vita dell'individuo che erano state attinte dall'evento dannoso. 269 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 3.3. Parametri di quantificazione del danno: Tabelle di Milano. Il consolidamento del ricorso ai criteri di equità integrativa non esclude, come si è visto il ricorso nella determinazione ai criteri orientativi delle tabelle di liquidazione. Secondo la S.C. è indispensabile – cfr. Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636385 – che l'onere motivazionale destinato a sorreggere il criterio equitativo, ove assunto a parametro di liquidazione del danno biologico, nel fare riferimento al cd. "punto variabile" sia ancorato ad un riscontro concreto alle tabelle di liquidazione, dovendo il Giudice specificare il valore monetario di base del punto e il grado di invalidità permanente, nonché il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non variare il "risarcimento standardizzato". Sulla stessa scia argomentativa, pertanto, la S.C. tiene fermi i principi appena affermati in tema di personalizzazione del danno, con Sez. L, n. 13982/2015, De Marinis, Rv. 635965, che afferma, in un caso di risarcimento del danno connesso all'aggravamento delle condizioni di salute, derivato dall'adibizione del ricorrente, avente qualifica di operaio, ad attività lavorative incompatibili con la patologia di cui era affetto, nota all'ente pubblico datore di lavoro, come in tema di danno biologico sia precluso il ricorso in via analogica al criterio di liquidazione del danno non patrimoniale da micropermanente derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti, ovvero mediante il rinvio al decreto emanato annualmente dal Ministro delle attività produttive, mentre è congruo il riferimento ai valori inclusi nella tabella elaborata, ai fini della liquidazione del danno alla persona, dal Tribunale di Milano, in quanto assunti come valore "equo", in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a ridurne l'entità. Le tabelle in questione tuttavia possono trovare applicazione senza rinunciare alla personalizzazione del danno biologico; cfr. Sez. 3, n. 15733/2015, Armano, Rv. 636175, secondo cui, qualora da un intervento chirurgico – nella specie, di natura ortopedica – esitino postumi permanenti più gravi di quelli che non sarebbero emersi ove l'intervento chirurgico fosse stato eseguito a regola d'arte, attesa la tipologia di frattura, la liquidazione del danno va personalizzata agendo sul punto di invalidità nell'utilizzazione dei parametri offerti dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, in particolare tenendo conto degli esiti invalidanti del trattamento e della loro incidenza sulla deambulazione e sulle attività lavorative dinamiche 270 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE già svolte, nonché sull'attività sportiva e relazionale, oltre che del danno estetico derivante dalla insorta zoppìa. La sedimentazione del principio di onnicomprensività della liquidazione del danno non patrimoniale risulta affermato dalla S.C. anche con riferimento alla sofferenza-pregiudizio conseguente alla violazione del principio di durata ragionevole del processo per violazione del principio Cedu. Ne consegue che secondo la S.C., Sez. 6-2, n. 09418/2015, Manna, Rv. 635257, nei giudizi di equa riparazione per la durata irragionevole del processo, nel caso di pluralità di domande nei confronti della stessa parte, l'indennizzo può essere calcolato unitariamente se il danno non patrimoniale risulti unico, considerato che "il patema d'animo provocato dalla lite è correlato al complessivo contenzioso, indipendentemente dalle strategie difensive adottate". Per la stessa ragione, anche in tema di danno non patrimoniale da ritardata corresponsione dell'indennizzo da contagio da vaccinazioni ed emotrasfusioni, ex art. 1, della legge n. 210 del 1992, la S.C. con Sez. L, n. 07912/2015, Buffa, Rv. 635121, ha escluso la configurabilità del danno in questione osservando che non è prospettabile il risarcimento di un danno non patrimoniale ulteriore essendo il valore inerente la persona già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo, nonché dei relativi accessori. 3.4. La liquidazione del danno biologico permanente. Rimane confermato l'orientamento giurisprudenziale circa la liquidazione del danno biologico permanente che impone un onere motivazionale adeguato allorché il giudice faccia riferimento alle tabelle "a punti", dovendosi dare conto con argomentazioni convincenti circa i criteri tabellari opzionati e gli elementi costitutivi. Ne consegue - secondo Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636385 – che laddove il giudice di merito liquidi il pregiudizio secondo il criterio cd. "a punto variabile", la motivazione deve essere ancorata ad un riferimento non generico ma concreto alla tabella, dovendo il giudice specificare il "valore monetario di base del punto e il grado di invalidità permanente, il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non variare il risarcimento standardizzato" Inoltre, secondo Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636384, nella valutazione del danno biologico permanente la liquidazione si gioverà di due fasi concettuali: la prima evidenzierà le conseguenze ordinarie della lesione in termini di conseguenze normalmente scaturenti dal pregiudizio, mentre la seconda personalizzerà la 271 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE liquidazione in funzione di quegli esiti peculiari che non necessariamente scaturiscono dal pregiudizio subito. Ne deriva che la monetizzazione delle prime si gioverà di un parametro uniforme, mentre la seconda discenderà senza automatismi da criteri attagliati alla specifica fattispecie. L'indagine concreta ed analitica sulla invalidità permanente grave appare confermata anche da Sez. 6-3, n. 14517/2015, Carluccio, Rv. 636017, ove si afferma che il ricorso a criteri presuntivi desumibili dal dato della riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica, non esime il danneggiato dall'adempimento dei propri oneri probatori che dovranno investire «elementi idonei alla prova del pregresso effettivo svolgimento di attività economica, ovvero del possesso di una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata». 4. Il concorso di colpa del danneggiato. In tema di contratti di intermediazione finanziaria, Sez. 1, n. 17333/2015, Acierno, Rv. 636540, ha escluso che l'intermediario, il quale sia rimasto inadempiente agli specifichi obblighi informativi previsti dalla legge con riferimento alle operazioni inadeguate, possa invocare l'attenuazione di tale sua responsabilità, ex art. 1227 c.c., per non avere l'investitore condiviso i suggerimenti da lui ricevuti dopo l'esecuzione dell'ordine di acquisto ed entro il termine di scadenza dell'investimento. In proposito la pronuncia, richiamando consolidati principi della giurisprudenza di legittimità, ha ricordato che al fine d'integrare la condotta colposa del creditore produttiva della riduzione del danno da risarcire, è necessaria «l'esposizione volontaria ad un rischio, o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole», o, quanto meno, «l'inosservanza delle comuni regole di prudenza»; prendendo la mosse da tali principi la Corte ha quindi sottolineato come la mera mancata condivisione da parte dell'investitiore di tardive indicazione sull'esigenza o sull'utilità di una diversificazione degli investimenti nel tempo, non è sufficiente ad integrare un'esposizione volontaria ad un rischio, né viola una regola di comune prudenza. Una peculiare applicazione della riduzione dell'obbligo risarcitorio nelle ipotesi di concorso del danneggiato nella causazione del danno è offerta da Sez. 3, n. 17305/2015, Lanzillo, Rv. 636657, la quale ha affrontato il caso in cui l'esigenza di rifacimento di un muro di recinzione posto tra due fondi a dislivello, di proprietà esclusiva di uno solo dei confinanti per essere interamente compreso sul suo fondo, sorga a seguito di condotte 272 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE concorrenti di entrambi i proprietari: questi ultimi, precisa la Corte, saranno tenuti a sostenere le relative spese di ricostruzione e consolidamento in relazione alle rispettive responsabilità per il mutamento dello stato dei luoghi, ai sensi degli artt. 2043 e 1227 c.c., restando invece esclusa l'applicabilità dell'art. 887 c.c., il quale attiene al regime delle spese nella diversa ipotesi di comunione del muro a dislivello. In tema di concorso del fatto colposo del creditore, previsto dall'art. 1227, comma 2, c.c., Sez. 3, n. 15750/2015, Vivaldi, Rv. 636176, ha ribadito alcuni principi processuali già espressi in materia dalla giurisprudenza di legittimità, precisando in particolare che l'accertamento in ordine all'omesso uso dell'ordinaria diligenza da parte del creditore deve essere oggetto di una esplicita istanza del debitore, integrando gli estremi di una eccezione in senso proprio, dato che il dedotto comportamento, che la legge esige dal creditore, costituisce autonomo dovere giuridico, espressione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede. Grava inoltre sul debitore anche l'onere di fornire la prova che il creditore avrebbe potuto evitare i danni, di cui chiede il risarcimento, usando l'ordinaria diligenza. Con riferimento invece al dovere del danneggiato di attivarsi secondo correttezza al fine di evitare il danno, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c., merita di essere segnalata Sez. 3, n. 02087/2015, Rubino, Rv. 634499, la quale, in materia di diffamazione a mezzo stampa, ha escluso che sia ravvisabile una violazione di tale dovere in capo al danneggiato che, in caso di mancata ottemperanza da parte del danneggiante all'ordine del giudice di pubblicare la sentenza di condanna su uno o più giornali, non provveda autonomamente a siffatta pubblicazione a sua cura e spese. Una tale iniziativa, ha precisato la Corte, corrisponde infatti ad un apprezzabile sacrificio che va oltre i limiti della ordinaria diligenza, onde il diritto del danneggiato al risarcimento del danno derivante dalla mancata pubblicazione non può essere ridotto od escluso per non aver egli provveduto autonomamente a richiedere la pubblicazione, richiesta che peraltro costituisce una facoltà riservata al danneggiato, e non un obbligo su di esso gravante. 5. Responsabilità precontrattuale. Anche questo anno, la Suprema Corte ha avuto occasione di tornare più volte sul tema della culpa in contrahendo e in tale ambito, ha ribadito la piena equiparazione dell'amministrazione pubblica ad ogni contraente privato in ragione della considerazione che tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di 273 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE formazione progressiva del consenso contrattuale. In proposito, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, ha affermato in via generale che la responsabilità precontrattuale della P.A. non è responsabilità da provvedimento, ma responsabilità da comportamento, per la quale non rileva la legittimità del provvedimento adottato nella procedura ad evidenza pubblica, ma la correttezza del comportamento "complessivamente" tenuto durante le trattative e la formazione del contratto. Pertanto, la P.A. che abbia preteso l'anticipata esecuzione del contratto in attesa dell'approvazione tutoria, poi negata, risponde ex art. 1337 c.c., attesa la posizione di garanzia implicita nel suo status professionale. Inoltre e in via particolare, la stessa pronuncia Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha inoltre chiarito che la P.A – in presenza di norme che deve conoscere ed applicare in modo professionale (come quella sulla registrazione del contratto da parte della Corte dei conti) – se non informa il privato su quanto potrebbe determinare l'invalidità o inefficacia del contratto risponde per culpa in contrahendo, salva la prova concreta dell'irragionevolezza dell'altrui affidamento. Secondo la Corte, nell'accertare se il privato abbia confidato senza colpa nella validità ed efficacia del contratto con la P.A., agli effetti dell'art. 1338 c.c., il giudice di merito deve verificare in concreto se la norma violata fosse conoscibile dal cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell'univocità dell'interpretazione della norma stessa e della conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Peraltro, nel sistema di contrattazione a trattativa privata, sia pure preceduta da una gara ufficiosa, Sez. 1, n. 10743/2015, Lamorgese, Rv. 635483, ha sottolineato come diritti ed obblighi per la P.A. ed il privato contraente derivino solo dalla formale stipulazione del contratto, non potendo attribuirsi all'atto di aggiudicazione il valore di conclusione di quest'ultimo, bensì, semplicemente, l'effetto di individuazione dell'offerta migliore, cui segue la fase delle trattative precontrattuali, né rilevando, ai fini della dimostrazione dell'esistenza di un contratto formale, il comportamento concludente delle parti consistito nella materiale esecuzione della prestazione. La Suprema Corte con riguardo a due interessanti fattispecie ha precisato come, oltre all'interesse negativo da responsabilità precontrattuale, si possa far valere la concorrente e diversa responsabilità contrattuale; difatti, per un verso, Sez. L, n. 18159/2015, Amendola, Rv. 636418, ha ritenuto che in tema di procedura selettiva per il conferimento dell'incarico di medico 274 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE fiscale, l'accertamento del diritto dell'aspirante ad assumere ed espletare l'incarico determina, in caso di inadempimento dell'ASL, il risarcimento del conseguente danno avente natura contrattuale, senza che, in senso contrario, possa opporsi la carenza di affidamento da parte del sanitario in ragione della tempestiva comunicazione dell'esito negativo; né il danno può essere limitato al solo interesse negativo per perdità di chances e per rimborso delle spese sostenute, trattandosi di pregiudizio che attiene alla diversa ipotesi di responsabilità precontrattuale. Per l'altro, Sez. 1, n. 12262/2015, Nazzicone, Rv. 635617, ha affermato che in tema di intermediazione finanziaria, la responsabilità dell'intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest'ultimo i rischi dell'investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, ha natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro intercorrente tra le parti, sicché il danno invocato dal cliente medesimo non può essere limitato al mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale. Infine, Sez. 3, n. 24625/2015, Stalla, in corso di massimazione, con riguardo ad una peculiare fattispecie concernente trattative relative alla vendita di una catena di supermercati caratterizzati da grandi flussi di cassa, ha ribadito la legittimità dell'esercizio da parte del giudice di merito del potere di liquidazione del danno in via equitativa facendo riferimento, tra l'altro, alla fase «assolutamente embrionale» nella quale si trovavano le trattative. 6. Legittimazione passiva dello Stato in tema di responsabilità da mancata attuazione di direttive comunitarie. In una fattispecie riguardante la responsabilità dello Stato per la mancata attuazione delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE in materia di retribuzione della formazione dei medici specializzandi, veniva censurato il difetto di legittimazione passiva dei Ministeri evocati in giudizio, sostendendosi che la legittimazione passiva sostanziale spettasse soltanto alla Presidenza del Consiglio dei ministri; Sez. 6-3, n. 06029/2015, Frasca, Rv. 634892 ha rigettato la censura sottolineando come l'evocazione in giudizio – oltre che della Presidenza del Consiglio dei Ministri, legittimata a stare in giudizio – anche di singoli Ministeri non comporti alcuna conseguenza in termini di legittimazione sostanziale, trattandosi di articolazioni del Governo della Repubblica. 275 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 7. Il risarcimento in forma specifica. Ribadendo un principio già espresso in passato (tra le più recenti: Sez. 3, n. 15726/2010, Rv. 614019), Sez. 2, n. 12582/2015, Matera, Rv. 635890, ha affermato che il risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c., costituendo rimedio alternativo al risarcimento per equivalente pecuniario, è applicabile anche alle obbligazioni contrattuali. Principio applicato nella specie al diritto fatto valere da un condomino per un danno derivatogli dalla violazione del regolamento pattizio. 8. Le responsabilità presunte. Genitori e maestri (art. 2048 c.c.). La Suprema Corte, con la sentenza Sez. 6-3, n. 03081/2015, Vivaldi, Rv. 634452, ha affermato che la responsabilità dell'insegnante si basa sul dovere di vigilanza che scaturisce dall'affidamento dell'allievo al precettore. Ne consegue che la pretesa risarcitoria verso l'insegnante comporta un onere probatorio tendente a dimostrare che al momento dell'evento dannoso l'allievo si trovava effettivamente nella sfera di controllo dell'insegnante. Rimane, pertanto, circostanza neutra la valutazione dell'eventuale responsabilità contrattuale della mancata sorveglianza ovvero del mancato apprestamento di cautele doverose dirette a salvaguardare l'incolumità degli alunni allorché l'evento – consistente nella caduta del discente minorenne in esito ad una spinta di un compagno – si sia verificatosi dopo l'uscita di scuola. Sez. 3, n. 23202/2015, n. 23202, Amendola, in corso di massimazione, ha affermato che in tema di responsabilità civile dei maestri e dei precettori, per superare la presunzione di responsabilità a loro carico ex art. 2048 c.c., è necessario dimostrare che gli stessi abbiano esercitato la vigilanza sugli allievi nella misura dovuta, oltre al carattere imprevedibile e repentino dell'azione dannosa, circostanza, questa, che non è però idonea a vincere la presunzione ove sia mancata l'adozione delle più elementari misure organizzative per mantenere la disciplina tra gli allievi. Nel caso esaminato, la S.C. ha ritenuto che la Corte d'Appello – in relazione al danno determinato dalla caduta a terra di uno studente di una scuola media inferiore, in conseguenza della contesa di una sedia con un compagno – avesse omesso di verificare l'approntamento, in via preventiva, di cautele idonee a scongiurare situazioni di pericolo in un caso nel quale gli alunni erano stati affidati al personale ausiliario nello svolgimento di attività extracurricolare). 276 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 8.1. Padroni e committenti (art. 2049 c.c.). In tema di mobbing Sez. L, n. 10037/2015, Napoletano, Rv. 635391, ha affermato la responsabilità dei padroni e committenti ex art. 2049 c.c. nei confronti del datore di lavoro allorché emerga, anche in via solidale, un nesso di causalità imputabile al datore di lavoro che non abbia rimosso la situazione pregiudizievole connessa alla condotta attuata da altro dipendente in posizione gerarchicamente sovraordinata. Ne consegue il comportamento persecutorio – pur dove provenga da altro dipendente a lui subordinato – non elide la responsabilità del datore di lavoro, su cui incombono gli obblighi per fatto illecito dei propri dipendenti, ove emerga riscontro di una condotta passiva, a lui imputabile colpevolmente, rispetto al dovere di rimozione del fatto lesivo. La S.C. ha, però, escluso la responsabilità ex art. 2049 c.c. in punto di rapporto tra agente di cambio e procuratore alle grida con Sez. 1, n. 18249/2015, Scaldaferri, Rv. 636755 affermando che l'esistenza di una ricognizione di debito compiuta dal procuratore alle grida di un agente di cambio produce l'effetto di cui all'art. 1988 c.c. ossia fa presumere, fino a prova contraria, l'esistenza del rapporto fondamentale, ma non è idoneo a fondare autonomamente un rapporto obbligatorio né un atto illecito in forza del quale lo stesso agente di cambio possa essere chiamato a rispondere per le condotte del suo ausiliario. Con Sez. 1, n. 18691/2015, Mercolino, Rv. 636767, in una fattispecie particolare di concorrenza sleale, la S.C. ha affermato che ai fini della responsabilità di padroni e committenti, qualora l'autore dell'atto illecito rivesta la qualità di dipendente di colui che abbia tratto vantaggio dalla condotta sleale, il primo è tenuto a risponderne ai sensi dell'art. 2049 c.c., anche sulla base di un rapporto di "occasionalità necessaria", anche laddove l'illecito ascritto al datore di lavoro, ai sensi di tale norma, non sia in rapporto causale con le mansioni disimpegnate dal dipendente infedele. Lo stesso principio di "occasionalità necessaria" rimane confermato in Sez. 3, n. 18860/2015, Rubino, Rv. 637041, che ha ritenuto sussistente la responsabilità della compagnia assicurativa ex art. 2049 c.c. per la vendita – con incasso prezzo versato dall'assicurato – di un prodotto assicurativo "fantasma" venduto dall'agente assicurativo, ritenendo sufficiente detto nesso di occasionalità necessaria tra l'attività dell'agente e la condotta illecita consumata in danno del cliente laddove «agevolata o resa possibile dalle incombenze affidate all'agente, mentre non è necessario che il danneggiato provi il 277 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE dolo o la colpa della società assicuratrice, ovvero di aver verificato la reale esistenza e la riconducibilità alla stessa del prodotto venduto». Da ultimo, Sez. 3, n. 20928/2015, Lanzillo, Rv. 637588, ha ritenuto configurabile la responsabilità di un Comune ex art. 2049 c.c., con obbligo dello stesso di risarcire il danno cagionato ai genitori per lesione del diritto all'integrità ed alla serenità del nucleo familiare, ove il Sindaco abbia disposto l'allontanamento di una minore dalla casa familiare sulla base di una segnalazione (poi rivelatasi infondata ed originata dalle sole dichiarazioni di una maestra d'asilo) degli addetti ai servizi sociali, che abbiano sollecitato l'immediata adozione del provvedimento, senza avvertire la necessità di ulteriori e più approfondite indagini da parte dei competenti organi giudiziari. 8.2. Attività pericolose (art. 2050 c.c.). Rimane confermato il consolidato orientamento, circa l'individuazione delle attività pericolose, ai sensi dell'art. 2050 c.c., nel senso che devono ritenersi tali non solo quelle che così sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi usati, comportano la rilevante probabilità del verificarsi del danno. Pertanto con Sez. 3, n. 10268/2015, Scrima, Rv. 635443, la S.C. ha ritenuto di valutare in concreto come pericolosa l'attività di noleggio di cavalli e di guida del cliente, ammettendovi un soggetto del quale non era stata indagata la concreta capacità ed esperienza svolta fuori dall'area di maneggio attrezzata e senza circoscrivere l'utilizzo dell'equino, con la conseguenza che – indipendentemente dalla qualificazione come pericolosa di quell'attività determinata ai fini dell'art. 2050 c.c. – va tenuta ferma la valutazione del giudice di merito condotta ai fini della pericolosità in base al criterio della "prognosi postuma". Sez. 3, 24211/2015, Scarano, in corso di massimazione, ha cassato con rinvio la decisone del giudice di merito affermando l'inquadramento della responsabilità del responsabile di un maneggio per le lesioni patite da una allieva in esito al disarcionamento in considerazione della sua inesperienza circostanza che qualifica la condotta degli istruttori come pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., diversamente dall'ipotesi di cui all'art. 2052 c.c. nell'ipotesi di rapporto con cavalieri esperti. Nello stesso tempo, Sez. 3, n. 16052/2015, Scrima, Rv. 636183, in tema di attività di erogazione di carburante dalla stazione di servizio ha ritenuto intrinsecamente pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c. la fuoriuscita di carburante da una cisterna sotterranea 278 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE posta in prossimità di falda acquifera alimentante cultura di un terreno. La S.C. ha, pertanto, riconosciuto natura di attività pericolosa all'erogazione di carburante effettuata presso la stazione di servizio. La S.C. ha poi disatteso una precedente giurisprudenza circa la natura pericolosa ex art. 2050 c.c. dell'attività di trattamento dei dati personali (Sez.1, n. 10947/2014, Rv. 631481) che aveva considerato tutelati quelli idonei a rivelare lo stato di salute, mediante l'uso di cifrature o numeri di codici non identificabili, quale misura minima idonea ad impedire il danno. Sul punto, infatti Sez. 3, n. 10280/2015, Rossetti, Rv. 635373, ha, piuttosto, circoscritto la finalità della cifratura delle informazioni contenute nelle banche dati, come previsto dall'art. 22, comma 6, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, alla sola prevenzione delle condotte di abusivo accesso e gestione di dati sensibili, con la conseguenza che l'indicazione da parte della P.A. di dati sensibili, circa un pagamento effettuato per ragioni di assistenza o previdenza pubbliche, non costituisce attività pericolosa quand'anche detti dati possano rivelare le condizioni di salute del soggetto interessato, in un caso d'indicazione della causale di pagamento in un estratto conto. 8.3. Cose in custodia (art. 2051 c.c.). In tema di appalto pubblico, Sez. 3, n. 18317/2015, Stalla, Rv. 636858 e Rv. 636857, ha puntualizzato che la mancata consegna dell'opera alla stazione appaltante non esonera quest'ultima dalla responsabilità per la custodia del cantiere e per i danni arrecati a terzi ad essa riconducibili, qualora, pur essendo a conoscenza di una situazione di abbandono del cantiere per il protrarsi del fermo dei lavori e pur essendo in possesso di specifici poteri di controllo ed ingerenza nella esecuzione dell'opus, abbia omesso di adottare, tramite il direttore a ciò preposto, misure idonee a prevenire il verificarsi di eventi lesivi. In applicazione di tale principio la Corte ha quindi ritenuto la co-responsabilità della società appaltatrice e della stazione appaltante in relazione all'infortunio occorso ad un minore che, essendosi introdotto per gioco all'interno di un cantiere abbandonato, era caduto dal tetto dell'edificio in costruzione. La medesima pronuncia ha altresì ritenuto che tale condotta del minore costituisse un fattore causale concorrente con il comportamento dei preposti alla vigilanza del cantiere, ma non potesse integrare il caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità oggettiva degli stessi ai sensi dell'art. 2051 c.c.: il caso 279 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE fortuito cui si riferisce la norma citata, infatti, pur potendo rinvenirsi anche nella condotta del terzo, o dello stesso danneggiato, presuppone che essa, rivelandosi come autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile, risulti dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell'evento lesivo. Un limite alla sussistenza del nesso di causalità, è stato invece individuato da Sez. 3, n. 00287/2015, Lanzillo, Rv. 633949, nell'efficienza che il comportamento imprudente del danneggiato abbia avuto nella produzione del danno. In particolare, con riferimento ad un caso di insidia stradale, la Corte ha precisato che un siffatto comportamento deve considerarsi tanto più rilevante quanto più la situazione di pericolo connessa alla struttura o alle pertinenze della strada pubblica è suscettibile di essere prevista e superata dall'utente-danneggiato con l'adozione di normali cautele. Applicando tali principi, la medesima pronuncia ha cassato con rinvio la decisione impugnata, la quale aveva ritenuto sussistente la responsabilità dell'ente proprietario, ex art. 2051 c.c., senza tuttavia considerare la natura interpoderale della strada, peraltro priva di pericoli nella fascia centrale della carreggiata, la velocità non moderata tenuta dal conducente del ciclomotore, in discesa e in corrispondenza di una strettoia e di una semicurva, nonché l'avvenuto trasporto di un passeggero su ciclomotore omologato per una sola persona, circostanze tutte sintomatiche di un contegno imprudente, la cui rilevanza può spingersi fino a rendere possibile l'interruzione del nesso eziologico tra la condotta omissiva dell'ente proprietario della strada e l'evento dannoso. Sulla stesso tema, va poi segnalata Sez. 3, n. 09547/2015, Sestini, Rv. 635315, la quale, dopo aver precisato che la custodia del proprietario o gestore della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, ivi comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della sede stradale, ha conseguentemente affermato che, ove si lamenti un danno derivante dalla loro assenza o inadeguatezza, non è idonea ad integrare il caso fortuito la mera condotta colposa dell'utente della strada, occorrendo accertare giudizialmente la resistenza che la presenza di un'adeguata barriera avrebbe potuto opporre all'urto da parte del mezzo, nella fattispecie precipitato in un burrone fiancheggiante una curva. In tema di responsabilità della P.A. per danni da beni demaniali, Sez. 6-3, n. 12821/2015, Amendola, Rv. 635770, ha chiarito che, qualora non sia applicabile la disciplina dell'art. 2051 280 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE c.c., in quanto sia accertata in concreto l'impossibilità dell'effettiva custodia sul bene demaniale, l'ente pubblico risponde dei danni subiti dall'utente secondo la regola generale dell'art. 2043 cod. civ., sicché in tal caso, ove il danneggiato abbia provato l'anomalia del bene demaniale (come, ad esempio, della strada), che costituisce fatto di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.A., ricade su quest'ultima l'onere della prova di fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità per l'utente di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia. Ancora in tema di responsabilità della P.A., di particolare interesse è la individuazione del responsabile ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da beni posti su un alveo fluviale sito in territorio urbano. La questione è stata risolta da Sez. 3, n. 17204/2015, Rubino, Rv. 636589, che, con specifico riferimento al danno derivato da un ramo staccatosi da un platano posto sull'argine del fiume Tevere in Roma, ha ritenuto che la responsabilità ricade sul Ministero delle Infrastrutture e non sul Comune ove la res appartenga al demanio idrico e difetti la prova dell'affidamento degli oneri di manutenzione all'ente locale. In ordine ai criteri di ripartizione della competenza tra il tribunale regionale delle acque ed il giudice ordinario, Sez. 3, n. 10128/2015, Lanzillo, Rv. 635420, ha chiarito che il primo è competente in merito alle controversie aventi ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti esclusivamente da atti della P.A. e, dunque, da scelte di governo delle acque e del territorio, mentre il giudice ordinario è competente sui giudizi per i danni derivanti da comportamenti, della medesima, che si siano sostanziati in una mera inazione o in incuria. In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso la competenza del tribunale regionale delle acque in relazione ad una domanda risarcitoria, proposta nei confronti dell'ente gestore di un acquedotto, relativa ai danni originati da fessurazioni delle tubazioni in ghisa ravvisando, invece, le condizioni per addebitare all'ente, al pari di un soggetto privato, la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c., per le opere idrauliche eseguite dallo stesso e ad esso appartenenti. Nella materia locatizia, Sez. 3, n. 15721/2015, Rubino, Rv. 636375, ha fatto chiarezza in ordine alla natura della responsabilità del conduttore ove quest'ultimo violi l'obbligo di custodire la cosa locata, per impedirne la perdita od il deteriomento: si verte in tal caso in una ipotesi di responsabilità ai sensi del combinato disposto degli artt. 1590 e 1177 c.c., e non dell'art. 2051 c.c., in quanto 281 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE quest'ultima norma disciplina l'ipotesi di responsabilità per danni provocati a terzi dalla cosa in custodia e non per danni alla stessa cosa custodita. Con riferimento, infine, al risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale, Sez. 2, n. 01674/2015, Manna, Rv. 634159, ha ritenuto che debba applicarsi la regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, c.c., sicché devono individuarsi nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili, poiché la custodia, presupposta dalla struttura della responsabilità per danni prevista dall'art. 2051 c.c., non può essere imputata né al condominio, quale ente di sola gestione di beni comuni, né al suo amministratore, quale mandatario dei condomini. La citata norma di cui all'art. 2055 c.c., precisa la Corte, opera infatti un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota, ed è quindi applicabile anche quando il danneggiato sia un condomino, il quale è equiparato a tali effetti ad un terzo. 8.4. Responsabilità per il fatto degli animali (art. 2052 c.c.). In tema di danni da fauna selvatica Sez. 6-3, n. 12808/2015, Lanzillo, Rv. 635775, ha escluso la responsabilità extracontrattuale ex art. 2052 c.c. della Regione, in un caso di danni causati alla circolazione stradale da animali selvatici, affermando che alla Regione, compete solo il potere di legiferare, ai sensi della legge 11 febbraio 1992, n. 157, ai fini della tutela e della gestione delle varie specie di fauna selvatica. Per converso, è la Provincia che deve ritenersi responsabile, in forza della proprietà della strada, teatro del sinistro. Rimane così così confermata la decisione del Giudice di merito che aveva escluso la legittimazione della Regione interessata, che per il fatto di dovere provvedere agli oneri finanziari derivati dalla domanda di risarcimento ai sensi dall'art. 1, comma 2, della l.r. dell'Abruzzo 24 giugno 2003, n. 10 non poteva essere ritenuta, sol per tale motivo, responsabile del sinistro. 8.5. Il danno da circolazione di veicoli (art. 2054 c.c.). Anche nell'anno in corso, numerose sono state le pronunce in tema di responsabilità civile da incidente stradale; talune hanno riguardato la nozione stessa di circolazione, altre si sono occupate di alcune ipotesi peculiari nelle quali il sinistro è stato causato da veicolo non identificato, altre ancora hanno avuto occasione di riaffermare principi e regole sia in ordine al contenuto degli obblighi di cautela richiesti e dei profili della colpa del conducente e per ultime, alcune 282 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE altre si sono pronunciate sui criteri di determinazione del danno risarcibile e riguardo a profili strettamente processuali. Sulla nozione di circolazione, Sez. U, n. 08620/2015, Ambrosio, Rv. 635401, ha chiarito che essa include anche la posizione di arresto del veicolo e ciò in relazione sia all'ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia alle operazioni propedeutiche alla partenza o connesse alla fermata, sia, ancora, rispetto a tutte le operazioni che il veicolo è destinato a compiere e per il quale può circolare sulle strade. Ne discende che per l'operatività della garanzia per R.C.A. è necessario che il veicolo, nel suo trovarsi sulla strada di uso pubblico o sull'area ad essa parificata, mantenga le caratteristiche che la rendano tale in termini concettuali e, quindi, in relazione alle sue funzionalità non solo sotto il profilo logico ma anche delle eventuali previsioni normative, risultando invece indifferente l'uso che in concreto se ne faccia, sempreché esso rientri nelle caratteristiche del veicolo medesimo. Nella fattispecie esaminata, le Sezioni Unite hanno ricondotto all'art. 2054 c.c. e alla disciplina della R.C.A. il sinistro mortale determinato dall'imperita manovra da parte del conducente di un mezzo in sosta, munito di un braccio meccanico di sollevamento, per effetto della quale un cassone metallico, in fase di caricamento, era scivolato travolgendo la vittima. Nello stesso senso, da un lato, Sez. 3, n. 00281/2015, D'Amico, Rv. 633954, ha precisato che a norma dell'art. 2054 c.c. un veicolo è «in circolazione» non solo quando sia in marcia, ma anche se sosti in luoghi ove si svolga il traffico veicolare, sicché va qualificato come scontro qualsiasi urto tra due (o più) veicoli in marcia ovvero tra uno in moto ed uno fermo, dall'altro, Sez. 3, n. 24622/2015, Rossetti, in corso di massimazione, ha dato applicazione al principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2015 ricomprendendo nella nozione di circolazione anche il peculiare caso di danno arrecato da un braccio meccanico che costituiva parte integrante di un autocarro. Nello stesso ambito, meritevole di segnalazione appare, inoltre, Sez. 3, n. 05854/2015, Vivaldi, Rv. 635073, che ha escluso l'applicabilità della disciplina sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per circolazione di veicoli, di cui alla legge 24 dicembre 1969, n. 990, ratione temporis applicabile (ora sostituita dal d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209), ad un sinistro cagionato da un'elica di aereo da diporto, già atterrato, vericatosi in una zona interna dell'aereoporto adibita per la sosta e le manovre degli aeromobili, poiché tale normativa presuppone che il sinistro sia avvenuto in 283 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE strade od aree ad uso pubblico, o a queste equiparate, che siano accessibili ad una molteplicità indifferenziata di persone. Nel caso di sinistro causato da veicolo non identificato, Sez. 3, n. 00274/2015, Rossetti, Rv. 633964, ha affermato che l'obbligo risarcitorio nei confronti della vittima, in linea con l'art. 1, comma 4, della direttiva CEE del Consiglio del 30 dicembre 1983, n. 84/5, trasfuso nell'art. 10, comma 1, della direttiva U.E. del 16 settembre 2009, n. 2009/103, sorge non soltanto nei casi in cui il responsabile si sia dato alla fuga nell'immediatezza del fatto, ma anche quando la sua identificazione sia stata impossibile per circostanze obiettive da valutare caso per caso e non imputabili a negligenza della vittima. In ordine alla interpretazione della disposizione di cui al comma 2 dell'art. 283 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 – che nel caso di sinistro stradale causato da un veicolo non identificato, prevede come dovuto il risarcimento per i danni alle cose solo «in caso di danni gravi alla persona» e solo per la parte eccedente i 500 euro - Sez. 3, n. 24214/2015, Rossetti, in corso di massimazione, ha ritenuto che la nozione di «danni gravi alla persona» debba intendersi alla luce del criterio posto dall'art. 138 dello stesso decreto legislativo, in tema di danno biologico per lesioni di non lieve entità, ovvero ricomprenda quelli che provocano postumi permanenti eccedenti i 9 punti di invalidità. In tema di contenuto degli obblighi di cautela richiesti al conducente e di colpa dello stesso sono intervenute numerose pronunce meritevoli di menzione. In particolare, Sez. 3, n. 03367/2015, Scarano, Rv. 634723, ha chiarito come la manovra di un veicolo in retromarcia, per la difficoltà di percepire gli ostacoli e le insidie sulla strada, costituisca operazione anomala, per la quale il conducente è tenuto ad adottare una condotta particolarmente diligente e ad assicurare ogni cautela, anche avvalendosi della collaborazione di terzi che, da terra, possano fornire indicazioni, segnalazioni ed istruzioni, sì da evitare danni a cose o a persone, ivi compresi i terzi trasportati, i quali, logicamente e giustificatamente, fanno affidamento sul possesso e l'applicazione da parte del guidatore di tali adeguate conoscenze e competenze tecniche. Nella fattispecie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, limitandosi a ricondurre il sinistro, sul piano causale, alla carenza dei mezzi di prevenzione, aveva escluso la responsabilità del conducente di un mezzo per il decesso dell'operaio su di esso trasportato, il quale, intento a rimuovere dalla carreggiata la segnaletica di cantiere, era stato sbalzato sull'asfalto dalla pedana su cui si trovava e travolto dal medesimo veicolo in fase di retromarcia. 284 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Inoltre, Sez. 3, n. 22889/2015, Cirillo, in corso di massimazione, ha affermato che in prossimità di un passaggio a livello, sia esso custodito o incustodito, ai sensi dell'articolo 147 cod. strada, il conducente è tenuto ad osservare le segnalazioni acustiche e luminose in funzione nei passaggi a livello oltre che alla «massima prudenza al fine di evitare incidenti» e, soltanto nel caso di passaggio a livello senza barriere o semibarriere, ha inoltre l'obbligo di accertare che «nessun treno sia in vista e in caso affermativo attraversare rapidamente i binari». Riguardo al profilo della colpa, Sez. 3, n. 06431/2015, Scrima, Rv. 635068, ha riaffermato il principio secondo cui una vettura motrice, congiunta ad una vettura rimorchio allo scopo di formare un unico traino sotto una sola guida effettiva, non assume rilievo quale entità a sé stante, ma soltanto come parte di un'entità circolante idealmente inscindibile. Ne consegue che il proprietario della vettura trainata, consentendone la circolazione mediante il traino, si espone alla presunzione di responsabilità prevista dall'art. 2054, comma 3, c.c., ed è solidalmente responsabile con il proprietario e conducente del veicolo propulsore, senza possibilità di distinguere tra i diversi elementi che compongono il mezzo circolante. Con riferimento ad un un caso di tamponamento di un veicolo che, per una situazione anomala ed avulsa dalle esigenze del traffico, costituisca un ostacolo fisso ed imprevedibile rispetto al normale andamento della circolazione stradale (nella specie, un rimorchio staccatosi dalla motrice ed arrestatosi sulla corsia di marcia), Sez. 3, n. 17206/2015, Barreca, Rv. 636652, ha ribadito la inapplicabilità della presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza posta dall'art. 149 cod. strada. Sez. 3, n. 18884/2015, Barreca, Rv. 636843 – occupandosi di una fattispecie simile relativa alla presenza, sulla pubblica via, di una trattrice agricola – ha ribadito la non applicabilità sia della presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza posta dall'art. 149, comma 1, cod. strada, sia della presunzione di pari responsabilità ex art. 2054, comma 2, c.c., gravando sul conducente del veicolo tamponante l'onere di provare tale anomalia. In particolare, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il carattere anomalo dell'ostacolo poiché il mezzo, sebbene munito di rimorchio privo di dispositivi di illuminazione, era agevolmente avvistabile dal conducente del veicolo tamponante. In ordine al criterio della responsabilità presunta di pari grado,è stato riaffermato da Sez. 3, n. 18479/2015, De Stefano, Rv. 285 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE 636975, che l'accertata esistenza di alcuni elementi concreti di colpa a carico di uno o dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro non impedisce il ricorso a tale criterio sussidiario (previsto dall'art. 2054, comma 2, c.c.) quando l'impossibilità di accertamento delle circostanze di maggior rilievo, influenti sulla dinamica del sinistro, non consenta di stabilire la misura della incidenza causale della condotta, pur colposa, di ciascuno dei protagonisti nella determinazione dell'evento. In applicazione di tale assunto, la Corte ha confermato la sentenza della corte territoriale che, nonostante la compiuta valutazione di ogni elemento, aveva constatato la coesistenza di una pluralità di ipotesi ricostruttive del sinistro, ciascuna delle quali comportanti differenti gradi di responsabilità dei conducenti coinvolti, ma nessuna, tuttavia, idonea – secondo il principio "del più probabile che non" – ad imporsi come prevalente sulle altre. Peraltro, Sez. 3, n. 18631/2015, Barreca, Rv. 636981, ha ribadito il principio secondo cui la presunzione di colpa prevista in egual misura a carico dei conducenti dall'art. 2054, comma 2, c.c., ha funzione meramente sussidiaria, operando solo quando è impossibile determinare la concreta misura delle rispettive responsabilità, sicché, ove risulti accertata l'esclusiva colpa di uno di essi, l'altro conducente è esonerato dalla presunzione, né è tenuto a provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno. Più nello specifico, Sez. 3, n. 20618/2015, Rossetti, in corso di massimazione, ha ritenuto che in caso di scontro fra veicoli nell'area di un crocevia, la responsabilità del conducente tenuto a dare la precedenza non può essere esclusa per il fatto che l'altro veicolo procedesse contromano e ad alta velocità, qualora il primo abbia intrapreso la manovra di svolta a destra pur prevedendo o potendo prevedere l'approssimarsi dell'altro mezzo con tali modalità; sicchè, accertate tali circostanze, al giudice del merito non e' consentito ritenere superata la presunzione di cui all'art. 2054, comma 2, c.c., a carico del primo conducente. Di sicuro rilievo appare il principio ribadito da Sez. 3, n. 20373/2015, Cirillo, in corso di massimazione, secondo cui al fine di integrare la prova liberatoria dalla presunzione di colpa stabilita dall'art. 2054, comma 3, c.c., non è sufficiente la dimostrazione che la circolazione del veicolo sia avvenuta senza il consenso del proprietario (invito domino), occorrendo, al contrario, che essa sia avvenuta contro la sua volontà (prohibente domino), estrinsecatasi in atti o comportamenti effettivamente ostativi alla circolazione, rivelatori della diligenza e delle cautele all'uopo adottate, deve ritenersi operativo anche nella vigenza dell'art. 122, comma 3, cod. 286 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE strada e ciò alla stregua di un'interpretazione, al tempo stesso, letterale e teleologica di detta norma. In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale, rilevato che il proprietario della vettura danneggiante, oggetto di furto il giorno precedente al sinistro, con evidente leggerezza aveva lasciato la medesima aperta e con le chiavi nel cruscotto, aveva percio' ritenuto che la circolazione fosse avvenuta invito domino, con conseguente persistente operatività del contratto di assicurazione e rigetto della domanda proposta nei confronti del Fondo di garanzia per le vittime della strada. Ai fini, invece, della configurazione della responsabilità ex art. 2054, comma 4, c.c., secondo Sez. 3, n. 17240/2015, Vincenti, Rv. 636259, la nozione di «vizio di costruzione» non ricomprende i soli interventi compiuti in sede di produzione di un veicolo, ma anche quelli strutturali modificativi della meccanica e/o della dinamica dello stesso. In applicazione dell'anzidetto principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dall'ambito di operatività della norma, e della conseguente responsabilità, l'avvenuta trasformazione – autorizzata dalla casa costruttrice, ma realizzata in modo non conforme al prototipo approvato – dell'albero di trasmissione di un autocarro coinvolto nel sinistro, qualificandola, erroneamente, come fattore estraneo rispetto alle caratteristiche strutturali e meccaniche del mezzo. Circa la determinazione del danno risarcibile, Sez. 6-3, n. 15089/2015, Cirillo, Rv. 636124, ha precisato che il danno da "fermo tecnico" del veicolo incidentato non è risarcibile in via equitativa – cui è possibile ricorrere solo ove sia certa l'esistenza dell'an – ove la parte non abbia provato di aver sostenuto di oneri e spese per procurarsi un veicolo sostitutivo, né abbia fornito elementi (quali i costi assicurativi o la tassa di circolazione) idonei a determinare la misura del pregiudizio subito. In tema di prescrizione del risarcimento del danno derivato dalla circolazione stradale, Sez. 3, n. 25340/2015, Sestini, in corso di massimazione, ha affermato che, qualora il fatto illecito sia considerato dalla legge come reato e questo sia estinto per una causa diversa dalla prescrizione (nella specie, per morte del reo), il termine di prescrizione è biennale, ai sensi dell'art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il reato è estinto (nella specie, dalla morte del reo) e non già da quella in cui l'estinzione è stata dichiarata o, a maggior ragione, da quella in cui il danneggiato ha avuto notizia della causa di estinzione. 287 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE Sotto il profilo processuale, Sez. 3, n. 11179/2015, Vincenti, Rv. 635566, ha chiarito che l'azione giudiziaria per il conseguimento dell'intero risarcimento, proposta dal danneggiato nei confronti del conducente di uno solo dei veicoli coinvolti in uno scontro, non implica di per sé una remissione tacita del debito nei confronti del corresponsabile del danno, né una rinuncia alla solidarietà, presupponendo la prima un comportamento inequivoco che riveli la volontà del creditore di non avvalersi del credito, e la seconda che il creditore agisca nei confronti di uno dei condebitori solidali solo per la parte del debito gravante su quest'ultimo. Inoltre, Sez. 3, n. 21925/2015, Scarano, in corso di massimazione, ha ribadito l'orientamento maggioritario secondo cui la questione relativa alla proprietà ovvero ad altro diritto identificativo del soggetto tenuto alla prestazione, involgendo la titolarità del rapporto controverso dal lato passivo, attiene al merito della lite e, costituendo un'eccezione in senso stretto, non solo non è rilevabile di ufficio da parte del giudice, ma neppure implica la necessità di integrazione del contradditorio nei confronti dell'effettivo titolare, ex art. 102 c.p.c., non versandosi in ipotesi di litisconsorzio necessario. Ancora in tema di competenza, in una peculiare fattispecie relativa all'azione per il risarcimento del danno proposta da due carabinieri, ma senza dedurre il loro rapporto contrattuale con l'Arma, la Corte Sez. 3, n. 21547/2015, Rubino, Rv. 637435, ha affermato la competenza del giudice civile e non già di quello del lavoro, tenuto conto che la competenza per materia deve essere determinata a priori in base alla prospettazione fornita dall'attore nella propria domanda (causa petendi), senza che rilevino le scelte processuali successive all'introduzione del giudizio. Sez. 3, n. 05595/2015, Spirito, Rv. 634891, ha ritenuto che nella ipotesi in cui il danneggiato agisca in forza di polizza accessoria per danni al conducente nei confronti della propria compagnia assicuratrice, e questa sia in seguito posta in liquidazione coatta amministrativa, l'azione di risarcimento dei danni non può essere proseguita né nei suoi confronti, né verso l'impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, occorrendo piuttosto che lo stesso danneggiato si insinui al passivo della procedura liquidatoria ed eserciti il proprio diritto in sede concorsuale. La Corte ha fondato l'enunciazione che precede precisando che la disciplina prevista dagli artt. 19 e 25 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (ora art. 283 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209) si applica ai soli casi in cui il sinistro sia stato cagionato o da veicolo non identificato, o da veicolo non coperto da assicurazione, 288 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE oppure, ancora, da veicolo assicurato presso impresa che si trovi in stato di liquidazione coatta amministrativa al momento del sinistro, o vi venga posta successivamente. Peraltro, in tema di onorari di avvocato, Sez. 6-3, n. 19945/2015, Rossetti, Rv. 637217, ha riaffermato il principio secondo cui la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni alle sole cose deve ritenersi rientrante tra le cause di particolare semplicità di cui all'art. 4, comma 2, della legge 13 giugno 1942, n. 794 (la cui permanenza in vigore è sancita dall'art. 1, comma 1, del d.lgs. 1 dicembre 2009, n. 17), con la conseguenza che il giudice di merito, all'esito di tale controversia, ha facoltà di liquidare le spese di lite in misura ridotta fino alla metà dei minimi tariffari. Infine, in tema di giudicato, Sez. 3, n. 17233/2015, Sestini, Rv. 636842, nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia dichiarato la esclusiva responsabilità della parte convenuta e conseguentemente rigettato le domande riconvenzionali da quest'ultima proposte, ha chiarito che ciò non comporta l'implicita reiezione delle eccezioni preliminari di improcedibilità (nella specie, ex art. 22 della l. 990 del 1969, applicabile ratione temporis) sollevate dalle altre parti in relazione a tali domande riconvenzionali, trattandosi di profilo rimasto escluso dalla disamina del giudice e, quindi, non suscettibile di giudicato implicito. 8.6. Danno da prodotto. Meritano attenzione due decisioni assunte nell'anno in corso in tema di responsabilità per danno da prodotti difettosi. Secondo Sez. 3, n. 16808/2015, De Stefano, Rv. 636654, gli obblighi gravanti sul produttore a norma del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non possono ragionevolmente estendersi all'impiego di materiali, o all'adozione di cautele specifiche, tali da reggere anche ad un uso del prodotto univocamente prospettato all'utente come non conforme a minimali modalità di utilizzo, queste ultime a loro volta corrispondenti a regole di comune prudenza, non particolarmente gravose, né implicanti apprezzabili limitazioni nell'impiego del bene. In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso la responsabilità del fabbricante per i danni subiti dall'attore a seguito dello scoppio dello pneumatico di una ruota di un carrellino pieghevole, che lo stesso danneggiato aveva gonfiato adoperando il compressore ad una pressione superiore di circa quattro volte a quella massima, chiaramente indicata sulla ruota da gonfiare. 289 CAP. XIII - LA RESPONSABILITA' EXTRACONTRATTUALE In una ipotesi di risarcimento dei danni conseguenti all'omesso adeguamento dei margini minimi obbligatori per la distribuzione del petrolio per il riscaldamento, Sez. 3, n. 12701/2015, Armano, Rv. 635772, ha ritenuto che il mancato adeguamento – a partire dal 1982, e per la durata di dieci anni – dei margini minimi obbligatori per la distribuzione del petrolio per il riscaldamento, da parte del Comitato interministeriale prezzi (Cip), integra un comportamento illecito, a danno delle società di distribuzione (delle quali è stato bloccato il margine di guadagno per un decennio), che ha natura permanente e la cui caratteristica è quella di dar luogo ad un diritto al risarcimento che sorge in modo continuo e che in modo continuo si prescrive, se non esercitato dal momento in cui si produce, sicché il termine prescrizionale decorre de die in diem, man mano che i danni stessi accadono. 290 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI CAPITOLO XIV LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI (di Irene Ambrosi) SOMMARIO: 1. La responsabilità del medico. – 2. La responsabilità dell'avvocato. – 3. La responsabilità del notaio. – 4. La responsabilità del mediatore. – 5. La responsabilità degli ausiliari del giudice. 6. La responsabilità dell'intermediartio finanziario (rinvio). 1. La responsabilità del medico. Nel corso del 2015 è continuata l'elaborazione da parte della Corte di cassazione di regole peculiari all'interno del sistema di responsabilità civile dedicate al sottosistema della responsabilità medico-chirurgica sia sul versante dei rapporti tra medico e paziente sia su quello dei rapporti tra questi e le strutture sanitarie all'interno della cui organizzazione funzionale si svolge l'attività del professionista. Innanzitutto, la Corte si è tornata ad occupare della natura del rapporto tra paziente e struttura sanitaria e dei meccanismi attraverso cui opera la responsabilità della struttura sanitaria in caso di domanda risarcitoria per fatto illecito commesso dal medico; inoltre, si è venuta arricchendo la casistica in merito ai criteri di ripartizione dell'onere probatorio, di accertamento della colpa e del nesso causale tra condotta del medico e danno patito dal paziente ed infine, sono stati riaffermati orientamenti già espressi sia in tema di consenso informato sia di processo. Quanto alla natura del rapporto tra paziente e struttura ospedaliera, Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984 ha riaffermato in via generale che esso ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. In particolare, la Corte ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente che può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 c.c., all'inadempimento della prestazione medico- professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario 291 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto. Nello stesso ambito, è stato precisato da Sez. 3, n. 21090/2015, De Stefano, Rv. 637449, che la responsabilità di un nosocomio per contratto cosiddetto di spedalità deriva dall'obbligo di erogare la propria prestazione con massima diligenza e prudenza; essa comprende, oltre all'osservanza delle normative di ogni rango in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, la tenuta in concreto, per il tramite dei suoi operatori, di condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente, anche in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, pur conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l'esito infausto. Nella fattispecie, la Corte di merito, pur rilevando che il paziente fosse giunto nel nosocomio in condizioni disperate, aveva correttamente individuato, quali potenziali cause letali, il ritardo nella comunicazione dei decisivi dati di laboratorio e nell'avvio dell'intervento chirurgico, così come "le modalità di manipolazione del già devastato bacino del paziente", mentre anche un'eventuale conformità della non adeguata scorta di sangue alle previsioni normative, non avrebbe potuto esentare l'azienda ospedaliera dalla immediata richiesta di altro sangue a strutture più dotate, o dall'immediato trasferimento del paziente in struttura piu' attrezzata. Nella differente ipotesi in cui la domanda risarcitoria abbia ad oggetto solo l'operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, Sez. 3, n. 15860/2015, D'Amico, Rv. 636191, ha ritenuto che la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura medesima, perché questa è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicchè la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c. Con riferimento poi al rapporto tra medico generico e Azienda Sanitaria Locale, Sez. 3, n. 06243/2015, Vincenti, Rv. 635072, ha affermato la responsabilità della Azienda Sanitaria 292 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI Locale ex art. 1228 c.c. in ordine al fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell'esecuzione delle prestazioni curative che siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge. In tema di ripartizione degli oneri probatori, Sez. 3, n. 21177/2015, Rubino, Rv. 637450, ha ribadito che, da un lato, l'attore deve provare l'esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, allegando solo la colpa del medico; dall'altro, questi deve provare che l'eventuale insuccesso dell'intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, è dipeso da causa a sé non imputabile. Principio affermato a conferma della impugnata decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del medico per una vaccinazione inoculata per via intramuscolo, eseguita nel rispetto dei protocolli per la localizzazione e le modalità operative della iniezione, riconducendo l'evento dannoso al caso fortuito ovvero all'andamento variabile e imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato nella consulenza tecnica d'ufficio. Quanto al profilo della colpa in relazione alla possibile scelta che il medico può operare tra diversi tipi di trattamento sanitario, di sicuro interesse, appare Sez. 3, n. 19213/2015, Scarano, Rv. 637015, secondo cui, qualora nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, emerga una situazione la cui evoluzione può comportare rischi per la salute del paziente, il medico, che abbia a disposizione metodi idonei ad evitare il verificarsi della situazione pericolosa, è tenuto ad impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente, preferendoli a quelli che possano anche solo esporla a rischio, sicché, ove egli privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto esente da colpa un medico in relazione alla scelta compiuta di sottoporre un paziente, affetto da paraparesi spastica, ad intervento di ernia discale per via transarticolare, in luogo del meno rischioso intervento anteriore alla colonna attraverso toracotomia destra, con determinazione della situazione pericolosa connessa al detto rischioso intervento e conseguente necessità di un secondo intervento, attraverso toracotomia, all'esito del quale era residuata una lesione dell'integrità psico-fisica stimata pari al 68 per cento. In ordine alla nozione di diligenza del professionista medico Sez. 3, n. 24213/2015, Rossetti, in corso di massimazione, ha 293 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI affermato che in tema di inadempimento di obbligazioni professionali il comma 2 dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa e che la nozione del professionista medio secondo la giurisprudenza della Corte sottende un professionista "bravo, serio, preparato, zelante, efficiente". In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto responsabile l'azienda ospedaliera per lesioni derivate da un trapianto di cornee infette fornite dalla "banca degli occhi" gestita dalla stessa struttura ospedaliera. Rilevante appare, inoltre, Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636015, che ha affermato come al medico convenuto in un giudizio di responsabilità – per superare la presunzione a suo carico posta dall'art. 1218 c.c. – non basti dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una "complicanza", rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione priva di rilievo sul piano giuridico e soltanto indicativa "nel lessico medico" di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile. Va parimenti segnalata Sez. 3, n. 06438/2015, Petti, Rv. 634965, che ha affermato come il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non possa essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva. Sempre in tema di responsabilità, ma con riguardo alla condotta omissiva del medico, Sez. 3, n. 07682/2015, Scarano, Rv. 635102, ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ravvisato la responsabilità di un aiuto primario di ostetricia che, accertato il grave stato di sofferenza del feto sulla base delle inequivocabili risultanze dell'esame del tracciato cardiotocografico e di quello amnioscopico, a dispetto dell'estrema urgenza dell'intervento, ometteva di procedere – in attesa dell'arrivo del primario – all'esecuzione del parto cesareo, di per sé eseguibile anche da un solo medico con l'ausilio di uno strumentista. In particolare, la Corte ha aggiunto che il contegno tenuto dall'aiuto primario nella fattispecie sopra sinteticamente descritta ha violato gli obblighi su di esso gravanti, i quali includono non solo quello di attivarsi secondo le regole dell'arte medica, avuto riguardo al suo 294 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI standard professionale di specialista, ma anche di salvaguardare, ai sensi dell'art. 1375 c.c., la vita del paziente. Quanto al criterio di accertamento del nesso causale, Sez. 3, n. 03390/2015, Vincenti, Rv. 634481, ha ribadito l'utilizzo del criterio della preponderanza dell'evidenza (altrimenti definito anche del più probabile che non), già più volte utilizzato dalla Corte (tra le decisioni più recenti: Sez. 3, n. 22225/2014, Rv. 632945), criterio che implica una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente che deve essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità. Nella fattispecie in esame, la Corte ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto ad un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l'oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia. Peraltro, Sez. 3, n. 12218/2015, Rossetti, Rv. 635623, ha ritenuto che l'eventuale incompletezza della cartella clinica costituisca una circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione. Nel caso risulti accertata una condotta che depone per la responsabilità del medico operante e, conseguentemente, della struttura sanitaria, secondo Sez. 3, n. 08989/2015, Scarano, Rv. 635339, spetta all'uno e all'altra, in applicazione del principio della vicinanza della prova (o di riferibilità), provare che il risultato "anomalo" o "anormale", rispetto al convenuto esito dell'intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l'adeguata diligenza. Restando in tema, ma sul versante dell'accertamento dell'efficienza concausale di un fattore naturale, Sez. 3, n. 08995/2015, Cirillo, Rv. 635338, ha ritenuto che, una volta accertato il nesso causale tra l'inadempimento e il danno lamentato, 295 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI l'incertezza circa l'eventuale efficacia concausale di un fattore naturale non rende ammissibile, sul piano giuridico, l'operatività di un ragionamento probatorio semplificato che conduca ad un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del quantum risarcitorio secondo criteri equitativi. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l'obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto – avvenuto in altra struttura – e presso la quale aveva contratto un'infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita. Con una importante pronuncia Sez. 3, n. 21782/2015, Scarano, in corso di massimazione, ha chiarito che – nel caso di cure e interventi effettuati all'estero dal paziente, dei quali se ne sia accertata l'utilità e necessità all'esito della ripetuta ricomparsa di metastasi causata dall'erronea condotta dei medici intervenuti in precedenza – le spese sostenute dal paziente per la loro urgente ed indifferibile esecuzione non vanno ascritte alla fattispecie regolata dall'art. 1227, comma 2, c.c. (nel caso di specie quali esborsi evitabili per la parziale rimborsabilità prevista dalla l.r. della Sicilia 3 giugno 1975, n. 27). Tali esborsi sono infatti l'ulteriore conseguenza del danno patrimoniale ascrivibile alla esclusiva responsabilità dei medici precedentemente intervenuti, che esula dalle ipotesi riconducibili all'art. 1227, comma 2, c.c., quali i danni cui può colposamente concorrere il creditore-danneggiato e quelli derivanti dalla sua condotta, quando da sola idonea a interrompere il nesso causale con il danno originario, generando un nuovo e diverso danno. Con riferimento al danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all'esecuzione di un intervento chirurgico, Sez. 3, n. 12205/2015, Frasca, Rv. 635626, ha affermato che esso è risarcibile, ancorché apparisse, ex ante, necessitato sul piano terapeutico e sia pure risultato, ex post, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell'informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all'espletamento dell'atto medico e di beneficiare 296 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall'esito favorevole dell'intervento. Nello stesso ambito, va segnalata Sez. 3, n. 02854/2015, Scarano, Rv. 634415, che ha ritenuto come l'acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisca prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l'intervento terapeutico, di talché l'errata esecuzione di quest'ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell'obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti – rispettivamente, all'autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all'integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi. In forza di tale principio, la Suprema Corte ha cassato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto assorbito, nel risarcimento del danno da mancata acquisizione del consenso informato, anche il pregiudizio cagionato da un medico ortopedico per avere imprudentemente sottoposto ad intervento di artroscopia un paziente affetto da gotta, esponendolo al rischio – poi effettivamente concretizzatosi – di riacutizzazione flogistica. Meritevole di menzione anche Sez. 3, n. 19212/2015, Scarano, Rv. 637014, secondo cui il medico viene meno all'obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente. Nel caso di specie, la Corte ha negato che – in relazione ad un intervento chirurgico effettuato sulla gamba destra di un paziente, privo di conoscenza della lingua italiana e sotto narcosi – potesse considerarsi valida modalità di acquisizione del consenso informato all'esecuzione di un intervento anche sulla gamba sinistra, l'assenso prestato dall'interessato verbalmente nel corso del trattamento. Infine, Sez. 3, n. 24220/2015, Barreca, in corso di massimazione, torna ad esaminare la delicata questione della violazione degli obblighi di informazione da parte del medico e del danno cagionato al diritto di autodeterminarsi del paziente e cassa la decisione di merito che aveva omesso di valutare la lesione del diritto di autodeterminazione della gestante la quale, a seguito del referto negativo del bi-test, che pure non escludeva con certezza la esistenza di una patologia genetica, non era stata informata in modo 297 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI completo della possibilità di ricorrere ad altro esame (amniocentesi) dagli esiti più certi. Va segnalato al riguardo che da Sez. 3, n. 03569/2015, Sestini, è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite della Corte la soluzione di un contrasto di giurisprudenza insorto sul tema del danno da nascita indesiderata per omessa diagnosi prenatale (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza), contrasto che si incentra su due questioni: quella relativa ai criteri di ripartizione dell'onere probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria (v. amplius sub cap. XIII, par.1.7). Le Sez. U, n. 25767/2015, Bernabai, in corso di massimazione, a risoluzione del contrasto hanno affermato, quanto alla prima questione, che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l'onere mediante presunzioni semplici; quanto alla seconda, che il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da «vita ingiusta», poiché l'ordinamento ignora il «diritto a non nascere se non sano». Da segnalare, tra le pronunzie di natura eminentemente processuale, da un lato, Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636016, che ha opportunamente precisato come nei giudizi risarcitori la domanda debba descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si chiede il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei danni subiti e subendi, perché tali domande, quando non nulle ex art. 164 c.p.c., non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa; dall'altro, in tema di giudicato, Sez. 3, n. 14642/2015, Sestini, Rv. 636428, ha affermato che quando la sentenza di primo grado abbia accertato la sussistenza della responsabilità professionale medico-chirurgica sia per l'inesatta esecuzione della prestazione sanitaria, sia per la mancata acquisizione del consenso informato, la mancata impugnazione della statuizione relativa all'accertata violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente comporta il suo passaggio in giudicato, atteso l'autonomo rilievo che nel rapporto contrattuale assume l'inadempimento dell'obbligo di informazione, a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento sanitario eseguito o dalla prova che il danneggiato avrebbe rifiutato l'intervento se adeguatamente informato. Infine, in tema di prova delle cause del decesso del paziente, Sez. 3, n. 22876/2015, Vivaldi, in corso di massimazione, ha chiarito che esse non debbono essere necessariamente provate a 298 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI mezzo di esame autoptico, non essendo prevista nella colpa medica alcuna prova legale ed essendo possibile anche quella indiziaria. 2. La responsabilità dell'avvocato. Meritano di essere segnalate tre decisioni pronunciate nel 2015 in tema di contenuto dell'obbligo di diligenza del professionista avvocato. In primo luogo, quanto alle conseguenze di un ritardo di ricezione dell'atto, è stato chiarito da Sez. 3, n. 08395/2015, D'Amico, Rv. 635077, che non è configurabile alcuna responsabilità professionale nella condotta di un avvocato che abbia richiesto la notifica di un'opposizione a decreto ingiuntivo tramite il servizio postale solo cinque giorni prima della scadenza del termine di cui all'art. 641, comma 1, c.p.c. Ha spiegato la Corte, in particolare, che gli effetti della notificazione a mezzo posta [giusta la declaratoria di incostituzionalità degli artt. 149 c.p.c. pronunciata da Corte cost., 22 ottobre 2002, n. 477 (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263) e 4, comma 3, della legge 20 novembre 1982, n. 890) vanno ricollegati, per il notificante, alla mera consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, pur restando fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione alla data di sua ricezione, attestata dall'avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. In secondo luogo, Sez. 3, n. 10289/2015, Scrima, Rv. 635467, ha ribadito che la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176, comma 2, c.c.; tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale. Così affermando la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto ininfluente, ai fini della responsabilità professionale, la condivisione del cliente della scelta di chiamare in garanzia un terzo sebbene il diritto da tutelare fosse prescritto, come poi puntualmente eccepito dal terzo chiamato. Infine, è stato affermato da Sez. 6-3, n. 13927/2015, Cirillo, Rv. 636003, che incorre in responsabilità professionale l'avvocato che abbia omesso di provvedere alla riassunzione di un giudizio interrotto, pur quando abbia rappresentato la necessità della sua 299 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI sostituzione per sopraggiunto conflitto d'interessi con l'altra parte del giudizio, allorché abbia, nella sostanza, continuato a svolgere attività defensionale sulla base del contratto di patrocinio stipulato con il cliente, per la cui conclusione non occorre il rilascio della procura ad litem, necessaria solo per lo svolgimento dell'attività processuale. 3. La responsabilità del notaio. Meritano menzione per questo anno tre decisioni in tema di responsabilità gravante sul notaio. La prima, Sez. 3, n. 10133/2015, Barreca, Rv. 635427, ha ritenuto che il notaio – obbligato alla verifica dell'esistenza di formalità pregiudizievoli sul bene oggetto di compravendita, ma non tenuto ad una condotta in concreto eccessivamente onerosa – ha l'onere probatorio di delimitare l'ambito della diligenza da lui esigibile, allegando e dimostrando non solo l'estensione (quantitativa e temporale) degli accertamenti esperiti, ma anche di quelle esperibili, nonché la regolarità o meno delle registrazioni effettuate dalla conservatoria ed altresì l'idoneità della specifica irregolarità contestata a rendere infruttuose eventuali ricerche del titolo reso pubblico. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la condanna, non avendo il notaio offerto la prova né delle visure effettuate né di quelle esperibili, in ragione delle condizioni di lavoro della conservatoria nei giorni immediatamente precedenti la stipula dell'atto. La seconda, Sez. 3, n. 16990/2015, Scarano, Rv. 636622, ha affermato che nella ipotesi in cui il notaio sia richiesto della redazione di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, questi ha l'obbligo di compiere le attività preparatorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti e, in particolare, è tenuto ad effettuare le visure catastali e ipotecarie, la cui eventuale omissione è fonte di responsabilità per violazione non già dell'obbligo di diligenza professionale qualificata, ma della clausola generale della buona fede oggettiva o correttezza, ex art. 1175 c.c., quale criterio determinativo ed integrativo della prestazione contrattuale, che impone il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della controparte. Nella fattispecie esaminata, la Corte ha cassato la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda risarcitoria nei confronti del notaio, il quale aveva rettificato un atto di compravendita – da lui stesso redatto – inserendovi un appezzamento di giardino, retrostante il 300 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI fabbricato compravenduto, senza effettuare le visure che avrebbero permesso di accertare la diversa titolarità del terreno. La terza decisione, Sez. 3, n. 21792/2015, Pellecchia, in corso di massimazione, ha opportunamente chiarito che quando nella redazione di un atto di compravendita immobiliare il notaio inserisca la dichiarazione della parte venditrice, accettata dall'acquirente, di estinzione del debito garantito da ipoteca sull'immobile, con impegno a provvedere alla cancellazione di quest'ultima a propria cura e spese, la responsabilità per la mancata veridicità della dichiarazione non può estendersi al notaio, non dovendo questi espletare alcuna attività accertativa a fronte di una espressione del potere valutativo del contraente. 4. La responsabilità del mediatore. Interessante la decisione pronunciata da Sez. 2, n. 18140/2015, Falaschi, Rv. 637022, che ha affermato la responsabilità del mediatore il quale, nel corso di una compravendita immobiliare, non ha fornito alla parte interessata alla conclusione dell'affare informazioni sulla regolarità urbanistica dell'immobile, omettendo di controllare la veridicità di quelle ricevute (nella specie, la natura abusiva della veranda, adibita a cucina e in posizione centrale rispetto agli altri locali, e, quindi, neppure condonabile). Pertanto, la Corte ha sottolineato come il mediatore non abbia assolto l'obbligo di corretta informazione in base al criterio della media diligenza professionale, che comprende non solo l'obbligo di comunicare le circostanze note (o conoscibili secondo la comune diligenza) al professionista, ma anche il divieto di fornire quelle sulle quali non abbia consapevolezza e che non abbia controllato. 5. La responsabilità degli ausiliari del giudice. Sez. 3, n. 12872/2015, Carluccio, Rv. 635882 – riaffermando un orientamento già enunciato – ha ritenuto che qualora il commercialista, nell'espletamento dell'attività di ausiliare di giustizia come curatore fallimentare, sia responsabile di danno ingiusto ai sensi degli artt. 2043 c.c. e 38, comma 1, l.fall., l'assicuratore della responsabilità civile per la sua attività professionale deve tenerlo indenne (salva espressa esclusione contrattuale), atteso che le funzioni di curatore fallimentare rientrano tra quelle previste dalla legge per il commercialista, che quale professionista intellettuale non esaurisce la sua attività nell'ambito del contratto di prestazione d'opera intellettuale, ma resta professionista privato anche quando espleta un incarico giudiziario (curatore fallimentare, consulente 301 CAP. XIV - LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI tecnico d'ufficio), in relazione al quale svolge pubblici poteri. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la decisione di merito che erroneamente aveva ritenuto come il carattere pubblicistico della funzione svolta dal curatore impedisse la qualificazione della attività dello stesso come attività professionale coperta da copertura assicurativa. Di particolare rilievo, in tema di responsabilità degli ausiliari del giudice, quanto affermato da Sez. 3, n. 18313/2015, Scrima, Rv. 636725, secondo cui il consulente tecnico d'ufficio svolge, nell'interesse della giustizia, funzioni ausiliarie del giudice di natura non giurisdizionale, sicché è obbligato a risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio senza che sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia. Inoltre, la stessa pronuncia, Rv. 636726, ha precisato che l'esperto nominato dal giudice per la stima del bene pignorato è equiparabile, una volta assunto l'incarico, al consulente tecnico d'ufficio, sicché è soggetto al medesimo regime di responsabilità ex art. 64 c.p.c., senza che rilevi il carattere facoltativo della sua nomina da parte del giudice e l'inerenza dell'attività svolta ad una fase solo prodromica alla procedura esecutiva. Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di condanna dell'ausiliare, che aveva proceduto a stima viziata, per difetto, nel computo della superficie dell'immobile, al risarcimento dei danni in favore di coloro cui era stata revocata, in conseguenza di tale errore, l'aggiudicazione in sede esecutiva. 6. La responsabilità dell'intermediario finanziario (rinvio). Per ragioni di omogeneità, la peculiare forma di responsabilità civile degli intermediari finanziari verrà trattata nel successivo cap. XXI dedicato al diritto dei mercati finanziari. 302 CAP. XV - LE GARANZIE REALI PARTE QUARTA TUTELA DEI DIRITTI CAPITOLO XV LE GARANZIE REALI (di Raffaele Rossi) SOMMARIO: 1. Inquadramento sistematico. – 2. Privilegi. – 3. Pegno. – 4. Ipoteca. 1. Inquadramento sistematico. Strumenti di rafforzamento della garanzia del credito, le cause legittime di prelazione assicurano un regime preferenziale per la soddisfazione di determinati crediti, in deroga al principio della par condicio creditorum ed alla correlata eguale facoltà di tutti i creditori di agire sul patrimonio del debitore e di concorrere proporzionalmente sul ricavato dello stesso. Secondo il canone discretivo tradizionalmente elaborato in dottrina, le cause legittime di prelazione si distinguono in due grandi categorie: da un lato, i privilegi, previsti da tipiche e tassative disposizioni di legge e riconosciuti in considerazione della causa del credito; dall'altro, il pegno e l'ipoteca, aventi fonte convenzionale e connotati dalla realità, cioè a dire dalla stretta afferenza alla res vincolata a garanzia del credito, dalla concentrazione del diritto su singoli, specifici e individuati beni. La disamina della produzione giurisprudenziale in materia sull'argomento seguirà questa classica distinzione (peraltro, non sempre di agevole applicazione, riscontrandosi nell'ordinamento positivo figure per dir così spurie, che partecipano cioè dei caratteri dei vari istituti) e si articolerà secondo l'ordine sistematico del codice civile. 2. Privilegi. Le pronunce rese nell'anno dalla Suprema Corte si concentrano, prevalentemente, sulla definizione della esatta portata delle singole fattispecie di privilegi generali mobiliari previste dall'art. 2751 bis c.c., disposizione di rilievo centrale nel sistema dei privilegi, funditus finalizzata ad apprestare idonea garanzia ai crediti derivanti, in senso lato, da un'attività lavorativa volta a soddisfare le esigenze di sostentamento del lavoratore. 303 CAP. XV - LE GARANZIE REALI Due gli interventi di rilievo sull'ambito applicativo del privilegio riconosciuto dal n. 5) dell'art. 2751 bis c.c. alle imprese artigiane ed alle società o enti cooperativi di produzione e lavoro. Dal punto di vista oggettivo, in stretta aderenza al tenore letterale del dato positivo, Sez. 1, n. 04383/2015, Mercolino, Rv. 634753, circoscrive il privilegio unicamente ai crediti per i corrispettivi dei servizi prestati e della vendita di manufatti, in ragione della prevalenza in tali vicende dell'attività lavorativa personale sugli altri fattori produttivi, e ne esclude una possibile estensione in via interpretativa ai crediti per compensi derivanti da appalti d'opera, mancando in questo caso la sicura prevalenza dell'attività lavorativa sugli altri fattori produttivi (fornitura della materia prima e sopportazione delle spese generali); reputa pertanto il trattamento differenziato delle due descritte ipotesi giustificato dalle esigenze di certezza sottesa all'intera disciplina delle cause legittime di prelazione e configurante un legittimo esercizio dell'ampia discrezionalità del legislatore nella individuazione dei crediti muniti di privilegio, dichiarando quindi manifestamente infondata la questione di conformità dell'art. 2751 bis c.c. all'art. 3 della Carta costituzionale. Sotto il profilo soggettivo, beneficiaria del privilegio de quo è l'impresa artigiana "definita ai sensi delle disposizioni legislative vigenti", interpolazione aggiunta dall'art. 36 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito nella legge 4 aprile 2012, n. 35, addenda priva di natura interpretativa e di valore retroattivo: da questa premessa, Sez. U, n. 05685/2015, Ragonesi, Rv. 634757, ritiene, con riferimento al periodo anteriore all'entrata in vigore della novella, che, ai fini del riconoscimento del privilegio, non spieghi alcuna incidenza l'iscrizione all'albo delle impresse artigiane ex art. 5 della legge 8 agosto 1985, n. 443 (richiesta per fruire delle provvidenze previste dalla legislazione regionale di sostegno), dovendosi invece ricavare la nozione di impresa artigiana dai criteri fissati, in via generale, dall'art. 2083 c.c. Altre pronunce delimitano la titolarità del privilegio per le provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia previsto dal n. 3) del citato art. 2751 bis c.c.: per Sez. 6-1, n. 19550/2015, Acierno, Rv. 636717, la causa di prelazione compete anche alla società personale che eserciti l'attività di agenzia, purché si accerti, in concreto, che quest'ultima sia svolta direttamente dagli agenti- soci e che il lavoro abbia funzione preminente sul capitale; Sez. 1, n. 04627/2015, Nazzicone, Rv. 634551, invece, ravvisata l'applicabilità della norma solo nei rapporti tra agente e preponente, nega il 304 CAP. XV - LE GARANZIE REALI privilegio alla cassa di previdenza degli agenti, creditrice in proprio verso l'impresa di assicurazione per i contributi dovuti alla cassa ma lasciati in deposito presso l'assicurazione. Relativa al privilegio regolato dal n. 4) della norma in esame è Sez. 3, n. 06842/2015, Barreca, Rv. 634828, precisa nel chiarire che la qualifica di coltivatore diretto si desume dalla disciplina di cui agli artt. 1647 e 2083 c.c., sicché l'elemento determinante va rinvenuto nella coltivazione del fondo da parte del titolare con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, attività con la quale è compatibile quella di allevamento del bestiame solo se questa sia in stretto collegamento funzionale con il fondo. Al di fuori delle ipotesi codicistiche si colloca, tra gli altri, il privilegio mobiliare che l'art. 44, lett. a), del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (come sostituito dall'art. 1 del d.l. 4 gennaio 1994, n. 1, convertito nella legge 17 febbraio 1994, n. 135), attribuisce, a tutela dei finanziamenti di credito effettuati mediante utilizzo di cambiale agraria, all'istituto di credito finanziatore sui frutti pendenti, prodotti finiti ed in corso di lavorazione dell'impresa finanziata. Sull'argomento, scarsamente esplorato in precedenza, di sicuro interesse è Sez. 3, n. 14631/2015, Vivaldi, Rv. 636165: all'esito di una compiuta ricostruzione sistematica dell'istituto, la pronuncia qualifica il privilegio in discorso come privilegio legale speciale, avente ad oggetto un bene produttivo variabile nel tempo e finalizzato a favorire l'impresa in sé, quale attività economica organizzata a prescindere dal soggetto imprenditore finanziato, come tale gravante sui frutti pendenti di tutte le annate (anche ulteriori rispetto al finanziamento) sino all'estinzione del credito garantito; in ragione di tale natura, siffatto privilegio legale speciale – diversamente dal privilegio convenzionale previsto dall'art. 46 dello stesso d. lgs. n. 385 del 1993 – è opponibile ai terzi che abbiano acquistato il fondo successivamente al finanziamento unicamente sulla base della norma generale di cui all'art. 2747, comma 2, c.c., non richiedendo a tal fine la trascrizione della prelazione nel registro ex art. 1524, comma 2, c.c. né altra forma di pubblicità. 3. Pegno. Della peculiare figura del pegno rotativo in relazione agli strumenti di tutela dei creditori in sede di procedure concorsuali si è occupata Sez. 1, n. 13508/2015, Di Virgilio, Rv. 635688: il patto di rotatività del pegno costituisce fattispecie a formazione progressiva che trae origine dall'accordo scritto e di data certa delle parti, cui segue la sostituzione dell'oggetto del pegno, 305 CAP. XV - LE GARANZIE REALI senza necessità di ulteriori stipulazioni e con effetti ancora risalenti alla consegna dei beni originariamente dati in pegno, a condizione che nella convenzione costitutiva tale possibilità di sostituzione sia prevista espressamente, e purché il bene offerto in sostituzione non abbia un valore superiore a quello sostituito; ne consegue, ai fini dell'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare, che la continuità dei rinnovi fissa la genesi del diritto reale di garanzia al momento della stipulazione originaria e non a quello successivo della sostituzione del bene. 4. Ipoteca. Connotato peculiare dell'ipoteca, in forza dell'art. 2809 c.c., è la specialità, oggettiva e soggettiva, naturale corollario del principio di determinatezza della garanzia: per la validità del vincolo ipotecario sono necessarie l'indicazione del credito garantito e la specificazione della somma dovuta. Sul punto, si segnala Sez. 2, n. 03221/2015, Parziale, Rv. 634352: in tema di iscrizione ipotecaria, la regola per cui il titolo deve essere sufficiente ed adeguato a dare contezza dell'esistenza e dell'individuabilità del credito garantito, trovando il suo fondamento nell'impossibilità di costituire un'ipoteca per debiti non attuali (fatti salvi, atteso l'art. 2852 c.c., i crediti condizionali o quelli che possano eventualmente nascere in dipendenza di un rapporto), non si applica relativamente ad un credito riconosciuto come già esistente da colui che concede la garanzia. Come è noto, l'ipoteca si costituisce mediante iscrizione nei registri immobiliari compiuta sulla base di un titolo che, nei diversi tipi di ipoteca, può essere rappresentato dalla volontà delle parti (ipoteca volontaria), dalla previsione di legge (ipoteca legale) oppure da una sentenza di condanna o da uno degli altri provvedimenti ai quali la legge attribuisce tale effetto (ipoteca giudiziale). L'iscrizione – vera e propria condizione di efficacia della garanzia, tra le parti e verso i terzi – si effettua presentando una copia del titolo ed una nota di iscrizione, recante, a pena di invalidità dell'ipoteca, gli elementi essenziali di identificazione della garanzia previsti dall'art. 2839 c.c., concernenti l'identità del debitore e del creditore, l'ammontare del credito tutelato e il bene immobile dato in garanzia. Circa possibili inesattezze della nota o difformità rispetto al titolo, secondo Sez. 3, n. 02075/2015, Rubino, Rv. 644339, l'eventuale inserimento per errore nella nota di iscrizione di un elemento non essenziale, quale il termine di efficacia dell'ipoteca, non previsto dal titolo ed inferiore a quello fissato dall'art. 2847 c.c., 306 CAP. XV - LE GARANZIE REALI non è idoneo a connotare il diritto ipotecario, che invece resta conforme al titolo e rispetto al quale la nota ha funzione solo strumentale, suscettibile di rettifica per tale errore, così da rendere chiaro ai terzi che l'iscrizione ipotecaria è soggetta all'ordinario termine ventennale previsto dalla norma. Quanto agli effetti della ipoteca in sede di espropriazione forzata, degne di menzione sono: - Sez. 3, n. 08696/2015, Ambrosio, Rv. 635207, per la quale l'estensione del privilegio ipotecario agli interessi, in conformità alle condizioni indicate dall'art. 2855, commi 2 e 3, c.c., opera anche in relazione all'espropriazione immobiliare individuale relativa ai crediti per mutuo fondiario soggetti alla disciplina del r.d.l. 16 luglio 1905, n. 646, come integrata dal d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7 e dalla legge 6 giugno 1991, n. 175, sicché l'iscrizione di crediti per il capitale fa collocare nello stesso grado anche il credito per interessi maturato, ma soltanto nella misura legale, limitatamente alle due annate anteriori e a quella in corso alla data del pignoramento; - Sez. 2, n. 06082/2015, Barreca, Rv. 634890, la quale, in tema di surrogazione di ipoteca, riconosce al creditore surrogante che spieghi intervento nel processo esecutivo dopo la vendita del bene e l'emissione del decreto di trasferimento, il diritto di partecipare alla distribuzione della somma ricavata con la prelazione spettante all'originario creditore ipotecario, senza necessità di annotazione della vicenda traslativa ex art. 2843 c.c., atteso che, per effetto della vendita forzata, la garanzia reale si trasferisce sul prezzo e la surrogazione è, di per sé sola, sufficiente a trasferire il diritto di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo. Su istanza di qualsiasi parte interessata, corredata dalla presentazione del titolo giustificante il venir meno dei presupposti per l'iscrizione, il conservatore dei registri immobiliari è tenuto alla cancellazione dell'ipoteca; qualora opponga un ingiustificato rifiuto, l'art. 2888 cod. civ. consente al richiedente di esperire una procedura giudiziale nelle forme del rito camerale (quindi celere e semplificata rispetto all'ordinario processo di cognizione), articolata su un reclamo al Tribunale ed eventuale impugnazione, ancora con reclamo, alla Corte di Appello. Ad avviso di Sez. 6-3, n. 03279/2015, Barreca, Rv. 634483, siffatto decreto della Corte di Appello – reso all'esito di un procedimento privo di natura contenziosa, essendo l'istante unica parte e non avendo ad oggetto la risoluzione di un conflitto di interessi, bensì il regolamento, secondo legge, dell'interesse pubblico alla pubblicità immobiliare – non è suscettibile di passare in giudicato (ed è pertanto 307 CAP. XV - LE GARANZIE REALI inammissibile il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost. avverso lo stesso), potendo le parti agire in via contenziosa per ottenere una pronuncia sull'esistenza del loro diritto alla cancellazione o sull'inesistenza del diritto all'iscrizione in capo a colui che l'abbia chiesta ed ottenuta. 308 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO PARTE QUINTA IL DIRITTO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA CAPITOLO XVI IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO (di Stefania Billi, Luigi Di Paola, Ileana Fedele)* SOMMARIO: 1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. – 1.1. Patto di prova. – 1.2. Gli indici della subordinazione. – 2. Lavoro flessibile e precario. – 2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. – 2.1.1. L'indicazione delle causali per la legittima apposizione del termine. – 2.1.2. I contratti a termine nel settore postale ex art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. – 2.1.3. L'assunzione a termine dei lavoratori in mobilità, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223. – 2.1.4. Il contratto di arruolamento marittimo a tempo determinato ex art. 326 cod. nav. – 2.1.5. Il contingentamento. – 2.1.6. La decadenza ex art. 32, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183. – 2.1.7. L'indennità omnicomprensiva ex art. 32, commi 5-7, legge 4 novembre 2010, n. 183. – 2.1.8. Il contratto a termine nel pubblico impiego privatizzato. – 2.2. La somministrazione di lavoro. – 3. Inquadramento, mansioni, trasferimenti in generale. – 3.1. Lavoro subordinato privato. Mansioni. – 3.2. Lavoro subordinato privato. Trasferimenti. – 3.3. Imprese esercenti pubblici esercizi di trasporto. – 3.4. Pubblico impiego contrattualizzato. – 3.4.1. Mansioni. – 3.4.2. Inquadramenti. – 4. Contratto Collettivo. – 5. Retribuzione. – 6. Dimissioni. – 7. Mutuo consenso. – 8. Potere di controllo. – 9. Potere disciplinare – 10. Licenziamento individuale. – 10.1. Cessazione del rapporto e qualificazione dell'atto datoriale come licenziamento. – 10.2. Il principio generale di necessaria giustificazione. – 10.3. La decadenza dall'impugnazione. – 10.4. L'acquiescenza al licenziamento. – 10.5. L'onere della prova. – 10.6. Rilevanza dei motivi dedotti in giudizio a fondamento dell'illegittimità del licenziamento e poteri di rilevazione del giudice. – 10.7. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. – 10.8. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. – 10.9. Licenziamento discriminatorio o ritorsivo. – 10.10. Il superamento del periodo di comporto. – 10.11. Divieti di licenziamento. - 10.12. Le conseguenze economiche del licenziamento illegittimo. – 10.13. Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro. – 10.14. Il licenziamento ingiurioso. – 10.15. Applicazioni della legge "Fornero". – 11. Licenziamenti collettivi. – 12. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. – 12.1. Sentenze delle Sezioni Unite. – 12.2. Procedure concorsuali. – 12.3. Contratti collettivi - Questioni interpretative. – 12.4. Retribuzione. – 12.5. Indennità varie. – 12.6. Trattamento economico e di quiescenza. – 12.7. Collocamento a riposo d'ufficio - Licenziamento - Responsabilità per danni. – 12.8. Potere disciplinare. – 12.9. Incarichi dirigenziali. – 12.10. Lavoro pubblico negli enti locali. – 12.11. Equo indennizzo. – 12.12. Trasformazione di enti. – 12.13. Passaggio ad altra amministrazione. – 12.14. Autoferrotranvieri. – 13. Agenzia. * Stefania Billi i paragrafi 3, 4, 5, 8, 12, 13; Luigi Di Paola i paragrafi 9, 10, 11; Ileana Fedele i paragrafi 1, 2, 6, 7. 309 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 1. Costituzione del rapporto di lavoro e qualificazione come lavoro subordinato. Le pronunce di maggiore interesse in tema di costituzione del rapporto di lavoro attengono principalmente all'apposizione del patto di prova, segnalandosi anche alcune decisioni sui criteri sintomatici della subordinazione in situazioni particolari (familiarità e convivenza; associazione in partecipazione con apporto di lavoro). 1.1. Patto di prova. Sul livello di specificità del patto di prova - in riferimento alla necessità di individuare le mansioni da espletare - Sez. L, n. 00665/2015, Roselli, Rv. 633856, ha assunto un indirizzo più elastico rispetto al precedente costituito da Sez. L, n. 17045/2005, Amoroso, Rv. 583374, reputando sufficiente il riferimento alla categoria lavorativa prevista dal contratto collettivo in quanto consente l'assegnazione del lavoratore ad uno dei plurimi profili rientranti in essa, in chiave di tutela del lavoratore, che può trovare ‹‹maggiori opportunità di utilizzazione in azienda, specie se affetto da una minorazione di salute››. E' confermata la funzione tipica dell'istituto, a tutela dell'interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto, con conseguente illegittimità della ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti, in carenza di esigenze di ulteriore vaglio dell'affidabilità professionale del lavoratore (Sez. L, n. 15059/2015, Manna A., Rv. 636242), ovvero nell'ipotesi in cui la verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni - ancorché diversamente denominate - e per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro o ‹‹anche a favore di datore di lavoro-appaltatore, precedente titolare dello stesso contratto d'appalto, se così stabilisca il contratto collettivo›› (Sez. L, n. 17371/2015, Roselli, Rv. 636576). In linea con l'indirizzo già assunto con Sez. L, n. 21784/2009, Napoletano, Rv. 610072, l'apposizione del patto di prova rispetto all'assunzione di invalido in base alla legge 2 aprile 1968, n. 482 consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto in virtù di valutazione negativa dell'esperimento in corso, con esclusione della disciplina limitativa dei licenziamenti, salva la contestazione da parte del lavoratore dell'illegittimità dell'atto per elusione della normativa sull'assunzione obbligatoria (Sez. L, n. 00469/2015, De Renzis, Rv. 634090). Quanto all'esplicazione effettiva della prova, Sez. L, n. 04347/2015, Doronzo, Rv. 634320, dando continuità all'orientamento che attribuisce prevalenza alle previsioni della 310 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO contrattazione collettiva in materia (Sez. L, n. 04573/2012, Stile, Rv. 622590, in senso conforme, Sez. L, n. 19043/2015, Tricomi, Rv. 637190), ha interpretato l'espressione ‹‹effettivo lavoro prestato›› - di cui all'art. 69 del c.c.n.l. del personale degli istituti di vigilanza privata del 6 dicembre 2006 - nel senso di ricomprendere nel computo del periodo di prova solo i giorni in cui il lavoratore ha effettivamente prestato la sua opera, con esclusione di tutti gli altri, compresi quelli di riposo. Infine, in ordine alla durata del periodo di prova, Sez. L, n. 21874/2015, Nobile, in corso di massimazione, ha riaffermato un principio risalente (Sez. L, n. 03625/1975, Chessa, Rv. 377821 e 377822), secondo cui l'art. 4 r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, che fissa la durata massima di tre mesi per il periodo di prova degli impiegati che non siano institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi e impiegati di grado e funzioni equivalenti, non è stato abrogato dall'art. 2096 c.c. né dall'art. 10 legge 15 luglio 1966, n. 604, e non è suscettibile di deroga da parte della contrattazione collettiva, trattandosi di norma imperativa. 1.2. Gli indici della subordinazione. Nella difficile valutazione dei criteri atti a discernere la natura subordinata del rapporto, si segnalano alcune decisioni emesse con riferimento a situazioni in cui, per la loro peculiarità, l'accertamento del giudice di merito rischia di essere più arduo. In particolare, nel caso di attività lavorativa di un familiare in ambito societario occorre avere riguardo alle concrete modalità della prestazione nel contesto aziendale, dovendosi ravvisare la subordinazione in base ad una serie di indici sintomatici - emersi a seguito dell'istruttoria svolta - quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (Sez. L, n. 14434/2015, Patti, Rv. 636064). Analogamente, nel caso di rapporto caratterizzato da un legame affettivo e di familiarità tra due persone, la presunzione di gratuità della prestazione lavorativa di tipo domestico può essere superata fornendo la prova dell'esistenza del vincolo di subordinazione apprezzabile in riferimento alla qualità e quantità delle prestazioni svolte ed alla presenza di direttive, controlli ed indicazioni da parte del datore di lavoro (Sez. L, n. 12433/2015, Venuti, Rv. 635854). 311 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO In apparenza fondata su premesse opposte – ma conforme nella sostanza, laddove si reputa dirimente l'accertamento sull'effettiva realtà del rapporto inter partes – Sez. L, n. 19304/2015, Patti, Rv. 637263, secondo cui la presunzione di onerosità di un'attività lavorativa prestata da persona legata da relazione sentimentale per un prolungato periodo e con caratteristiche proprie della subordinazione può essere superata, riconducendo il rapporto ad una diversa causale (affectionis vel benevolentiae causa), ove si dimostri la finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, stante la comunanza di vita e di interessi tale da realizzare una partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alle risorse della famiglia di fatto. La prevalenza della realtà effettuale sull'eventuale diversa qualificazione del rapporto effettuata dalle parti è riaffermata, in continuità con il consolidato orientamento sul tema, da Sez. L, n. 07024/2015, Buffa, Rv. 635128, che, nel caso di un contratto di collaborazione autonoma sottoscritto per svolgimento dell'attività di pizzaiolo, ha attribuito rilievo dirimente - come indici rivelatori della natura subordinata del rapporto - ad elementi fattuali quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali. Analogamente, nel caso di dipendenti postali, il rapporto di lavoro è stato qualificato in termini di subordinazione, nonostante la sottoscrizione di un contratto di lavoro autonomo ai sensi del d.p.r. 19 luglio 1960, n. 1816, in presenza di stabile inserimento nell'organizzazione aziendale e messa a disposizione delle energie lavorative per l'intero orario di apertura dell'ufficio sotto la vigilanza dei superiori (Sez. L, n. 18670/2015, Buffa, Rv. 637237). Anche nel caso del contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato la distinzione con il contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili è determinata dalla verifica – rimessa al giudice di merito – delle modalità di attuazione in concreto del rapporto, onde accertare la prevalenza degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che 312 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO assume le scelte di fondo dell'organizzazione aziendale (Sez. L, n. 01692/2015, Buffa, Rv. 634527, che ha confermato la decisione di merito che aveva valorizzato l'ampia autonomia dell'associato - privo di vincoli di orario - nella gestione del rapporto con i fornitori e nella fissazione di prezzi e condizioni di vendita delle merci, nell'assenza di controllo da parte dell'associante sulle presenze dell'associato, nella partecipazione di questi agli utili ed alle perdite in relazione all'andamento dei singoli esercizi, per ravvisare un'associazione in partecipazione). Su un diverso piano – con conseguente inammissibilità della prospettazione effettuata solo in sede di legittimità - si pone invece la deduzione diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni di cui all'art. 86, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (ratione temporis applicabile), disposizione che non ha introdotto nel nostro ordinamento una forma di conversione legale del contratto di associazione in partecipazione in contratto a lavoro subordinato, ma ha soltanto previsto - in funzione integrativa della disciplina dell'associazione in partecipazione - che, ove detto contratto sia stato stipulato con finalità elusive delle norme di legge e di contrattazione collettiva a tutela del lavoratore, all'associato si applichino le più favorevoli disposizioni previste per il lavoratore dipendente (Sez. L, n. 02371/2015, Buffa, Rv. 634280). Occorre, peraltro, segnalare che, verosimilmente proprio per la difficoltà di discernere le due figure e con finalità antielusiva, il legislatore ha inteso precludere per il futuro la stessa possibilità dell'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, ormai fattispecie ad esaurimento, secondo l'art. 53 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in tema di ‹‹Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183››. 2. Lavoro flessibile e precario. La maggior parte delle pronunce concerne, in linea di continuità con i dati registrati negli anni passati, la tipologia del contratto a tempo determinato, segnalandosi, comunque, alcune pronunce relative al contratto di somministrazione di manodopera. 2.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato. Sulla disciplina del contratto a termine, già modificata dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, mediante l'introduzione nel sistema del contratto acausale della durata di un anno, e poi - in maniera più incisiva - con il d.l. 20 marzo 2014, n. 34, conv. in legge 16 maggio 313 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 2014, n. 78, ampliando l'estensione della predetta durata fino a tre anni, il legislatore è intervenuto nuovamente in sede di attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (in particolare: art. 1, comma 7, lett. a), relativo all'individuazione di tutte le forme contrattuali esistenti, in chiave di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali), provvedendo a rielaborare, per lo più in modo meramente ricognitivo, la normativa di settore, ormai contenuta negli artt. 19-29 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, stante la pressoché totale abrogazione del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, disposta dall'art. 55 d.lgs. n. 81 del 2015. 2.1.1. L'indicazione delle causali per la legittima apposizione del termine. Con riferimento al pregresso regime è ancora notevole il contenzioso che concerne la verifica delle condizioni per la legittima apposizione del termine, con particolare riferimento all'indicazione delle causali giustificative ed all'onere di specificazione delle stesse. In ordine alle ragioni sostitutive Sez. L, n. 00208/2015, Balestrieri, Rv. 634001, in continuità con l'indirizzo più elastico aperto da Sez. L, n. 01576/2010, Di Cerbo, Rv. 611548, ha escluso che il datore di lavoro abbia l'onere di procedere alla formalizzazione delle predette ragioni con particolare riferimento alla temporaneità dell'esigenza posta a giustificazione dell'assunzione, ma solo quello di indicare in modo circostanziato e puntuale le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle sue esigenze, nell'ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze che la stessa sia chiamata a realizzare, nonché l'utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa (nel caso di specie, secondo la Corte di legittimità la sentenza di merito non aveva adeguatamente valutato l'indicazione del termine iniziale e finale del rapporto, del luogo di svolgimento della prestazione e delle mansioni del personale da sostituire). D'altro canto, Sez. L, n. 19924/2015, Bandini, Rv. 637248, ha precisato che, nel caso di ragioni di carattere sostitutivo, rileva unicamente il dato oggettivo della sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, pur se la circostanza sia riconducibile ad una scelta organizzativa del datore (la fattispecie concerneva un caso in cui il datore di lavoro aveva 314 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO concesso al lavoratore sostituito un distacco, la cui temporaneità implicava il diritto alla conservazione del posto). Quanto al requisito della sufficiente specificazione della causale, Sez. L, n. 01170/2015, Amoroso, Rv. 634299, ha affermato la possibilità di indicare il termine e le sue ragioni giustificatrici attraverso il riferimento, contenuto nel contratto, all'attività, di natura temporanea, posta a fondamento dell'assunzione a tempo determinato (nella specie, era stata adotta la necessità assumere un'insegnante per l'inserimento e l'integrazione di un bambino portatore di handicap). E' stata inoltre ribadita la legittimità della prassi del rinvio per relationem a documenti diversi dal contratto sottoscritto dalle parti, secondo la linea interpretativa di Sez. L, n. 02279/2010, Ianniello, Rv. 611946, e Sez. L, n. 08286/2012, Mammone, Rv. 622468. In particolare, Sez. L, n. 00343/2015, Tricomi, Rv. 634276, e Sez. L, n. 02680/2015, Nobile, Rv. 634282, hanno cassato le sentenze di merito che non avevano adeguatamente valutato gli accordi collettivi richiamati dai contratti individuali. Va, però, segnalato che secondo Sez. L, n. 17155/2015, Bandini, Rv. 636723, il rinvio per relationem ad altri testi richiamati nel contratto di lavoro è legittimo solo se il rinvio non sia stato effettuato per finalità diverse dalla specificazione delle ragioni giustificatrici (con accertamento riservato al giudice di merito). Ancora con riferimento all'onere di specificazione, Sez. L, n. 22931/2015, Ghinoy, in corso di massimazione, ha ritenuto che, nei contratti a termine stipulati dalla RAI non è sufficiente la sola indicazione del programma e della stagione televisiva a cui sarà addetto il lavoratore poiché la realizzazione di programmi radiotelevisivi costituisce la normale attività imprenditoriale della datrice di lavoro, con la precisazione che trattavasi di contratto intercorso dal 30 marzo 2004 al 22 maggio 2004, rispetto al quale il quadro normativo all'epoca vigente non contemplava né l'esclusione dal campo di applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001 dei contratti stipulati ‹‹per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi›› (introdotta a decorrere dal l gennaio 2008 con la modifica dell'art. 10 d.lgs. n. 368 del 2001 operata dall'art. 1 comma 41 lett. a), della legge 24 dicembre 2007, n. 247), né la precisazione che le esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive che legittimano l'apposizione del termine possono attenere anche all'‹‹ordinaria attività del datore di lavoro›› (introdotta nell'art. 1 comma 1 del citato d.lgs. n. 368 dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. nella legge 6 agosto 2008, n. 133). 315 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 2.1.2. I contratti a termine nel settore postale ex art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Di particolare rilievo Sez. L, n. 13609/2015, Bandini, Rv. 635723, che, risolvendo un aspetto controverso nella giurisprudenza di merito, ha affermato chiaramente che al fine di valutare la legittimità del termine apposto ai contratti stipulati ex art. 2, comma 1 bis, del d.lgs. n 368 del 2001, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali (sull'organico aziendale) e di comunicazione previsti dalla disposizione citata, senza che assumano rilievo le mansioni svolte dal lavoratore assunto, atteso che la norma (che ha superato positivamente il vaglio di costituzionalità con sentenza n. 214 del 2009) fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l'assunzione (quelle concessionarie di servizi e settori delle poste), in coerenza con la ratio stessa della previsione individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del "servizio universale" postale, ai sensi dell'art. 1, comma 1, del d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore. E' stata, tuttavia, nuovamente revocata in dubbio la legittimità della disposizione in esame, sotto il profilo della compatibilità con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, con particolare riferimento alla violazione della clausola 5 dell'accordo citato, in tema di prevenzione degli abusi. A seguito della sentenza della Corte di giustizia, 3 luglio 2014, C-362/13, C-363/13 e C- 407/14, in tema di successione di contratti di arruolamento a tempo determinato ai sensi dell'art. 326 cod. nav., con ordinanza interlocutoria n. 18782/2015, Bandini, la Sez. L ha rimesso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sez. U la questione se sia adeguata la misura della previsione di una durata massima dei contratti a tempo determinato successivi (trentasei mesi) ovvero si renda necessario rispettare - fra la stipula di un contratto a termine e l'altro, a norma della disposizione in commento – anche l'intervallo minimo previsto in via generale per il caso di riassunzione dall'art. 5, comma 3, d.lgs. n. 368 del 2001. 316 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 2.1.3. L'assunzione a termine dei lavoratori in mobilità, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223. Con riferimento all'assunzione a termine dei lavoratori in mobilità, ai sensi dell'art. 8, comma 2, ella legge 23 luglio 1991, n. 223, Sez. L, n. 22639/2015, in corso di massimazione, in continuità con l'interpretazione di cui già a Sez. L, n. 03374/2003, La Terza, Rv. 560946, e Sez. L, n. 16871/2008, Ianniello, Rv. 603658, ha affermato che il termine di dodici mesi previsto nella citata disposizione, non è riferito all'agevolazione contributiva, ma alla durata massima del contratto a tempo determinato, avendo il legislatore introdotto una fattispecie di assunzione a termine autonoma ed ulteriore rispetto alle ipotesi di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 230, in quanto connessa ad una causale di carattere soggettivo, con l'unico limite del carattere temporale della durata massima di dodici mesi. 2.1.4. Il contratto di arruolamento marittimo a tempo determinato ex art. 326 cod. nav. Sez. L, n. 00059/2015, Manna A., Rv. 634293 si è pronunciata in sede di riassunzione da rinvio pregiudiziale a seguito di Corte di giustizia, sentenza 3 luglio 2014, C-362/13, affermando la compatibilità dell'art. 326 cod. nav., in tema di arruolamento marittimo a tempo determinato, con la clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, sul rilievo che la previsione della conversione in contratto a tempo indeterminato in caso di successione ininterrotta di una pluralità di contratti a termine per una durata superiore all'anno costituisce misura adeguata ad assicurare l'effettività della prevenzione degli abusi, salvo che il giudice, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto (numero dei contratti di lavoro a tempo determinato, arco temporale complessivo in cui si sono succeduti, etc.) giunga a ravvisare un'ipotesi di frode alla legge ex art. 1344 c.c. 2.1.5. Il contingentamento. Con riferimento all'assunzione a termine, ai sensi dell'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, in continuità con Sez. L, n. 00839/2010, Lamorgese A., Rv. 611544, alcune decisioni (Sez. 6-L, n. 01351/2015, Fernandes, Rv. 634269 e Sez. L, n. 04764/2015, Tria, Rv. 634621) hanno confermato il principio per cui l'onere della prova dell'osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva - da verificarsi necessariamente sulla base dell'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato - è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la 317 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dimostrazione, in virtù dell'art. 3 della legge n. 230 del 1962, dell'oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro. 2.1.6. La decadenza ex art. 32, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183. Sui problemi interpretativi insorti in merito all'introduzione del regime decadenziale ex art. 32, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183, Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, in corso di massimazione, ha affermato che, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, art. 1, comma 54, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge di conversione 26 febbraio 2011, n. 10, la proroga al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore della disciplina delle decadenze si applica anche a tutti i contratti ai quali tale regime è esteso, sicché il differimento opera pure per le decadenze già maturate, tenuto conto della ratio legis di attenuare le conseguenze, in danno dei lavoratori, cagionate dalla ristrettezza di un termine decadenziale introdotto ex novo, con la rimessione in termini di tutti coloro che fossero medio tempore decaduti - nel breve intervallo temporale tra il 24 novembre 2010 e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta in giorni per l'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale) - e l'assegnazione anche ai titolari dei rapporti già esauriti di un congruo periodo. 2.1.7. L'indennità omnicomprensiva ex art. 32, commi 5- 7, legge 4 novembre 2010, n. 183. La legittimità dell'indennità omnicomprensiva di cui all'art. 32, commi 5-7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, già positivamente vagliata con particolare riferimento all'ordinamento sovranazionale da Sez. L, n. 06735/2014, Bandini, Rv. 629999, rispetto all'art. 6 CEDU, e da Sez. L, n. 07372/2014, Bronzini, Rv. 630088, rispetto al principio di non discriminazione, è stata affermata da Sez. L, n. 00151/2015, Lorito, Rv. 634228, anche in ordine alla clausola 8.3 (cd. "di non regresso") dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato già citato, in quanto è stato sottolineato come l'introduzione di un'indennità comunque dovuta a prescindere da un danno effettivo - parametrata tra un minimo ed un massimo - non sia automaticamente ovvero necessariamente meno favorevole del sistema previgente, in cui la liquidazione del risarcimento andava effettuata dal giudice caso per caso e con decurtazione dell'aliunde perceptum e percipiendum. 318 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Sotto altro profilo, la medesima pronuncia (Sez. L, n. 00151/2015, Lorito, Rv. 634227) ha affermato il principio secondo cui l'indennità in questione, di natura forfetizzata ed omnicomprensiva, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cd. "intermedio", che decorre dalla scadenza del termine sino alla sentenza di conversione, disattendendo espressamente quell'interpretazione - avanzata in alcune pronunce di merito - secondo cui essa coprirebbe solo il periodo dalla scadenza del termine fino al deposito del ricorso di primo grado. Il medesimo principio è stato ribadito anche da Sez. L, n. 14461/2015, Doronzo, Rv. 636458. D'altro canto, in continuità con la linea interpretativa seguita da Sez. L, n. 13630/2014, Patti, Rv. 631765, il carattere omnicomprensivo dell'indennità ex art. 32 cit. è stato delimitato da Sez. 6-L, n. 00262/2015, Marotta, Rv. 634071, nel senso che essa comprende tutti i danni, retributivi e contributivi, subiti dal lavoratore per gli "intervalli non lavorati" mentre, per i "periodi lavorati" spetta, oltre alla retribuzione maturata, anche il riconoscimento dell'anzianità di servizio e, dunque, la maturazione degli scatti di anzianità. Il tema più controverso è, però, senz'altro rappresentato dai limiti di applicabilità della disposizione in questione, come ius superveniens, ai giudizi pendenti, con particolare riferimento al processo in cassazione. Infatti, con ordinanza interlocutoria n. 14340/2015, Bandini, la Sezione Lavoro ha rimesso al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sez. U, la questione di massima di particolare importanza circa la possibilità (e le relative modalità di esercizio del diritto di impugnazione in sede di legittimità) di ottenere il riconoscimento in cassazione dello ius superveniens, espressamente dichiarato applicabile ai giudizi in corso, la cui entrata in vigore sia successiva alla pronuncia resa in appello, ma anteriore alla proposizione del ricorso. Nell'ordinanza si segnala in proposito un contrasto riscontrato all'interno della Sez. L fra chi ritiene sufficiente la proposizione di uno specifico motivo di ricorso - ancorché unico - nel quale si chiede l'applicazione della normativa sopravvenuta (quale mezzo idoneo ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza sul punto) e chi, invece, reputa necessario che il ricorso investa specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità della clausola di durata (altrimenti si consentirebbe la proposizione del ricorso per cassazione in casi diversi da quelli tassativamente previsti dall'art. 360 c.p.c., limitati ai 319 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO vizi di motivazione o di error in iudicando o in procedendo della sentenza di merito). Nell'ambito della questione principale, viene altresì evidenziato un secondo aspetto controverso, concernente la corretta individuazione del giudicato interno sul capo della sentenza che provvede a regolare le conseguenze risarcitorie dell'illegittima apposizione del termine: infatti, secondo alcune pronunce la proposizione di doglianze relative alla dichiarata nullità del termine sarebbe sufficiente ad escludere il giudicato anche in assenza di specifica impugnazione delle (dipendenti) statuizioni sulle poste economiche; viceversa, secondo altre decisioni l'applicabilità dello ius superveniens sarebbe condizionata dall'esito delle censure proposte sull'illegittimità del termine, in quanto solo nell'ipotesi di accoglimento delle stesse la conseguente decisione sul quantum verrebbe ad essere travolta. Infine, merita di essere segnalata, per la novità della questione, Sez. L, n. 21069/2015, Nobile, in corso di massimazione, che, anche in virtù di interpretazione costituzionalmente orientata (in particolare rispetto all'art. 6 CEDU), ha affermato la perdurante applicabilità dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010, benché abrogati dall'art. 55, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 81 del 2015, ai contratti in corso alla data di entrata in vigore del citato decreto (25 giugno 2015), stante il carattere innovativo della disciplina di cui all'art. 28 d.lgs. n. 81 del 2015, l'assenza di specifica disposizione transitoria che ne preveda la retroattività nonché la natura sostanziale e non meramente processuale della norma (riguardante le tutele nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato). 2.1.8. Il contratto a termine nel pubblico impiego privatizzato. Fra le questioni di maggiore interesse va senz'altro segnalata quella posta con l'ordinanza interlocutoria n. 16363/2015, Blasutto, di rimessione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, in ordine alla definizione, portata applicativa e parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (questione che investe entrambe le componenti del danno risarcibile, ‹‹precisamente, sia quella riferibile alla riparazione del pregiudizio sofferto dal lavoratore per la mancata conversione del rapporto di lavoro, sia quella configurabile come una vera e propria sanzione a carico della Pubblica Amministrazione per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti››), evidenziando altresì il contrasto registrato sui criteri di liquidazione da adottare. Quanto al primo aspetto, nell'ordinanza interlocutoria sono state richiamate le 320 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO indicazioni della Corte di giustizia, sentenza 7 settembre 2006, C- 53/04, circa l'astratta compatibilità della normativa interna - preclusiva della costituzione del rapporto a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione - purché sia assicurata altra misura effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste nell'ordinamento interno per situazioni analoghe. Quanto al secondo profilo, nell'ordinanza interlocutoria sono stati esposti i diversi parametri di liquidazione del danno adottati nella giurisprudenza di merito (essenzialmente, quello ex art. 18, commi 4 e 5, st.lav. nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92) ed in alcune decisioni della Suprema Corte (Sez. L, n. 19371/2013, Manna A., Rv. 628401, che ha ancorato la determinazione del risarcimento all'art. 32, commi 5- 7, legge n. 183 del 2010, e Sez. L, n. 27481/2015, Tria, Rv. 634073, che ha utilizzato come criterio di liquidazione quello indicato dall'art. 8 legge n. 604 del 1966), prospettando la necessità di un intervento nomofilattico. In riferimento ai rapporti di lavoro alle dipendenze di enti pubblici locali, Sez. L, n. 00849/2015, Amendola F., Rv. 634201, ha escluso, in forza dell'art. 110, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, la possibilità di copertura, con contratto a tempo determinato, di posti ricompresi "in pianta organica" (quali quelli relativi a responsabili dei servizi o degli uffici e a qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione) in difetto di apposita previsione statutaria, reputando inidonea una mera disposizione regolamentare (che potrebbe invece legittimare la stipulazione di contratti a termine "al di fuori della dotazione organica", a norma del comma 2 della citata disposizione). Diverse le pronunce di interesse sul nutrito contenzioso originato dalla stabilizzazione del personale precario della Croce Rossa Italiana. Infatti, riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell'art. 1, comma 519, legge 27 dicembre 2006, n. 296, per gli aspiranti alla stabilizzazione che abbiano già sostenuto "procedure selettive di tipo concorsuale" (trattandosi di controversie sul "diritto all'assunzione", di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001: Sez. L, n. 20098/2015, Amoroso, in corso di massimazione), Sez. L, n. 22128/2015, Esposito L., in corso di massimazione, rispetto al principio affermato da Sez. L, n. 26044/2014, Napoletano, Rv. 635123, (secondo cui il personale dipendente a tempo determinato della Croce Rossa Italiana in possesso dei requisiti previsti dall'art. 1, comma 519, della legge n. 321 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 296 del 2006, ha diritto alla stabilizzazione, senza che ad essa osti la mancata richiesta, da parte dell'ente, dell'autorizzazione governativa, trattandosi di diritto sancito da fonte normativa di rango primario), ha ritenuto che ‹‹in ragione della limitatezza delle risorse finanziarie previste dal fondo di cui al citato L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519, deve escludersi che l'ente sia tenuto a stabilizzare tutto il suo personale precario sol che ricorrano i requisiti di cui alla predetta disciplina››; sicché, pur escludendosi ogni automatismo, il datore di lavoro che, in presenza dei requisiti normativamente prescritti, ometta di chiedere l'autorizzazione necessaria sarà responsabile per l'inadempimento, con conseguente diritto del dipendente alla tutela risarcitoria, ‹‹non già in ragione della mancata assunzione, ma per la violazione del diritto alla partecipazione alla procedura››. D'altro canto, Sez. L, n. 06868/2015, Amoroso, Rv. 635133, ha dichiarato il bando dell'ente del 15 novembre 2007 (anteriore alla riforma dell'ente Croce Rossa Italiana, attuata con il d.lgs. 28 settembre 2012, n. 178), in contrasto con i principi di eguaglianza e di non discriminazione nel rapporto di lavoro, per aver previsto una differenziazione a vantaggio del personale in servizio presso l'ente stesso rispetto a quello distaccato presso altri enti non consentita dalla procedura di stabilizzazione di cui all'art. 1, comma 519, della legge n. 296 del 2006. 2.2. La somministrazione di lavoro. In continuità con l'indirizzo assunto da Sez. L, n. 15610/2011, Berrino, Rv. 618730, e confermato da Sez. L, n. 06933/2012, Curzio, Rv. 622571, è stato ribadito (Sez. 6-L, n. 21916/2015, Arienzo, in corso di massimazione) che il controllo giudiziale – inammissibile come sindacato di merito delle scelte tecniche, organizzative e produttive dell'utilizzatore, ai sensi dell'art. 27 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 - va centrato sulla verifica dell'effettività delle ragioni che giustificano il ricorso alla somministrazione; verifica cui, sotto il profilo del requisito di forma ex art. 21, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 276 del 2003, è preordinato l'onere di sufficiente specificazione delle ragioni che consentono, ai sensi dell'art. 20, comma 4, del citato testo normativo, il ricorso alla somministrazione di lavoro (nel caso di specie è stato confermato il giudizio di insufficienza di ragioni prive di specificazione in ordine a componenti identificativi essenziali, quali i processi organizzativi in atto, le esigenze produttive o di sostituzione di personale assente). Sul regime decadenziale ex art. 6 della legge n. 604 del 1966, esteso alla somministrazione di lavoro dall'art. 32, comma 4, della legge n. 183 del 2010, la medesima pronuncia ha precisato che la 322 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO disposizione si applica ai soli contratti a termine in somministrazione in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa (24 novembre 2010), e non anche a quelli già scaduti a tale data, in assenza di una previsione analoga a quella dettata per i contratti a termine in senso stretto. 3. Inquadramento, mansioni trasferimenti in generale. Le pronunce al riguardo risultano molto numerose nel settore del pubblico impiego contrattualizzato. Nel lavoro privato, la Suprema Corte ha avuto occasione di effettuare alcune puntualizzazioni sulla portata applicativa dell'art. 2103 c.c. che determinano un forte avvicinamento dell'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità alle recenti modifiche introdotte dal legislatore in materia con il cd. Jobs Act. Si rinvengono, inoltre, pronunce in tema di giudizio di equivalenza, di oneri probatori, di rapporti tra lo svolgimento delle mansioni e l'inidoneità per motivi di salute, nonché in materia di trasferimenti. 3.1. Lavoro subordinato privato. Mansioni. Sull'ambito di applicazione dell'art. 2103 c.c., si segnala Sez. L, n. 23698/2015, Napoletano, in corso di massimazione, secondo cui la norma impone un giudizio di bilanciamento tra il diritto del datore alla realizzazione di un'efficiente e produttiva organizzazione aziendale e quello del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro. Deriva da tale principio che, nel caso in cui il demansionamento rappresenti l'unica alternativa al recesso datoriale, non è più necessario un patto di demansionamento o una richiesta in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, come in precedenza sostenuto da Sez. L, n. 06552/2009, Di Nubila. Costituisce, ormai, onere del datore, quale espressione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al lavoratore la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale. In ordine all'esercizio dello ius variandi, Sez. L, n. 09119/2015, Blasutto, Rv. 635349, ha precisato che, se il giudizio di equivalenza è un parametro per la valutazione dei compiti precedentemente adempiuti con sufficiente stabilità dal lavoratore, esso, tuttavia, non potrà mai costituire titolo per una sostanziale inamovibilità di settore, qualora le mansioni di nuova assegnazione siano coerenti con il bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore. Il presupposto, ai fini della sindacabilità in cassazione del giudizio di accertamento finalizzato alla determinazione dell'inquadramento, effettuato nella fase di merito, secondo Sez. L, 323 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO n. 08589/2015, Napoletano, Rv. 635313, è che la sentenza di rigetto sia stata censurata in ordine alla ritenuta mancanza di prova dell'attività dedotta dal ricorrente. Circa gli oneri probatori, in particolare, per il riconoscimento della qualifica dirigenziale, è stato ritenuto da Sez. L, n. 17123/2015, Bronzini, Rv. 636426 che il lavoratore deve, non solo, provare di aver svolto mansioni implicanti l'esercizio di poteri decisionali e direttivi propri di essa, ma anche effettuare una comparazione tra il livello di appartenenza ed il livello rivendicato e dimostrare l'inadeguatezza del primo in relazione all'attività svolta. Per altro verso, Sez. L, n. 19303/2015, Amendola F., Rv. 637247, ha ritenuto che l'inquadramento conseguito da un dirigente all'interno di una struttura produttiva non può essere trasposto meccanicamente all'interno di una struttura, anche del medesimo settore, di dimensioni diverse, e presso cui sia applicato un differente contratto collettivo, posto che, ai fini del corretto inquadramento, rilevano elementi di carattere quantitativo, come il numero dei dipendenti diretti o il volume degli affari trattati. Sotto il diverso profilo dello svolgimento di mansioni incompatibili con lo stato di salute del lavoratore, Sez. L, n. 08300/2015, Roselli, Rv. 635374, ha stabilito che il rifiuto del lavoratore di sottoporsi ad accertamenti medici, legittima il datore a sospendere la corresponsione della retribuzione, ai sensi dell'art. 1460 c.c. In tal caso, il dipendente è posto nell'alternativa tra il recesso dal contratto, ovvero la collaborazione, in forza dell'art. 1375 c.c., alla realizzazione della causa del contratto. A proposito del cd. riclassamento operato dalla contrattazione collettiva, è stata esclusa da Sez. L, n. 19037/2015, Amendola F., Rv. 637025 la violazione dell'art. 2103 c.c. quando le mansioni del lavoratore non mutino rispetto al precedente inquadramento, potendo realizzarsi la dequalificazione solo qualora il dipendente venga adibito a differenti mansioni, compatibili con la nuova classificazione, ma incompatibili con la sua storia professionale. In materia di dequalificazione professionale di un direttore di testata giornalistica, per Sez. L, n. 22930/2015, Roselli, in corso di massimazione, ai fini della prova del danno patrimoniale sono considerati idonei gli indici presuntivi dell'esistenza di un danno patrimoniale risarcibile, la durata del demansionamento, l'entità dello stesso in relazione alle mansioni in precedenza svolte, la preclusione della crescita professionale, il comportamento aziendale volutamente elusivo di un ordine del giudice. 324 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Per quanto riguarda l'aspetto risarcitorio Sez. L, n. 12253/2015, Amendola F., Rv. 635727 ha ritenuto ammissibile ed equa la liquidazione del danno basata sul parametro della retribuzione, in linea con quanto sostenuto da Sez. L, n. 07967/2002, De Matteis, Rv. 554812. Con riferimento alla fattispecie del distacco e in ipotesi di svolgimento di mansioni superiori presso il distaccatario, le conseguenze previste dall'art. 2103 c.c. si verificheranno in capo al distaccante, il quale, come ha sostenuto Sez. L, n. 17768/2015, Balestrieri, Rv. 636823, resta titolare del potere direttivo e dell'onere di vigilanza sull'esecuzione del rapporto, sulla scia di quanto chiarito da Sez. L, n. 26138/2013, Balestrieri, Rv. 628594. 3.2. Lavoro subordinato privato. Trasferimenti. In tema di trasferimento d'azienda, la Suprema Corte ha effettuato alcune importanti precisazioni a proposito della nozione, dei rapporti tra cedente e cessionario, di oneri probatori ed altri aspetti. In particolare, per Sez. L, n. 19141/2015, Napoletano, Rv. 637241, ai fini dell'applicazione dell'art. 2112 c.c., la nozione di ‹‹ramo d'azienda››, che presuppone una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma, trova conferma anche nella sentenza della Corte di Giustizia del 6 marzo 2014, in C-458/12. E' prevista, comunque, per le autorità nazionali la possibilità di estendere l'obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche nell'ipotesi di non preesistenza del ramo d'azienda, in forza dell'art. 1, par. 1, lett. a) e b), della citata direttiva. Sotto il diverso profilo della solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda, che presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda, Sez. L, n. 04598/2015, Bronzini, Rv. 634848, ha chiarito, confermando quanto espresso già da Sez. L, n. 07517/2010, Napoletano, Rv. 612850 che non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 2560 c.c. In ipotesi di fusione, trattandosi di una successione a titolo universale, Sez. L, n. 19303/2015, Amendola, Rv. 637246, ha chiarito che, nel regime anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. del 17 gennaio 2003 n. 6, trova applicazione l'art. 2112 c.c. I dipendenti transitati sono, dunque, soggetti al contratto collettivo applicabile presso la società incorporante, anche se più sfavorevole, mentre l'originario contratto collettivo potrà essere applicato 325 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO solamente nel caso in cui presso l'incorporante i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva. Per quanto riguarda la distribuzione degli oneri probatori, Sez. L, n. 04601/2015, Bronzini, Rv. 634850, ha precisato che l'onere di allegazione e prova dei fatti integranti un trasferimento di ramo d'azienda, a carico del datore di lavoro, trova la sua ragione nella natura degli effetti dell'art.2112 c.c. che costituiscono un'eccezione al principio generale del necessario consenso del lavoratore ceduto. In caso, poi, di dichiarazione di nullità della cessione di ramo d'azienda, secondo Sez. L, n. 06755/2015, Bronzini, Rv. 635125 il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, qualora non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell'impresa cedente. Resta, comunque, escluso il risarcimento nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia accettato l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l'impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest'ultima un verbale di messa in mobilità. 3.3. Imprese esercenti pubblici esercizi di trasporto. In materia di imprese esercenti pubblici servizi di trasporto, invece, Sez. L, n. 17630/2015, Bronzini, Rv. 637082, ha escluso l'applicazione della promozione automatica prevista dall'art. 2103 c.c., precisando che, in tema di reggenza di posti da coprirsi mediante esame, resta ferma la necessità che la previsione sia di fonte legislativa o della contrattazione collettiva. La pronuncia ha precisato che, tuttavia, non occorre la previsione, quale tipologia di verifica, della forma specifica del concorso, fornendo così un'interpretazione estensiva di detto termine, da intendere come comprensivo di ogni sistema di accertamento dell'idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni proprie della qualifica che si basi su obiettive valutazioni tecniche e sia in grado di offrire adeguate garanzie di legalità e imparzialità. Per il riconoscimento dell'indennità di ‹‹agente unico››, spettante ai dipendenti, con mansioni di autisti ed addetti anche al rilascio dei biglietti, delle società concessionarie nella regione Campania, secondo Sez. 6–L, n. 07449/2015, Mancino, Rv. 635224, la clausola dell'Accordo regionale del 15 marzo 1988 va interpretata nel senso che introduce un riferimento parametrico e non una cifra fissa incrementabile in forza di una nuova deliberazione ad hoc, in modo tale da consentire un aggiornamento del compenso che tenga conto della fisiologica dinamica salariale, sia pure nei limiti stabiliti da tale parametro. 326 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 3.4. Pubblico impiego contrattualizzato. In generale, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, la Suprema Corte ha avuto modo di effettuare alcune precisazioni sul diritto al compenso per lo svolgimento di mansioni superiori soprattutto in relazione alla portata applicativa dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Si segnalano, poi, pronunce in materia di inquadramenti, in particolar modo in relazione a questioni interpretative della contrattazione collettiva. 3.4.1. Mansioni. In particolare, Sez. L, n. 00616/2015, D'Antonio, Rv. 634294 ha chiarito che il diritto, spettante ai sensi dell'art. 52, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 non si traduce in un rigido automatismo, con erogazione al dipendente di un trattamento economico esattamente corrispondente alle mansioni superiori. Può risultare, infatti, rispettato l'art. 36 Cost., attraverso la previsione da parte della contrattazione collettiva di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza. Per altro verso, Sez. L, n. 12334/2015, Maisano, Rv. 635846, ha affermato che la disciplina di cui l'art. 52, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001, non può essere diversamente regolata dalla contrattazione collettiva. Le uniche ipotesi di deroga sono quelle previste dal comma 6 del citato art. 52. Non trova viceversa applicazione l'art. 69, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, che si riferisce esclusivamente al trattamento economico del personale delle qualifiche ad esaurimento, al quale sono attribuite funzioni vicarie tipiche dei dirigenti. Sull'ambito di applicabilità dell'art. 2103 c.c. e del citato art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, in tema di lavoro pubblico negli enti locali, Sez. L, n. 06367/2015, Buffa, Rv. 635092 ha chiarito che il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale, ma unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Non costituisce, dunque, demansionamento ed è esclusa dall'ambito di applicazione dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 la revoca di tale posizione, trovando in tal caso applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico. In tema di inidoneità allo svolgimento delle mansioni per motivi di salute, è stato accertato da Sez. L, n. 08081/2015, Venuti, 327 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Rv. 635297 che l'art. 23, comma 5, del c.c.n.l. 4 agosto 1995 per il personale del comparto scuola riconosce il diritto del lavoratore ad essere utilizzato in altre mansioni, con il conseguente obbligo a carico dell'amministrazione scolastica di disporre tempestivi accertamenti medici. In relazione alle norme sulla dirigenza pubblica, Sez. L, n. 17290/2015, Lorito, Rv. 636937, ha chiarito la portata dell'art. 4 d.lgs. n. 165 del 2001 sulla riorganizzazione della P.A., precisando, in particolare, che, ove l'ente mantenga in via transitoria un assetto non conforme al nuovo modello organizzativo, la valutazione della natura dirigenziale delle funzioni esercitate va effettuata con riferimento alle nuove regole non potendo darsi ultrattività o reviviscenza a quelle precedenti del tutto incompatibili con il nuovo ordinamento. Sempre in tema di svolgimento di fatto di mansioni superiori, secondo Sez. L, n. 04239/2015, Venuti, Rv. 634585, il dettato dell'art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone che il lavoratore sia adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore. Ne consegue l'inapplicabilità di detta disposizione nei casi di attribuzione di compiti riferibili alla figura del primus inter pares, con esclusione di sovraordinazione gerarchica. Si segnala, poi, in materia di trattamento economico e di quiescenza un contrasto sull'interpretazione dell'art. 18 del c.c.n.l. dirigenza medica e veterinaria del 8 giugno 2000. In particolare, secondo, Sez. L, n. 13809/2015, Ghinoy, Rv. 635864 la previsione della sostituzione nell'incarico di dirigente medico del servizio sanitario nazionale è finalizzata a consentire l'espletamento della procedura per la copertura del posto resosi vacante, sicché è destinata ad operare per un periodo massimo di sei mesi, prorogabili a dodici, nei quali spetta, a partire dal terzo mese, l'indennità ivi prevista. Quando, peraltro, detto ambito temporale sia superato, l'assegnazione delle mansioni dirigenziali in sostituzione cessa di rientrare tra le prestazioni normalmente esigibili e si configura come espletamento di mansioni superiori, con diritto alla corrispondente retribuzione, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost. Di diverso avviso, Sez. L, n. 16299/2015, Napoletano, Rv. 636936, secondo cui, invece, tale sostituzione nell'incarico di dirigente medico del servizio sanitario non si configura come svolgimento di mansioni superiori, in quanto avviene nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria. Seguendo tale impostazione non trova, pertanto, applicazione l'art. 2103 c.c. e al 328 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solamente la prevista indennità cd. sostitutiva, senza che rilevi, in senso contrario, la prosecuzione dell'incarico oltre il termine di sei mesi, o di dodici se prorogato, per l'espletamento della procedura per la copertura del posto vacante. In proposito è stata ritenuta adeguatamente remunerativa l'indennità sostitutiva specificamente prevista dalla disciplina collettiva e, dunque, inapplicabile l'art. 36 Cost. Esula, invece, secondo Sez. L, n. 00056/2015, D'Antonio, Rv. 633852 dal demansionamento, l'assegnazione del dirigente comunale ad un diverso ufficio, pure dirigenziale, in quanto, qualora vi sia stata manifestazione di volontà punitiva e ritorsiva del datore di lavoro, si tratta di "assegnazione del lavoratore ad ufficio diverso per ritorsione" vietata anche nel pubblico impiego. 3.4.2. Inquadramenti. In relazione alla decorrenza giuridica del superiore inquadramento, Sez. L, n. 01323/2015, Berrino, Rv. 634189 ha ritenuto ammissibile che il bando di concorso subordini la decorrenza giuridica ed economica alla condizione essenziale della permanenza in servizio del dipendente. E' escluso, quindi, il riconoscimento della nuova posizione retributiva ai lavoratori, che, sebbene vincitori della procedura concorsuale, siano stati, nelle more dell'espletamento, collocati in pensione. Per quanto riguarda la classificazione del personale e l'interpretazione della declaratoria relativa alla posizione economica C3, di cui all'allegato A del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 febbraio 1999, è intervenuta Sez. L, n. 18680/2015, Blasutto, Rv. 636940, per chiarire che essa non include la reggenza della superiore posizione lavorativa dirigenziale per vacanza del relativo posto, dovendosi ritenere che i contraenti, omettendone l'indicazione, abbiano inteso consapevolmente escludere tale figura dalla relativa declaratoria. In generale per quanto riguarda l'accertamento dell'inquadramento secondo le tabelle di equiparazione, per Sez. L, n. 01249/2015, Buffa, Rv. 634081, in tema di rapporti di lavoro nel passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico a quello privato, la previsione da parte della contrattazione collettiva di apposite tabelle di equiparazione, per operare l'inquadramento presso la nuova gestione, non preclude al giudice la verifica circa l'effettiva equivalenza delle posizioni di lavoro. Potranno, pertanto, essere disapplicate tali tabelle ove - in base ad un raffronto complessivo tra le qualifiche o i livelli di volta in volta presi in 329 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO considerazione – non si riscontri corrispondenza tra la categoria di provenienza ed il nuovo livello attribuito in sede di passaggio all' impiego privato. In tema di equiparazione tra le qualifiche del personale universitario non medico e quelle dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, Sez. L, n. 13382/2015, D'Antonio, Rv. 635855 ha ritenuto che la corresponsione dell'indennità perequativa di cui all'art. 31 del d.P.R. 10 dicembre 1979, n. 761 (cd. De Maria), è dovuta ai collaboratori o funzionari tecnici, che, a parità di funzioni, mansioni e anzianità, ed a prescindere dall'elemento formale del titolo di studio posseduto, sono equiparati, sulla base delle tabelle allegate al d.i. 9 novembre 1982, alle figure dirigenziali dei ruoli sanitari ordinari. E' stata, poi, precisata l'irrilevanza della sopravvenuta perdita di efficacia del citato decreto, posto che la contrattazione collettiva successivamente intervenuta ha avuto l'effetto di comportare l'adeguamento della suddetta indennità di perequazione. La pronuncia si pone in contrasto con quanto espresso da Sez. L, n. 19190/2013, Marotta, Rv. 628380 per la quale, invece, non è possibile detta equiparazione dovendosi operare il raffronto con figure di pari livello del S.S.N., come previsto dall'art. 51 del c.c.n.l. per il comparto Università del 9 agosto 2000, e fino alla ridefinizione delle corrispondenze economiche operata con l'approvazione di una nuova tabella nazionale avvenuta con la stipula del c.c.n.l. del 27 gennaio 2005. In tema di nomine di dirigenti di secondo livello, in esecuzione del disposto di cui all'art. 2 l.r. Puglia 16 dicembre 1998 n.30, Sez. L, n. 06633/2015, Patti, Rv. 635303, ha precisato come la costituzione di centri di salute mentale con bacini di utenza di dimensioni irrisorie, con connessa nomina di un rilevante numero di dirigenti, comporti l'illegittimità degli incarichi dirigenziali attribuiti, senza che assuma rilievo lo svolgimento di fatto, da parte di costoro, delle mansioni proprie del dirigente, giacché la qualità e il contenuto della mansione svolta da un lavoratore dipendente, pubblico o privato, varia anche in funzione del numero degli utenti. In ossequio al principio del divieto di inquadramento automatico del personale alle dipendenza della P.A., Sez. L, n. 15710/2015, Ghinoy, Rv. 636461 ha sostenuto che l'art. 29 del c.c.n.l. del 14 settembre 2000, comparto Regioni-Enti locali, si interpreta nel senso che l'inquadramento nella categoria D, nel personale dell'area di vigilanza, può essere conferito ai dipendenti solo all'esito del definitivo perfezionamento di tutti gli adempimenti 330 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO (modifica della dotazione organica, espletamento delle procedure di verifica selettiva e atto di inquadramento e di affidamento delle nuove mansioni) prescritti nei commi 3, 4, 5 e 6 del medesimo art. 29, in quanto espressione del principio costituzionalmente garantito che non consente inquadramenti automatici del personale alle dipendenze delle P.A. In ordine, poi, al sistema di classificazione previsto dal c.c.n.l. Comparto Regioni-Enti locali del 31 marzo 1999, Sez. L, n. 20070/2015, Maisano, Rv. 637150, ha chiarito che, nell'ambito della categoria D, si configurano posizioni differenziate, non solo sotto il profilo economico, ma anche sotto quello professionale in relazione alla diversa professionalità di provenienza (ex VII ed VIII qualifica funzionale, confluite, rispettivamente, nella categoria D, posizioni economiche D1 e D3), stante la previsione, contenuta nell'art. 4 del citato contratto collettivo, della medesima procedura selettiva stabilita per il passaggio da una categoria all'altra anche per il passaggio all'interno della stessa categoria D ad una delle posizioni economiche superiori. E' stata, poi, ritenuta da Sez. L, n. 06766/2015, Patti, Rv. 635126 l'illegittimità di una delibera della giunta comunale che, nel recepire un accordo sindacale, abbia adottato il criterio dello "scivolamento" automatico per inquadrare un proprio dipendente, già in posizione D1, nel profilo professionale D2. In particolare, detta delibera viola l'art. 5 del c.c.n.l. 31 marzo-1 aprile 1999 Regioni-Autonomie Locali, nonché la disciplina legislativa vigente, sulla cui base è esclusa la possibilità di progressione automatica senza concorso, o quanto meno selezione, né verifica attitudinale, in funzione di accertamento dell'idoneità dei candidati. In materia di collocazione, in sede di prima applicazione, nell'area B3 degli assistenti all'ispettorato del lavoro, già inquadrati nella soppressa VI qualifica funzionale, Sez. L, n. 01177/2015, Patti, Rv. 634300 ha chiarito il rapporto tra la contrattazione nazionale e quella integrativa. In particolare, ha ritenuto valida la classificazione, in quanto conforme alle previsioni della tabella di corrispondenza contrattuale contenuta nella contrattazione collettiva integrativa, dovendosi escludere che su tali disposizioni possano prevalere quelle della contrattazione nazionale. E' stato, poi, chiarito da Sez. L, n. 14444/2015, Ghinoy, Rv. 636061 che, in caso di proclamazione di sciopero da parte delle organizzazioni sindacali di categoria, il datore di lavoro, nell'intento di limitarne le conseguenze dannose, può disporre l'utilizzazione del personale rimasto in servizio, assegnandogli lo svolgimento di 331 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO mansioni inferiori, alla condizione, tuttavia, che queste siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari rispetto a quelle proprie dei lavoratori assegnati. Il superamento di tale limite, costituisce condotta antisindacale, anche se dovesse sussistere compatibilità tra le mansioni inferiori e la pregressa professionalità dei sostituti, in quanto l'art. 2103 c.c. è volto ad assicurare il mantenimento del livello di professionalità acquisito. 4. Diritto sindacale. Contratto collettivo. In particolare, per Sez. L, n. 02375/2015, Manna, Rv. 634535, il nucleo essenziale della ratio dell'art. 28 st.lav., risiede nel garantire lo svolgimento del conflitto collettivo. La pronuncia ha chiarito che la portata di detto concetto comprende, non solo quello, tradizionale, tra capitale e lavoro, ma anche quello fra organizzazioni rappresentative, secondo opzioni e visioni differenti, degli interessi dei lavoratori. Rispetto a quest'ultimo conflitto, il datore di lavoro, peraltro, è tenuto a conservare un atteggiamento di neutralità (non limitato al mero rispetto dell'art. 17 st.lav.), potendo intervenire solo per proteggere l'incolumità delle persone o l'integrità dell'azienda. E' ammesso di conseguenza, in singole occasioni, che il datore si schieri a favore di una organizzazione sindacale e contro un'altra, con la precisazione, tuttavia, che resta a lui precluso il ricorso ai poteri disciplinari e gerarchico-direttivi. Questi ultimi, infatti, sono attribuiti ai soli fini del governo delle esigenze produttive dell'azienda. In linea, poi, con quanto già espresso da Sez. L, n. 05209/2010, Di Cerbo, Rv. 612063, Sez. L, n. 02375/2015, Manna, Rv. 634533, ha ribadito che, in tema di repressione della condotta antisindacale, la legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 st.lav. va riconosciuta agli organismi locali delle ‹‹associazioni sindacali nazionali››, per la cui identificazione è necessario e sufficiente lo svolgimento di un'effettiva azione sindacale non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale. Non è, invece, indispensabile che l'associazione faccia parte di una confederazione o sia maggiormente rappresentativa. In relazione, infine, al trasferimento di dirigenti sindacali, Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634258, ha fornito un'interpretazione dell'art. 6 dell'accordo nazionale quadro di amministrazione per il personale appartenente al corpo di polizia penitenziaria del 24 marzo 2004, affermando, in particolare, che la previsione secondo cui, nell'ambito della stessa sede di servizio - da intendersi quale località ove è ubicata la struttura o la singola direzione -, il trasferimento dei dirigenti sindacali in un ufficio o 332 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO servizio diverso da quello di assegnazione può essere disposto solo previo nulla osta del sindacato di appartenenza, deve essere intesa nel senso che il predetto nulla osta è richiesto anche ove il trasferimento in questione avvenga nell'ambito della medesima località sede di servizio, non essendo contemplata la necessità del previo nulla osta soltanto nelle ipotesi di trasferimenti presso strutture diverse site nel medesimo ambito territoriale. Sulla tematica della contrattazione collettiva cd. di diritto comune si segnalano alcune pronunce sulla questione della forma e delle modalità di adesione, mentre più numerose sentenze intervengono su questioni interpretative. In particolare, Sez. L, n. 04176/2015, Nobile, Rv. 634576 ha chiarito che, in applicazione del principio generale di libertà di forma ed in mancanza di espressa previsione normativa della forma scritta, l'accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto. Non è, di conseguenza, necessaria la forma scritta neanche per la ratifica di accordo aziendale stipulato da "falsus procurator", ossia da organizzazione aziendale priva di rappresentanza. In tale ipotesi, pertanto, la ratifica può intervenire anche per facta concludentia. L'adesione ad un contratto collettivo, secondo Sez. L, n. 18408/2015, Buffa, Rv. 637231, può essere anche tacita e per fatti concludenti, ravvisabili nella concreta applicazione delle relative clausole. Più in particolare, in materia di lavoro di medico specialista ambulatoriale interno di una ASL, Sez. L, n. 19308/2015, Buffa, Rv. 637301 ha precisato che il contratto individuale può essere stipulato nelle forme del lavoro autonomo, ai sensi dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel qual caso sono le parti a determinare i rispettivi obblighi, ovvero, nelle forme del lavoro subordinato in esecuzione del d.P.R. 28 luglio 2000 n. 271, con applicazione delle regole della contrattazione collettiva. Solamente nella seconda ipotesi, dunque, in virtù dell'art. 36 Cost., opererà il principio della sostituzione della clausola retributiva nulla. Nello specifico del personale dipendente ENEA, per Sez. L, n. 10231/2015, Buffa, Rv. 635547, l'art. 52 del c.c.n.l. del 31 dicembre 1982, laddove prevede la conservazione del trattamento integrativo di previdenza in forma assicurativa in essere presso l'ente a favore dei dipendenti che ne fruiscono alla data di entrata in vigore del contratto collettivo, nella misura maturata nell'ultimo mese di vigenza del precedente ordinamento, dà esecuzione all'art. 8 della legge 5 marzo 1982, n. 84. Detta legge, infatti, rinvia alla contrattazione collettiva per la disciplina del trattamento economico 333 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO del personale dipendente dell'ENEA, stabilendo che, fino all'entrata in vigore del primo contratto, continuino ad applicarsi le disposizioni della l. 20 marzo 1975, n. 70, e confermando anche i diritti di natura retributiva già acquisiti dai lavoratori interessati, ponendosi come norma regolatrice del rapporto. La quantificazione del trattamento integrativo nei termini indicati dalla contrattazione collettiva, quindi, non può essere considerata un illegittimo peggioramento rispetto a quanto previsto dall'art. 14 della legge n. 70 del 1975. Per quanto riguarda il personale degli istituti di vigilanza privata, Sez. L, n. 04347/2015, Doronzo, Rv. 634320, ha fornito l'interpretazione dell'art. 69 del c.c.n.l. del 6 dicembre 2006 sul periodo di prova. In particolare, sulla base dell'inequivoco tenore letterale, nell'espressione ‹‹effettivo lavoro prestato›› vanno ricompresi solo i giorni in cui il lavoratore ha effettivamente prestato la sua opera, con esclusione di tutti gli altri, compresi quelli di riposo. In materia di marittimi imbarcati su navi straniere, per Sez. U, n. 02360/2015, Bandini, Rv. 634459, il rilascio del nulla osta di cui all'art. 4, comma 4, della legge 4 aprile 1977, n. 135, da parte dell'autorità marittima competente determina una presunzione di non contrarietà del trattamento economico pattuito con i principi contenuti nei vigenti contratti collettivi nazionali. La prova contraria, di conseguenza, incombe sul lavoratore. 5. Retribuzione. Si segnalano sul punto diverse pronunce in tema di compenso per il lavoro straordinario, lavoro carcerario, premio di fedeltà, lavoro di medici specializzandi. La Suprema Corte è intervenuta nuovamente sulla definizione di retribuzione globale di fatto, sull'accertamento e liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive, nonché sulla determinazione delle somme da computare per l'individuazione della retribuzione imponibile in occasione della cessazione del rapporto e in materia di integrazione salariale. In particolare, in tema di lavoro straordinario, Sez. L, n. 00004/2015, Maisano, Rv. 634037, ha affermato che il compenso forfettario accordato al lavoratore per lungo tempo non correlato all'entità presumibile della prestazione straordinaria resa oltre l'orario normale di lavoro, costituisce attribuzione patrimoniale che, con il tempo, assume funzione diversa da quella originaria, tipica del compenso dello straordinario, e diviene un superminimo che fa parte della retribuzione ordinaria e non è riducibile unilateralmente 334 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dal datore di lavoro, confermando quanto già espresso da Sez. L. 00542/2011, Monaci, Rv. 616078. Per quanto riguarda, invece, le prestazioni straordinarie del personale sanitario, Sez. 6-L, n. 14611/2015, Fernandes, Rv. 636229 ha chiarito che spetta al datore di lavoro provare la concessione al dipendente di pause per il pranzo, in caso di pretesa dell'ASL di prolungamento dell'orario di servizio, qualora il lavoratore abbia provato la natura ininterrotta della prestazione lavorativa, resa in un contesto di continuità assistenziale, attesa la concomitante erogazione dei buoni pasto (di per sé fruibili solo al di fuori dell'orario di lavoro) e la mancata predisposizione di turni per usufruire del servizio mensa sostitutivo (pur in presenza di un obbligo contrattuale in tal senso). In relazione, invece, al premio di fedeltà, Sez. L, n. 06943/2015, Buffa, Rv. 635135 ha stabilito che quello previsto dalle disposizioni collettive per i lavoratori della Fiat s.p.a., i quali abbiano maturato un'anzianità di ventinove anni, sei mesi e un giorno e siano cessati dal rapporto di lavoro per dimissioni volontarie, la mera maturazione dell'anzianità del lavoratore è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la maturazione del diritto al premio il cui perfezionamento resta condizionato dalle modalità di risoluzione del rapporto. Ne consegue che, in caso di cessione del ramo di azienda, qualora il contratto collettivo applicabile al cessionario non preveda il premio fedeltà, deve escludersi che questo spetti in favore del lavoratore che pure avesse maturato al tempo della cessione l'anzianità richiesta, non essendosi perfezionata all'epoca la fattispecie, che ne prevedeva la maturazione solo in caso di dimissioni del lavoratore. In tema di lavoro carcerario, invece, Sez. L, n. 02696/2015, D'Antonio, Rv. 634525 ha specificato che il termine di prescrizione dei diritti del lavoratore non decorre durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, in sé privo di stabilità. Nei confronti del prestatore, infatti, si realizza una situazione di metus, che è riconducibile alla circostanza che la configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dall'attività lavorativa del detenuto possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero, attesa la necessità di preservare le modalità essenziali di esecuzione della pena e le corrispondenti esigenze organizzative dell'amministrazione penitenziaria. Ne consegue che la sospensione della prescrizione permane solo fino alla cessazione del rapporto di lavoro in quanto, in assenza di specifiche disposizioni, non può estendersi all'intero periodo di detenzione. 335 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Secondo Sez. 1, n. 02538/2015, Salvago, Rv. 634216, in conformità a quanto ritenuto da Sez. 3, n. 17682/2011, Barreca, Rv. 619541, sussiste il diritto alla retribuzione dei medici specializzandi nel periodo 1983/1991, in quanto le direttive n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE affermano l'obbligo incondizionato e sufficientemente preciso di retribuire adeguatamente la formazione del medico specializzando e, pertanto, in assenza di tempestivo recepimento, sono direttamente applicabili. Ciò non vale relativamente all'ammontare della retribuzione e al soggetto tenuto al pagamento. In proposito, interpretando il diritto interno in funzione del rispetto del principio di effettività e al fine di ottenere un risultato conforme al diritto comunitario, deve trovare applicazione retroattiva l'art. 11 della legge 19 ottobre 1999, n. 370, indipendentemente dalla circostanza che il medico sia stato destinatario di sentenza passata in giudicato e subordinatamente all'accertamento delle condizioni soggettive previste dalla menzionata disposizione. Sotto il profilo dell'estinzione del rapporto Sez. L, n. 15066/2015, Venuti, Rv. 636245 ha confermato quanto sancito da Sez. L, n. 19956/2009, Zappia, Rv. 610258, secondo cui, in tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 del 20 maggio 1970 n. 300, la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale. Confermando quanto espresso da Sez. L, n. 21010/2013, Fernandes, Rv. 627984, Sez. L, n. 18044/2015, Amendola F., Rv. 636824, ha sostenuto che l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo, sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, atteso che la determinazione delle prime attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario. Esse, infatti, devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che questi abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 19 l. 4 aprile 1952 n. 218, può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo. In relazione alla cessazione dal rapporto di lavoro di singoli lavoratori, aderendo a quanto espresso da Sez. L, n. 23230/2004, La 336 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Terza, Rv. 579254, secondo Sez. L, n. 10046/2015, Amoroso, Rv. 635549, rientrano tra le somme che, ai sensi dell'art. 4, comma 2 bis, del d.l. 30 maggio 1988, n. 173, convertito nella legge 26 luglio 1988, n. 291, vanno escluse dalle retribuzione imponibile, in quanto corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l'esodo dei lavoratori, non solo quelle conseguite con un apposito accordo per l'erogazione dell'incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte quelle che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro per incentivare l'esodo, potendo risultare ciò sia da una indicazione in tal senso nell'atto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi. In tema di integrazione salariale, Sez. L, n. 22255/2015, Ghinoy, Rv. 637398, ha chiarito che il contratto di solidarietà, di cui all'art. 1 del d.l. 30 ottobre 1983 n. 726, convertito in l. 19 dicembre 1984 n. 863, spiega la sua efficacia nei confronti di tutti i lavoratori, e non solo degli aderenti all'accordo. Tale effetto non deriva dalla sua efficacia normativa, ma in forza del provvedimento ministeriale di ammissione all'integrazione salariale, di cui costituisce il presupposto e unitamente al quale integra una fattispecie complessa volta alla concessione dell'integrazione salariale. Esso, infatti, ha efficacia costitutiva del potere modificativo del datore di lavoro sui singoli contratti e presuppone un controllo di congruità tra la temporanea modifica peggiorativa (nella specie, riduzione di orario e di retribuzione) del contenuto dei rapporti e la finalità di evitare la riduzione del personale. E' fatto salvo da Sez. L, n. 06631/2015, Buffa, Rv. 63512 il diritto alla conservazione della retribuzione, in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. e di rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione. Non possono ricadere su quest'ultimo, infatti, le conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore. 6. Dimissioni. Con riferimento alle dimissioni, Sez. L, n. 12856/2015, Nobile, Rv. 635858, ha chiarito che nell'ipotesi in cui esse siano rassegnate dal lavoratore nell'ambito di un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso degli anni, l'effetto risolutorio si esplica anche con riferimento al rapporto a tempo indeterminato accertato dal giudice con sentenza dichiarativa della nullità del primo dei contratti di lavoro a termine, salvo che il lavoratore non 337 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO deduca e provi di essere incorso in errore, anche sotto forma di ignoranza della sopravvenuta conversione del rapporto. 7. Mutuo consenso. Quanto, poi, alla ravvisabilità della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, si segnala che all'interno della Sez. L vi è un indirizzo che richiede l'accertamento della chiara volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, reputando a ciò insufficiente il mero dato della mancata attuazione del rapporto, ancorché prolungata per diversi anni (Sez. L, n. 13535/2015, Nobile, Rv. 635842) ed un altro invece incline ad attribuire maggiore valenza al dato oggettivo del significativo lasso temporale dopo la cessazione del contratto (Sez. L, n. 02906/2015, Di Cerbo, Rv. 634819). 8. Potere di controllo. In tema di controllo difensivo del datore di lavoro, diretto a verificare l'uso del telefono cellulare durante l'orario di lavoro da parte del lavoratore, Sez. L, n. 10955/2015, Doronzo, Rv. 635531, ha escluso che rientri nel campo di applicazione dell'art. 4 l. n. 300 del 1970, la creazione da parte del datore di lavoro di un falso profilo "facebook" attraverso il quale "chattare" con il lavoratore. In particolare, ha chiarito che detta attività di controllo non ha ad oggetto l'attività lavorativa ed il suo esatto adempimento, ma solo l'eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, potenzialmente lesivi del patrimonio aziendale sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. 9. Potere disciplinare. Significative le pronunce intervenute nell'anno, riferite alla disciplina anteriore all'entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge "Fornero"). Sul profilo della rilevanza del nesso di correlazione tra contestazione e la motivazione del licenziamento, Sez. L, n. 01026/2015, Berrino, Rv. 634297, ha affermato che nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l'essenziale elemento di garanzia in suo favore é dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l'indicazione dei motivi, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare é tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite 338 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle. L'immediatezza della contestazione integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l'interesse del datore di lavoro all'acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest'ultimo ad una pronta ed effettiva difesa; sul punto, Sez. L, n. 02902/2015, Balestrieri, Rv. 634572, ha sottolineato che ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l'esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida. (Nella specie, relativa ad un dipendente bancario, la Suprema Corte ha ritenuto tardiva la contestazione, in quanto intervenuta dopo oltre un anno e quattro mesi dalla conoscenza di fatti non avendo, inoltre, la banca fornito prova della data di conclusione dell'accertamento ispettivo). Sul rapporto tra contestazione disciplinare ed imputazione in sede penale Sez. L, n. 00013/2015, Tria, Rv. 634075, ha precisato che la contestazione disciplinare a carico del lavoratore non è assimilabile alla formulazione dell'accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire all'incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, sicché essa va valutata in modo autonomo rispetto ad eventuali imputazioni in sede penale. Ne consegue che, ove il lavoratore sia stato assolto con sentenza dibattimentale dichiarata irrevocabile (quale sia la formula utilizzata), i fatti ivi accertati, ancorché non decisivi ai fini delle responsabilità penale, possono conservare rilevanza, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., ai fini del rapporto di lavoro, senza che resti preclusa, per effetto dell'assoluzione, la cognizione della domanda da parte del giudice civile. Sulla delicata questione delle conseguenze del mancato rispetto del termine previsto dalla contrattazione collettiva per l'intimazione del licenziamento, Sez. L, n. 05714/2015, Patti, Rv. 634798, ha puntualizzato che il termine non inferiore a dieci giorni per la presentazione delle giustificazioni del lavoratore, di cui all'art. 49, comma 6, del c.c.n.l. per la formazione professionale convenzionata del 21 maggio 1996, decorre dalla data di ricevimento della lettera di contestazione disciplinare, rispondendo ad una esigenza di tutela del diritto di difesa del lavoratore, mentre quello di comunicazione del provvedimento disciplinare decorre dalla scadenza dei cinque giorni liberi successivi alla suddetta data di ricevimento, fermo restando che, qualora la comunicazione datoriale sia avvenuta senza il rispetto del suddetto termine, il 339 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO provvedimento disciplinare non perde efficacia salvo che il lavoratore non dimostri che, a ragione di tale inosservanza, non ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa. In materia di audizione personale dell'incolpato Sez. L, n. 14437/2015, Napoletano, Rv. 636255, ha chiarito che, in tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, ove quest'ultimo abbia chiesto di essere sentito personalmente, l'indicazione da parte del datore di lavoro di una data erronea per l'audizione (nella specie, anteriore a quella della contestazione disciplinare) rende impossibile l'esercizio del diritto di difesa e, quindi, illegittimo il licenziamento poi irrogato; né sussiste, a carico del lavoratore, un onere di tempestiva segnalazione al datore di lavoro dell'errore incorso, spettando solo a questi, prima d'irrogare la massima sanzione disciplinare, la verifica dell'osservanza della procedura ex art. 7 st.lav. Sempre in tema, Sez. L, n. 23140/2015, De Marinis, in corso di massimazione, ha affermato che il termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito di cui all'art. 7, comma 5, st.lav., non ha per il lavoratore natura decadenziale della facoltà di richiedere l'audizione a difesa. Ne consegue l'illegittimità della sanzione disciplinare comminata ignorando la richiesta presentata oltre detto termine ma prima dell'adozione del provvedimento disciplinare. Con riferimento alla rilevante problematica dei rapporti tra sospensione cautelare dal servizio e successivo licenziamento, Sez. L, n. 09618/2015, Napoletano, Rv. 635394, ha ribadito che qualora il procedimento disciplinare (nella specie, di cui all'art. 60 del c.c.n.l. delle attività ferroviarie del 16 aprile 2003) si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l'irrogazione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio - pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto poiché meramente cautelare in attesa del secondo - si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e legittimando la perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni, a far data dal momento della sospensione medesima. Sul tema dell'obbligatorietà, o meno, del procedimento disciplinare, in dipendenza della natura disciplinare, o no, del licenziamento, Sez. L, n. 14467/2015, Nobile, Rv. 636579, ha evidenziato che, in caso di sequestro dell'azienda operato ai sensi del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd. codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), è legittima la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall'amministratore giudiziario su ordine del 340 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO giudice delegato ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 159 cit., trattandosi di disposizione di ordine pubblico applicabile a tutti i contratti relativi all'azienda sequestrata (e, dunque, anche a quelli di lavoro), sicché il licenziamento non ha natura disciplinare e non trovano applicazione le relative garanzie, ferma soltanto la necessità della specificazione dei motivi del recesso, che resta tuttavia soddisfatta dal richiamo alla procedura e al decreto del tribunale. Infine, con riguardo alla titolarità del potere disciplinare in caso di trasferimento di azienda, Sez. L, n. 20319/2015, Roselli, in corso di massimazione, ha statuito che il cessionario può esercitare i poteri disciplinari inerenti il rapporto di lavoro per fatti precedenti la cessione di azienda. (Nella specie la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito, ritenendo legittimo il licenziamento di un dipendente comunale, prima distaccato presso impresa privata e successivamente alla stessa passato per trasferimento di ramo d'azienda, intimato per fatti - per i quali vi era stata sentenza di patteggiamento - commessi durante il periodo di lavoro presso l'ente pubblico). 10. Licenziamento individuale. Con d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante ‹‹Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183››, il legislatore é intervenuto sulla disciplina sanzionatoria del licenziamento individuale, in particolare prevedendo, per i lavoratori assunti dalla data di entrata in vigore del predetto d.lgs. (7 marzo 2015), l'applicabilità della tutela reintegratoria cd. "piena" per le ipotesi di licenziamento nullo e orale, nonché quella reintegratoria cd. "attenuata" per il solo caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. In presenza delle altre tipologie di vizi o comunque per l'ipotesi del recesso per giustificato motivo oggettivo è prevista la tutela solo indennitaria, in misura crescente con l'anzianità di servizio. Ovviamente non si registrano, allo stato, pronunce della Suprema Corte concernenti la menzionata disciplina. 10.1. Cessazione del rapporto e qualificazione dell'atto datoriale come licenziamento. Con una interessante pronuncia Sez. L, n. 23712/2015, Roselli, in corso di massimazione, ha affermato che la disciplina contenuta nell'art. 14 del d.lgs. 13 gennaio 1999, n. 18, sul mantenimento dei livelli di occupazione e sulla continuità dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle imprese 341 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO operanti sul mercato liberalizzato della gestione dei servizi aeroportuali, prevedendo e regolando il passaggio del personale nell'ipotesi di trasferimento dei suddetti servizi da un'impresa all'altra non qualificabile come cessione di azienda o ramo di azienda, non esclude che la cessazione del rapporto intercorrente tra il lavoratore e il precedente datore avvenuta con atto unilaterale di quest'ultimo debba essere qualificata come licenziamento, con conseguente operatività della tutela reintegratoria e risarcitoria qualora lo stesso risulti illegittimo. 10.2. Il principio generale di necessaria giustificazione. Sez. L, n. 07899/2015, Doronzo, Rv. 635228, ha evidenziato che nel lavoro subordinato privato il recesso del datore di lavoro richiede, pur se si tratta del licenziamento di un dirigente, la sussistenza di un giustificato motivo, in forza del principio generale di cui all'art. 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604, dovendosi in ogni caso escludere, a fronte della tipicità e tassatività delle cause di estinzione del rapporto, la legittimità di clausole di risoluzione automatica al compimento di determinate età ovvero al raggiungimento dei requisiti pensionistici, ancorché esse siano contemplate dalla contrattazione collettiva. 10.3. La decadenza dall'impugnazione. Con quattro significative pronunce è stata data soluzione a questioni di notevole interesse. Sez. L, n. 14406/2015, Maisano, Rv. 636578, ha chiarito che l'art. 32, comma 1 bis, della legge 4 novembre 2010, n. 183, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, nel prevedere ‹‹in sede di prima applicazione›› il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della legge n. 604 del 1966, e, dunque, non solo l'estensione dell'onere di impugnativa stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non contemplate, ma anche l'inefficacia di tale impugnativa, prevista dallo stesso art. 6, comma 2, anche per le ipotesi già in precedenza soggette al relativo onere, per l'omesso deposito, nel termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale o della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato. Ne consegue che tale nuova disciplina, con la relativa proroga, non si applica ai licenziamenti impugnati in epoca antecedente alla sua entrata in vigore. 342 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Sez. L, n. 22534/2015, Berrino, in corso di massimazione, ha affermato che all'impugnativa del licenziamento intimato in data diversa da quella di sua efficacia si applica la disciplina vigente al momento di quest'ultima. (Nella specie la S.C. ha ritenuto applicabile la disciplina sul termine di decadenza per l'impugnazione del recesso datoriale applicabile a far data dal 31 dicembre 2011, quale prevista dall'art. 32, comma 1 bis, della legge n. 183 del 2010, sull'assunto che lo stesso era stato intimato prima della suddetta data ma con efficacia successiva e coincidente con la cessazione dell'attività d'impresa). Sez. L, n. 20068/2015, Bandini, Rv. 637478, ha ribadito che il termine di decadenza di cui all'art. 6, comma 2, della l. n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 1, comma 38, della l. n. 92 del 2012, decorre dalla trasmissione dell'atto scritto d'impugnazione del licenziamento, di cui al comma 1, e non dal perfezionamento dell'impugnazione stessa per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro. Sez. L, n. 22627/2015, Tricomi, in corso di massimazione, ha statuito che l'art. 6 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010, si applica, in forza del comma 2 di quest'ultimo articolo, anche ai dirigenti, avendo il legislatore, con la novella di cui alla legge n. 183 del 2010, voluto dare risposta all'esigenza di garantire la speditezza dei processi, attraverso l'introduzione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza con l'art. 111 Cost., operando un non irragionevole bilanciamento tra la necessità di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore. 10.4. L'acquiescenza al licenziamento. Sez. L, n. 12636/2015, D'Antonio, Rv. 635726, ha affermato che il d.m. 28 aprile 2000, n. 158, istitutivo, presso l'INPS, del Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito, dell'occupazione e della riconversione e qualificazione professionale del personale dipendente dalle imprese di credito, ha previsto l'erogazione, a carico di detto Fondo, di assegni straordinari per il sostegno del reddito, in forma rateale, unitamente al versamento della correlata contribuzione ex art. 2, comma 28, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, riconosciuti ai lavoratori ammessi a fruirne nel quadro dei processi di agevolazione all'esodo (art. 5), condizionando l'erogazione degli assegni ed il versamento della contribuzione alla previa rinuncia al preavviso ed alla relativa indennità sostitutiva per l'anticipata risoluzione del rapporto (artt. 10, 11, 14-16). Ne consegue che, alla stregua di una 343 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO interpretazione sistematica ed alla luce della ratio della normativa recata dal citato d.m. (che è quella di contenere al massimo l'eventuale contenzioso derivante dai processi di ristrutturazione aziendale), la rinuncia anzidetta è intesa come accettazione della anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, determinando essa l'acquiescenza al licenziamento e precludendone, quindi, la successiva impugnazione. 10.5. L'onere della prova. Sez. L, n. 11206/2015, Tricomi, Rv. 635523, ha puntualizzato che in tema di licenziamento per giusta causa è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all'elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest'ultimo la prova di una esimente. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto giustificato il licenziamento di un lavoratore bancario, valutando sufficiente la prova della riferibilità allo stesso del personal computer aziendale a mezzo dal quale erano stati effettuati accessi al sistema informatico della banca, in quanto il ricorrente non aveva indicato ragioni e circostanze per cui altri avrebbero conosciuto le sue chiavi informatiche di accesso ed utilizzato la sua postazione). Sez. L, n. 13380/2015, Napoletano, Rv. 635862, ha affermato che in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo oggettivo, qualora il lavoratore sia autorizzato a prestare la propria attività fuori dall'azienda e con orari liberamente scelti come più funzionali all'incarico, il datore di lavoro ha l'onere di provare l'inadempimento del lavoratore (nella specie, individuato nella mancata prestazione delle quaranta ore settimanali di lavoro pattuite e nell'omessa effettuazione delle visite ai punti vendita ed ai fornitori) e non può limitarsi a fornire indizi delle asserite violazioni, imponendo al lavoratore di fornire la prova contraria, poiché ciò darebbe luogo ad un'ingiustificata inversione dell'onere probatorio. 10.6. Rilevanza dei motivi dedotti in giudizio a fondamento dell'illegittimità del licenziamento e poteri di rilevazione del giudice. Sez. L, n. 13673/2015, Tricomi, Rv. 635958, in conformità ad un tradizionale indirizzo, ha stabilito che qualora il lavoratore, impugnato il licenziamento, agisca in giudizio deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l'eventuale motivo discriminatorio o ritorsivo, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d'ufficio dal giudice 344 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda. 10.7. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Una particolare attenzione va riservata, anche in ragione del cospicuo numero di pronunce intervenute nell'anno, alla casistica sottoposta al vaglio della Corte come ipotesi di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento. Sez. L, n. 20726/2015, Bronzini, in corso di massimazione, ha affermato che costituisce giusta causa di recesso la condotta del direttore della sede di un'Agenzia delle entrate che abbia attestato falsamente la propria presenza in ufficio ed utilizzato tali dichiarazioni per la percezione ingiustificata dei buoni pasto, trattandosi di comportamento connotato da gravità in considerazione della sua posizione di preposto al vertice dell'ufficio, demandato ad assicurare il rispetto degli orari di lavoro ed il corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali assunte dalle parti. In senso analogo, Sez. L, n. 09802/2015, Doronzo, Rv. 635385, ha stabilito che è legittimo il licenziamento del dipendente bancario che abbia svolto attività di erogazione di credito, mediante la fornitura di provvista in cambio di assegni poi messi all'incasso, al di fuori dei canali istituzionali, in violazione dell'art. 32 del c.c.n.l. per il personale delle aziende di credito del 12 febbraio 2005, che impone ai dipendenti degli istituti di credito disciplina, dignità e moralità, trattandosi di condotta che, a prescindere dal conseguimento di un utile economico personale, è tale da incidere negativamente sulla fiducia del datore di lavoro. Sempre sul profilo dell'idoneità della condotta del lavoratore a ledere l'elemento fiduciario, Sez. L, n. 04243/2015, Tricomi, Rv. 634579, ha puntualizzato che costituisce giusta causa di recesso la sottrazione da parte di un dipendente di una casa di cura, all'insaputa del datore di lavoro e senza osservare le ordinarie procedure di rettifica degli errori, di un referto sanitario da una cartella clinica, sostituendolo con altro da lui rifatto. Sulla stessa linea Sez. L, n. 14311/2015, Doronzo, Rv. 635898, ha evidenziato che costituisce giusta causa di recesso la condotta di un dipendente con mansioni di autista addetto al trasporto di disabili che abbia mostrato ad un utente minorenne un video dal contenuto pornografico, trattandosi di condotta gravemente lesiva del vincolo fiduciario esistente tra lavoratore e datore di lavoro, anche in considerazione delle condizioni soggettive 345 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO della persona cui il video è stato esibito (minore con deficit psichici), note al lavoratore proprio in ragione delle mansioni disimpegnate e della natura del servizio commissionato alla società datrice di lavoro dal Comune affidatario del servizio. Sul tema dell'accertamento della giusta causa di licenziamento sulla base dell'interpretazione delle clausole collettive contemplanti le infrazioni, Sez. L, n. 16336/2015, Doronzo, Rv. 636352, ha affermato che nell'ipotesi di cui all'art. 42, lett. e), del c.c.n.l. per i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario del 30 luglio 2008, per i casi di ‹‹grave negligenza nell'esecuzione dei lavori che implichino pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli ambienti affidati››, non occorre che il pregiudizio sia effettivo ma é sufficiente che sia meramente potenziale, purché concreto e non ipotetico, in quanto lo stesso va collegato causalmente non alla negligenza, pur connotata dalla gravità, bensì al tipo di lavoro svolto ed alle specifiche mansioni attribuite al lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva reintegrato un infermiere professionale, cui era stato contestato di essersi apprestato ad effettuare un prelievo non prescritto di sangue ad una paziente e di aver trasferito una paziente in coma con una errata documentazione sanitaria ed anagrafica, come rilevato dal sanitario di turno al pronto soccorso). Sez. L, n. 14320/2015, Roselli, Rv. 635952, ha evidenziato che l'art. 54 del c.c.n.l. 14 aprile 2011 per i lavoratori del servizio postale prevede il licenziamento per violazioni dolose di leggi, regolamenti o doveri d'ufficio, che possano arrecare o abbiano arrecato un forte pregiudizio od un imminente pericolo alla società o a terzi, sicché il comportamento di un portalettere, che non abbia eseguito tempestivamente la consegna di un modesto quantitativo di corrispondenza, trasferendola nella propria autovettura di piccole dimensioni, per provvedervi il giorno successivo, previo smistamento in casa della stessa, non è idoneo a giustificare la risoluzione del rapporto. Sul profilo dei limiti del sindacato giudiziale circa le clausole del contratto collettivo concernenti le infrazioni Sez. L, n. 09223/2015, Napoletano, Rv. 635321, ha ribadito che un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, qualora sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso 346 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. (Nella specie, la Suprema Corte nel rigettare il ricorso, ha rilevato che correttamente il giudice di merito aveva ritenuto applicabile il licenziamento disciplinare, in quanto le parti contrattuali, pur prevedendo - ai sensi dell'art. 54, comma 4, lett. h), del c.c.n.l. di settore - la sanzione conservativa in caso di ‹‹alterchi con vie di fatto negli uffici della società››, non avevano inteso escludere la sanzione espulsiva allorché detti fatti abbiano prodotto ‹‹serie conseguenze, insistito malanimo, grave stravolgimento dell'ordinario ritmo di lavoro››). Sulla rilevante tematica del rilievo da attribuirsi alle condotte non poste in essere in ambito lavorativo, è stato ritenuto - Sez. L, n. 16268/2015, Manna A., Rv. 636412 - che una condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario. In senso analogo Sez. L, n. 00776/2015, Roselli, Rv. 634295, ha puntualizzato che la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiale del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva ove siano presenti caratteri di gravità, da apprezzarsi diversamente in relazione alla natura privatistica o pubblicistica dell'attività svolta. Ne consegue la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore attinto da condanna penale per usura ed estorsione, ove il datore sia una società a partecipazione pubblica, erogatrice di un servizio pubblico (nella specie, Poste italiane S.p.A.), poiché l'assoggettamento dell'attività ai principi di imparzialità e buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., comporta che il lavoratore è tenuto, anche fuori dal lavoro, ad assicurare affidabilità nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza. Sez. L, n. 16524/2015, Manna A., Rv. 636786, ha chiarito che la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti (nella specie, duecento grammi di hashish) a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore é tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori 347 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto particolarmente grave in termini di prognosi futura di affidabilità la condotta del dipendente, ‹‹chef de rang›› di un ente termale, normalmente addetto al cd. room service, attese le mansioni svolte, implicante contatti con il pubblico, e l'acquisto dello stupefacente da un collega). Il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro; sulla base di tale premessa, Sez. L, n. 02550/2015, Ghinoy, Rv. 634311, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al lavoratore per il compimento di atti di violenza nei confronti della moglie, anch'ella socia della società, all'interno del luogo di lavoro. Il richiamo all'obbligo di fedeltà e ai doveri di correttezza e buona fede é presente anche in Sez. L, n. 00144/2015, Napoletano, Rv. 633863, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato per lo svolgimento di attività sportiva suscettibile di aggravare le condizioni fisiche del lavoratore, evidenziando che, proprio per motivi di salute, il datore di lavoro aveva assegnato il dipendente a mansioni ridotte e diverse da quelle precedenti. Sulla specifica questione dello svolgimento di attività extralavorativa in periodo di malattia, Sez. L, n. 16465/2015, Roselli, Rv. 636749, ha chiarito che costituisce illecito disciplinare l'espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia non solo se da tale comportamento derivi un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente. (In applicazione dell'anzidetto principio, la Suprema Corte ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto non giustificato il licenziamento di un lavoratore che, pur rientrato in servizio alla scadenza della prognosi, aveva effettuato, in costanza di malattia per colica addominale, tre immersioni di pesca subacquea). 348 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Sul tema del nesso di proporzionalità Sez. L, n. 08928/2015, De Marinis, Rv. 635375, ha precisato che é illegittimo il licenziamento del lavoratore che si sia assentato dal lavoro, senza autorizzazione, per un periodo di aspettativa per motivi familiari ex art. 4 della legge 8 marzo 2000, n. 53, ove l'istanza del dipendente sia stata rigettata dal datore di lavoro, pur in presenza delle condizioni legittimanti la fruizione del permesso, per ragioni meramente formali, consistenti nell'apposizione sulla richiesta della dicitura ‹‹retribuita›› in luogo di ‹‹non retribuita››, dovendosi ritenere la sanzione espulsiva eccessiva e sproporzionata. (Nella specie, la Suprema Corte ha ulteriormente evidenziato che il datore di lavoro poteva accompagnare la concessione dell'aspettativa con la precisazione che, in conformità alla disciplina contrattuale vigente, non avrebbe dato corso al pagamento della retribuzione per il relativo periodo). Con riguardo alla delicata tematica dello ‹‹scarso rendimento››, Sez. L, n. 14310/2015, Doronzo, Rv. 635986, ha sottolineato che il licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. c.c. sicché, fermo restando che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell'attività resa per un'apprezzabile periodo di tempo. 10.8. Giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Con una interessante pronuncia, Sez. L, n. 04460/2015, Roselli, Rv. 634596, ha sottolineato che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi è data dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, senza che l'indicazione - da parte del lavoratore che si sia fatto parte diligente - di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze 349 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l'inversione dell'onere della prova. Sul delicato tema dell'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori come unica alternativa al licenziamento, Sez. L, n. 23698/2015, Napoletano, in corso di massimazione, ha statuito che la disposizione dell'art. 2103 c.c. va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi. Ne consegue che ove il demansionamento rappresenti l'unica alternativa al recesso datoriale non è necessario un patto di demansionamento o una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettargli la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale. Con altra innovativa sentenza, Sez. L, n. 21875/2015, Ghinoy, Rv. 637388, ha affermato che l'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 61 del 2000, ratione temporis vigente, secondo cui il rifiuto del lavoratore di riduzione dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento, va interpretato alla luce della normativa comunitaria e della giurisprudenza costituzionale, sicché restano comunque salve le effettive esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, la prova della cui sussistenza incombe su quest'ultimo, che siano tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno. In tema di licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, Sez. L, n. 04757/2015, Buffa, Rv. 635150, ha precisato che l'esercizio dell'attività economica privata, garantito dall'art. 41 Cost., non é sindacabile nei suoi aspetti tecnici dall'autorità giurisdizionale ma deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute, sicché non viola la norma citata il giudice che dichiara illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, senza che il datore di lavoro abbia accertato se il lavoratore potesse essere addetto a mansioni diverse e di pari livello, evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell'organigramma aziendale. Sez. L, n. 12489/2015, Manna A., Rv. 635856, ha inoltre evidenziato che, in tema di licenziamento per inabilità al lavoro, il giudizio della Commissione medica ospedaliera, di cui all'art. 5 st.lav., non ha valore vincolante né per il giudice, che può disporre consulenza tecnica d'ufficio per accertare la sussistenza delle 350 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO condizioni di inabilità, né per il datore di lavoro, il quale, ai fini della risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, è tenuto altresì a provare di non poter in alcun modo destinare il lavoratore ad altre mansioni (anche inferiori) compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva, sempre che il dipendente non abbia già manifestato a monte il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione. In tema di licenziamento del lavoratore disabile, Sez. L, n. 03931/2015, D'Antonio, Rv. 634568, ha affermato che l'art. 10, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68 - che prevede l'annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile (o di categoria equiparata) occupato obbligatoriamente ‹‹qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva›› prevista dal precedente art. 3 della legge - riguarda soltanto il ‹‹recesso di cui all'articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo›› e non anche gli altri tipi di recesso datoriale. Ne consegue che la norma non si applica al licenziamento disciplinare, nelle sue diverse configurazioni, in conformità con l'idea ispiratrice di tutta la legge n. 68 del 1999 di coniugare la valorizzazione delle capacità professionali dei disabili (o equiparati) con la funzionalità economica delle imprese che li assumono. 10.9. Licenziamento discriminatorio o ritorsivo. Con una rilevante pronuncia Sez. L, n. 10834/2015, Tria, Rv. 635813, ha affermato che in tema di licenziamento, laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto senza distinguere tra accertamento della giusta causa e quello avente ad oggetto la verifica della volontà datoriale, sicché, ove risulti che la condotta del datore di lavoro sia univocamente motivata da un intento ritorsivo o discriminatorio nei confronti del lavoratore (nella specie, in ragione dell'attività sindacale del lavoratore diretta a contrastare una prassi aziendale che imponeva agli autisti di lavorare oltre i limiti di orario e di peso del carico trasportato), è illegittimo il licenziamento disposto quale conseguenza del cumulo di pluralità di sanzioni, tanto più in assenza di addebiti idonei a giustificare, di per sé, il recesso. 351 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Sez. L, n. 03986/2015, Balestrieri, Rv. 634591, ha evidenziato che non può considerarsi ritorsivo un licenziamento palesemente (anche se erroneamente) basato sull'inosservanza di direttive aziendali, qualora manchi la prova, il cui onere incombe sul lavoratore, della sussistenza di un motivo illecito determinante. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento disciplinare adottato in violazione dell'art. 7 st.lav., escludendone, tuttavia, la natura discriminatoria, in assenza della allegazione e prova del motivo illecito determinante). Conformemente ad un indirizzo che va progressivamente consolidandosi, Sez. L, n. 24648, Tria, in corso di massimazione, ha puntualizzato che il divieto di licenziamento discriminatorio è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo. L'interpretazione estensiva è conforme anche al processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997, processo che nel nostro ordinamento ha determinato la tipizzazione di condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali con la previsione di un particolare regime dell'onere probatorio. 10.10. Il superamento del periodo di comporto. Con riferimento a fattispecie assoggettata a disciplina antecedente all'entrata in vigore della legge cd. Fornero, Sez. L, n. 02554/2015, Bronzini, Rv. 634532, ha affermato che, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, a fronte della richiesta del lavoratore di conoscere i periodi di malattia, il datore di lavoro deve indicare, a pena di inefficacia del licenziamento, i motivi del recesso ex art. 2, secondo comma, della legge n. 604 del 1966. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello in quanto il datore di lavoro aveva ricevuto la richiesta di conoscere i periodi di malattia nella sede legale della società, come attestato dal timbro 352 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO apposto alla ricevuta di ritorno, ma non aveva fornito l'indicazione dei motivi del recesso). 10.11. Divieti di licenziamento. Con una significativa pronuncia Sez. L, n. 14723/2015, Bandini, Rv. 636408, ha affermato che, in tema di tutela della lavoratrice madre, l'interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, entro i centottanta giorni dall'inizio della gestazione è equiparata a malattia ex art. 19, comma 1, del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, il cui regime è idoneo ad assicurare una tutela sufficiente alla lavoratrice e comporta il divieto di licenziamento dall'inizio della gravidanza fino al verificarsi dell'evento interruttivo, senza che trovi applicazione l'art. 54 del d.lgs. n. 151 cit., che estenderebbe il divieto di licenziamento fino ad un termine finale (quello del periodo di interdizione dal lavoro) irrealizzabile. 10.12. Le conseguenze economiche del licenziamento illegittimo. In linea con un indirizzo per lo più consolidato, Sez. L, n. 15066/2015, Venuti, Rv. 636245, ha affermato che, in tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st.lav., la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva incluso nella base di calcolo la voce ‹‹incentivo venditori››, facente parte della retribuzione variabile, sulla base di una mera presunzione di raggiungimento, anche per gli anni successivi, degli obiettivi che la giustificavano). Sulla questione dell'aliunde perceptum e percipiendum, Sez. L, n. 09616/2015, Napoletano, Rv. 635378, ha specificato che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'aliunde perceptum o dell'aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito. Sul delicato profilo dell'indennità sostitutiva della reintegrazione Sez. L, n. 04874/2015, Doronzo, Rv. 634788, ha 353 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO evidenziato che il diritto riconosciuto al lavoratore dall'art. 18, quinto comma, st.lav. (nel testo novellato dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, e antecedentemente alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012), di optare fra la reintegrazione nel posto di lavoro e l'indennità sostitutiva, in quanto atto negoziale autonomo nell'esercizio di un diritto potestativo derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento, non soggiace agli effetti espansivi della sentenza di riforma previsti dall'art. 336, comma 2, c.p.c., sicché la scelta del lavoratore, in esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato l'illegittimità del licenziamento e disposto la reintegrazione nel posto di lavoro, di rinunciare all'indennità sostitutiva e riprendere il lavoro ha carattere irreversibile, consumando in via definitiva il diritto di opzione. 10.13. Licenziamento del socio di società cooperativa di produzione e lavoro. Sez. L, n. 11548/2015, Venuti, Rv. 635713, ha sottolineato che in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, l'art. 2 della legge 2 aprile 2001, n. 142, esclude l'applicazione dell'art. 18 st.lav. nell'ipotesi ove, con il rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo, sicché l'accertata illegittimità della delibera di esclusione del socio, con conseguente ripristino del rapporto associativo, determina l'applicabilità della tutela reale. Sempre in tema, Sez. L, n. 01259/2015, Tria, Rv. 634099, ha evidenziato che, in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, nel caso di accertata illegittimità del provvedimento espulsivo del socio - cui consegue automaticamente la cessazione del rapporto di lavoro - che si fondi esclusivamente su ragioni disciplinari trova applicazione, in forza del rinvio operato dall'art. 2 della legge n. 142 del 2001, l'art. 18 st.lav., con ripristino sia del rapporto associativo che di quello lavorativo. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la tutela reale anche nel caso in cui sia stata l'esclusione dalla società a determinare il licenziamento, e non viceversa, attribuendo efficacia dirimente alle ragioni disciplinari poste a fondamento dell'estromissione ed escludendo l'applicazione dell'art. 18 st.lav. per le ragioni attinenti esclusivamente il rapporto societario). 10.14. Il licenziamento ingiurioso. Sez. L, n. 23686/2015, Ghinoy, in corso di massimazione, ha ribadito che il carattere ingiurioso del licenziamento, che, in quanto lesivo della dignità del lavoratore, legittima un autonomo risarcimento del danno, non si 354 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO identifica con la sua illegittimità, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva desunto la natura ingiuriosa da circostanze della realtà organizzativa in cui era stato intimato il licenziamento, quali le inutili rassicurazioni sull'insussistenza di esuberi presso la società cessionaria e la temporanea utilizzazione della lavoratrice presso la cedente). 10.15. Applicazioni della legge «Fornero». Questione di rilievo è quella che riguarda l'individuazione del momento a partire dal quale si applica il regime sostanziale introdotto dalla legge n. 92 del 2012 (c.d. legge ‹‹Fornero››). Al riguardo, Sez. L, n. 21054/2015, Balestrieri, Rv. 637361, ha ribadito che l'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, di modifica dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, non si applica ai licenziamenti oggetto dei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della detta legge, difettando una specifica disposizione transitoria che, in deroga al principio generale di cui all'art. 11 disp. prel. c.c., e con specifico riferimento alle norme di natura sostanziale, ne disponga l'applicazione retroattiva. Con particolare riguardo ai licenziamenti disciplinari, Sez. L, n. 16265/2015, Lorito, Rv. 636351, ha precisato che ai sensi del combinato disposto dei commi 47 e 67 dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012, nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti in questione, al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio, va fatto riferimento non al fatto generatore del rapporto, né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l'art. 1, comma 42, della detta legge si applica solo ai nuovi licenziamenti, ossia a quelli comunicati a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della nuova disciplina. Di estremo interesse Sez. L, n. 14324/2015, Bandini, Rv. 636036, secondo cui la violazione del principio di immediatezza della contestazione è causa di illegittimità del licenziamento disciplinare ma non comporta la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e l'obbligo di versamento dei contributi fino al giorno dell'effettiva reintegra, non rientrando detta ipotesi in alcuna delle previsioni di cui all'art. 18 st.lav., come modificato dalla legge n. 92 del 2012, poiché la tutela nei confronti di tale illegittimità è limitata al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva da determinarsi tra un minimo ed un massimo di mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. 355 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO Di ampio rilevo, altresì, Sez. L, n. 20540/2015, Roselli, in corso di massimazione, la quale ha chiarito, ponendo fine ad un acceso dibattito, che l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria, restando irrilevante in tal caso la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. 11. Licenziamenti collettivi. Con il d.lgs. n. 23 del 2015 il legislatore é intervenuto anche sulla disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo, prevedendo, per i lavoratori assunti dalla data di entrata in vigore del predetto d.lgs., l'applicabilità della tutela reintegratoria ‹‹piena›› per il caso di licenziamento intimato senza l'osservanza della forma scritta e quella indennitaria ‹‹forte›› nell'ipotesi di violazione delle procedure richiamate all'art. 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991. Anche in tale ambito non si registrano pronunce della Suprema Corte emesse sulla nuova disciplina. I temi di maggior rilievo affrontati nell'anno - concernenti la disciplina addirittura anteriore alla riforma introdotta dalla legge n. 92 del 2012 - vertono sulla delimitazione del criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità nonché sulla questione del rispetto delle procedure. E' stato sul punto affermato, da Sez. L, n. 00203/2015, Napoletano, Rv. 634006, che qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto o settore se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative. (In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva considerato legittimo il 356 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO licenziamento di alcuni lavoratori sulla base dell'esclusivo rilievo della loro adibizione al soppresso reparto manutenzione, senza valutare l'attività pregressa svolta dagli stessi, quali autisti, presso il reparto trasporti). Inoltre Sez. L, n. 04678/2015, Patti, Rv. 634813, ha sottolineato che qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Ne consegue che, qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali. In tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l'organico al fine di diminuire il costo del lavoro, Sez. L, n. 19457/2015, Bronzini, in corso di massimazione, ha statuito che il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento, adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione, in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla legge n. 223 del 1991 e codificata nell'art. 27 della Carta di Nizza, il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva, a vantaggio dei lavoratori che non godono neppure della minima protezione della prossimità al trattamento pensionistico. Con specifico riguardo al delicato profilo dell'identificazione delle comunicazioni rilevanti ai fini del rispetto della procedura, Sez. L, n. 12122/2015, Tria, Rv. 635633, ha chiarito che in applicazione del generale principio della ‹‹strumentalità delle forme››, valido anche 357 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO per il procedimento amministrativo, non può essere dichiarata l'inefficacia del licenziamento laddove, nell'ambito di una procedura svoltasi in modo corretto e adeguato alle finalità cui è preordinata per legge, risulti omessa esclusivamente la comunicazione alla Commissione regionale indicata dall'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 - che, in base all'art. 6 della stessa legge, svolge il compito di approvare le liste di mobilità - ed il licenziamento collettivo sia stato disposto, per riduzione del personale, da parte di una impresa non rientrante nel campo di applicazione della disciplina dell'intervento straordinario di integrazione salariale, i cui dipendenti, quindi, non possono beneficiare dell'indennità di mobilità. Sul profilo dei tempi entro cui procedere alle predette comunicazioni Sez. L, n. 08680/2015, Manna, Rv. 635289, ha sottolineato che la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell'elenco dei dipendenti licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dall'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991, si giustifica al fine di consentire alle OO.SS. (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza nell'applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di sollecitare, prima dell'impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del licenziamento eseguito in loro violazione. Ne consegue che la funzione di tale ultima comunicazione implica che non possa accedersi ad una nozione "elastica" di contestualità, riferita anche alla data in cui il licenziamento abbia effetto, dovendosi ritenere irragionevole che, per non incorrere in una decadenza dal termine di cui all'art. 6 della legge n. 604 del 1966, il lavoratore debba impugnare il licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta. Ancora sul requisito della contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione, alle organizzazioni sindacali e agli uffici del lavoro, dell'elenco dei dipendenti licenziati e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, Sez. L, n. 22024/2015, Manna, Rv. 637685, ha ribadito che il predetto requisito deve essere inteso nel senso di un indispensabile contemporaneità delle due comunicazioni, la cui mancanza può giustificarsi solo se sostenuta da motivi oggettivi, della cui prova è onerato il datore. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la decisione di merito che aveva escluso che cinquantasei giorni di ritardo compromettessero il 358 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO requisito della contestualità tra il licenziamento e le comunicazioni alle OO. SS. ed agli uffici competenti). Sull'individuazione del termine di esaurimento della procedura di consultazione, Sez. L, n. 02271/2015, Patti, Rv. 634279, ha affermato che nell'ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione di personale, a norma dell'art. 24 della legge n. 223 del 1991, diverso dal licenziamento collettivo preceduto dalla mobilità previsto dall'art. 4 della stessa legge, la procedura di consultazione deve considerarsi esaurita, ai fini dell'accertamento dell'inefficacia o meno dei licenziamenti intimati, con riferimento esclusivo alle attività ed ai termini previsti dall'art. 4, dal quinto al nono comma, e non anche alla fase amministrativa presso le Regioni, limitata alle procedure con intervento di integrazione salariale straordinaria, nonché per la dichiarazione di mobilità del personale, in assenza del trattamento di integrazione salariale nel licenziamento collettivo per riduzione di personale. Con riguardo al dibattuto tema dei limiti della sanabilità delle violazioni procedurali Sez. L, n. 13277/2015, De Marinis, Rv. 635951, ha puntualizzato che l'omissione della procedura di cui all'art. 4 della legge n. 223 del 1991 non può essere sanata dall'accordo sindacale che comprenda l'individuazione dei lavoratori da licenziare sulla base della sola anzianità contributiva, trattandosi di omissione che compromette l'interesse primario del singolo lavoratore all'individuazione trasparente e verificabile dei licenziandi, alla cui tutela sono diretti gli obblighi procedurali prescritti dalla legge n. 223 del 1991, non derogati dalla riorganizzazione delle Ferrovie dello Stato, di cui all'art. 59 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, dovendosi escludere che la contrattazione collettiva possa prevedere procedure di mobilità in deroga a quelle prescritte dalla legge, od assumere funzione di gestione negoziale dell'individuazione del personale in eccedenza, poiché essa ha unicamente lo scopo di realizzare misure di sostegno in favore del personale e di prevederne le modalità di finanziamento (mediante il "fondo a gestione bilaterale" di cui all'art. 2, comma 28, legge 23 dicembre 1996, n. 662). Con riferimento alla questione della non rilevabilità officiosa, ad opera del giudice, dei vizi procedurali, Sez. L, n. 20436/2015, Ghinoy, Rv. 637264, ha precisato che nel giudizio di impugnativa di un licenziamento intimato a conclusione della procedura diretta al collocamento di lavoratori in mobilità, a norma dell'art. 4 della l. n. 223 del 1991, il giudice di merito non può rilevare d'ufficio eventuali ragioni di illegittimità della procedura, incombendo sulla 359 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO parte l'onere di allegare, tempestivamente, tutte le circostanze che giustificano la proposizione della domanda, inclusi i vizi di forma o di sostanza dei quali intenda avvalersi ai fini della inefficacia o annullabilità della procedura. (Nella specie, la Suprema Corte, a fronte di una domanda fondata in primo grado esclusivamente sulla estraneità della posizione professionale del ricorrente rispetto alla riduzione del personale prevista dall'accordo sindacale, ha ritenuto affetta da ultrapetizione la sentenza di merito che aveva esaminato ad accolto l'ulteriore questione, concernente la lacunosità e genericità di tale accordo per la sua asserita inidoneità ad individuare il soggetto da licenziare, in quanto dedotta solo in appello). Infine, quanto alle ipotesi in relazione alle quali non sono applicabili, a norma dell'art. 24 della legge n. 223 del 1991, le procedure per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, Sez. L, n. 04349/2015, Doronzo, Rv. 634312, ha evidenziato che la ‹‹fine lavoro nelle costruzioni edili›› non consiste nella cessazione dell'attività dell'impresa o nel compimento dell'opera, ma nell'esaurimento della fase dei lavori per i quali i lavoratori erano stati assunti, sì da determinare il venir meno dell'utilità del loro apporto all'attività dell'impresa edile. 12. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. 12.1. Sentenze delle Sezioni Unite. In punto di giurisdizione va segnalata Sez. U, n. 08069/2015, Curzio, Rv. 635082, secondo cui, la domanda giudiziale di accertamento del diritto al riscatto degli anni universitari per fini pensionistici rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, qualora l'istanza amministrativa, sebbene presentata prima del 30 giugno 1998, a tale data non sia stata ancora definita con provvedimento di accoglimento o rigetto, né con silenzio-rigetto, essendo stata smarrita dall'amministrazione. Rientrano, poi, secondo Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634259, nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie promosse dalle associazioni sindacali ai sensi dell'art. 28 st.lav., anche quando la condotta antisindacale riguardi un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato e incida non solo sulle prerogative sindacali dell'associazione ricorrente ma anche sulle situazioni soggettive individuali dei pubblici dipendenti. Il rimborso di spese legali sostenute dal pubblico funzionario ingiustamente accusato per fatti inerenti a compiti e responsabilità dell'ufficio ex art. 18 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67 è soggetto al parere di congruità dell'Avvocatura erariale che, secondo, Sez. U, n. 360 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 13861/2015, D'Ascola, Rv. 635924, non può limitarsi ad una applicazione pedissequa delle tariffe forensi, né mirare a tenere indenne da ogni costo l'interessato, ma, nel valutare le necessità difensive del funzionario in relazione alle accuse mosse ed ai rischi del processo penale, nonché la conformità della parcella del difensore alla tariffa professionale o ai parametri vigenti, deve considerare ogni elemento nel rispetto di principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione. 12.2. Procedure concorsuali. In materia di concorsi, Sez. L, n. 19027/2015, Amendola, Rv. 636932, ha precisato che investe posizioni di interesse legittimo, non sindacabili dal giudice ordinario, la contestazione dell'esercizio del potere discrezionale della P.A. di reclutare il personale, in base all'art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, ratione temporis vigente, mediante l'espletamento di pubblico concorso, anziché attivando le procedure di mobilità, sul rilievo che l'ampiezza del principio organizzativo di cui all'art. 97 Cost. non può costituire fonte di uno specifico diritto al trasferimento del dipendente. Sulla natura del bando di concorso per l'assunzione di personale, Sez. L, n. 09107/2015, Balestrieri, Rv. 635351, ha specificato che esso costituisce lex specialis della procedura ed ha duplice natura giuridica di provvedimento amministrativo e di atto negoziale vincolante nei confronti dei partecipanti. Deve ritenersi legittima, quindi, la graduatoria, approvata in conformità alla disposizione in esso contenuta, che preveda un criterio preferenziale in favore dei candidati provenienti dalla posizione economica immediatamente inferiore a quella oggetto di selezione, trattandosi di previsione in linea con i principi enunciati in materia di pubblici concorsi dalla Corte costituzionale (sentenze 21 gennaio 1999, n. 1 e 9 maggio 2002, n. 194) e con il principio di legalità dell'azione amministrativa e della correttezza nell'esecuzione della norma negoziale. Più in generale, è stato affermato da Sez. L, n. 19626/2015, Amoroso, in corso di massimazione che gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono adottati con i poteri e le capacità del datore di lavoro privato e devono essere valutati secondo gli stessi parametri. Ne consegue che l'atto con cui la P.A. revochi un'assunzione con contratto a tempo indeterminato, sul presupposto dell'annullamento della procedura concorsuale, equivale alla condotta del contraente che non osservi il contratto 361 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità. In tale ipotesi non può darsi esercizio del potere di autotutela in capo all'Amministrazione datrice di lavoro, in quanto si tratta di un comportamento con cui si fa valere l'assenza di un vincolo contrattuale. A proposito, invece, della particolare procedura selettiva per il conferimento dell'incarico di medico fiscale, secondo Sez. L, n. 18159/2015, Amendola, Rv. 636418, l'accertamento del diritto dell'aspirante ad assumere ed espletare l'incarico determina, in caso di inadempimento dell'ASL, il risarcimento del conseguente danno avente natura contrattuale, senza che, in senso contrario, possa opporsi la carenza di affidamento da parte del sanitario in ragione della tempestiva comunicazione dell'esito negativo; né, trattandosi di pregiudizio, il danno può essere limitato al solo interesse negativo per perdita di chances e per rimborso delle spese sostenute. In tema di stabilizzazione del rapporto, per il personale addetto all'ufficio stampa della Regione Sicilia, Sez. L, n. 02370/2015, Amendola, Rv. 634492, ha dichiarato che non sussiste un diritto alla costituzione del rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 127, comma 6, della l.r. Sicilia 26 marzo 2002, n. 2 - che ha recepito sul punto l'art. 6, comma 2, della legge 7 giugno 2000, n. 150 - laddove prevede che la P.A. possa "confermare" nelle funzioni di informazione e comunicazione il personale già ad esse addetto. 12.3. Contratti collettivi - Questioni interpretative. Si richiama preliminarmente, in tema di accertamento sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti collettivi di cui all'art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001, Sez. L, n. 18960/2015, Buffa, Rv. 637047, secondo cui l'obbligatorietà dell'attivazione della procedura, applicabile solo nel procedimento di primo grado, non esclude, in ogni caso, una discrezionalità del giudice nella valutazione della questione e della necessità di attivazione del procedimento. Sotto il profilo delle fonti collettive, è stato chiarito da Sez. L, n. 10973/2015, Bandini, Rv. 635528 che deve escludersi che la disciplina dei rapporti di lavoro nella P.A. possa trovare fonte in contratti collettivi di diritto comune, estranei alla specifica inderogabile disciplina di cui al d.lgs. n. 165 del 2001. Il generico richiamo, quindi, ai ‹‹contratti di lavoro vigenti›› contenuto nell'art. 26 della l.r. Calabria 19 ottobre 1992, n. 20, non può essere inteso come riferibile alla contrattazione di diritto comune, bensì alla contrattazione collettiva pubblica del comparto di appartenenza. 362 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO In relazione all'ambito entro il quale è ammissibile l'intervento della contrattazione decentrata, Sez. L, n. 18673/2015, Buffa, Rv. 637236, ha ritenuto che, in riferimento all'art. 59, comma 1, del c.c.n.l. del comparto Università del 9 agosto 2000, legittimamente la contrattazione decentrata può definire, non solo, i criteri di scelta tra i candidati, ma anche quelli di legittimazione a partecipare alla selezione, ai fini delle progressioni economiche all'interno di ciascuna categoria. Mentre con riferimento al c.c.n.l. 1998-2001 del predetto comparto, Sez. L, n. 23149/2015, Balestrieri, in corso di massimazione, ha chiarito che l'art. 62 ha inteso inequivocamente regolare, in via autonoma e senza possibilità d'intervento della contrattazione decentrata, l'intera materia del trattamento economico accessorio del personale della nuova categoria EP appartenente all'area economico-gestionale, prevedendo l'assorbimento, eccetto le voci specificatamente indicate, nella retribuzione di posizione e di risultato, di tutte le competenze accessorie e le indennità previste dal c.c.n.l. 21 maggio 1996, compreso il compenso per il lavoro straordinario, nonché di quelle previste dalla contrattazione collettiva decentrata previgente. Più nello specifico, poi, in relazione all'art. 7 del contratto integrativo dell'11 maggio 2001 per i dipendenti dell'ex Ministero dei Lavori Pubblici, che prevede, in conformità all'art. 15 del c.c.n.l. 1998/2001 per il personale dipendente del comparto Ministeri, l'avanzamento per saltum da C1 a C3, Sez. L, n. 13992/2015, Patti, Rv. 635977 ha dichiarato che non è in contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto condiziona tale risultato agli esiti del corso di riqualificazione e all'utile collocazione del personale nella graduatoria di merito. Deve, invece, escludersi l'efficacia della trasformazione d'ufficio delle istanze per saltum in istanze semplici di collocazione nelle graduatorie per posizione economica immediatamente superiore a quella di appartenenza, prevista dall'art. 2 dell'Atto aggiuntivo del 4 giugno 2003. Tale nullità trova la sua ragione nel rilievo che la norma dell'atto aggiuntivo non è fonte di pari grado ed ha una efficacia precettiva finalizzata solo ad una migliore precisazione, specificazione e completamento della disciplina del c.c.n.i. 12.4. Retribuzione. In relazione al trattamento retributivo, Sez. L, n. 12624/2015, Venuti, Rv. 635722, ha chiarito come il blocco degli incrementi conseguenti alla contrattazione pubblica fino al 31 dicembre 1993 previsto dall'art. 7, comma 1, del d.l. 19 363 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni nella legge 14 novembre 1992, n. 438, è stato prorogato limitatamente alle indicizzazioni, sino al 31 dicembre 2005 e in tale previsione rientrano anche le borse di studio universitarie, da ricomprendere negli emolumenti di ‹‹qualsiasi genere›› di cui al dettato normativo. E' stata affermata la legittimità, invece, della previsione dell'art. 58 del c.c.n.l. del comparto Ricerca, area dirigenti 1994- 1997, da Sez. L, n. 18220/2015, Buffa, Rv. 637044, che, ai fini degli scatti di anzianità, limita la valutazione dell'anzianità di servizio al solo personale inserito nel terzo livello proveniente dallo stesso comparto, con esclusione di quella maturata dal lavoratore in altri comparti. La ragione si fonda sul presupposto che nel nostro ordinamento esiste il principio della salvezza dei livelli retributivi, ma non quello di conservazione dell'anzianità pregressa. La predetta limitazione trova, peraltro, la sua ragionevolezza nella specificità del personale che sviluppa la propria carriera all'interno del comparto Ricerca, diversa da quella del personale proveniente da altri comparti. Per quanto riguarda, invece, il trattamento normativo e retributivo dei dipendenti comunali, Sez. L, n. 06628/2015, Balestrieri, Rv. 635156, ha specificato che la selezione e la conseguente attribuzione del ‹‹livello economico differenziato›› (led) di professionalità, di cui all'art. 36 del d.P.R. 3 agosto 1990, n. 333, hanno valenza annuale. Grava, di conseguenza, sull'interessato l'onere di provare il permanere del diritto all'emolumento anche per gli anni successivi. 12.5. Indennità varie. In relazione al personale infermieristico, secondo Sez. L, n. 18960/2015, Buffa, Rv. 637046 per l'identificazione delle attività di terapia sub-intensiva idonee alla maturazione dell'emolumento indennità giornaliera, la contrattazione collettiva decentrata non costituisce fonte concorrente, in quanto la norma prevista dall'art. 44, comma 6, lett. b) del c.c.n.l. 1° settembre 1995 per il comparto Sanità suindicata rinvia solo a ‹‹disposizioni regionali››, quali le leggi regionali ed il piano sanitario regionale. Deve essere escluso il cumulo dell'indennità in questione, nel caso di attività espletata nel corso della medesima giornata in una pluralità di strutture tra quelle indicate nella disposizione, così ha chiarito Sez. L, n. 15375/2015, Amendola F., Rv. 636239. Per i dipendenti degli enti locali in materia di indennità di servizio, Sez. L, n. 18231/2015, Blasutto, Rv. 636946, invece, ha 364 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO fornito chiarimenti sulla definizione della retribuzione contributiva a cui essa deve essere commisurata. In particolare, le componenti di tale retribuzione sono tassativamente elencate dall'art. 11, comma 5, legge 8 marzo 1968 n. 152, ed il riferimento allo ‹‹stipendio o salario›› richiede un'interpretazione restrittiva attesa la specifica ed esclusiva indicazione, quali componenti di tale voce, dei soli aumenti periodici della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura. E' esclusa, dunque, da essa l'indennità di struttura in quanto quest'ultima, benché voce del trattamento retributivo globale, non fa parte degli emolumenti specificatamente indicati dalla norma. Per i dipendenti della Regione Lombardia è stato deciso da Sez. L, n. 15082/2015, Patti, Rv. 636393 che l'indennità di anzianità, prevista dagli artt. da 16 a 18 della l.r. Lombardia 7 luglio 1981 n. 38 è stata soppressa, a seguito dell'introduzione del nuovo trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici, di cui al d.P.C.M. 20 dicembre 1999. Va esclusa, dunque, la retroattività della nuova disciplina, mentre dalla data di entrata in vigore, i dipendenti regionali non hanno più diritto al trattamento integrativo accordato dalla citata legge reg. n. 38 del 1981 e mantengono, invece, il diritto maturato nel periodo precedente. Devono, poi, secondo Sez. L, n. 13841/2015, D'Antonio, Rv. 635825 essere esclusi i buoni pasto tra gli obblighi retributivi a carico del datore di lavoro, in ipotesi di distacco per ragioni sindacali. 12.6. Trattamento economico e di quiescenza. Con riferimento all'indennità di buonuscita, a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo, con conseguente reintegrazione e riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, Sez. L, n. 15082/2015, Patti, Rv. 636393, ha ritenuto illegittima la trattenuta degli interessi sulle somme così percepite, operata in occasione della successiva riliquidazione della medesima indennità, al momento del definitivo collocamento in quiescenza. In particolare, sul presupposto che l'interruzione del rapporto in forza del provvedimento giudiziale è solo di fatto e non di diritto, non trova applicazione l'art. 4, comma 1, del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032. In ordine al personale ISTAT, in tema di determinazione dell'indennità di buonuscita, Sez. L, n. 18790/2015, Tricomi, Rv. 637048, ha escluso che vada computata l'indennità di ente mensile prevista dall'art. 44, comma 4, del c.c.n.l. 1994-1997, in quanto, in forza del principio di tassatività, l'art. 71 del successivo c.c.n.l. 1998- 365 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 2001, richiama solo l'indennità di ente annuale maturata dopo il 31 dicembre 1999, come incrementata ai sensi del comma 2 dello stesso articolo 71. Ai fini dell'estensione ai dipendenti pubblici dell'anticipazione del trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c., Sez. L, n. 18230/2015, Blasutto, Rv. 637043, ha chiarito la portata applicativa dell'art. 7, comma 1, della l. 8 marzo 2000 n. 53. In particolare, tale norma presuppone per la sua operatività, l'emanazione di un decreto interministeriale di attuazione, sicché, in mancanza, resta applicabile la pregressa disciplina di cui al d.p.r. n. 1032 del 1973, che non prevede l'anticipazione dell'indennità di buonuscita. Per quanto riguarda, invece, il personale del cd. parastato, Sez. L 23960/2015, Tricomi, in corso di massimazione, ha chiarito che l'estensione ad personam ai funzionari direttivi del trattamento degli ispettori generali e dei direttori di divisione dello Stato prevista dall'art. 15 comma 1 della legge 9 marzo del 1989 n. 88, realizza un'equipollenza stipendiale da cui deve essere esclusa l'indennità di funzione. E' stato chiarito, infatti, che l'art. 61 del d.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 determina unicamente lo stipendio annuo lordo delle qualifiche richiamate, mentre l'art. 15 citato rimette alla contrattazione articolata l'individuazione delle posizioni funzionali di particolare rilievo cui e' correlata l'erogazione dell'indennità di funzione. 12.7. Collocamento a riposo d'ufficio - Licenziamento - Responsabilità per danni. In tema di collocamento a riposo d'ufficio, è stata ritenuta da Sez. L, n. 12488/2015, Nobile, Rv. 635860 la legittimità della risoluzione del rapporto ai sensi dell'art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, qualora il dipendente, alla data del 31 dicembre 2011, abbia maturato i requisiti dei 65 anni di età, ovvero, di 40 anni di contribuzione ovvero, ancora, abbia raggiunto "quota 96" ai sensi dell'art. 1, comma 6, lett. c), della legge 23 agosto 2004, n. 243, come novellato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247. In tali casi, trova applicazione il regime pensionistico previgente alla riforma attuata con l'art. 24 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. in legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall'art. 2, commi 4 e 5, del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, conv. in legge 30 ottobre 2013, n. 125. Secondo Sez. L, n. 01645/2015, Balestrieri, Rv. 636935, in tema di licenziamento nel pubblico impiego privatizzato, la richiesta di avvio della procedura arbitrale prevista dalla contrattazione 366 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO collettiva, non è idonea ad evitare la decadenza dall'azione giudiziaria ex art. 6 legge 15 luglio 1966 n. 604, ove sia stata presentata successivamente all'entrata in vigore dell'art. 68 del d.lgs. 27 ottobre 2009 n. 150, sostitutivo dell'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha vietato, a pena di nullità la possibilità del ricorso a tali procedure. Restano, salve solo, ex art. 73 del d.lgs. n. 150 cit., le procedure pendenti a tale data, con la conseguenza che non può operare neppure il prolungamento del termine a 270 giorni previsto dall'art. 6, comma 2, secondo periodo, della legge n. 604 del 1966, come modificato dalla legge 4 novembre 2010 n. 183, il quale presuppone l'idoneità dell'atto a determinare l'inizio di una procedura arbitrale suscettibile di essere accettata o rifiutata dalla P.A. E' stata, infine, accertata da Sez. 3, n. 16276/2015, Rossetti, Rv. 636371 la responsabilità del pubblico dipendente che, nell'esercizio delle proprie funzioni, abbia adottato o concorso alla formazione di atti amministrativi lesivi di interessi legittimi. Questi, infatti, ne risponde nei confronti del terzo danneggiato dal provvedimento, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 23 del d.P.R. del 10 gennaio 1957, n. 3. 12.8. Potere disciplinare. In relazione all'esercizio del potere disciplinare, in generale, Sez. L, n. 12245/2015, Doronzo, Rv. 635728 ha statuito che ciascuna amministrazione ha il potere di individuare, secondo il proprio ordinamento, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Esso, può, infatti, essere rappresentato anche da una sola persona, interna all'ente e non necessariamente deve consistere in un ufficio articolato e plurisoggettivo. Sez. L, n. 17153/2015, Roselli, Rv. 637189 ha provveduto a distinguere, poi, la diversa natura dei termini previsti dall'art. 55 bis, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001. In particolare, il termine imposto al dirigente della struttura amministrativa di trasmettere, ‹‹entro cinque giorni dalla notizia del fatto››, gli atti all'ufficio disciplinare ha natura sollecitatoria e, quindi, la sua violazione comporta l'illegittimità della sanzione irrogata, solamente ove il ritardo sia tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o tardiva la contestazione dell'illecito. Diversamente, opera il termine di giorni quaranta dalla ricezione degli atti per contestare l'addebito che è, invece, previsto a pena di decadenza. Sez. L, n. 20733/2015, Manna, in corso di massimazione, in tema di data di prima acquisizione della notizia dell'infrazione, da 367 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO cui decorre il termine entro il quale deve concludersi il relativo procedimento, a pena di decadenza dall'azione disciplinare, ha stabilito che il relativo procedimento, coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all'ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui essa è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. In ipotesi di procedimento penale e sospensione dal servizio, Sez. L, n. 13160/2015, Maisano, Rv. 636299 ha deciso che l'art. 27 del c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995, nel riconoscere al lavoratore il conguaglio dell'indennità percepita durante la sospensione rispetto a quanto gli sarebbe spettato nel solo caso di proscioglimento con formula piena, comporta l'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare unicamente nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con il licenziamento del lavoratore. Ne consegue che, ove non sia più possibile la definizione del procedimento (nella specie, per decesso del dipendente), la mancanza della prestazione lavorativa resta a carico del datore di lavoro che, sospeso il rapporto per un proprio interesse cautelativo, si è anche assunto il rischio dell'impossibilità di accertarne la legittimità con la chiusura del detto procedimento. In ipotesi, infine, di condanna penale con pena accessoria interdittiva, introdotta successivamente alla condotta addebitata, Sez. L, n. 00008/2015, Ghinoy, Rv. 633850 ha ritenuto nulla, per violazione degli artt. 25 Cost. e 2 c.p., la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall'amministrazione scolastica, in assenza di espletamento del procedimento disciplinare. L'istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, secondo Sez. L, n. 00617/2015, De Renzis, Rv. 634203, si applica ai dipendenti di cui all'art. 2, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, in forza dell'espressa previsione contenuta nell'art. 53, comma 1, dello stesso decreto, che, riguardando la materia delle incompatibilità, è estraneo all'ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all'art. 55 dello stesso testo normativo. 12.9. Incarichi dirigenziali. Si segnalano diverse pronunce in proposito. In ordine alla configurabilità di un obbligo dell'ente di indire sollecitamente la procedura per il conferimento degli incarichi di cui all'art. 72 del c.c.n.l. dirigenti degli enti pubblici non economici, Sez. L, n. 04239/2015, Venuti, Rv. 634584 ha deciso che, la violazione di 368 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO tale norma, che non fissa alcun termine per il suo adempimento, non contrasta con i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. La violazione di detti principi si configura solo nell'ipotesi in cui siano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge. In relazione alla natura degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, Sez. L, n. 18972/2015, Blasutto, Rv. 637045 li ha qualificati in termini di determinazioni negoziali cui devono applicarsi i criteri generali di correttezza e buona fede, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., che obbligano la P.A. a valutazioni comparative motivate. Non è configurabile, quindi, alcun automatismo della scelta, che resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, cui corrisponde una posizione di interesse legittimo degli aspiranti all'incarico, tutelabile ai sensi dell'art. 2907 c.c., anche in forma risarcitoria. E' illegittima, pertanto, la selezione non supportata dall'indicazione dei criteri e delle motivazioni, tanto da rendere necessaria una nuova valutazione, sempre ad opera del datore di lavoro, senza possibilità di un intervento sostitutivo del giudice, salvo i casi di attività vincolata e non discrezionale. La posizione soggettiva del dipendente ora descritta, secondo Sez. L, n. 07495/2015, Bandini, Rv. 635299 è suscettibile di tutela giurisdizionale, anche in forma risarcitoria, a condizione che l'interessato ne alleghi e provi la lesione, nonché il danno subito, in dipendenza dell'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione. In tal caso, la pretesa risarcitoria evidentemente non si fonderà sulla lesione del diritto al conferimento dell'incarico, che non sussiste prima della stipula del contratto con la P.A. Più in particolare, Sez. L, n. 14142/2015, Patti, Rv. 636074 ha chiarito che al dirigente ministeriale, assunto a seguito di corso concorso bandito con d.p.c.m. 3 aprile 1995, spetta, dalla data di stipulazione del contratto individuale di assunzione a tempo indeterminato con la detta qualifica, il trattamento economico fisso, in base all'art. 1, commi 1 e 2, lett. a) ovvero, lo stipendio tabellare, lett. b), ovvero, RIA, maturato economico annuo, assegno ad personam o elemento fisso, ove acquisiti e spettanti in applicazione dei previgenti c.c.n.l. di categoria, lett. c), ovvero, parte fissa della retribuzione di posizione del c.c.n.l. del personale dirigente di Area 1 per il biennio 2000/2001, propriamente riferibile alla qualifica di dirigente di seconda fascia. Resta esclusa l'applicazione dell'art. 28, comma 5, del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, come modificato dall'art. 369 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO 10 del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, che estende ai vincitori dei concorsi banditi successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo d.lgs., e sino al conferimento del primo incarico, il trattamento previsto dall'art. 1, comma 2, lett. a) e b). La pronuncia da ultimo richiamata, Sez. L, n. 14142/2015, Patti, Rv. 636075, ha, inoltre, indicato come presupposto per il riconoscimento della retribuzione di posizione, componente accessoria del trattamento economico dei dirigenti, l'effettivo esercizio delle funzioni loro attribuite, in quanto collegata al livello di responsabilità previsto per la natura dell'incarico, all'impegno richiesto, al grado di rilevanza e alla collocazione istituzionale dell'ufficio. Essa, dunque, spetta al dirigente dal momento del conferimento del primo incarico, attesa la correlazione all'effettiva attribuzione delle funzioni dirigenziali e all'assunzione delle connesse responsabilità. Con riguardo al personale pubblico con qualifica dirigenziale, Sez. L, n. 08084/2015, Napoletano, Rv. 635225 ha chiarito che l'art. 44, comma 3, del c.c.n.l. comparto Ministeri per il personale dirigente dell'Area 1, del 5 aprile 2001, prevede l'erogazione della retribuzione di risultato solo a seguito della positiva verifica del raggiungimento degli obiettivi, previamente determinati, cui la stessa è correlata. Detto emolumento non può, dunque, spettare in ipotesi di mero svolgimento di funzioni superiori. In tema di recesso dal rapporto di lavoro nei confronti del dirigente medico nel settore pubblico privatizzato, secondo Sez. L, n. 03984/2015, Buffa, Rv. 634589, costituisce un onere procedimentale imposto dalla contrattazione collettiva per il corretto esercizio del potere disciplinare, la previa audizione del lavoratore da parte del datore di lavoro. La sua mancanza non è sanata dalla possibilità per il lavoratore di esercitare il diritto di difesa innanzi al comitato dei garanti, né rileva la mancata richiesta di nuova audizione da parte dell'interessato. La medesima pronuncia, Sez. L, n. 03984/2015, Buffa, Rv. 634589, ha chiarito anche che l'art. 36 c.c.n.l. area dirigenza medica e veterinaria comparto Sanità del 5 dicembre 1996, va interpretato nel senso che il cd. termine a difesa che precede l'audizione dell'interessato va computato a decorrere dalla data di ricevimento della formale contestazione di addebito. Irrilevante è, quindi, la conoscenza che il lavoratore possa aver avuto aliunde dei fatti a lui ascritti. 12.10. Lavoro pubblico negli enti locali. In generale, sul presupposto che la P.A. a prescindere dalle previsioni contrattuali, 370 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO debba tener conto delle proprie esigenze e dei vincoli di bilancio, Sez. L, n. 11198/2015, Napoletano, Rv. 635524, ha chiarito che, l'art. 8 del c.c.n.l. del 31 marzo 1999, nel prevedere l'istituzione delle posizioni organizzative, pur non imponendo, come il contratto collettivo del comparto sanitario, che tali posizioni siano costituite secondo le esigenze di servizio, non stabilisce un obbligo incondizionato per la P.A., atteso che tale attività rientra nelle funzioni organizzative dell'ente. In generale, sull'atto di conferimento di una posizione organizzativa, Sez. L, n. 20855/2015, Amendola, in corso di massimazione, ha chiarito che la modifica o il ritiro dell'atto da parte della P.A. anteriormente alla comunicazione al destinatario e al termine iniziale di esecuzione, costituisce esercizio del potere organizzativo. In tale fase prodromica, il dipendente ha solo un legittimo affidamento al conferimento della predetta posizione, con la conseguenza che la mancata realizzazione può essere fonte di risarcimento del danno, qualora il comportamento dell'amministrazione abbia cagionato un pregiudizio. Sotto altro profilo, ma sempre in tema di posizioni organizzative, in ipotesi di due aspiranti e di illegittima attribuzione ad un soggetto esterno, Sez. L, n. 10030/2015, Buffa, Rv. 635389, ha ammesso il risarcimento del danno per perdita di chance, la cui liquidazione può ritenersi adeguata se commisurata alla retribuzione di posizione, qualora essa non sia superiore alla metà della retribuzione totale cui ciascun dipendente poteva aspirare nel periodo di illegittima privazione della posizione organizzativa. In materia di spoil system, fornendo un'interpretazione costituzionalmente orientata, Sez. L, n. 02555/2015, Doronzo, Rv. 634281, ha stabilito che la decadenza dalla carica dei dirigenti regionali, nei centottanta giorni successivi alla rinnovazione degli organi elettivi, ai sensi del combinato disposto degli articoli 20, comma 6, e 22, comma 5, della l.r. Abruzzo 14 settembre 1999, n. 77, come sostituito dall'art. 16, comma 14, della l.r. Abruzzo 10 maggio 2002, n. 7, si applica soltanto agli incarichi di direttore regionale e di dirigente delle strutture speciali di supporto, con esclusione dei preposti ad altri servizi o in posizione di staff. In materia di conferimento di incarichi, secondo Sez. L, n. 19045/2015, Blasutto, Rv. 637211 la clausola contrattuale contenente il riferimento alla futura adozione di un atto organizzativo attuativo del contratto collettivo regionale di lavoro, contenuto nel provvedimento di originario conferimento di incarico dirigenziale, è qualificabile non come condizione risolutiva 371 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO meramente potestativa (da ritenersi nulla e non apposta), ma come indicazione, ove il Comune non abbia ancora dato attuazione alle disposizioni collettive, di un termine incerto nel ‹‹quando›› ma certo nell'an dovendo l'ente locale provvedervi. Ne consegue che gli incarichi dirigenziali conferiti anteriormente, a norma dell'art. 109, comma 2, del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, sono destinati a perdere ogni effetto dal momento dell'adozione dei nuovi provvedimenti organizzativi. In ordine alla perequazione della retribuzione individuale di anzianità a quella maggiore percepita dagli impiegati che, provenendo da altre amministrazioni, siano transitati nei ruoli regionali, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, Sez. 6-L, n. 17857/2015, Garri, Rv. 636928 dell'art. 43 della l.r. Abruzzo 8 febbraio 2005 n. 6, come sostituito dall'art. 1, comma 2, della l.r. Abruzzo 13 ottobre 2008 n. 16 - nella parte in cui introduce il comma 2 bis nell'art. 1 della l.r. Abruzzo n. 118 del 1998 - ai dipendenti della detta regione non compete il diritto, previsto fino all'abrogazione sopravvenuta in forza della l.r. Abruzzo del 3 agosto 2011 n. 24. 12.11. Equo indennizzo. Sul riconoscimento dell'equo indennizzo si segnalano alcune pronunce sulla domanda e la decorrenza del beneficio. In particolare, Sez. 6-L, n. 09504/2015, Marotta, Rv. 635377 ha precisato che l'accoglimento della domanda non determina anche il pagamento della rendita per malattia professionale. Quest'ultima, infatti, infatti, va chiesta con una distinta domanda e presuppone un diverso giudizio avente ad oggetto l'accertamento dei presupposti della rendita stessa da malattia professionale. Il termine semestrale di decadenza, poi, per la proposizione della domanda, previsto dall'art. 3 del d.P.R. 20 aprile 1994, n. 349, secondo Sez. L, n. 08083/2015, Bandini, Rv. 635311 inizia a decorrere dalla data in cui si è verificato l'evento dannoso o da quella in cui il dipendente ha avuto conoscenza dell'infermità o della lesione, salvo il caso in cui la menomazione non si sia manifestata contemporaneamente all'infermità o alla lesione, e non, invece, dal momento del riconoscimento della causa di servizio, in linea con quanto deciso da Sez. L, n. 14584/2009, Roselli, Rv. 608841. In relazione alla disciplina applicabile, troverà applicazione il d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461, ove tale conoscenza si sia concretizzata successivamente alla sua entrata in vigore. 372 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO E' ritenuta conoscibile l'infermità, secondo Sez. L, n. 04669/2015, Doronzo, Rv. 634810, quando la natura e la gravità della malattia sono desumibili, in base ad indici oggettivi, alla luce delle nozioni comuni dell'uomo medio, eventualmente integrate da diagnosi mediche. 12.12. Trasformazione di enti. In materia di trasformazione degli Istituti Superiori di Educazione Fisica (ISEF) prevista dalla legge delega del 15 maggio 1997 n. 127, secondo Sez. L, n. 14403/2015, Berrino, Rv. 636065, l'art. 5 del d.lgs. 8 maggio 1998 n. 178, che ha attuato la menzionata delega, riconosce il diritto potestativo incondizionato al mantenimento delle funzioni didattiche presso le nuove facoltà, corsi di laurea e di diploma unicamente ai docenti non universitari con un rapporto di servizio connesso alla titolarità di un insegnamento svolto da almeno tre anni in posizione di comando, distacco o incarico presso gli istituiti di cui alla menzionata disposizione. Pertanto, tale diritto non è estendibile ad ipotesi ivi non contemplate e, in particolare, a quella dei professori a contratto ex art. 25 del d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382, docenti non legati da un rapporto di impiego stabile, ma da contratti di diritto privato a tempo determinato. 12.13. Passaggio ad altra amministrazione. Secondo Sez. L, n. 12861/2015, Blasutto, Rv. 635720 non hanno diritto alla conservazione della quattordicesima mensilità di cui all'art. 3 del c.c.n.l. per il personale dipendente dell'Ente Poste Italiane per il biennio 1996-1997 i dipendenti dell'Amministrazione delle poste e telecomunicazioni che, ai sensi dell'art. 6, comma 4, della legge 29 gennaio 1994, n. 71, siano transitati nei ruoli di altra amministrazione dello Stato presso la quale erano comandati, dovendosi considerare gli stessi, a seguito della trasformazione dell'Ente Poste in Poste Italiane S.p.A., provenienti da rapporto di lavoro subordinato privato e non da Amministrazione dello Stato, requisito la cui sussistenza condiziona il diritto a conservare il miglior trattamento economico maturato presso il datore di lavoro di provenienza. Per quanto riguarda, invece, il personale degli enti locali, trasferito nel ruolo del personale ATA dello Stato, secondo Sez. L, n. 22706/2015, Maisano, in corso di massimazione, è da escludere il passaggio automatico al profilo superiore di collaboratore amministrativo, di nuova istituzione, in quanto l'art. 1 dell'accordo 373 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dell'8 marzo 2002 lo condiziona alla definizione delle dotazioni organiche. In tema di soppressione dei patronati scolastici della Regione Sicilia e conseguente attribuzione delle funzioni ai comuni, Sez. L, n. 09379/2015, D'Antonio, Rv. 635383 ha ammesso il passaggio del personale con inquadramento anche in soprannumero, sul presupposto che il carattere speciale della legislazione regionale escluda la violazione dell'art. 97 Cost. L'art. 1 della l.r. Sicilia del 2 gennaio 1979, n. 1, disposizione ulteriormente precisata dall'art. 3 della l.r. Sicilia del 5 agosto 1982, n. 93, nel prevedere la soppressione dei patronati scolastici regionali e la devoluzione delle loro funzioni ai Comuni, ha disposto la destinazione del relativo personale alle amministrazioni comunali facendo ricorso, secondo una modalità utilizzata anche dal legislatore nazionale con il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, alla tecnica dell'inquadramento in sovrannumero, senza subordinare il trasferimento del personale al soddisfacimento di esigenze di copertura finanziaria. Né può ritenersi, atteso il carattere di specialità delle anzidette disposizioni, la valenza derogatoria delle norme di carattere generale successivamente intervenute. Trattandosi, inoltre, di trasferimento di personale a seguito di soppressione di un ente ed attribuzione ad altro ente delle funzioni esercitate dal primo, non sussiste la contrarietà della legislazione regionale al principio dell'accesso agli impieghi per pubblico concorso di cui all'art. 97 Cost. In tema di mobilità Sez. L, n. 01914/2015, Manna A., Rv. 634196 ha fornito l'interpretazione l'art. 5, comma 2, del d.p.c.m. 5 agosto 1988, n. 325, chiarendo che la previsione per la quale il dipendente conserva, ove più favorevole, il trattamento economico in godimento all'atto del trasferimento, mediante l'attribuzione ad personam della differenza, non si riferisce a qualsiasi vantaggio economico, ma alle sole voci retributive certe, predeterminate e di necessaria erogazione, cui corrisponde, ai sensi del d.p.c.m. 22 luglio 1989, n. 428, l'obbligo dell'ente di provenienza di trasferire i relativi fondi all'ente di nuova destinazione riguardanti dipendenti delle Ferrovie dello Stato. Da tale principio consegue che non può essere preso in considerazione il vantaggio economico derivante dalle condizioni di viaggio, di cui il dipendente abbia usufruito anteriormente al trasferimento, trattandosi di un beneficio connesso alle particolari caratteristiche e modalità della prestazione svolta presso l'ente di provenienza, la cui conservazione a carico del medesimo ente è limitata, secondo la disciplina contrattuale 374 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO successiva alla legge 15 maggio 1985 n. 210, ai dipendenti che, al momento del trasferimento, abbiano maturato il diritto a pensione. 12.14. Autoferrotranvieri. Sul presupposto dell'applicabilità della disciplina prevista dall'art. 27, lett. d), All. A al r.d. 8 gennaio 1931 n. 148, che distingue le ipotesi di esonero per scarso rendimento, da quella concernente la malattia che determini inabilità al servizio, di cui alla lett. b) dello stesso articolo, Sez. L, n. 16472/2015, Manna, Rv. 636350, ha dichiarato che non può tenersi conto delle assenze per malattia, le quali possono rilevare solo nell'ambito di una diversa previsione e delle correlative speciali modalità di adozione del provvedimento di esonero. Il procedimento disciplinare, previsto dall'art. 53 r.d. n. 148 del 1931, secondo Sez. L, n. 13654/2015, Manna A., Rv. 635956 delinea una procedura maggiormente garantista rispetto a quella di cui all'art. 7 st.lav., ma la contestazione dell'addebito e il successivo opinamento circa la sanzione da irrogare non possono essere contestuali. Si tratta, infatti, di fasi che, ai sensi della citata disposizione, devono essere separate, realizzando una "doppia fase di contestazione", così da consentire all'incolpato l'esercizio del diritto di difesa e da garantire che le indagini disciplinari tengano conto delle giustificazioni rese dal lavoratore a fronte della contestazione ricevuta. Tale pronuncia è in linea con quanto sostenuto da Sez. L, n. 05551/2013, Ianniello, Rv. 626060. L'adibizione del dipendente, di azienda autoferrotranviaria, divenuto inabile al lavoro, a mansioni inferiori rispetto a quelle in precedenza svolte, comporta per Sez. L, n. 01027/2015, Berrino Rv. 634008 l'applicabilità del principio di irriducibilità della retribuzione a condizione che l'inabilità sia a carattere permanente, nonché dipesa da infortunio sul lavoro. In relazione al c.c.n.l. autoferrotranvieri del 23 luglio 1976, Sez. L, n. 20504/2015, Esposito L., in corso di massimazione, ha precisato che l'art.20 indica la tratta ‹‹a cui l'agente appartiene›› come uno dei criteri, al fine di individuare la residenza di servizio, utile per il riconoscimento dell'indennità di trasferta. Detto criterio tiene, infatti, conto, delle mansioni in concreto svolte dai dipendenti e del luogo in cui esse vengono espletate. 13. Agenzia. In materia di contratto di agenzia la S.C. ha avuto modo di effettuare alcune precisazioni relativamente alla fase di costituzione, ovvero, all'esecuzione e alla cessazione del rapporto. In particolare, Sez. 2, n. 05165/2015, Migliucci, Rv. 634706, ha 375 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO ribadito che la forma del contratto deve essere scritta ad probationem, ai sensi dell'art. 1742, comma 2 c.c., come modificato dal d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303, precisando che non sono ammissibili neanche prove documentali volte a dimostrare l'esecuzione delle prestazioni. Ai fini della qualificazione della natura del rapporto, secondo Sez. 2, n. 03029/2015, Mazzacane, Rv. 634553, è da escludere l'esistenza di un rapporto di lavoro coordinato e continuativo ex art. 409 comma 1 c.p.c., qualora l'attività sia fornita in forma societaria o attraverso autonoma struttura imprenditoriale. In ordine alla disciplina applicabile, Sez. L, n. 04461/2015, Lorito, Rv. 634582 ha confermato, in linea con quanto in precedenza deciso da Sez. L, n. 12879/1999, Filadoro, Rv. 531343, che non è applicabile analogicamente l'art. 1736 c.c., relativo al contratto di commissione, in quanto la responsabilità dell'agente per lo ‹‹star del credere›› è disciplinata dall'accordo economico collettivo 20 giugno 1956, avente efficacia erga omnes per effetto del d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 145, eventualmente derogabile dalla successiva contrattazione collettiva di settore. In tema di esecuzione del rapporto, Sez. L, n. 13580/2015 Manna, Rv. 635837, ha riconosciuto al preponente il potere di modificare talune clausole, in particolare quella relativa al portafoglio clienti, per meglio adeguare il rapporto alle esigenze delle parti. Tale potere è subordinato, tuttavia, all'osservanza dei principi di correttezza e buona fede, affinché non resti esclusa la forza vincolante del contratto nei confronti dell'agente. Per altro verso, se è posto a carico dell'agente l'onere probatorio relativo all'indicazione degli affari compiuti, secondo Sez. L, n. 21219/2015, Napoletano, in corso di massimazione, sul preponente grava l'obbligo dell'invio all'agente degli estratti conto provvisionali. Non è di conseguenza imputabile a quest'ultimo l'inadempimento dell'obbligo informativo relativo alla quantificazione del suo credito. E' stato, poi, confermato da Sez. L, n. 17063/2015, Buffa, Rv. 636423, un principio espresso in epoca più risalente, da Sez. L, n. 05466/1998, Miani Canevari, Rv. 516051, secondo cui, con riferimento all'attività dell'agente di assicurazioni in gestione libera, trova applicazione l'art. 2112 c.c., nell'ipotesi in cui il trasferimento di azienda abbia luogo in due fasi, connesse tra loro, costituite dalla revoca del mandato da parte del preponente e dalla retrocessione a quest'ultimo del complesso dei beni aziendali organizzato per la gestione dell' agenzia e dal successivo trasferimento di esso, da parte 376 CAP. XVI - IL DIRITTO SOSTANZIALE DEL LAVORO dello stesso preponente, a nuovi agenti. La norma può trovare applicazione solo qualora l'entità economica preesistente conservi la propria identità e la gestione dell'azienda venga proseguita senza interruzione dai nuovi titolari con lo stesso personale impiegato prima del trasferimento. 377 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE CAPITOLO XVII PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE (di Milena d'Oriano e Salvatore Leuzzi)* SOMMARIO: 1. L'obbligo contributivo. - 1.1. L'inquadramento dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assicurativi. - 1.2. Il lavoro dei coadiutori familiari del farmacista. - 1.3. Il lavoro nelle cooperative. - 1.4. Contribuzione e rapporto di lavoro. - 1.5. Contribuzione e lavoratori stranieri. - 2. L'esenzione dagli obblighi contributivi. - 3. I benefici contributivi. - 3.1. I lavoratori soci di cooperative sociali. - 3.2. I lavoratori iscritti nelle liste di mobilità. - 3.3 I lavoratori irregolari. - 3.4. I lavoratori esposti all'amianto. - 4. Gli sgravi. - 4.1. Gli sgravi in favore delle imprese façoniste. - 4.2. Gli sgravi in favore delle imprese edili. - 4.3. Gli sgravi in favore delle aziende operanti nel centro storico di Chioggia. - 4.4. Sgravi ed aziende stipulanti contratti di riallineamento. - 5. Accertamento e riscossione dei crediti contributivi. - 6. La prescrizione dei crediti contributivi. - 7. Omissione ed evasione contributiva. - 8. Sanzioni civili e somme aggiuntive. - 9. Risarcimento del danno da omissione contributiva - 10. Le prestazioni assistenziali: questioni procedimentali e sostanziali. - 10.1. La legittimazione passiva dell'Inps e l'inammissibilità delle azioni di mero accertamento. - 10.2. La decadenza ex art. 42 del d.l. n. 326 del 2003. - 10.3. La domanda giudiziale. - 10.4. Le collegiali mediche. - 10.5. La decorrenza delle prestazioni. - 10.6 L'assegno sociale. - 10.7. L'assegno mensile di assistenza. - 10.8. L'assegno per il nucleo familiare. - 10.9. L'indennità di accompagnamento. - 10.10. L'indennizzo del danno da emotrasfusione e vaccinazione obbligatoria. 11. Le prestazioni previdenziali dell'INPS. - 11.1. Pensione di invalidità. - 11.2. Pensione di inabilità. - 11.3. Pensione di reversibilità. - 11.4. Pensione privilegiata - 11.5. Equiparazioni, ricongiunzioni e cumuli. - 11.6. Indennità di mobilità. - 11.7. Indennità di disoccupazione. - 12. Le tutele dell'INAIL. - 12.1. I principi generali. - 12.2. Il regresso. - 12.3. Il danno differenziale. - 13. La previdenza di categoria. - 13.1. ENASARCO. - 13.2. INPGI. - 13.3. ENPACL. - 13.4. Fondo volo. - 13.5. ENPAF. – 13.6. ENPALS. - 13.7. Cassa Nazionale Forense. – 13.8. Cassa Dottori Commercialisti. 13.9. Cassa di previdenza geometri. - 13.10. Cassa di previdenza ragionieri. - 14. La previdenza complementare. - 14.1. Il fondo di garanzia dell'INPS. - 14.2. Il fondo per impiegati di esattorie e ricevitorie 1. L'obbligo contributivo. 1.1. L'inquadramento dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assicurativi. Oggetto di attenzione della Sezione Lavoro della Suprema Corte sono state ancora una volta le problematiche connesse all' inquadramento dei datori di lavoro a fini previdenziali. In Sez. L, n. 11544/2015, Mammone, Rv. 635715, è stata affrontata la questione della decorrenza della variazione della classificazione precisando che, laddove la stessa sia il frutto esclusivo dell'istanza proposta dal datore di lavoro, i suoi effetti decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta e non, retroattivamente, dal momento dell'effettivo accertamento * Milena d'Oriano capitoli da 1 a 10, Salvatore Leuzzi capitoli da 11 a 14. 378 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE della sussistenza dei requisiti dell'attività svolta, che sia stato operato anteriormente dall'ente previdenziale. Ai sensi dell'art. 3, comma 8, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, adottati d'ufficio dall'INPS, con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente all'effettiva attività svolta, producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei soli casi in cui l'inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro; in caso poi di variazione disposta a seguito di richiesta dell'azienda, gli effetti del provvedimento decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta stessa. Precisa la Corte che la deroga della retroattività degli effetti della variazione opera solo se il comportamento del datore di lavoro sia stato caratterizzato da un'attività positiva e volontaria, quale l'invio di dichiarazioni inesatte, ma non nel caso dell'omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell'attività. Secondo Sez. L, n. 10823/2015, Di Cerbo, Rv. 635662, l'attività di un consorzio autostradale (nella specie il Consorzio per le Autostrade siciliane), pur se esercitata da un ente pubblico non economico, ha natura obiettivamente industriale in quanto finalizzata alla progettazione, costruzione e gestione di autostrade e, dunque, alla produzione di beni o servizi per la realizzazione di una nuova utilità sicché il consorzio è tenuto ad assicurare il proprio personale dirigente presso l'INPDAI (ora INPS), versando i relativi contributi. Tale conclusione, osserva la Corte, è coerente con il proprio costante orientamento, espresso da ultimo in Sez. L, n. 16246/2014, Venuti, Rv. 631892, secondo cui, per accertare il carattere industriale dell'attività, rileva la definizione dell'art. 2195 c.c., n. 1, in base al quale è industriale l'attività produttiva non solo di beni ma anche di servizi, purché finalizzata alla costituzione di una nuova utilità. 1.2. Il lavoro dei coadiutori familiari del farmacista. Sez. L, n. 16520/2015, Doronzo, Rv. 636570, conferma che i coadiutori, familiari non farmacisti, del titolare di una farmacia, tenuto conto delle varie attività gestorie demandabili ai non farmacisti e nel concorso dei requisiti di legge relativi all'impresa ed alle modalità della loro partecipazione all'attività della stessa, rientrano nell'ambito applicativo dell'assicurazione per gli esercenti attività commerciali, 379 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE di cui all'art. 1, commi 202, 203 e 206, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 - da cui sono invece esentati i farmacisti iscritti quali professionisti all'ente di previdenza ENPAF - con la precisazione che la registrazione "virtuale" del titolare dell'impresa presso l'INPS, per l'attuazione dell'assicurazione dei suddetti coadiutori, non determina alcuna anomalia in quanto si risolve in un mero meccanismo operativo. La questione di fondo su cui è incentrata la decisione è stata esaminata più volte a partire da Sez. L, n. 11466/2010, Toffoli, Rv. 613496; premessa la certa qualificazione della farmacia come impresa commerciale, con orientamento consolidato ritiene la S.C. che, mentre l'esclusione dall'assicurazione commercianti dei farmacisti appare coerente con la finalità di evitare duplicazioni di assicurazione, in quanto gli stessi, come professionisti, sono iscritti all'ente previdenziale dei farmacisti ENPAF, in favore del quale versano i contributi, questa stessa finalità non si riscontra con riguardo agli eventuali coadiutori familiari non farmacisti, rispetto ai quali, al contrario, l'esclusione dell'assicurazione nonostante la loro partecipazione all'attività di un'impresa commerciale, avente le caratteristiche previste ai fini assicurativi, rappresenterebbe una disarmonia rilevante sul piano dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 Cost., comma 1) e di garanzia di un'adeguata tutela di tipo previdenziale dei lavoratori (art. 38 Cost., comma 2). 1.3. Il lavoro nelle cooperative. In tema di contribuzione previdenziale per i lavoratori soci di società cooperative, Sez. L, n. 09112/2015, Tria, Rv. 635350, evidenzia come il giudice ordinario abbia il potere di disapplicare, in caso di illegittimità per irregolarità del relativo procedimento di formazione, i decreti del Ministero del lavoro di cui all'art. 6, comma 1, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602. A tali decreti, in attuazione dell'art. 35, legge 21 luglio 1965, n. 903, è consentito determinare, per provincia o per zona nonché per settori di attività merceologiche, sentite le organizzazioni sindacali interessate, la classe iniziale di contribuzione e la corrispondente retribuzione imponibile, riferite alla vigente tabella delle classi di contribuzione ed alle successive variazioni della stessa, ai fini dell'applicazione dei contributi base ed integrativi per l'assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti gestita dall'INPS per i lavoratori soci di società cooperative; dalla suddetta disapplicazione, prosegue la Corte, deriva l'illegittimità della cartella di pagamento emessa in relazione a contributi quantificati con i 380 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE criteri di calcolo in essi determinati, in deroga ai minimali fissati su base nazionale utilizzati invece dalla società cooperativa. Sez. L, n. 13934/2015, Tria, Rv. 635823, dà poi continuità all'orientamento secondo cui, poiché l'assoggettamento a contribuzione di una società cooperativa non comporta l'automatica configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra questa e il socio, il riconoscimento in favore dei soci di cooperative di una tutela previdenziale assimilabile a quella propria dei lavoratori subordinati, con il corrispondente obbligo della società, presuppone che venga accertato dal giudice di merito che il lavoro svolto dai soci sia prestato in maniera continuativa e non saltuaria e non si atteggi come prestazione di lavoro autonomo. 1.4. Contribuzione e rapporto di lavoro. Richiamati i principi consolidati in tema di criteri utilizzabili ai fini della individuazione della subordinazione, Sez. L, n. 04346/2015, Buffa, Rv. 634578, afferma che qualora si accerti che il datore di lavoro si serva di ex dipendenti, inserendoli nell'organizzazione aziendale e facendogli svolgere la stessa attività lavorativa posta in essere in precedenza, senza l'uso di propri strumenti di lavoro, senza assunzione di rischio, con compenso fisso e non rapportato ai risultati conseguiti, affidando ad essi altresì l'addestramento dei colleghi meno esperti e con l'obbligo si osservare direttive circa il personale da istruire ed il lavoro da svolgere, sussiste un pieno inserimento dei lavoratori nell'attività di impresa, con conseguente insorgenza degli obblighi contributivi previdenziali a carico del datore di lavoro e qualificazione dei rapporti come di lavoro subordinato. Secondo Sez. L, n. 12124/2015, Buffa, Rv. 635632, nel caso in cui la Corte di legittimità accerti la legittimità del licenziamento ed annulli il provvedimento di reintegrazione del lavoratore, adottato medio tempore in sede di merito, non sono dovuti i contributi previdenziali - ricollegati, in forza dell'art. 6 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, conv. con modif. dalla l. 6 luglio 1939, n. 1272, al pagamento della retribuzione - per il periodo della temporanea riviviscenza del rapporto di lavoro, sicché il datore di lavoro, ove li abbia nel frattempo versati, ha diritto di ripeterli, dovendo il loro versamento qualificarsi come indebito. Per i casi di interposizione nelle prestazioni di lavoro, Sez. L, n. 17516/2015, Venuti, Rv. 636943, dà continuità all'orientamento secondo cui l'obbligo contributivo incombe sul datore di lavoro effettivo e non è configurabile una obbligazione concorrente del 381 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE datore di lavoro apparente, fatta salva l'incidenza satisfattiva dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell'art. 1180, comma 1, c.c., ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, senza che assuma rilievo la consapevolezza dell'altruità del debito, atteso che, in caso di indebito soggettivo, anche il pagamento effettuato per errore è qualificabile, in forza del coordinamento tra gli artt. 1180 e 2036 c.c., come pagamento di debito altrui, con efficacia estintiva dell'obbligazione in presenza delle condizioni di cui all'art. 2036, comma 3, c.c. Sez. 6-L, n. 22379/2015, Marotta, in corso di massimazione, ribadisce, poi, che nel caso venga accertata giudizialmente una ipotesi di demansionamento, il datore di lavoro, che attraverso l'assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle poi riconosciute, è incorso in un illecito contrattuale di cui deve sopportare le conseguenze, ha l'obbligo di integrare i contributi assicurativi mancanti, anche per la parte a carico del lavoratore, a decorrere dal momento del mancato pagamento delle quote di retribuzione omesse e non da quello dell'accertamento. Infine Sez. L, n. 20430/2015, Napoletano, in corso di massimazione, evidenzia che, poiché la retribuzione dei lavoratori delle compagnie portuali è determinata secondo una base fissa, che costituisce il minimo garantito destinato a coprire anche la mera messa a disposizione delle energie lavorative, ed una variabile, collegata all'utilizzazione effettiva delle stesse, in quanto la loro prestazione è intrinsecamente discontinua sì che parte fissa e parte variabile sono un unicum della retribuzione normale, senza che la retribuzione variabile sia relazionata a particolari modalità del lavoro prestato,è a tale retribuzione che va fatto riferimento ai fini del calcolo della contribuzione figurativa, ai sensi dell'art. 8, comma 8, della legge 23 aprile 1981 n. 155. 1.5. Contribuzione e lavoratori stranieri. In merito agli obblighi contributivi di un'impresa straniera operante in Italia, Sez. L., n. 04351, Maisano, Rv. 634804, ne afferma la sussistenza, in forza del principio della territorialità delle assicurazioni sociali, quanto al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per i lavoratori impiegati nel territorio, ancorché essi siano cittadini dello Stato di provenienza dell'impresa, salva solo l'esistenza di eventuali deroghe previste in accordi internazionali. Sez. L. n. 19469/2015, Ghinoy, Rv. 637300 si esprime poi sulla corretta interpretazione dell'art. 22, comma 11, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nel testo anteriore alle modifiche introdotte 382 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dall'art. 18, comma 13, della legge 30 luglio 2002, n. 189, precisando che la facoltà riconosciuta ai lavoratori extracomunitari, che abbiano cessato l'attività lavorativa in Italia e lascino il territorio nazionale, di richiedere, nei casi in cui la materia non sia regolata da convenzioni internazionali, la liquidazione dei contributi versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria, maggiorati del 5 per cento annuo, compete solo per i contributi versati presso la gestione IVS, poiché la norma ha ad oggetto il rimborso di somme destinate alla copertura di eventi futuri, che permettano l'erogazione di prestazioni pensionistiche al momento della maturazione dei relativi requisiti. Ne consegue l'esclusione dei contributi versati presso gestioni diverse, a titolo di maternità, malattia, disoccupazione, CUAF e servizio sanitario nazionale, che hanno causa nella copertura del rischio assicurativo per il tempo in cui il rapporto di lavoro ha già avuto esecuzione. 2. L'esenzione dagli obblighi contributivi. In tema di esonero contributivo, Sez. L, n. 11487, Garri, Rv. 635666, ricorda che la stabilità di impiego che, ai sensi dell'art. 40 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, comporta l'esclusione dell'obbligo di assicurazione contro la disoccupazione per i dipendenti delle aziende private, sussiste - dovendosi interpretare in senso pubblicistico - quando, tenuto anche conto dell'accertamento in sede amministrativa ex art. 36 del d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, ai lavoratori sia riconosciuto un determinato stato giuridico che garantisca loro di non essere costretti a lasciare il posto se non quando ricorra una giusta causa, a norma dell'art. 2119 c.c., oppure vi siano altri determinati e giustificati motivi; che il presupposto per il riconoscimento del diritto all'esonero contributivo è pertanto la verifica, da parte del Ministero del Lavoro, su domanda dell'interessato, dell'esistenza di una situazione di stabilità di impiego, in esito all'interpretazione della disciplina collettiva che regola il rapporto di lavoro, che la autorizzi; che il giudice ordinario può disapplicare il provvedimento del Ministro del lavoro ove ne constati l'illegittimità, anche per eccesso di potere, sempreché ciò non involga un sindacato sull'esercizio del potere discrezionale da parte della P.A. 3. I benefici contributivi. 3.1. I lavoratori soci di cooperative sociali. Per Sez. L, n. 13706/2015, Ghinoy, Rv. 635962, posto che non è inibito alle cooperative sociali svolgere attività ulteriori e diverse rispetto a quelle che ne consentono tale qualificazione ai fini amministrativi, per il principio della necessaria 383 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE correlazione dei benefici contributivi con la fattispecie legislativa che li prevede, all'ulteriore diversa attività dovrà trovare applicazione il corrispondente regime contributivo. Ne deriva che, come ai fini dell'applicabilità del trattamento contributivo agevolato per i soci lavoratori di cooperative di lavoro, previsto dal d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602, e dal d.m. 29 novembre 1984, occorre che sussista il requisito dell'effettivo svolgimento da parte dei soci lavoratori di attività lavorativa corrispondente a quella svolta dalla società, determinandosi altrimenti l'applicazione non giustificata di un regime di favore, così i benefici contributivi, dell'applicazione dell'imponibile medio giornaliero e del periodo di occupazione media mensile convenzionale, previsti dai decreti del Ministero del lavoro per i lavoratori soci delle cooperative sociali indicate dall'art. 1, lett. a) della legge 8 novembre 1991, n. 381, trovano applicazione esclusivamente con riferimento ai soci lavoratori svolgenti le corrispondenti attività. 3.2. I lavoratori iscritti nelle liste di mobilità. Sez. L, n. 17838/2015, Venuti, Rv. 636944, precisa che il beneficio della decontribuzione previsto dall'art. 8, comma 4, della l. 23 luglio 1991 n. 223 in favore del datore di lavoro che, ‹‹ senza esservi tenuto ››, assuma a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, al fine di incentivare le assunzioni dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, presuppone la creazione di nuovi posti per esigenze proprie dell'azienda in assenza di un obbligo all'assunzione, per cui non compete nelle ipotesi di automatico trasferimento dei rapporti di lavoro subordinato, esistenti al momento della cessione, effettuato ai sensi dell'art. 2112 c.c., senza soluzione di continuità, in capo al cessionario. Sez. L. n. 22639/2015, Tricomi, in corso di massimazione, chiarisce, invece, che il termine di dodici mesi previsto nel primo inciso dell'art. 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991 n. 223 del 1991, non è riferito alla durata dell'agevolazione contributiva, ma alla durata massima del contratto a tempo determinato per il quale l'agevolazione opera e che nel caso poi il contratto venga trasformato a tempo indeterminato, l'agevolazione spetta per l'ulteriore durata di un anno, che si somma a quella precedentemente riconosciuta. Evidenzia la S.C. che siamo in presenza di una fattispecie di assunzione a tempo determinato autonoma, connessa ad una causale di carattere prettamente soggettivo, la cui ratio è favorire nuove opportunità di impiego, ancorché temporaneo, in vista di 384 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE successive trasformazioni in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, con l'unico limite di carattere temporale, riferito alla durata massima che non potrà essere superiore ai dodici mesi. 3.3. I lavoratori irregolari. Sez. L. n. 22412/2015, Balestrieri, in corso di massimazione, evidenzia che la legge 18 ottobre 2001, n. 383, recante norme per incentivare l'emersione dall'economia sommersa, prevede benefici fiscali e previdenziali solo in caso di una denuncia spontanea da parte del datore di lavoro della presenza di lavoro irregolare ed afferma pertanto che la dichiarazione di emersione di lavoro irregolare, di cui all'art. 1, comma 1, è idonea a produrre gli effetti di cui al comma 3 della stessa norma solo se presentata prima sia di eventuali accessi, ispezioni e verifiche, sia della notifica dell'avviso di accertamento e che quindi ne va esclusa l'efficacia in caso di accertamenti ispettivi già in atto, di cui l'imprenditore abbia avuto conoscenza, anche se non ancora conclusi o notificati. 3.4. I lavoratori esposti all'amianto. Numerose e innovative le pronunce in tema di benefici previdenziali per i periodi di prolungata esposizione all'amianto. In ordine alle questioni relative alla domanda amministrativa si consolida il principio della necessità della previa presentazione di specifica istanza all'INPS, sia ai fini della proponibilità della domanda giudiziale di rivalutazione contributiva per esposizione all'amianto che ai fini della decorrenza del termine di decadenza triennale di cui all'art 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639. In Sez. 6-L, n. 11574/2015, Arienzo, Rv. 635716, tale principio viene ribadito al fine di affermare che, data la natura costitutiva della domanda amministrativa, in mancanza della stessa, il relativo diritto non viene acquisito al patrimonio del lavoratore e non è quindi trasmissibile agli eredi in caso di decesso. Sez. L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805, precisa poi che l'unico ente legittimato all'erogazione della prestazione pensionistica oggetto di rivalutazione contributiva è l'Inps sicché, ai fini della decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970 n. 639, va tenuto conto della data di presentazione dell'istanza allo stesso Istituto, e non della data di inoltro della domanda all'Inail. Novità importanti sono quelle desumibili da Sez. 6-L, n. 02351/2015, Marotta, Rv. 634542: giunge infatti a maturazione il principio della configurabilità come diritto autonomo, rispetto al 385 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE diritto alla pensione, del diritto alla rivalutazione contributiva derivante dall'esposizione all'amianto. Sul presupposto che quello che si fa valere non è il diritto alla rivalutazione dell'ammontare dei singoli ratei erroneamente liquidati in sede amministrativa, bensì il diritto a un beneficio che, seppure previsto dalla legge ai fini pensionistici e ad essi strumentale, è dotato di una sua specifica individualità, opera sulla contribuzione ed essendo ancorato a presupposti propri e distinti da quelli in presenza dei quali era sorto, o sarebbe sorto in base ai criteri ordinari, il diritto al trattamento pensionistico, è autonomamente azionabile, se ne afferma la sottrazione al regime della imprescrittibilità, peculiare del diritto a pensione, e la soggezione all'ordinario termine di prescrizione decennale che andrà ad incidere in modo definitivo sul diritto alla rivalutazione contributiva e non solo sui singoli ratei di maggiorazione. Infine in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione, posto che l'assistito può agire anche prima di essere andato in pensione, la Suprema Corte ritiene dirimente il momento della consapevolezza della esposizione ad amianto che nel caso esaminato si è ritenuto fosse stato correttamente individuato nel momento del pensionamento, essendo già a tale data nota la lesione del diritto alla maggiorazione contributiva. Innovativo anche l'orientamento espresso da Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230, in tema di decadenza speciale dall'azione giudiziaria, prevista dall'art. 47, comma 5, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, norma che ha imposto a pena di perdita del beneficio, la presentazione di una domanda all'INAIL entro il termine di 180 giorni dalla pubblicazione del decreto ministeriale attuativo, decreto che è stato emanato il 27.10.2004 e pubblicato il 17.12.2004, con scadenza quindi del suddetto termine al 15 giugno 2005. Secondo la S.C., contrariamente a quanto previsto testualmente nell'ultimo inciso del decreto attuativo, va esclusa l'applicabilità di tale decadenza anche a coloro che rientrano nel regime previgente più favorevole, di cui all'art 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, ed in particolare ai lavoratori esclusi in virtù del comma 6 bis dell'art. 47 della legge n. 326 del 2003. Quanto poi al d.m. attuativo del 27 ottobre 2004, si osserva che quale fonte regolamentare meramente attuativa lo stesso non può che muoversi nel solco tracciato dalla legge per cui, nella parte in cui ha riferito il termine di decadenza speciale anche ai lavoratori ai quali si applica la disciplina previgente, ha introdotto un istituto 386 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE eccezionale in contrasto con la fonte primaria e va quindi necessariamente disapplicato. Sul piano della disciplina sostanziale Sez. L, n. 11485/2015, Amoroso, Rv. 635665, statuisce che l'accredito figurativo derivante dall'esposizione al rischio amianto, in applicazione del comma 6 ter dell'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, aggiunto dalla legge di conversione n. 326 del 2003, non è cumulabile con il beneficio del pensionamento anticipato, concesso mediante aumento dell'anzianità contributiva a norma dell'art. 10 del d.l. 18 marzo 1994, n. 185 - i cui effetti sono stati fatti salvi dall'art. 1, comma 2, della legge 19 luglio 1994, n. 451 - ferma la facoltà di opzione per l'assicurato, che non abbia già fruito del prepensionamento o non abbia presentato domanda irrevocabile per fruirne. Sez. 6-L, n. 17799/2015, Arienzo, Rv. 636420, affronta altra problematica specifica, quella dei lavoratori occupati presso imprese che utilizzano amianto, per i quali è documentata dall'INAIL una malattia professionale da amianto, ed afferma che ai sensi dell'art. 13, comma 7, della legge n. 257 del 1992, il beneficio della maggiorazione per 1,5 del periodo di esposizione, va ad essi riconosciuto sia ai fini del diritto che della misura della pensione, indipendentemente dalla durata e dalla natura qualificata della stessa, sia in considerazione che la necessità della presunzione rafforzata dalla natura qualificata dell'esposizione è superata dall'evidenza della contrazione di una patologia generata proprio dalla detta esposizione, sia alla luce della espressa previsione nella normativa successiva (art. 47, comma 3, d.l. n. 269 del 2003) della inapplicabilità del limite dell'esposizione all'amianto, in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre/litro come valore medio su otto ore al giorno, ai lavoratori per i quali sia stata accertata una malattia professionale a causa dell'esposizione all'amianto. In Sez. L, n. 13870/2015, Ghinoy, Rv. 635824, si fa applicazione del principio consolidato secondo cui il diritto alla rivalutazione dei contributi relativi al periodo di esposizione ad amianto, non spetta a chi, avendo già raggiunto l'anzianità contributiva massima nel regime pensionistico di appartenenza, non otterrebbe dall'applicazione del moltiplicatore, un concreto vantaggio né ai fini dell'anticipazione della pensione, né dell'incremento della misura della stessa, mentre Sez. L, n. 19280/2015, Balestrieri, Rv. 637229, ribadito che in tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori esposti all'amianto, non sono computabili, per la determinazione del periodo complessivo 387 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dell'esposizione, i periodi di collocamento del lavoratore in cassa integrazione guadagni solo ove essi abbiano avuto significativa durata ed abbiano comportato in concreto, a cagione del loro protrarsi e dell'eventuale prossimità ad altre sospensioni della prestazione lavorativa, l'effettivo venir meno del rischio tutelato, ha cassato una decisione di merito che ne aveva escluso il computo senza chiarirne la collocazione temporale, la durata e la eventuale contiguità con altri intervalli non lavorati determinati da eventi diversi. Altro principio pacifico è infine quello affermato da Sez. L. n. 25050/2015, Napoletano, in corso di massimazione, secondo cui il fatto costitutivo del diritto ad usufruire dei benefici di cui alla legge n. 257 del 1992, non si identifica con la mera durata ultradecennale di una attività lavorativa svolta in un luogo di lavoro in cui sia presente l'amianto, bensì con l'esposizione del lavoratore al rischio di ammalarsi a causa dell'inspirazione, per oltre un decennio, di fibre di amianto presenti in quel luogo in quantità superiore ai valori limite prescritti dalla normativa di prevenzione di cui al d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277; la prova dell'esposizione qualificata, il cui onere grava sul lavoratore, deve essere poi valutata in termini di ragionevole certezza, per cui, esclusa la rilevanza della mera possibilità, la stessa va ravvisata in presenza quanto meno di un elevato grado di probabilità di una concentrazione di fibre qualificata. 4. Gli sgravi. Di natura strettamente settoriale le pronunce in materia di sgravi. 4.1. Gli sgravi in favore delle imprese façoniste. Secondo Sez. L, n. 07781/2015, Tria, Rv. 635298, ribadito che in tema di fiscalizzazione degli oneri sociali e sgravi contributivi, il trattamento economico e normativo dei dipendenti di un'impresa può essere disciplinato sulla base di una contrattazione collettiva di un settore produttivo diverso da quello in base al quale ne viene determinata la classificazione ai fini previdenziali ed assistenziali, per le imprese façoniste - che svolgono, per conto terzi, attività di confezionamento di capi di abbigliamento, limitata ad alcune fasi della lavorazione - può farsi riferimento, al fine della individuazione della retribuzione-parametro per la fruizione di benefici contributivi, al c.c.n.l. concluso per tutte le aziende tessili da CGIL-CISL-UIL, anziché a quello stipulato tra ANILF-CISAL e altri, pur se relativo quest'ultimo allo specifico settore artigianale denominato ‹‹abbigliamento-lavorazioni conto terzi a "façon"››, in quanto, in assenza di 388 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE prova contraria, le associazioni sindacali firmatarie del primo dei suddetti contratti collettivi risultano comparativamente più rappresentative, ai fini previdenziali, di quelle che hanno concluso il secondo contratto, in corretta applicazione dell'art. 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549. 4.2. Gli sgravi in favore delle imprese edili. In tema di sgravi contributivi di cui all'art. 3, commi 5 e 6, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, Sez. L, n. 08240/2015, Venuti, Rv. 635158, afferma che in caso di cessazione anticipata dei lavori edili per mancato rinnovo del contratto di appalto, il licenziamento del personale prima della scadenza del triennio di cui alla citata disposizione, determina la decadenza dal diritto allo sgravio, dal momento che nel settore dell'edilizia la mancanza di ulteriori commesse di lavoro non può considerarsi evento imprevedibile, non imputabile al datore di lavoro, ma rientra, piuttosto, nel normale rischio di impresa connesso alla natura dei lavori in questione. 4.3. Gli sgravi in favore delle aziende operanti nel centro storico di Chioggia. Sez. L, n. 09892/2015, Ghinoy, Rv 635380, in riferimento all'art. 23 della legge 16 aprile 1973, n. 171, che ha previsto l'estensione degli sgravi contributivi relativi al Mezzogiorno anche alle aziende operanti nel centro storico di Chioggia, precisa che la locuzione ‹‹centro storico di Chioggia››, in essa contenuta e rilevante ai fini dell'applicazione degli sgravi, vada interpretata, a norma dell'art. 12 delle preleggi, in senso urbanistico e tradizionale e deve quindi corrispondere alla delimitazione territoriale datane dal piano regolatore generale; sulla base di tale principio ha escluso dal suo ambito applicativo la località, denominata ‹‹Saloni››, ove si svolgeva effettivamente l'attività della società ricorrente, che, pur costituendo territorio urbano di Chioggia, non era ricompresa nel suo centro storico in base al piano regolatore, né poteva considerarsi un'isola della laguna di Venezia. 4.4. Sgravi ed aziende stipulanti contratti di riallineamento. Infine in Sez. L, n. 13966/2015, Maisano, Rv. 635822, si conferma che i benefici derivanti dall'applicazione della normativa sui contratti di riallineamento retributivo, di cui all'art. 5 del d.l. 1 ottobre 1996, n. 510, conv. con modif. dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, in quanto volti a favorire la regolarizzazione della manodopera esistente, sono incompatibili con la 389 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE contemporanea fruizione, da parte dello stesso datore di lavoro e per i medesimi lavoratori, degli sgravi contributivi previsti dall'art. 3, commi 5 e 6, della legge n. 448 del 1998 aventi la diversa finalità di incrementare l'occupazione mediante nuove assunzioni. 5. Accertamento e riscossione dei crediti contributivi. Varie le decisioni relative al giudizio di opposizione a cartella esattoriale avente ad oggetto crediti contributivi. In Sez. L, n. 00774/2015, Bandini, Rv. 634271, si parte dal principio ripetutamente affermato secondo cui, in presenza di una opposizione a cartella esattoriale per crediti contributivi, il giudice deve esaminare nel merito il contenuto della domanda di pagamento dell'istituto previdenziale, mentre i vizi formali della cartella comportano soltanto l'impossibilità di avvalersene quale titolo esecutivo, ma non incidono sull'esistenza e sull'ammontare del credito da essa portato, per trarne la logica conseguenza che ove con il ricorso per cassazione vengano censurate le statuizioni della sentenza concernenti i soli vizi formali della cartella, e non anche quelle sul merito della pretesa, su queste deve ritenersi formato il giudicato interno ed il ricorso va dichiarato inammissibile per carenza di interesse. Sempre in tema Sez. L, n. 04978/2015, Lamorgese A., Rv. 634790, ribadisce che la mancata tempestiva opposizione alla cartella di pagamento determina l'incontestabilità della pretesa contributiva, per poi farne discendere che non è consentito l'esame del merito del medesimo credito in un successivo giudizio, instaurato a seguito della nuova notificazione del titolo. Sez. 6-L, n. 15116/2015, Marotta, Rv. 636244, fuga invece ogni dubbio in ordine alla possibilità di esperire, con un unico atto, sia un'opposizione sul merito della pretesa oggetto di riscossione, di cui all'art 24 del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, sia un'opposizione agli atti esecutivi, inerente l'irregolarità formale della cartella, regolata dagli art. 617 e 618 bis c.p.c., per il rinvio alle forme ordinarie operato dall'art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 46 del 1999, precisando tuttavia che, qualora l'opposizione sia stata depositata entro il termine perentorio di quaranta giorni, di cui all'art 24, comma 5, dello stesso d.lgs., ma oltre quello di venti giorni, di cui all'art. 617 c.p.c. (come modificato dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. in legge 14 maggio 2005, n. 80, vigente ratione temporis), va ritenuta la tardività delle eccezioni formali, ossia di quelle attinenti la regolarità della cartella di pagamento e della notificazione. 390 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE Secondo Sez. L, n. 15392/2015, Patti, Rv. 636411, qualora l'iscrizione ipotecaria sia stata impugnata solo quale mero atto conseguente, in funzione del recupero dell'azione che non era stato possibile esercitare tempestivamente a causa dell'omessa notifica della cartella esattoriale, la domanda non ha natura di opposizione all'esecuzione ma ha ad oggetto un ordinario giudizio di cognizione, che investe il rapporto previdenziale obbligatorio ed il merito dell'omissione contributiva, sicché la relativa decisione è soggetta, ex art. 24, comma 6, del d.lgs. n. 46 del 1999, ad appello e non a ricorso per cassazione che, ove proposto, è inammissibile. Poi Sez. L, n. 14025/2015, Venuti, Rv. 635976, in conformità a Sez. U, n. 01987/2012, Tirelli, Rv. 621284, riafferma che il termine di decadenza entro il quale devono essere iscritti a ruolo i contributi e i premi dovuti in base agli accertamenti degli uffici, previsto dall'art. 25, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 46 del 1999 (31 dicembre dell'anno successivo alla data di notifica dell'accertamento), applicabile, ai sensi dell'art. 78 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, agli accertamenti notificati dopo il 1° gennaio 2001, deve intendersi prorogato ope legis dall'art. 38 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che ha differito l'applicabilità del citato art. 25 agli accertamenti notificati successivamente al 1° gennaio 2003, e, inoltre, ulteriormente prorogato, senza soluzione di continuità, dall'art. 4, comma 25, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, che ha differito l'operatività del termine di decadenza agli accertamenti notificati dopo il 1° gennaio 2004, con la conseguenza che per i contributi dovuti all'Inps, accertati nel luglio del 2002 ed iscritti a ruolo nel 2004, non si applica alcuna decadenza. In merito all'ipotesi peculiare dell'azionabilità del credito inserito in cartella nei confronti del socio non indicato quale destinatario dell'ingiunzione di pagamento, ma incluso tra i soggetti cui la cartella stessa era stata notificata, Sez. L, n. 17883/2015, De Marinis, Rv. 636572, statuisce che in caso di opposizione a cartella esattoriale emessa per contributi previdenziali nei confronti di società estinta perché dichiarata fallita, l'INPS, convenuto in giudizio dal socio accomandatario, che abbia spiegato difese anche con riguardo alla propria posizione, può chiedere, oltre al rigetto dell'opposizione, anche la condanna del socio all'adempimento dell'obbligo contributivo, ai sensi dell'art. 2495, comma 2, c.c. 6. La prescrizione dei crediti contributivi. In tema di durata del termine di prescrizione del diritto degli enti previdenziali ai contributi dovuti dai lavoratori e dai datori di lavoro, Sez. L, n. 391 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 13831/2015, Tricomi, Rv. 635814, conferma l'orientamento secondo cui la domanda di condono previdenziale non costituisce riconoscimento del debito e non è quindi idonea ad interrompere la prescrizione, ma, innescando una procedura di recupero dei contributi, costituisce una ‹‹procedura già iniziata››, che rende applicabile il previgente termine decennale di prescrizione, ai sensi dell'art. 3, commi 9 e 10, della legge 8 agosto 1995, n. 335, per i contributi relativi a periodi precedenti il 17 agosto 1995, data di entrata in vigore della legge. Sempre in tema di regime transitorio ex art. 3, commi 9 e 10, della legge n. 335 del 1995, nella stessa sentenza (massima Rv. 635815), si ribadisce che il termine resta decennale anche nel caso di atti interruttivi compiuti dall'INPS anteriormente al 31 dicembre 1995, atti che vanno ritenuti idonei sia a sottrarre a prescrizione i contributi maturati nel decennio precedente l'atto interruttivo, sia a far decorrere, dalla data di questo, un nuovo termine sempre decennale di prescrizione, ciò anche alla luce dell'intento del legislatore di realizzare un ‹‹effetto annuncio›› idoneo ad evitare la prescrizione dei vecchi crediti. Infine secondo Sez. L, n. 03477/2015, Ghinoy, Rv. 634598, la rinuncia ad avvalersi della prescrizione da parte della P.A., in materia di diritto al rimborso di contributi versati indebitamente, non è preclusa dai principi generali di contabilità pubblica e, in assenza di una previsione normativa che, nella materia specifica, la qualifichi indisponibile, è assoggettata all'ordinario regime civilistico. 7. Omissione ed evasione contributiva. Resta immutata la posizione della S. C. con riferimento alla violazione degli obblighi contributivi verso le gestioni previdenziali e assistenziali da parte del datore di lavoro, commessa mediante l'omessa o infedele denuncia mensile all'INPS, attraverso i modelli DM10, dei rapporti di lavoro e delle retribuzioni erogate. Anche secondo Sez. L, n. 17119/2015, Mammone, Rv. 636381, tale condotta integra una evasione contributiva ex art. 116, comma 8, lett. b), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave omissione contributiva di cui alla lettera a) della medesima norma, dovendosi presumere una finalità datoriale di occultamento dei dati, con onere del datore di lavoro di provare l'assenza d'intento fraudolento. Sez. L, n. 01476/2015, Venuti, Rv. 634286, ha invece ritenuto che costituisca fattispecie diversa, rispetto all'omessa o infedele denuncia all'Inps, quella in cui il datore di lavoro denunzi il 392 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE rapporto di lavoro quale autonomo, perché così qualificato dalle parti, provvedendo al versamento dei contributi al relativo ente previdenziale, e successivamente venga accertato in sede amministrativa o giudiziale l'effettiva natura subordinata del rapporto, con la conseguenza che, nel vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, opereranno a suo carico le sanzioni civili per omissione, ai sensi dell'art. 1, comma 217, lettera a), della suddetta legge e non già per evasione contributiva. In tale pronuncia si afferma altresì (massima Rv. 634285) che la legge n. 388 del 2000, in deroga al principio tempus regit actum, ha sancito la generalizzata applicazione del sistema sanzionatorio previsto dalla legge n. 662 del 1996, a tutte le omissioni contributive, in qualunque tempo poste in essere, purché esistenti e accertate alla data del 30 settembre 2000, in quanto la voluntas legis è stata quella di contemperare da un lato, l'esigenza di applicare con effetto retroattivo la nuova disciplina più favorevole agli obbligati di cui all'art. 116, commi da 8 a 17, della legge n. 388 del 2000 e, dall'altro, di evitare di interferire sulle attività di cartolarizzazione e di iscrizione a ruolo, già effettuate sulla base della disciplina precedente, mantenendo ferme le penalità di cui alla legge n. 662 del 1996, ma riconoscendo nello stesso tempo alle aziende sanzionate in modo più consistente, un credito contributivo allo scopo di alleggerirne l'impatto. Quanto poi all'omissione contributiva riferita ai lavoratori agricoli, Sez. L, n. 03053/2015, Maisano, Rv. 634519, ha chiarito che poiché la pretesa dell'Istituto previdenziale si fonda sulle dichiarazioni rese dagli stessi datori di lavoro che, in ottemperanza alle previsioni normative di settore, sono tenuti a presentare all'INPS modelli predisposti per le dichiarazioni trimestrali dei lavoratori agricoli occupati, ed i contributi dovuti sono calcolati sulla base dei salari medi predeterminati, nessun ulteriore onere probatorio incombe sull'ente previdenziale che faccia valere la sua pretesa al recupero dei contributi omessi così determinati. 8. Sanzioni civili e somme aggiuntive. Poiché in merito all'efficacia dell'atto interruttivo posto in essere in relazione alla sorta capitale, derivante da omissione contributiva, anche con riferimento alle somme aggiuntive e agli interessi, non era ravvisabile un orientamento uniforme nella giurisprudenza della sezione lavoro e nelle pronunce rese in materia dalle sezioni civili e tributaria, la Sezione Lavoro della Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria n. 7569 del 1° aprile 2014, ne aveva rimesso la 393 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE soluzione alle Sezioni Unite, anche come questione di massima particolare importanza. Tra l'orientamento che riteneva che l'atto interruttivo della prescrizione posto in essere con riferimento al credito principale si estendesse automaticamente agli accessori (in tal senso da ultimo Sez. L. n. 02620/2012, Rv. 621124 e Sez. L, n. 08814/ 2008, Rv. 602854), e quello esattamente contrario che escludeva tale efficacia (tra le più recenti Sez. 3 n. 07127/2013, Rv. 625545 e Sez. L, 14864/2011, Rv. 617768) Sez. U, n. 05076/2015, Napoletano, Rv. 634505, ha risolto il contrasto affermando che, poiché le somme aggiuntive irrogate al contribuente per l'omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali sono sanzioni civili che, in ragione della loro automaticità imposta per legge, rimangono funzionalmente connesse all'omesso o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali, gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento a tale ultimo credito, si estendono, automaticamente, anche al credito per sanzioni civili. Precisa la S.C. che tra la sanzione civile e l'omissione contributiva, cui la sanzione civile inerisce, sussiste un vincolo di dipendenza funzionale che in quanto contrassegnato dall'automatismo della sanzione civile rispetto all'omesso o ritardato pagamento incide, non solo geneticamente sul rapporto dell'una rispetto all'altra, ma conserva il legame di automaticità funzionale anche dopo l'irrogazione della sanzione, sì che le vicende che attengono all'omesso o ritardato pagamento dei contributi non possono non riguardare anche le somme aggiuntive, e quindi anche gli effetti degli atti interruttivi, posti in essere con riferimento al credito per omissione contributiva, non possono non estendersi al credito per sanzioni civili. 9. Il risarcimento del danno da omissione contributiva. Quanto alle esigenze di tutela del lavoratore in caso di omissioni contributive, Sez. L, n. 01179/2015, De Marinis, Rv. 634853, riconferma la configurabilità di un duplice pregiudizio patrimoniale consistente, da un lato, dalla perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, che si verifica al momento in cui il lavoratore raggiunge l'età pensionabile, e, dall'altro, dalla necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva, eventualmente pagando quanto occorre a costituire la rendita di cui all'art. 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338. Le situazioni giuridiche soggettive di cui può essere titolare il 394 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE lavoratore consistono quindi, una volta raggiunta l'età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione, che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116 c.c., mentre, prima del raggiungimento dell'età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale egli può esperire un'azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., ovvero di mero accertamento dell'omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso. 10. Le prestazioni assistenziali: questioni procedimentali e sostanziali. 10.1. La legittimazione passiva dell'Inps e l'inammissibilità delle azioni di mero accertamento. Sez. L, n. 01035/2015, Manna A., Rv. 634049, dà continuità all'orientamento consolidato in tema di legittimazione passiva dell'Inps, quale soggetto obbligato alle prestazioni, nelle cause aventi ad oggetto il diritto a prestazioni assistenziali proposte dopo il 3 settembre 1998 - data di entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 - e in tema di inammissibilità di un' azione di mero accertamento dello stato di invalidità civile; si segnala che la fattispecie dichiarata inammissibile aveva ad oggetto una controversia per l'accertamento della condizione di portatore di handicap grave, ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, cui non corrisponde il diritto ad una specifica prestazione assistenziale erogata dall'Inps ma quello ad una serie di benefici e agevolazioni nei confronti di soggetti terzi (ad es. datore di lavoro, istituzioni scolastiche, servizio sanitario nazionale, enti locali, ecc.). 10.2. La decadenza ex art. 42 del d.l. n. 326 del 2003. In tema di decadenza semestrale dell'azione giudiziale per le prestazioni d'invalidità civile, introdotta dall'art. 42, comma 3, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, la cui efficacia è stata differita al 31 dicembre 2004 dall'art. 23, comma 2, del d.l. 24 dicembre 2003, n. 355, conv. con modif. dalla legge 27 febbraio 2004, n. 47, Sez. L, n. 11484/2015, Balestrieri, Rv. 635667, ne ribadisce l'applicabilità solo ai provvedimenti amministrativi comunicati a decorrere dal 1° gennaio 2005, con esclusione quindi dell'ipotesi in cui il ricorso amministrativo (avverso un provvedimento amministrativo di rigetto) sia stato proposto prima del 31 dicembre 2004, a cui si applicherà la previgente disciplina di cui al d.P.R. 24 settembre 1994, n. 698. 395 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 10.3. La domanda giudiziale. Secondo Sez. L, n. 03919/2015, Venuti, Rv. 634805, nella domanda giudiziale volta ad ottenere l'indennità di accompagnamento non può ritenersi ricompresa anche quella diretta al conseguimento di un beneficio diverso, quale la pensione di inabilità; la Suprema Corte esclude che in tal caso possa essere invocato il disposto dell'art. 149 disp. att. c.p.c., che consente al giudice di tener conto degli aggravamenti intervenuti in sede giudiziaria, in quanto tale norma può operare limitatamente al beneficio, previdenziale o assistenziale, originariamente richiesto, e che abbia rilevanza che in sede amministrativa la parte non abbia l'obbligo di indicare specificamente la prestazione assistenziale, trattandosi di principio incompatibile con la fase giudiziale, soggetta alle regole e alle formalità previste dal codice di rito e nella quale sussiste al contrario un obbligo di indicazione specifica della prestazione richiesta. Sulla stessa linea Sez. L, n. 07287/2015, Venuti, Rv. 635165, statuisce che qualora la parte abbia richiesto sia in sede amministrativa che giudiziale solo il riconoscimento dell'assegno di invalidità, al giudice non è consentito attribuirle la pensione di inabilità, ostandovi il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all'art. 112 c.p.c., che deve ritenersi violato ogni qual volta vi sia interferenza nel potere dispositivo delle parti e si attribuisca o neghi un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente, nella domanda. Principio già affermato è poi quello rinvenibile in Sez. L, n. 03688/2015, Manna A., Rv. 634570, secondo cui la domanda giudiziale di ripristino della prestazione assistenziale revocata in sede amministrativa, al pari di quelle concernenti il diritto ad ottenere per la prima volta prestazioni negate in sede amministrativa, non dà luogo ad un'impugnativa del provvedimento amministrativo di revoca, per cui il giudice è chiamato ad accertare se sussista, o meno, il diritto alla prestazione, verificandone le condizioni di esistenza al momento della nuova domanda, trattandosi del riconoscimento di un diritto nuovo e diverso, ancorché identico nel contenuto, da quello estinto per revoca. 10.4. Le collegiali mediche. Sez. L, n. 16569/2015, Doronzo, Rv. 636788, conferma che nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, le collegiali mediche sono prive di efficacia vincolante, sostanziale e processuale, ai sensi dell'art. 147, comma 1, disp. att. c.p.c., con la conseguenza che l'omessa comunicazione alla parte interessata del verbale della visita medica 396 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE non comporta l'invalidità del procedimento, né del suo provvedimento conclusivo, nella specie la cancellazione dagli elenchi speciali dei soggetti disabili. 10.5. La decorrenza della prestazione. In merito alla decorrenza del trattamento d'invalidità, allorché il superamento della soglia invalidante venga accertato nel corso del giudizio ai sensi dell'art. 149 disp. att. c.p.c., Sez. L, n. 13975/2015, Balestrieri, Rv. 635817, fa applicazione della regola stabilita dall'art. 18 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, e la individua dal primo giorno del mese successivo a quello dell'insorgenza dell'invalidità, anche per gli interessi e la rivalutazione monetaria, non giustificandosi in tal caso la concessione dello spatium deliberandi di centoventi giorni di cui alla sentenza della Corte cost. 12 aprile 1991, n. 156. Si segnala poi la risoluzione di un contrasto, sollevato con ordinanza interlocutoria Sez. L. n. 02562/2015, Bandini, in ordine ai rapporti tra pensione di inabilità e pensione sociale in conseguenza delle rispettive decorrenze. Secondo un primo indirizzo espresso in Sez. L, n. 07043/2009, Curzio, Rv 607673, nel caso in cui gli elementi costitutivi della pensione di inabilità prevista dall'art. 12 della l. n. 118 del 1971, siano maturati prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età e la relativa domanda amministrativa sia stata proposta anteriormente a tale data, la sostituzione della pensione di inabilità con la pensione sociale, prevista dall'art. 19 della medesima legge, opera dal primo giorno del mese successivo a quello del compimento del sessantacinquesimo anno, anche se ciò comporta che non venga pagato neanche un rateo della pensione di inabilità e si debba corrispondere direttamente la pensione sociale. Per un secondo indirizzo, invece, seguito da Sez. L. n. 08099/2012, Coletti De Cesare, Rv. 623143, la previsione legale della decorrenza dal primo giorno successivo a quello della presentazione della domanda della prestazione va interpretato nel senso che la data di decorrenza del beneficio è elemento costitutivo del diritto, il quale si perfeziona solo nel momento in cui matura la data in questione; con la conseguenza che il diritto alla pensione di inabilità civile, e analogamente quello all'assegno mensile di assistenza, è riconoscibile solo se tutti i requisiti per essi richiesti sussistano nel primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda di accertamento dell'invalidità; che le indicate provvidenze non spettano ai soggetti che, alle date in 397 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE questione, non posseggano il prescritto requisito anagrafico; che in tali casi non potrà quindi operare il meccanismo della conversione automatica in pensione o assegno sociale. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 25204/2015, Nobile, in corso di massimazione, hanno affermato che, ove gli elementi costitutivi della pensione di inabilità prevista dall'art. 12 della legge n. 118 del 1974 siano maturati prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età e la relativa domanda amministrativa sia stata proposta prima di tale data, la sostituzione con l'assegno sociale opera dal primo giorno del mese successivo a quello del compimento del sessantacinquesimo anno, anche se ciò comporta che non venga pagato neanche un rateo della pensione di inabilità e si debba corrispondere direttamente l'assegno sociale. 10.6. L'assegno sociale. In tema di corresponsione dell'assegno sociale di cui all'art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995, Sez. L. n. 22261/2015, Esposito L. Rv. 637397, ha ritenuto non irragionevole la previsione di cui all'art. 80, comma 19, della legge 28 dicembre 2000, n. 388, applicabile ratione temporis, che ne subordina il godimento per gli stranieri legalmente residenti in Italia alla titolarità della carta di soggiorno, indicativa del radicamento sul territorio, in quanto si è in presenza di un emolumento che prescinde dallo stato di invalidità e non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza. Ricorda la Suprema Corte che la Corte cost. con le sentenze 11 marzo 2013 n. 40 e 26 maggio 2010, n. 187 ha affermato che, ove si versi in tema di provvidenze destinate a far fronte a esigenze imprescindibili della persona, attinenti a benefici rivolti a soggetti portatori di impedimenti fortemente invalidanti e implicanti il coinvolgimento di una serie di valori di essenziale risalto e rilievo costituzionale, primi tra tutti quelli della solidarietà enunciato dall'art. 2 Cost. e della tutela della salute, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per incidere su diritti fondamentali costituenti garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto, in contrasto con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Poiché tuttavia la funzione che l'assegno sociale è chiamato a svolgere nel sistema, consente di escludere che lo stesso integri un rimedio destinato al soddisfacimento dei bisogni primari inerenti alla sfera essenziale di tutela della persona umana, a differenza invece di prestazioni, quali l'assegno di invalidità, la pensione di 398 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE cieco civile, la pensione di inabilità o l'indennità di accompagnamento, riconosciute invece in favore di soggetti affetti da patologie fortemente invalidanti e tali da incidere in misura elevata in termini di riduzione della capacità lavorativa, se ne giustifica un trattamento differenziato e rende ragionevole che se ne subordini il riconoscimento alla permanenza nel territorio nazionale per almeno dieci anni. Sez. L, n. 03540/2015, Manna, Rv. 634569, precisa invece che l'aumento previsto dall'art. 67 della legge n. 448 del 1998, sugli importi mensili della pensione sociale di cui all'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153 e dell'assegno sociale di cui all'art. 3, comma 6, legge n. 335 del 1995, compete, a condizione che sussista il requisito reddituale per l'accesso alla prestazione sociale, anche a chi, già iscritto alle forme di previdenza INADEL e posto in quiescenza senza diritto a pensione, percepisca dall'INPS un assegno a norma dell'art. 6 della legge 29 aprile 1976 n. 177. 10.7. L'assegno mensile di assistenza. Per Sez. 6-L, n. 11750/2015, Marotta, Rv. 635552, l'assegno mensile di assistenza di cui all'art. 13 della legge 30 marzo 1971 n. 118, non è incompatibile con il diritto alla pensione anticipata di vecchiaia riconosciuto dall'art. 1, comma 8, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, in favore dei soggetti con un'invalidità pari almeno all'80 per cento, trattandosi di prestazioni che possono coesistere, in quanto quest'ultima norma non contempla una pensione diretta di invalidità, e consente, piuttosto, soltanto una deroga ai limiti di età rispetto ai normali tempi di perfezionamento del diritto al trattamento di vecchiaia. 10.8. L'assegno per il nucleo familiare. Secondo Sez. L, n. 06351/2015, Bronzini, Rv. 635091, l'assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall'art. 2 del d.l. 13 marzo 1988, n. 69, conv. con modif. dalla legge 13 maggio 1988, n. 153, ha natura di prestazione assistenziale in quanto è finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed è attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell'eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali e, quindi nell'assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, ovvero di minorenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età; ne deriva che ai sensi dei commi 2 e 6 dell'art. 2 cit., il reddito rilevante ai fini 399 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dell'ammontare dell'assegno è quello del nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, anche se titolare del diritto alla corresponsione, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all'erogazione della provvidenza. 10.9. L'indennità di accompagnamento. Sez. L, n. 15882/2015, Maisano, Rv. 636580, evidenzia che ai fini della concessione dell'indennità di accompagnamento, l'art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18, richiede la contestuale presenza di una situazione di invalidità totale, rilevante per la pensione di inabilità civile ai sensi dell'art. 12 della legge n. 118 del 1971 e, alternativamente, l'impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore oppure l'incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita con necessità di assistenza continua, requisiti, quindi, diversi dalla semplice difficoltà di deambulazione o di compimento di atti della vita quotidiana con difficoltà. Sez.6-L, n. 25098/2015, Mancino, in corso di massimazione, sottolinea, invece, che anche in caso di domanda giudiziale avente ad oggetto l'indennità di accompagnamento, l'incapace naturale conserva la piena capacità processuale sino a quando non sia stata pronunciata, nei suoi confronti, una sentenza di interdizione ovvero non gli sia stato nominato, durante il giudizio correlato a tale pronuncia, il tutore provvisorio, ai sensi dell'art. 419 c.c., specie dopo che l'istituzione dell'amministrazione di sostegno (legge 9 gennaio 2004, n.6), consente una estrema varietà di forme di protezione di tale stato. 10.10. L'indennizzo del danno da emotrasfusione e vaccinazione obbligatoria. Le Sezioni Unite, con sentenza n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077, hanno affermato che il termine triennale di decadenza per il conseguimento dell'indennizzo in favore di soggetti danneggiati da emotrasfusioni, introdotto dalla legge 25 luglio 1997, n. 238, si applica anche in caso di epatite post- trasfusionale contratta prima del 28 luglio 1997, data di entrata in vigore della legge, con decorrenza, però, da questa stessa data, dovendosi ritenere, conformemente ai principi generali dell'ordinamento in materia di termini, che, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina operi anche per le situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine resta fissata con riferimento all'entrata in vigore della modifica legislativa. 400 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE La pronuncia ha risolto il contrasto sorto nella giurisprudenza della Sezione Lavoro tra un orientamento che riteneva applicabile il termine triennale di decadenza anche alle epatiti contratte prima della modifica introdotta dalla legge n. 238 del 1997, con decorrenza comunque dalla data di entrata in vigore della nuova disciplina (espresso da ultimo in Sez. L, n. 04051/2014, Rv. 629787 e da Sez. 6-L, n. 07392/2014, Rv. 630276), ed un altro che lo escludeva (adottato da ultimo in Sez. L, n. 10215/2014, Rv. 630791),.optando per l'applicabilità del solo termine ordinario decennale di prescrizione Le Sezioni Unite, nell'esprimersi a favore dell'applicabilità del termine, affermano che tale soluzione risolve un problema di bilanciamento di due contrapposte esigenze, da un lato, quella di garantire efficacia al termine decadenziale, e, dall'altro, quella di tutelare l'interesse del privato, onerato della decadenza, a non vedersi addebitare un comportamento inerte al lui non imputabile; che tale bilanciamento va rinvenuto nella regola generale di cui all'art. 252 disp. att. c.c., in base alla quale quando per l'esercizio di un diritto il codice stabilisce un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori, il nuovo termine si applica anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente e alle prescrizioni e usucapioni in corso, ma il nuovo termine decorre dalla data di entrata in vigore della nuova legge; che grazie all'applicazione di tale disposizione l'introduzione del termine di decadenza triennale in luogo della prescrizione decennale non determina un eccessivo sacrificio dell'interesse del privato alla tutela del proprio diritto in quanto, grazie al fatto che il suddetto termine triennale inizia a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, l'esercizio del diritto viene reso sufficientemente agevole; che tale soluzione non contrasta di per sé con il principio di eguaglianza in quanto il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche per cui è possibile un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo. Sempre le Sezioni Unite, con sentenza Sez. U, n. 15687/2015, Di Cerbo, Rv. 636078, dando continuità all'orientamento di cui a Sez. L, n. 01272/2012, Rv 636078, rispetto al quale non si riscontravano nell'ultimo triennio pronunce dissonanti, hanno poi ritenuto la natura perentoria del termine annuale per la proposizione del ricorso giudiziario in tema di indennizzo del danno per emotrasfusione, secondo quanto si evince sia dalla formulazione letterale dell'art. 5, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, diretto a cadenzare rigidamente i tempi 401 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE procedimentali, sia dalla ratio legis, intesa a garantire la sollecita definizione di controversie di notevole impatto sociale, che devono scontare una complessa fase di valutazione in sede amministrativa. Secondo Sez. L, n. 07912/2015, Buffa, Rv. 635121, in caso di ritardata corresponsione dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, previsto dall'art. 1 della legge n. 210 del 1992, non è configurabile il risarcimento di un danno non patrimoniale, essendo il valore inerente la persona già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo, nonché dei relativi accessori, mentre per Sez. L, n. 03064/2015, Ghinoy, Rv. 634318, anche in tale materia deve trovare applicazione la tutela privilegiata di cui all'art. 149 disp. att. c.p.c., che esprime un principio di economia processuale ex art. 111 Cost., funzionale ad una sollecita risposta giudiziaria alla domanda di tutela di diritti considerati primari, in quanto l'indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 si configura come diritto soggettivo ad una prestazione economica a carattere assistenziale al quale sono sottese ragioni di solidarietà (art. 2 Cost.) e di contrasto del bisogno (art. 38, comma 2, Cost.). In tema di prescrizione, Sez.6-3, n. 23635/2015, Carluccio, in corso di massimazione, afferma, infine, che la presentazione della domanda di indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992, per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi, attesta l'esistenza, in capo all'interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia e, pertanto, segna il limite temporale ultimo di decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., ma ciò non esclude la possibilità di collocare l'effettiva conoscenza dell'origine causale della malattia in un momento precedente, tenendo conto delle informazioni in possesso del danneggiato e della diffusione delle conoscenze scientifiche, il cui accertamento e' rimesso al giudice del merito. 11. Le prestazioni previdenziali dell'INPS. L'eterogeneo ambito delle prestazioni correlate all'assicurazione generale obbligatoria e l'articolata materia concernente le "altre gestioni" dell'INPS sono stati interessati, nel corso del 2015, da numerose pronunce, che hanno fornito indicazioni rilevanti. Su un piano generale, mette in conto osservare come Sez. 6- L, n. 01071/2015, Marotta, Rv. 634079, abbia affrontato la tematica della decadenza ex art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 in rapporto alle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di 402 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE una prestazione pensionistica parzialmente riconosciuta. Ad avviso della Corte, la novella dell'art. 38, comma 1, lett. d), del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, nel prevedere l'applicazione del termine decadenziale di cui all'art. 47 summenzionato anche alle azioni aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito, contiene una disciplina innovativa. Quest'ultima, in virtù della pronuncia resa da Corte cost. 2 aprile 2014, n. 69, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 38, comma 4, del predetto decreto legge n. 98 del 2011, non trova applicazione con riferimento ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, per i quali vale il generale principio dell'inapplicabilità del termine decadenziale. Una delucidazione densa di rilievo pratico "trasversale" nei contesti di riferimento è rinvenibile in Sez. 6-L, n. 00545/2015, Pagetta, Rv. 634268, la quale afferma che, a fini dell'esenzione delle spese nelle cause per prestazioni previdenziali, la parte ha l'onere, ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c., di formulare la dichiarazione sostitutiva di certificazione del reddito, attestante il rispetto della soglia reddituale. Con detta dichiarazione, la parte si impegna, altresì, a comunicare le eventuali variazioni rilevanti dei limiti reddituali intervenute fino alla definizione del processo, sicché essa, nel ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello di condanna alle spese per l'assenza in atti della prescritta dichiarazione, non può limitarsi a richiamare quella contenuta negli atti del giudizio di primo grado, ma è tenuta a riprodurne il contenuto onde permettere la verifica della sua conformità alle prescrizioni di legge. Una puntualizzazione di non poco momento è giunta da Sez. L, n. 20507/2015, Berrino, Rv. 637403, la quale ha evidenziato che il diritto al conseguimento delle maggiorazioni legate alla perequazione automatica delle pensioni, di cui all'art. 10 della legge 3 giugno 1975, n. 160, soggiace alla prescrizione ordinaria decennale e, attesa l'avvenuta abrogazione della norma ai sensi dell'art. 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730, sussiste fino al 30 aprile 1984, sicché non può essere riconosciuto ove la domanda amministrativa sia proposta decorsi dieci anni da tale data. Nel contesto specifico del regime perequativo dei trattamenti pensionistici dei dipendenti del Banco di Napoli in pensione alla data del 31 dicembre 1990, Sez. 6-L, n. 19515/2015, Pagetta, Rv. 637299, ha puntualizzato che la norma di interpretazione autentica introdotta con l'art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243, che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale (Corte cost. n. 403 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 362 del 2008) ed escluso la limitata e predeterminata sopravvivenza (fino al 26 luglio 1996) della perequazione automatica, secondo regole peculiari, per tali dipendenti, non è idonea a rimuovere gli effetti del giudicato formatosi in epoca antecedente alla sua introduzione, in ossequio ai principi di certezza del diritto e di separazione dei poteri, sicché il maturato pensionistico, cristallizzato per effetto del giudicato, deve essere riconosciuto nella sua entità, con le sue eventuali variazioni legate alla dinamica perequativa legale, anche per i ratei successivi. 11.1. Pensione di invalidità. Confermativa di un orientamento già incisivamente espresso si palesa Sez. L, n. 11748/2015, Marotta, Rv. 635839, la quale, in materia di assegno ordinario di invalidità, ha avuto modo di evidenziare come, nella decisione funzionale al ripristino di quest'ultimo, se del caso revocato per mancata permanenza delle condizioni sanitarie di cui all'art. 1 della legge 12 giugno 1984, n. 222, il giudice che riconosca il diritto ad un nuovo assegno di invalidità, per essere sopraggiunto un nuovo stato invalidante nel corso del procedimento giudiziario, è tenuto a valutare l'esistenza del requisito contributivo cosiddetto "relativo", avuto riguardo al tempo della proposizione della domanda amministrativa di ripristino della prestazione, non già in relazione al tempo della presentazione della originaria domanda. Sez. L, 03539/2015, Manna A., Rv. 634593, ha approfondito il tema della conversione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia e delle relative condizioni, precisando che la conversione de qua non opera automaticamente al compimento dei requisiti anagrafici e contributivi previsti la seconda, menzionata prestazione, essendo, infatti, necessario che l'interessato presenti domanda di trasformazione. Ne consegue che la decorrenza della pensione di vecchiaia, una volta proposta istanza per la conversione del trattamento previdenziale, deve individuarsi nel primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della istanza anzidetta. 11.2. Pensione di inabilità. Un'opportuna precisazione sui criteri di computo della pensione di inabilità è giunta da Sez. L, n. 14170/2015, Doronzo, Rv. 635975, la quale ha evidenziato che, in funzione del calcolo della pensione di cui all'art. 2 della legge n. 222 del 1984, non rileva il meccanismo della integrazione al minimo nella misura pari a quella della pensione sociale, di cui all'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, la quale, d'altronde, non è parificata all'assegno di invalidità anzidetto, ma è, piuttosto, 404 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE specificamente fissata sulla base di appositi parametri e con l'applicazione di particolari maggiorazioni, ai sensi dell'art. 2 della stessa legge prima evocata, il cui comma 3, non a caso, esclude espressamente la suddetta integrazione, mentre il successivo comma sesto stabilisce, nel caso di concorso con rendita erogata dall'Inail, un criterio di calcolo differenziale del tutto avulso rispetto a quello adottato per l'assegno di invalidità. È significativo evidenziare che nel caso di specie, la Corte ha cassato la sentenza di appello che aveva riconosciuto al titolare di assegno ordinario di invalidità, già integrato al trattamento minimo, a causa del peggioramento delle sue condizioni, la pensione di inabilità nella misura pari al trattamento minimo. Sul piano processuale, una significativa puntualizzazione si rinviene in Sez. L, n. 07287/2015, Venuti, Rv. 635165, pronuncia che si è incaricata di rilevare che, in materia di prestazioni previdenziali, qualora la parte abbia proposto unicamente richiesta di riconoscimento dell'assegno di invalidità, prima in sede amministrativa e poi con il ricorso in giudizio, al giudice non è consentito attribuire la pensione di inabilità non richiesta, ostandovi il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all'art. 112 c.p.c., che deve ritenersi violato ogni qual volta vi sia interferenza nel potere dispositivo delle parti e si alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente, nella domanda. 11.3. Pensione di reversibilità. Sez. L, n. 10375/2015, Berrino, Rv. 635392, si è occupata degli aumenti degli importi delle pensioni per effetto della perequazione automatica introdotta dalla legge 15 aprile 1985, n. 140, rilevando - in piena continuità con un orientamento consolidato - che detti aumenti vanno calcolati per le pensioni di reversibilità integrate al trattamento minimo con riferimento all'importo a calcolo della pensione del titolare, mirando la disposizione ad assicurare - in sostituzione del beneficio già introdotto dall'art. 14 quater del decreto legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1980, n. 33 - una tutela alle posizioni di quei lavoratori che, pur in possesso di un'anzianità assicurativa superiore a settecentottanta contributi settimanali, avevano in godimento una pensione di modesto ammontare, anche inferiore al minimo, per effetto della limitazione del diritto all'integrazione al minimo operata dall'art. 6, comma 3, 405 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638, in caso di superamento di determinate soglie di reddito. Ne consegue che, ove la somma del trattamento base e dell'importo spettante per la perequazione sia inferiore alla pensione integrata già in godimento, va mantenuto tale trattamento senza operare alcun miglioramento. Sempre in ambito di pensione di reversibilità, Sez. 6-L, n. 09649/2015, Garri, Rv. 635379, ha avuto modo di chiarine la spettanza, a seguito della sentenza resa da Corte cost. 28 luglio 1987, n. 286, anche al coniuge separato per colpa o con addebito, dovendosi equiparare quest'ultimo, sotto ogni profilo, al coniuge superstite (separato o non) e dovendosi applicare ad entrambe le ipotesi l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, che non richiede, quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l'esistenza del rapporto coniugale con il defunto pensionato o assicurato, rispondendo la tutela previdenziale allo scopo di porre il coniuge superstite al riparo dall'eventualità dello stato di bisogno, senza che detto stato (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) ne sia concreto presupposto e condizione. 11.4. Pensione privilegiata. In tema di pensione privilegiata, Sez. L, n. 08787/2015, Tricomi, Rv. 635288, ha affermato che il pensionato INPS, già in servizio nell'Arma dei Carabinieri, che fruisca della posizione contributiva quale dipendente di una società privata, non ha diritto al riconoscimento dei contributi figurativi di cui all'art. 49, comma 1, della legge 30 aprile 1969, n. 153 in relazione alla maggiore anzianità lavorativa a lui riconosciuta - in virtù dell'aumento di un quinto del servizio prestato in base all'art. 3, comma 5, della legge 27 maggio 1977, n. 284 - in sede di liquidazione della predetta pensione. Ciò in ragione del fatto che il trattamento pensionistico privilegiato assorbe ed integra l'importo della pensione normale, venendo così a sostituirsi ad esso, sicché in virtù del divieto di doppia valutazione di un periodo di attività, di tempo o di servizio, operante nell'ordinamento delle pensioni dei dipendenti statali, non è permesso considerare due volte lo stesso periodo di servizio, che abbia già condotto al riconoscimento della pensione privilegiata. 11.5. Equiparazioni, ricongiunzioni e cumuli. Sez. L, n. 01034/2015, Bandini, Rv. 634298, ha affermato il rilevante 406 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE principio in base al quale affinché possa essere dato corso all'equiparazione della pensione di anzianità alla pensione di vecchiaia in regime autonomo, ai sensi dell'art. 22, comma 6, della legge n. 153 del 1969, è necessario che vi sia uniformità di regimi tra dette pensioni o che, quanto meno, ove la pensione di anzianità sia stata liquidata in regime internazionale, sussista, al momento della liquidazione, una contribuzione italiana da sola sufficiente al riconoscimento della pensione di vecchiaia. In linea di continuità con un avviso già sedimentato si pone Sez. L, n. 15500/2015, Patti, Rv. 636233, pronuncia che, in tema di ricongiunzione dei trattamenti pensionistici, ha riaffermato il principio in base al quale, ai fini della spettanza della perequazione automatica della pensione, di cui all'art. 10 della legge 3 giugno 1975, n. 160, per verificare la realizzazione della condizione del superamento del trattamento minimo occorre sommare al pro rata italiano il pro rata estero, ma soltanto laddove questo sia già maturato, per quanto se ne sia stata ritardata l'erogazione, rimanendo per converso escluso che la contribuzione estera possa rilevare prima che sussistano le condizioni previste dallo Stato straniero per la maturazione della pensione in pro rata. Sempre in tema di pro rata, una riaffermazione di principio è giunta da Sez. L, n. 11316/2015, Tria, Rv. 635450, che, nel solco già marcato da Sez. L, n. 18850/2010, De Renzis, Rv. 614853, del pari evidenzia che, in tema di integrazione del requisito contributivo ai fini del conseguimento della pensione di anzianità, la totalizzazione, prevista e disciplinata dagli art. 45 e 46 del Regolamento CEE del Consiglio n. 1408 del 1971, consente il cumulo non solo dei periodi di assicurazione per i quali siano stati pagati i contributi ma anche dei periodi di lavoro, eventualmente autonomo, nonché di disoccupazione, rilevanti ai fini previdenziali, in guisa da agevolare l'utilizzazione integrale delle contribuzioni versate presso enti (o gestioni) previdenziali di diversi paesi in dipendenza dell'attività lavorativa svolta nel loro territorio, consentendo al lavoratore di ottenere una pensione unica dall'ente previdenziale competente, presso il quale non si concentrano - come nel sistema della ricongiunzione - tutte le contribuzioni comunque maturate, ma opera il diverso meccanismo della rivalsa pro rata sugli enti previdenziali degli altri Stati. Dal che deriva che, ove la disciplina tra due Stati sia oggetto di specifiche convenzioni bilaterali, non è possibile una totalizzazione multipla, ossia la riduzione ad unità di una pluralità di regimi convenzionali bilaterali, ognuna caratterizzata da meccanismi peculiari e specifiche finzioni giuridiche, in quanto la 407 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE varietà e l'eterogeneità delle possibili regolamentazioni è ostativa all'applicazione, anche in via analogica, dell'istituto della totalizzazione. Nel caso di specie, è significativo osservare che, in applicazione del principio riassunto, la Corte ha escluso la possibilità di una totalizzazione dei periodi assicurativi compiuti in Italia, Svizzera ed Australia, pur restando possibile un cumulo a norma di convenzioni bilaterali. In un ambito settoriale è innestata Sez. L, n. 20734/2015, Balestrieri, Rv. 637375, la quale ha chiarito che il Fondo previdenziale e assistenziale degli spedizionieri doganali, istituito dalla legge 22 dicembre 1960, n. 1612, concorre, quale forma di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti, ai fini dell'integrazione del requisito di cui all'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 42, per la totalizzazione dei periodi assicurativi maturati presso diverse gestioni previdenziali, posto che la legge 16 luglio 1997, n. 230, che lo ha soppresso, non ha previsto l'annullamento delle posizioni contributive, né la restituzione dei contributi versati, sicché l'espressa inclusione del Fondo tra le ipotesi oggetto della facoltà di cumulo, disposta con l'art. 2, comma 2, del d.P.R. 28 ottobre 2014, n. 157, è valsa a confermare che il ricorso alla totalizzazione è consentito anche in relazione alle domande proposte prima dell'entrata in vigore del suddetto d.P.R. n. 157. In un contesto specifico si inserisce Sez. L, n. 01772/2015, Napoletano, Rv. , la quale ha evidenziato che 636573 qualifica di dirigente senza aver maturato il diritto a pensione è condizione per la costituzione presso l'INPS, in forza dell'art. 22 del d.P.R. 8 gennaio 1976 n. 58, della posizione pensionistica per i corrispondenti periodi di contribuzione riconosciuti presso l'INPDAI. In applicazione del principio sancito, la Corte ha, dunque, cassato la sentenza di merito che aveva accolto la domanda del dirigente, già titolare di pensione INPS, per la ricostituzione la perdita della della pensione di anzianità tenendo conto della contribuzione già versata all'INPDAI. Sez. 6-L, n. 00385/2015, Marotta, Rv. 634571, si è occupata del divieto di cumulo tra pensione di anzianità e reddito da lavoro dipendente o autonomo, mettendo in rilievo che l'art. 1, comma 189, legge 23 dicembre 1996 n. 662 (come risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale resa da Corte cost. 4 novembre 1999, n. 416) esclude che siano cumulabili le pensioni di anzianità a carico dell'assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e le forme sostitutive di essa - nonché dei trattamenti anticipati di anzianità limitatamente alla quota liquidata 408 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE con il sistema retributivo - con i redditi da lavoro di qualsiasi natura. Viene, tuttavia, fatta salva la disciplina transitoria per i lavoratori che alla data del 30 settembre 1996 siano stati titolari di pensione ovvero abbiano raggiunto il requisito contributivo di 36 anni, o quello di 35 anni unitamente a quello anagrafico di 52 anni, per i quali continuano ad essere applicabili le disposizioni previgenti. Sez. 6-L, n. 01470/2015, Blasutto, Rv. 634191, in tema di trattamenti pensionistici erogati dall'INPS o dall'INAIL ai propri dipendenti, ivi compresi quelli di reversibilità, ha chiarito che, il divieto di cumulo tra due indennità integrative, sancito dall'art. 2 della legge 27 luglio 1959 n. 324, in caso di godimento, da parte del medesimo beneficiario, di una pluralità di pensioni, trova il correttivo, a seguito della sentenza della Corte cost. 4 giugno 2010, n. 197, che implica il riconoscimento del diritto alla riscossione di detta indennità anche sul secondo trattamento pensionistico limitatamente all'importo corrispondente al trattamento minimo previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti. Icastica si mostra la precisazione resa da Sez. 6-L, n. 03085/2015, Marotta, Rv. 634571, secondo cui in tema di cumulo tra pensione di anzianità e reddito da lavoro l'art. 1, comma 189, legge n. 662 del 1996 (come risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza della Corte cost., 4 novembre 1999 n. 416) dispone il divieto di cumulo delle pensioni di anzianità a carico dell'assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e delle forme sostitutive di essa - nonché dei trattamenti anticipati di anzianità limitatamente alla quota liquidata con il sistema retributivo - con i redditi da lavoro di qualsiasi natura, salva la disciplina transitoria per i lavoratori che alla data del 30 settembre 1996 siano titolari di pensione ovvero abbiano raggiunto il requisito contributivo di trentasei anni, o quello di trentacinque anni unitamente a quello anagrafico di cinquantadue anni, per i quali continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti. Sempre in materia di divieto di cumulo delle pensioni, Sez. 6- L, n. 20169/2015, Mancino, Rv. 637364, ha espresso l'incisivo principio in base al quale il divieto di cui all'art. 19, comma 1, della l. n. 843 del 1978 - secondo cui lo stesso soggetto, se titolare di più pensioni, comprese quelle delle gestioni obbligatorie di previdenza sostitutive, integrative, esclusive o esonerative dell'assicurazione generale, non può fruire su più di una pensione delle quote aggiuntive (o quote fisse) o dell'incremento dell'indennità integrativa speciale, o di ogni altro analogo trattamento collegato con il costo della vita - ha una portata generale che ne implica l'operatività pure 409 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE nel caso di titolarità di una pensione dell'assicurazione generale obbligatoria e di una pensione dello Stato. 11.6. Indennità di mobilità. Sez. L, n. 10028/2015, Ghinoy, Rv. 635387 ha affermato la piena spettanza dell'indennità di mobilità per il periodo successivo a quello coperto dall'indennità di maternità, senza riduzione della relativa durata. Nel caso di specie, la lavoratrice aveva richiesto il riconoscimento del proprio diritto a percepire l'indennità di maternità per il periodo di interdizione e successiva astensione obbligatoria dal lavoro. La Corte ha chiarito che a norma dell'art. 6, commi 3 e 4, del decreto legge 20 maggio 1993 n. 148, convertito, con modificazioni, in legge 19 luglio 1993 n. 236 (poi trasfusi nell'art. 22 comma 4 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151), i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità sono sottratti dal computo del periodo coperto dalla indennità di mobilità; questa, pertanto, prosegue al cessare dello stato di astensione per il residuo periodo, pari alla durata del periodo di astensione obbligatoria ed eventualmente facoltativa, fino al raggiungimento dei limiti temporali di cui all'art. 7 della legge 23 luglio 1991, n. 223. Proprio in tema di mobilità, Sez. L, n. 05250/2015, Tricomi, Rv. 634809, si è soffermata sulle cause di cancellazione dalle relative liste di cui all'art. 9, comma 6, lett. b) e c), legge n. 223 del 1991, evidenziando come tra dette cause siano annoverate in via esclusiva l'assunzione del lavoratore con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la scadenza del periodo di godimento dei trattamenti e delle indennità di cui agli artt. 7, 11, comma 2, e 16 della medesima legge. Di contro, non rileva ai fini della cancellazione la conclusione di un contratto a tempo determinato della durata non superiore a dodici mesi, la quale, d'altronde, non comporta la perdita della indennità di mobilità, anche qualora preceduta dalla stipulazione di altri contratti a termine. Nel caso di specie, la Corte ha, quindi, significativamente confermato la sentenza di merito che aveva escluso che un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato concluso dopo la cessazione di due precedenti contratti a termine, ciascuno della durata di sei mesi, e risolto anticipatamente dal lavoratore per giusta causa, e costituisse presupposto di decadenza dall'indennità di mobilità. 11.7. Indennità di disoccupazione. Sez. L, n. 05510/2015, Tricomi, Rv. 634801, ha approfondito la questione relativa alle modalità di calcolo della indennità di disoccupazione in rapporto ai 410 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE lavoratori cd. trasfertisti. Segnatamente la Corte ha affermato che l'art. 7, comma 2, del decreto legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 maggio 1988, n. 160, indica, quale retribuzione di riferimento, quella media soggetta a contribuzione. Da ciò consegue che, in forza dell'art. 13 della legge 30 aprile 1969 n. 153, come interpretata dall'art. 9 ter del decreto legge 29 marzo 1991, n. 103 convertito, con modificazioni, dalla legge 1 giugno 1991, n. 166, e degli artt. 3 e 6 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314, le indennità corrisposte ai predetti trasfertisti rientrano nella retribuzione globale da utilizzare come parametro per il calcolo dell'indennità di disoccupazione per una quota del 50 per cento. In tema di assicurazione contro la disoccupazione, Sez. L, n. 11051/2015, Ghinoy, Rv. 635526, ha precisato che, ai sensi dell'art. 34, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, come interpretato da Corte cost. 24 giugno 2002, n. 269, le dimissioni del lavoratore per motivi di salute, tali da integrare una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto, determinano uno stato di disoccupazione involontario ai sensi dell'art. 38 Cost., idoneo a fondare il diritto alla percezione della relativa indennità. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva riconosciuto il diritto all'indennità di disoccupazione in favore di una lavoratrice che, a seguito di intervento chirurgico al naso, si era dimessa per le condizioni di salute che le impedivano di lavorare in un ambiente con alta concentrazione di polveri e coloranti. 11.8. Indennità di maternità. Su un piano eminentemente processuale, Sez. L, n. 00172/2015, Bronzini, Rv. 634273, ha ribadito il principio in base al quale la domanda della lavoratrice dipendente volta al riconoscimento dell'indennità in questione (riconducibile alla fattispecie disciplinata dall'art. 2110 c.c.) va proposta non solo nei confronti sia del datore di lavoro che dell'INPS, ricorrendo nei loro confronti un'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., posto che, ai sensi dell'art. 1 del decreto legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980, n. 33, l'INPS è l'unico soggetto obbligato ad erogare le indennità di malattia e maternità ex art. 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, mentre il datore di lavoro ha solo il dovere di anticiparne l'importo, salvo conguaglio con i contributi e le altre somme da corrispondere all'Istituto, sempreché la prestazione sia effettivamente dovuta dall'Istituto previdenziale. 411 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 12. Le tutele dell'INAIL. Anche la materia dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è stata fatta oggetto di un numero considerevole di pronunce, dalle quali è dato trarre fondamentali indicazioni nomofilattiche. 12.1. I principi generali. Un principio d'indole generale è stato efficacemente espresso da Sez. L, n. 06105/2015, Tricomi, Rv. 634807, la quale ha chiarito che, nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p. Dal che deriva che il rapporto causale tra evento e danno è regolato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, a determinare l'evento, sicché solo qualora possa ritenersi con certezza che l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge. Nella specie, la Corte, nel ribadire detto principio, ha cassato la sentenza di merito che, con giudizio meramente probabilistico, aveva ritenuto il tabagismo prevalente in punto di efficacia causale della malattia neoplastica polmonare, senza dare rilievo alla esposizione lavorativa ai fumi di fonderia di fusione dell'acciaio. Di pregnante influenza anche il principio affermato da Sez. L, 00157/2015, Patti, Rv. 633848, secondo cui le disposizioni dell'art. 1, commi 774, 775 e 776, legge 27 dicembre 1996, n. 296, sulla formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, non violano l'art. 6, par. 1) CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Rileva al riguardo la circostanza per la quale il legislatore ha realizzato un riassetto organizzativo di ampia portata, sulla base di ragioni di interesse generale, con norme interpretative non in contrasto con i parametri di cui agli artt. 24 e 117, primo comma, Cost. In tal senso, è stata esercitata la potestà legislativa statuale nel rispetto dei vincoli comunitari e internazionali. Nel caso di specie, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, relativo a pensione di reversibilità decorrente dal 1999, ha statuito che, essendo pendente la controversia, era pienamente applicabile la norma interpretativa, che aveva già superato positivamente, il vaglio svolto dalla Corte Cost. nelle pronunce del 12 marzo 2008, n. 74, del 5 gennaio 2011, n. 1 e del 22 settembre 2014, n. 227. 412 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE Ad opportuna sedimentazione è giunto – in virtù di Sez. L, n. 00211/2015, Amendola F., Rv. 634045 – il principio in base al quale, la sospensione della prescrizione triennale dell'azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui all'articolo 111, comma 2, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, opera limitatamente al decorso dei centocinquanta giorni previsti per la liquidazione amministrativa delle indennità dal terzo comma della stessa disposizione. In tal senso, la mancata pronuncia definitiva dell'INAIL entro il suddetto termine configura una ipotesi di "silenzio significativo" della reiezione dell'istanza dell'assicurato e comporta, quindi, l'esaurimento del procedimento amministrativo e, con esso, la cessazione della sospensione della prescrizione. Un rilevante principio d'impatto processuale risulta affermato da Sez. L, n. 14961/2015, Tria, Rv. 636240, ove è puntualizzato che, in caso di malattia professionale non indennizzabile per il mancato raggiungimento della soglia minima di inabilità permanente, pari al 6 per cento, il giudice non può emanare una pronuncia di mero accertamento, perché essa avrebbe ad oggetto soltanto uno degli elementi costitutivi del diritto alla rendita non suscettibile di autonomo accertamento, dovendosi, peraltro, riconoscere, allorché una siffatta positiva declaratoria sia stata comunque adottata, l'interesse dell'INAIL ad impugnare e rimuovere la sentenza di primo grado, emessa contra legem, contenente una statuizione che riguarda, in ogni caso, l'Istituto, e ciò a prescindere dal contenuto immediatamente lesivo della stessa. In tema di risarcimento da infortunio sul lavoro un'utile precisazione è stata resa da Sez. L, n. 10967/2015, Maisano, Rv. 635530, la quale ha avuto modo di chiarire che il rapporto di lavoro fra compagnie portuali - costituite in forma cooperativa ed aventi personalità giuridica - e singoli lavoratori soci si instaura solo quando le prime esercitano direttamente l'attività di impresa per le operazioni di carico e scarico e non anche quando le compagnie medesime si limitino a fornire la manodopera qualificata alle imprese portuali, trattandosi di situazione, quest'ultima, nella quale la compagnia portuale opera, in concreto, da ufficio di collocamento. In tal senso, solo nella prima ipotesi la compagnia assume la qualifica di datore di lavoro, anche ai fini della legittimazione passiva della domanda risarcitoria per infortunio sul lavoro promossa dal lavoratore. Sempre in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, di rimarchevole importanza appare Sez. L, n. 413 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE 12629/2015, Tria, Rv. 635721, la quale puntualizza che, laddove alcuni infortuni o malattie si siano verificati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 ed altri successivamente, i relativi postumi, ai sensi dell'art. 13, comma 6, prima parte, di detto decreto, non si cumulano ai fini della liquidazione di un'unica prestazione previdenziale, restando del tutto autonomi e separati i due regimi di tutela, che coesistono fino allo scadere dei termini revisionali delle rendite costituite per eventi verificatisi o denunciati prima del 25 luglio 2000. Ancora in tema di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, Sez. L, n. 02894/2015, Venuti, Rv. 634315, si è pregiata di chiarire incisivamente il presupposto in base al quale è suscettibile d'essere riconosciuta all'infortunato l'indennità giornaliera per inabilità temporanea. Detto presupposto viene fatto coincidere con uno stato dell'infortunato medesimo tale da impedirgli totalmente l'espletamento delle proprie prestazioni lavorative. In tal senso, è necessario rilevi una inabilità assoluta, dovendosi escludere la concedibilità dell'indennità in discorso ove lo stato di inabilità sia solo parziale. Sez. L, n. 02801/2015, Lorito, Rv. 634820, è tornata sul tema delle condizioni per l'attribuzione dell'assegno mensile d'invalidità, previsto dall'art. 76 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, per i casi d'invalidità permanente assoluta, riaffermando il principio in base al quale, la voce n. 8 ("malattie o infermità che rendono necessaria la continua o quasi continua degenza a letto") di cui alla tabella n. 3, allegata al medesimo d.P.R., si interpreta nel senso che, con la situazione di continua o quasi continua degenza a letto, non è incompatibile una sia pur limitata possibilità di deambulazione e, pertanto, talune non apprezzabili varianti alla necessità, per l'infermo, di stare a letto o a sedere su una sedia o carrozzella non escludono l'esigenza di una continuativa assistenza personale per l'espletamento delle più elementari esigenze di vita. Nel caso di specie, la Corte ha, pertanto, cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza delle ipotesi di menomazione, ritenendo che la paraparesi da cui era affetto l'assicurato, consentendogli di stare alcune ore seduto e di muoversi con l'ausilio di un doppio appoggio, non rientrasse nell'ipotesi di cui alla voce n. 8 della citata tabella. Sez. L, n. 04462/2015, Bronzini, Rv. 634583, ha avuto modo di chiarire che, ai fini dell'inserimento in una voce o in un'altra della tariffa dei premi INAIL (nella specie, voce albergo o voce villaggio turistico), occorre avere riguardo esclusivamente alle indicazioni 414 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE contenute nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell'art. 40 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, basate sull'analisi del rischio infortunistico dell'attività svolta, mentre non è consentito ricorrere in alcun modo, neppure a fini di chiarificazione, a normative emanate per finalità diverse (nella specie, la legge quadro sul turismo, 18 maggio 1983, n. 217). Da ciò si è potuta trarre la conseguenza che ai villaggi turistici si applica la tariffa 0213 della tabella di cui al d.m. 12 dicembre 2000, rientrando essi nella relativa nozione anche qualora offrano ospitalità di tipo alberghiero, tenuto conto che il discrimine tra albergo e villaggio turistico è correlato al diverso rischio infortunistico cui sono soggetti i dipendenti, in considerazione degli spostamenti maggiori ed all'aperto richiesti nei villaggi, rispetto a quelli minori necessari negli alberghi, limitati ad un'unica struttura interna. Mette in conto rilevare che Sez. U, n. 08620/2015, Ambrosio, Rv. 635402, occupandosi dell'istituto della surrogazione dell'assicuratore di cui all'art. 1916 c.c., ha evidenziato come la surrogazione medesima costituisca una peculiare forma di successione a titolo particolare nel diritto al risarcimento dell'infortunato, che si realizza nel momento in cui l'assicuratore abbia comunicato al terzo responsabile che l'infortunato è stato ammesso ad usufruire dell'assistenza e degli indennizzi previsti dalla legge, al contempo manifestando la volontà di avvalersi della surroga. Da ciò deriva che nella conseguente azione non ha pertanto rilievo il rapporto assicurativo di carattere pubblicistico concernente gli infortuni sul lavoro, ma soltanto la responsabilità aquiliana dell'autore dell'atto illecito, obbligato a risarcire il danneggiato o l'assicuratore che ne abbia anticipato l'indennizzo, sicché il responsabile non è legittimato ad opporre all'assicuratore eccezioni concernenti il contenuto del rapporto, salvo che esse incidano sulla misura del risarcimento del danno cui egli sarebbe tenuto nei confronti del danneggiato. Ancora, in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, utile è giunta da parte Sez. L. 21400/2015, Bronzini, Rv. 637577, la riaffermazione del principio secondo cui, l'art. 4, n. 5, del d.P.R. n. 1124 del 1965 limita la copertura assicurativa alla sola attività didattica che si sostanzia in operazioni e/o esercitazioni pratiche collegate a conoscenze teoriche scientifiche compiute manualmente con l'uso eventuale di materiale e/o attrezzature, sicché, in difetto di prova dello svolgimento di una di tali occupazioni, non compete alcun indennizzo per eventuali infortuni occorsi nell'attività di insegnamento, che di per sé non dà luogo alla 415 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE tutela antinfortunistica. Nel caso di specie specie, un docente aveva tardivamente allegato di essere preposto all'insegnamento di educazione tecnica e non aveva dimostrato che il tipo di attività svolta fosse riconducibile a esperienze tecnico-scientifiche o esercitazioni pratiche. 12.2. Il regresso. Di pregnante importanza nel panorama delle pronunce rese dalla Corte si palesa Sez. U, n. 05160/2015, Nobile, Rv. 634460, che ha avuto occasione di chiarire il quadro relativo alla decorrenza della prescrizione in ambito di azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro. Il termine triennale previsto dall'art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965 ai fini dell'esperimento dell'azione, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in tema di decadenza, è termine avente natura prescrizionale. Peraltro, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, detto termine decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato ovvero, in caso di rendita, dalla data di costituzione della stessa. Liquidazione dell'indennizzo o – alternativamente costituzione della rendita rappresentano, invero, il fatto certo e costitutivo del diritto sorto dal rapporto assicurativo, dovendosi ritenere che detta azione, con la quale l'Istituto fa valere in giudizio un proprio credito in rivalsa, sia assimilabile a quella di risarcimento danni promossa dall'infortunato, atteso che il diritto viene esercitato nei limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionale a sanzionare il datore di lavoro, consentendo, al contempo, di recuperare quanto corrisposto al danneggiato. Sez. L, n. 02138/2015, Maisano, Rv. 634385, dal canto suo, ha chiarito che in tema di azione di regresso dell'INAIL nei confronti delle persone civilmente obbligate, affinché sorga il credito dell'INAIL nei confronti della persona civilmente obbligata è necessario che il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio. Tuttavia, l'accertamento giudiziale, sempre che si renda necessario in mancanza di adempimento spontaneo del soggetto debitore o di bonario componimento della lite, può avvenire sia in sede penale che in sede civile. Ancora in tema di regresso, Sez. L, n. 01841/2015, De Renzis, Rv. 634194, ha posto in luce che, nel relativo giudizio intentato nei confronti del datore di lavoro, la prova della congruità dell'indennità corrisposta dall'INAIL al lavoratore può essere senz'altro fornita tramite l'attestazione del direttore della sede erogatrice, quale atto amministrativo assistito dalla relativa 416 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE presunzione di legittimità, esposta ad essere inficiata solo da contestazioni precise e puntuali che individuino il vizio da cui l'atto sarebbe affetto e offrano contestualmente di provarne il fondamento. Sez. L, n. 04879/2015, Doronzo, Rv. 634791, ha ponderato l'incidenza del concorso di colpa del danneggiato nella determinazione della somma spettante all'INAIL in via di rivalsa. In ipotesi di accertato concorso, il giudice non può, per questo solo fatto, ridurre proporzionalmente l'ammontare delle somme richieste dall'INAIL in via di rivalsa nei confronti del responsabile dell'infortunio stesso, ma deve previamente appurare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l'ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura del concorso in questione, verificando specificamente se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell'INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all'Istituto per le prestazioni erogate all'assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiante. Di estremo interesse si palesa poi la statuizione resa da Sez. L, n. 20853/2015, Nobile, Rv. 637421, secondo cui, in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, ove il procedimento penale sia iniziato entro tre anni dal pagamento dell'indennizzo o dalla costituzione della rendita, l'azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro può essere esercitata nel termine triennale di prescrizione previsto dall'art. 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, decorrente dal giorno in cui la sentenza penale di condanna è divenuta irrevocabile. 12.3. Il danno differenziale. Sez. L, n. 00777/2015, Manna, Rv. 634050, si è efficacemente occupata della tematica del cd. danno differenziale. La pronuncia ha precisato che, in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato, e la limitazione dell'azione risarcitoria di questi al danno in questione, nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale a norma dell'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, riguarda, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, soltanto l'ambito della copertura assicurativa, ossia il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica e non anche il danno alla salute, o biologico, e il danno morale di cui all'art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale, 417 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della responsabilità del datore di lavoro. 13. La previdenza di categoria. Di evidente rilievo, nel panorama delle pronunce rese dalla Corte, si palesa Sez. U, n. 17742/2015, Mammone, Rv. 636249, che ha avuto modo di affermare il principio generale secondo cui, in materia di previdenza obbligatoria (quale quella gestita dagli enti previdenziali privatizzati ai sensi del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509), la prescrizione quinquennale prevista dall'art. 2948, n. 4, c.c. - così come dall'art. 129 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 - richiede la liquidità ed esigibilità del credito, che deve essere posto a disposizione dell'assicurato. Ne deriva che, ove sia in contestazione l'ammontare del trattamento pensionistico, il diritto alla riliquidazione degli importi è soggetto alla ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c. 13.1. ENASARCO. Mette in conto rilevare che Sez. L, n. 17893/2015, D'Antonio, Rv. 636463, ha incisivamente ribadito quanto già esplicitato da Sez. L, n. 1152/2013, Rv. 624667: in materia di trattamento pensionistico degli agenti e rappresentanti di commercio, il supplemento di pensione derivante dall'espletamento dell'attività nel quinquennio successivo al pensionamento deve essere calcolato sulla base della contribuzione versata per tale periodo ulteriore, non sulla base dell'anzianità complessiva, atteso che quest'ultima è già stata utilizzata per il conseguimento del diritto a pensione, così dovendosi interpretare il riferimento alla "anzianità contributiva" di cui all'art. 20 del regolamento ENASARCO del 5 agosto 1998. In una fattispecie relativa al transito di un lavoratore dal disciolto Ente Utenti Motori Agricoli all'Enasarco, Sez. L, n. 19477/2015, Blasutto, Rv. 637297, ha chiarito che l'indennità di buonuscita, con riguardo al personale degli enti soppressi transitato presso altro ente e cessato dal servizio in epoca successiva all'entrata in vigore della legge 27 ottobre 1988, n. 482, deve essere calcolata, secondo le disposizioni dell'ente di destinazione, mediante la considerazione dei periodi prestati presso l'ente soppresso, con inclusione dell'anzianità di servizio maturata presso questo fino alla data di messa a disposizione. 13.2. INPGI. Senz'altro degna di estrema attenzione è, poi, la pronuncia resa da Sez. U, n. 17589/2015, Mammone, Rv. 636217, 418 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE che ha precisato l'applicabilità agli iscritti all'Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (INPGI) delle misure adottate dall'Istituto medesimo ai sensi dell'art. 24, comma 24, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, conv. dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, al pari degli iscritti agli altri enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza privatizzati ai sensi del d.lgs. n. 509 del 1994, come tali indicati nella tabella a quest'ultimo allegata. La medesima pronuncia Sez. U, n. 17589/2015, Mammone, ma Rv. 636218, ha avuto, peraltro, modo di puntualizzare che, in materia di trattamenti pensionistici, la disposizione dell'art. 24, comma 4, del decreto legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino ai settanta anni di età. 13.3. ENPACL. Sez. L, n. 13610/2015, Manna, Rv. 635863, si è occupata della contribuzione previdenziale dovuta in favore dell'ENPACL (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Consulenti del Lavoro), spiegando che l'omessa comunicazione da parte del lavoratore iscritto anche ad altre forme di previdenza che intenda chiedere la riduzione al 50 per cento del contributo soggettivo di cui all'art. 12, comma 1, della legge 5 agosto 1991, n. 249, non è sanzionata ai sensi del successivo comma 4 della medesima norma ove egli sia stato già autorizzato al dimezzamento dei contributi ai sensi dell'art. 28, comma 1, della legge 23 novembre 1971, n. 1100, dovendosi ritenere che la nuova disciplina non si applichi ai vecchi iscritti, tanto più che l'assenza di una disposizione transitoria sul punto è suscettibile d'essere intesa nel senso della esclusione della necessità di una nuova manifestazione di volontà a carico di coloro che siano già beneficiari della riduzione. 13.4. Fondo volo. Sez. L, n. 05869/2015, Tricomi, Rv. 34867, ha escluso che il personale ENAC assoggettato al regime previdenziale INPDAP possa essere iscritto al Fondo Volo. L'impossibilità di fruire del regime di categoria di cui al fondo istituito presso l'INPS con la legge 13 luglio 1965, n. 859, modificata dalla legge 31 ottobre 1988, n. 480, e quindi integrata dal d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164, va ricondotto ad una specifica ratio: il Fondo Volo è sostitutivo dell'Assicurazione Generale Obbligatoria e 419 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE risponde ad una disciplina di carattere derogatorio rispetto alle leggi di previdenza generale che, come tale, non è suscettibile di interpretazione analogica. Né può assumere rilievo la mera esposizione al medesimo rischio in funzione dell'estensione di detto regime ad altri soggetti non contemplati dalla normativa, per i quali è prevista apposita disciplina previdenziale. Sempre in materia di previdenza per il personale di volo è giunta un'utile precisazione da Sez. L, 00656/2015, Bandini, Rv. 634188. La pronuncia ha chiarito che il ricalcolo del trattamento pensionistico per detto personale, dipendente da imprese di navigazione aerea, ai sensi dell'art. 1 quater, comma 1, del decreto legge 5 ottobre 2004, n. 249, convertito in legge 3 dicembre 2004, n. 291, dev'essere effettuato, anche per gli anni successivi al primo, prendendo a riferimento il limite massimo di retribuzione pensionabile determinato ai sensi dell'art. 24, comma 7, legge 13 luglio 1965, n. 859 (come modificato dall'art. 8, legge 31 ottobre 1988, n. 480). L'inciso ‹‹corrispondente limite dell'anno precedente›› va, infatti, interpretato nel senso che detto limite combacia non già con quello risultante dal conteggio reso ai sensi del comma 6, bensì con quello in concreto determinato dalla già avvenuta applicazione del comma 7. In tal senso milita lo scopo della norma, che è quello di salvaguardare il limite massimo di retribuzione pensionabile raggiunto, anche nell'ipotesi di diminuzione della media delle retribuzioni di riferimento. 13.5. ENPAF. Sez. L, n. 16520/2015, Doronzo, Rv. 636570, ha avuto opportunamente cura di appurare che per i coadiutori familiari non farmacisti del titolare di una farmacia sussiste l'obbligo di iscrizione nella gestione commercianti INPS ai fini dell'assicurazione previdenziale. Più in dettaglio, è stato affermato che solo i farmacisti, in quanto iscritti quali professionisti all'ente di previdenza ENPAF, sono sottratti dall'ambito applicativo dell'assicurazione per gli esercenti attività commerciali, di cui all'art. 1, commi 202, 203 e 206, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, l'assicurazione anzidetta. Quest'ultima, viceversa, opera, in coerenza con i principi costituzionali di eguaglianza e adeguata tutela previdenziale, nei confronti dei predetti coadiutori, familiari non farmacisti, del titolare di una farmacia, con riguardo alle varie attività gestorie demandabili a non farmacisti e nel concorso dei requisiti di legge relativi all'impresa e alle modalità della loro partecipazione all'attività della stessa. In tal senso, la registrazione "virtuale" del titolare dell'impresa presso l'INPS, per l'attuazione 420 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dell'assicurazione dei suddetti coadiutori, si risolve in un meccanismo operativo che non determina alcuna anomalia. 13.6. ENPALS. Sez. L, n. 18530/2015, Buffa, Rv. 637233, rilevato che i lavoratori con compiti di "figuranti" nelle opere liriche sono espressamente inclusi tra i soggetti per i quali opera l'obbligo di iscrizione all'ENPALS, ai sensi dell'art. 3 d.lgs. CPS 16 luglio 1947, n. 708, ancorché abbiano sottoscritto contratti standard per le prestazioni occasionali delle comparse, se da tali atti si desuma il loro inserimento nell'organizzazione imprenditoriale, atteso che, per tali rappresentazioni, l'impegno lavorativo si protrae nel tempo e si coordina con le indicazioni di regia in modo più pregnante rispetto a quello delle comparse cinematografiche, senza che rilevi la circostanza che le prestazioni, benché professionali, siano saltuarie. 13.7. Cassa Nazionale Forense. In materia di previdenza forense, Sez. L, n. 07621/2015, Doronzo, Rv. 635163, ha ritenuto che, in caso di mancato esercizio del potere di rettifica dei contributi versati dal professionista da parte della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, nel termine fissato dall'art. 20 della legge 20 settembre 1980, n. 576, gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono, nondimeno, a formare l'anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione, prendendo come base il reddito sul quale è stato effettivamente pagato il contributo. Sez. L, n. 21735/2015, Manna, Rv. 637392, ha, dal canto suo, affermato che ai sensi dell'art. 18, comma 6, della legge 20 settembre 1980, n. 576, la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, pur dopo la privatizzazione in forza del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, conserva il potere di riscuotere i contributi insoluti a mezzo ruoli da essa compilati secondo le norme per la riscossione delle imposte dirette, atteso che l'art. 17, comma 3, del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 stabilisce che continua ad effettuarsi mediante ruolo la riscossione delle entrate già riscosse con tale sistema, in base alle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. 13.8. Cassa Dottori Commercialisti. Sez. L, n. 16532, Blasutto, Rv. 636787, ha chiarito che in tema di trattamento pensionistico, l'art. 59, comma 8, della legge n. 449 del 1997 si applica, in forza del richiamo contenuto nel successivo comma 20, anche agli iscritti Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei 421 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE dottori commercialisti, trattandosi di ente privatizzato gestore di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, sicché pure in tal caso la decorrenza del trattamento anticipato di anzianità in base alla regola delle cd. finestre integra un elemento costitutivo del diritto pensionistico, che si perfeziona solo nel momento in cui matura la data di decorrenza fissata dalla legge, non essendo sufficiente, per l'insorgenza del diritto, che l'assicurato abbia, in epoca anteriore, maturato i requisiti di età e di contribuzione e presentato la relativa domanda. 13.9. Cassa di previdenza geometri. Sez. L, n. 00014/2015, Berrino, Rv. 634003, ha messo in risalto che il conseguimento della pensione di anzianità a carico della Cassa geometri è subordinato, in forza dell'art. 3, comma 2, della legge 20 ottobre 1982, n. 773, alla cancellazione dell'interessato dal relativo albo, quale necessaria condizione strettamente inerente alla specifica ratio di tale forma di pensione. Dal che deve trarsi la conseguenza per la quale la predetta previsione non è passibile di sospetti di incostituzionalità, in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 38 Cost. In materia di pensione di vecchiaia dei geometri, Sez. L, n. 03044/2015, Berrino, Rv. 634317, ha avuto modo di evidenziare come l'art. 25 del Regolamento della relativa Cassa, adottato in forza dell'art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 509 del 1994, che prevede una rivalutazione della pensione in misura ridotta per l'ipotesi di cumulo con altre pensioni di importo superiore al minimo, costituisce disciplina speciale che trae fondamento dall'autonomia normativa di cui il predetto ente gode. Da ciò consegue che, il peculiare effetto perequativo che ne deriva, anche nel caso di godimento di altri trattamenti pensionistici che superino, seppur di poco, la soglia del trattamento minimo INPS, non si traduce in una violazione del principio di adeguatezza delle prestazioni previdenziali, di cui all'art. 38 Cost., essendo riconosciuta ampia discrezionalità al legislatore per ciò che attiene al quantum e al quomodo della tutela. Sez. L, n. 01322/2015, Berrino, Rv. 634011, ha, invece, sanzionato di illegittimità il provvedimento di liquidazione della pensione con il quale, in violazione della regola del pro rata di cui all'art. 3, comma 12, legge n. 335 del 1995, siano applicati all'intero periodo contributivo criteri di calcolo meno favorevoli per l'assicurato, introdotti da deliberazioni adottate nel tempo dagli enti privatizzati di cui al d.lgs. n. 509 del 1994, allorché i parametri utilizzati siano suscettibili di frazionamento ratione temporis e non incidano sul calcolo unitario del trattamento medesimo. In 422 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE applicazione del principio, avuto riguardo al caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che, in relazione a pensione di anzianità con decorrenza dall'1 febbraio 2001, aveva riconosciuto il diritto dell'assicurato ad ottenere l'applicazione del coefficiente di riduzione del 15 per cento, introdotto dalla Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri con delibera del 22 dicembre 1997, in proporzione alle annualità maturate nella vigenza della nuova disciplina. 13.10. Cassa previdenza ragionieri. Sez. U, n. 17742/2015, Mammone, Rv. 636247, ha chiarito che in materia di prestazioni pensionistiche erogate dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, per i trattamenti maturati prima del 1° gennaio 2007 il parametro di riferimento è costituito dal regime originario dell'art. 3, comma 12, della legge n. 335 del 1995, sicché non trovano applicazione le modifiche in peius per gli assicurati introdotte da atti e provvedimenti adottati dagli enti prima dell'attenuazione del principio del pro rata per effetto della riformulazione disposta dall'art. 1, comma 763, della legge 27 dicembre 2006 n. 296, come interpretata dall'art. 1, comma 488, della legge 27 dicembre 2013 n. 147. La medesima Sez. U, n. 17742/2015, Mammone, Rv. 636248, rileva, infatti, che la liquidazione dei trattamenti pensionistici, solo a partire dal 1 gennaio 2007, è legittimamente operata sulla base dell'art. 3, comma 12, della legge n. 335 del 1995 riformulato dall'art. 1, comma 763, della legge n. 296 del 2006, che, nel prevedere che gli enti previdenziali adottino i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell'equilibrio finanziario, impone solo di aver presente - e non di applicare in modo assoluto - il principio del pro rata, in relazione alle anzianità già maturate rispetto all'introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti, e comunque tenendo conto dei criteri di gradualità e di equità tra generazioni, con salvezza degli atti approvati dai Ministeri vigilanti prima dell'entrata in vigore della legge n. 296 del 2006 e che, in forza dell'art. 1, comma 488, della legge n. 147 del 2013, si intendono legittimi ed efficaci purché siano finalizzati ad assicurare l'equilibrio finanziario di lungo termine. 14. La previdenza complementare. Di notevole valenza si palesa Sez. U, n. 04684/2015, Di Cerbo, Rv. 634402, che, nell' occuparsi dei versamenti del datore di lavoro nei fondi di 423 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE previdenza integrativa, avuto riguardo al periodo anteriore al d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ha inteso chiarire che detti versamenti - sia che il fondo abbia personalità giuridica autonoma, sia che consista in una gestione separata del datore stesso - hanno natura essenzialmente previdenziale, non retributiva, tanto da non rientrare nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro. Sez. U, n. 00477/2015, Curzio, Rv. 633755, ha messo in luce che in tema di previdenza complementare, l'art. 10 del d.lgs. n. 124 del 1993, nel consentire la portabilità della posizione individuale, ossia del trasferimento dei contributi maturati da un dipendente, cessato prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare, verso un fondo cui il medesimo acceda in relazione ad una nuova attività, si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all'entrata in vigore (15 novembre 1992) della legge (delega) 23 ottobre 1992, n. 421, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali e, quindi, non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, trattandosi di soluzione coerente non solo con il dato letterale della norma, per l'assenza di espressioni idonee a fondare una differenziazione di trattamento, ma anche con la ratio dell'intervento, inteso ad assicurare, in conformità ai principi della legge delega, ‹‹i più elevati livelli di copertura previdenziale››. Sez. L, 01252/2015, De Renzis, Rv. 634082, ha ritenuto l'illegittimità, in tema di previdenza complementare, della riduzione, determinata unilateralmente dal fondo debitore, adducendo generiche ragioni finanziarie, dell'ammontare del trattamento maturato in base ai requisiti contributivi e anagrafici previsti dalla normativa convenzionale precedente. Al riguardo, viene segnalato un contrasto tra detta riduzione e l'affidamento del pensionato, tutelato dall'art. 3, comma 2, Cost., nella consistenza economica del proprio diritto soggettivo. Di saliente rilievo, nell'assenza di precedenti in termini, si mostra, poi, Sez. L, 22149/2015, Tria, Rv. 637400, che, proprio in materia di Fondi pensionistici integrativi aventi natura di persona giuridica privata, ha percpicuamente evidenziato come il provvedimento di approvazione della COVIP non rientri tra gli elementi costitutivi degli atti di adozione o modifica dello statuto da parte del Fondo, palesandosi esclusivamente integrativo della loro efficacia con effetto ex tunc, in quanto finalizzato al controllo circa la correttezza e la trasparenza delle condizioni contrattuali di tutte le forme pensionistiche complementari. 424 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE Di interesse nel contesto in disamina si mostra, infine, Sez. 1, n. 19792/2015, Mercolino, Rv. 636682, la quale ha precisato che i contributi dovuti dal datore di lavoro per la previdenza complementare (nella specie, a titolo di indennità di premorienza Fonchim, prevista dal c.c.n.l. del settore chimico-farmaceutico a partire dall'1 gennaio 2007), originando da un rapporto contrattuale diverso da quello di lavoro subordinato e non essendo legati a quest'ultimo da nesso di corrispettività, hanno natura esclusivamente previdenziale e non retributiva, sicché non concorrono a determinare la base di calcolo del trattamento di fine rapporto né, tantomeno, rientrano tra le forme diprevidenzae assicurazione obbligatoria. Da ciò consegue che, in caso di omesso versamento contributivo, il credito risarcitorio insinuato al passivo del fallimento del datore di lavoro non è assistito da privilegio. 14.1. Il fondo di garanzia dell'INPS. Un'incisiva riflessione è giunta da Sez. la quale ha avuto modo di chiarire che 6-L, n. 06480/2015, Arienzo, Rv. 635090, il diritto del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR a carico dello speciale fondo di cui all'art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale che nasce non in forza del rapporto di lavoro ma, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, del distinto rapporto assicurativo-previdenziale. Ne consegue che la competenza territoriale delle relative cause si radica, ai sensi dell'art. 444 c.p.c., presso il giudice del lavoro del luogo di residenza dell'attore e non secondo i criteri stabiliti, per le cause di lavoro, dall'art. 413 c.p.c. 14.2. Il fondo per gli impiegati di esattorie e ricevitorie. È stata svolta una saliente precisazione da parte di Sez. L, n. 07188/2015, Balestrieri, Rv. 635229, la quale ha chiarito che il fondo di cui alla legge 2 aprile 1958, n. 377, come modificata dalla legge 29 luglio 1971, n. 587, è finalizzato ad integrare le pensioni dovute agli iscritti, o ai loro superstiti, dall'assicurazione generale obbligatoria, e a ciò provvede erogando agli aventi diritto un'unica pensione complessiva, comprensiva di quanto eventualmente spettante per l'A.G.O., anche nell'ipotesi in cui sussistano le condizioni per la pensione a carico dell'assicurazione obbligatoria, senza che possa attribuire anticipatamente alcun trattamento pensionistico. Da ciò consegue - ad avviso della Corte - che l'iscritto al fondo non può ottenere l'assegno ordinario di invalidità, di cui 425 CAP. XVII - PREVIDENZA E ASSISTENZA SOCIALE alla legge n. 222 del 1984, prima che siano realizzate le condizioni per l'erogazione del trattamento complessivo e, in particolare, prima della perdita della qualità di iscritto al fondo, che consegue alla cessazione dell'attività lavorativa. Nel medesimo contesto, Sez. L., n. 19290/2015, Tria, Rv. 637228, ha statuito che il diritto al pagamento una tantum della somma pari al 75 per cento della contribuzione integrativa, riconosciuto dall'art. 32 della l. n. 377 del 1958 agli iscritti al Fondo di previdenza per gli impiegati delle esattorie e ricevitorie, ha natura previdenziale trattandosi di indennità sostitutiva e anticipatoria del trattamento pensionistico, commisurata ad una parte soltanto dei contributi versati, sicché è soggetto al termine di decadenza di cui all'art. 47, comma 2, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, nel testo sostituito dall'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992 n. 384 convertito con modificazioni dalla legge 14 novembre 1992 n. 483, applicabile ad ogni tipo di prestazione di carattere previdenziale a prescindere dalle modalità di corresponsione. 426 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA PARTE SESTA IL DIRITTO DEL MERCATO CAPITOLO XVIII I DIRITTI DI PRIVATIVA (di Lorenzo Delli Priscoli) SOMMARIO: 1. Confondibilità di marchi e brevetti e conseguente contraffazione. - 2. Marchio debole e nome anagrafico già registrato. - 3. Preuso del marchio. - 4. Novità dell'invenzione. - 5. Invenzione occasionale del lavoratore. - 6. Azione di reintegrazione nei diritti relativi al brevetto. - 7. Prova del danno da violazione di privativa. - 8. Funzioni dell'Ufficio italiano brevetti e marchi. - 9. Valore artistico dell'industrial design. 1. Confondibilità di marchi e brevetti e conseguente contraffazione. Ha affermato la S.C. che l'azione di contraffazione del marchio d'impresa, di natura reale, tutela il diritto assoluto all'uso esclusivo del segno distintivo come bene autonomo sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, sicché non è esperibile allorquando si lamenti la potenziale confondibilità tra prodotti generata dall'accostamento, ai fini della vendita, tra quelli con un certo marchio ed altri di diversa o ignota provenienza (Sez. 1, n. 22952/2015, Nappi, in corso di massimazione). La maggior parte della pronunce in tema di marchi e brevetti hanno riguardato il tema dell'accertamento circa la confondibilità, che costituisce un presupposto comune delle azioni di nullità e contraffazione del marchio o del brevetto stesso, attività quest'ultima che non è configurabile in mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa, ove l'attività del contraffattore preesista al marchio o al brevetto stesso (Sez. 1, n. 19174/2015, Scaldaferri, Rv. 637121). Secondo Sez. 1, n. 15840/2015, Nappi, Rv. 636048, tale accertamento deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all'insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, laddove il marchio contenga tali riferimenti rispetto al prodotto contrassegnato. Altra pronuncia (Sez. 1, n. 07414/2015, Ragonesi, Rv. 635216) ha di contro sottolineato un'altra prospettiva rilevante ai fini del giudizio di confondibilità, quella del consumatore, il quale ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 è un soggetto che 427 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA agisce per scopi estranei rispetto all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, ossia un soggetto che, secondo l'id quod plerumque accidit, non è dotato di particolare specifica esperienza e conoscenza. In effetti, secondo la Cassazione, l'affinità tra prodotti, ai fini della tutela contro la contraffazione dei relativi marchi, postula che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l'affinità funzionale tra essi esistente induca il consumatore a ritenere che provengano dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall'eventuale uniformità dei canali di commercializzazione. L'indagine che il giudice di merito deve compiere è, dunque, quella di verificare se il marchio che si ritiene crei confusione abbia creato "un'illusione ottica" tale per cui il consumatore possa ragionevolmente ritenere che determinati prodotti contrassegnati da marchi diversi, ma che si ritiene confondibili, provengano dalla medesima impresa produttrice. In quest'ottica sembra muoversi anche Sez. 1, n. 04386/2015, Ragonesi, Rv. 634759, secondo cui l'attitudine dei beni a soddisfare le medesime esigenze di mercato, da cui dipende l'affinità tra prodotti contraddistinti da marchi simili ai fini del giudizio di confondibilità tra gli stessi, consiste nella circostanza che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l'affinità funzionale esistente tra quei beni o prodotti e tra i relativi settori merceologici induca il consumatore a ritenere che essi provengono dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall'eventuale uniformità dei canali di commercializzazione. Come per la sentenza citata in precedenza si evidenzia, però, che l'identità delle esigenze non può essere ancorata a criteri eccessivamente generici (quali l'esigenza di vestirsi, sfamarsi, dissetarsi, leggere, etc.), rischiandosi altrimenti di smarrire il nesso che, anche secondo nozioni di comune esperienza, deve potersi presumere esistente tra la coincidenza dei bisogni cui quei beni sono preordinati e l'unicità della loro fonte di provenienza, che costituisce la vera ragione di tutela del marchio. La Cassazione si è occupata anche di contraffazione di brevetto per equivalenza, ritenendo che, al fine di valutare se la realizzazione contestata possa considerarsi equivalente a quella brevettata, sì da costituirne una contraffazione, occorre accertare se, nel permettere di raggiungere il medesimo risultato finale, essa presenti carattere di originalità, offrendo una risposta non banale, né ripetitiva della precedente, essendo da qualificarsi tale quella che 428 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA ecceda le competenze del tecnico medio che si trovi ad affrontare il medesimo problema, in questo caso soltanto potendo ritenersi che la soluzione si collochi al di fuori dell'idea di soluzione protetta. La parzialità della riproduzione del dispositivo brevettato non esclude quindi necessariamente la contraffazione, se tale parzialità non consenta di escludere l'utilizzazione nella sua struttura generale del brevetto anteriore, secondo un accertamento che costituisce una questione di fatto, affidata all'apprezzamento insindacabile del giudice di merito, se sorretto da motivazione adeguata ed esente da vizi logici (Sez. 1, n. 22351/2015, Nappi, in corso di massimazione). 2. Marchio debole e nome anagrafico già registrato. La Cassazione ha posto in evidenza come, in assenza di un marchio forte, la tutela di un marchio o in genere di un segno distintivo sia tendenzialmente circoscritta all'ambito merceologico in cui tale segno ha conosciuto una diffusione più o meno ampia e la confondibilità può essere esclusa in presenza di modifiche del segno significative ma non particolarmente rilevanti. Secondo Sez. 1, n. 01861/2015, Lamorgese, Rv. 634265, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell'adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l'aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all'identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente. Afferma, poi, Sez. 1, n. 03806/2015, Genovese, Rv. 634435, che, ai sensi degli artt. 21, comma 1, lett. a), e 22 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale), un segno distintivo costituito da un nome anagrafico validamente registrato come marchio non può essere adottato, in settori merceologici identici o affini, né come marchio, né come denominazione sociale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, in quanto, nell'ambito dell'attività economica e commerciale, il diritto al nome subisce una compressione ove sia divenuto oggetto di registrazione ad opera di altri. Ne consegue che non è conforme alla correttezza professionale l'inserimento, nella denominazione sociale, del nominativo di uno dei soci, coincidente con il nome proprio precedentemente incluso in un marchio registrato da terzi, che non sia giustificato dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all'attività, ai prodotti o ai servizi offerti, che 429 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA non può essere ravvisata ove consista nella sola circostanza che il nome sia patronimico di un socio. 3. Preuso del marchio. La Cassazione ha in due pronunce fatto applicazione del principio di cui all'art. 2571 c.c. della tutela del preuso del marchio non registrato nei limiti in cui il titolare di esso se ne è avvalso. Ha ritenuto, infatti, in un primo arresto la S.C. che il preuso di un marchio di fatto con notorietà nazionale determina sia il diritto all'uso esclusivo del segno distintivo da parte del preutente, sia l'invalidità del marchio successivamente registrato ad opera di terzi, venendo in tal caso a mancare (fatta salva la convalidazione di cui all'art. 48 del r.r. 21 giugno 1942, n. 929) il carattere della novità, che costituisce condizione per ottenerne validamente la registrazione (Sez. 1, n. 22350/2015, Nappi, in corso di massimazione). Ha inoltre affermato Sez. 1, n. 22845/2015, Ragonesi, in corso di massimazione, che l'art. 9 del r.d. n. 929 del 1942 stabilisce il diritto del titolare di un marchio già utilizzato in precedenza e avente notorietà locale di continuare nell'uso dello stesso nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione da parte di altri del marchio stesso; per "diffusione locale" la norma fa riferimento all'ambito territoriale di diffusione effettiva del marchio usato prima dell'altrui registrazione, a prescindere sia dalla sua vastità (per ipotesi coincidente, come nel caso di specie, con l'intero territorio nazionale) sia dal fatto che tale marchio non sia notorio o lo sia solo localmente. 4. Novità dell'invenzione. Ritiene Sez. 1, n. 12510/2015, Genovese, Rv. 635650, che per la sussistenza del requisito della novità intrinseca dell'invenzione non è richiesto un grado di novità ed originalità assoluto rispetto a qualsiasi precedente cognizione, ma è sufficiente che essa riguardi nuove implicazioni e nuovi usi di elementi già noti, associati o coordinati in modo da ottenere un risultato industriale nuovo, economicamente utile. 5. Invenzione occasionale del lavoratore. Ha affermato Sez. L, n. 05424/2015, Doronzo, Rv. 635147, che, per l'invenzione cosiddetta "occasionale" del lavoratore, la concessione del brevetto costituisce la condicio iuris cui è subordinato l'esercizio del diritto del lavoratore, autore dell'invenzione, al canone o al prezzo, non 430 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA essendo sufficiente l'asserita utilizzazione di fatto dell'invenzione da parte del datore di lavoro. 6. Azione di reintegrazione nei diritti relativi al brevetto. Alcune sentenze hanno riguardato l'azione di reintegrazione nei diritti relativi al brevetto prevista dall'art. 193, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005, affermandosi la necessità di un onere di diligenza "richiesta dalle circostanze", che richiama la diligenza di cui all'art. 1176 c.c., sia con riferimento a quella generica del comma 1 che a quella professionale prevista dal comma 2. Pertanto, ove il titolare del brevetto abbia incaricato un terzo del pagamento richiesto dall'Ufficio senza preoccuparsi di controllare l'effettiva esecuzione dell'incarico da parte sua, non è sufficiente, ai fini della restitutio in integrum, l'avere verificato che il mandatario sia dotato di un'organizzazione astrattamente adeguata, ma occorre dimostrare che costui, in concreto, si sia profuso per contrastare il fatto impeditivo, con indicazione di fatti specifici e con idonea documentazione (Sez. 1, n. 16833/2015, Lamorgese, Rv. 636644). Ha specificato Sez. 1, n. 04387/2015, Mercolino, Rv. 634684, che tale diligenza va posta in relazione con il quadro reale nel quale l'attività da compiersi si colloca, in modo da poter valutare se un qualche rimprovero possa essere mosso al soggetto che quell'attività ha omesso di svolgere. Pertanto, il ricorso ad un mandatario specializzato, dovendo quest'ultimo disporre di un sistema interno di controllo e di sorveglianza dei termini che ne escluda generalmente l'involontaria inosservanza - come richiesto dalle direttive comunitarie riguardanti i procedimenti in questione - comporta che solo eventi eccezionali e, quindi, imprevedibili in base all'esperienza, possano determinare una restitutio in integrum (Sez. 1, n. 13889/2015, Nappi, Rv. 635925). 7. Prova del danno da violazione di privativa. La Cassazione ha fatto applicazione, anche in tema di violazione della privativa, dei principi che distinguono il danno evento dal danno conseguenza, ritenendo che tale tipo di danno vada provato sub specie di danno conseguenza, che quindi non si esaurisce nel semplice evento consistente nella contraffazione del marchio o del brevetto. Ha conseguentemente ritenuto Sez. 1, n. 17791/2015 Valitutti, Rv. 636638, che il danno cagionato dalla commercializzazione di un prodotto o di un modello in violazione della privativa non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed 431 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA ulteriore dell'illecito rispetto alla distorsione della concorrenza da eliminare comunque, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, in quanto solo in presenza di tale dimostrazione è consentito al giudice liquidare il danno, eventualmente facendo ricorso all'equità, ai sensi dell'art. 1226 c.c. 8. Funzioni dell'Ufficio italiano brevetti e marchi. La Cassazione si è altresì interessata delle attività svolte dall'Ufficio italiano brevetti e marchi, in particolare con riferimento ai rapporti con il giudice ordinario e alle questioni riguardanti la nullità del marchio o del brevetto. Una prima pronuncia vi è stata in tema di acquisto di brevetti, ove il Supremo Collegio ha ritenuto che l'acquirente che sia in buona fede deve accertare la titolarità della privativa in capo al cedente mediante la verifica della situazione emergente nel registro dell'Ufficio italiano brevetti e marchi al momento della vendita, essendo indifferente che in epoca successiva all'atto di trasferimento sia stata dichiarata la nullità del brevetto; né l'acquirente può esimersi dalla suddetta verifica per la circostanza che la trascrizione della cessione della titolarità del brevetto nel registro non ha effetti costitutivi, ma di sola pubblicità nei confronti dei terzi, in quanto, riportando di regola il titolare, il cessionario in buona fede, per escludere l'acquisto a non domino, ha il dovere di accertare, secondo canoni di comune prudenza, la corrispondenza tra l'alienante del brevetto e il titolare indicato nel registro (Sez. 1, n. 22345/2015, Ragonesi, in corso di massimazione). È stato poi affermato che l'obbligo posto dall'art. 60 del r.d. n. 929 del 1942 a carico di chi promuove un giudizio in materia di brevetti per marchi di trasmettere all'Ufficio italiano brevetti e marchi una copia dell'atto introduttivo del giudizio non assolve la funzione di stimolare una qualche attività giudiziaria da parte dell'ufficio destinatario, il quale non è legittimato ad intervenire né, a maggior ragione, è litisconsorte necessario nel giudizio. Pertanto, la mancanza di detta comunicazione non determina alcuna violazione del contraddittorio, né determina una nullità assoluta del procedimento od una improcedibilità, ma costituisce solo una semplice informativa all'ufficio che ha emanato l'atto amministrativo oggetto di controversia, al fine di consentirgli di adottare le eventuali misure amministrative o giudiziarie ritenute idonee. Quindi, poiché l'art. 60 citato prevede che la comunicazione possa essere disposta dal giudice in ogni stato del processo, 432 CAP. XVIII - I DIRITTI DI PRIVATIVA l'eventuale vizio si determina solo se essa non sia stata effettuata prima dell'esaurimento dell'ultimo grado cui il giudizio sia pervenuto (Sez. 1, n. 22953/2015, Ragonesi, in corso di massimazione). In altra occasione, la S.C. ha stabilito che il giudice investito della domanda di nullità di un marchio durante la fase di attesa della decisione dell'Ufficio italiano brevetti e marchi circa la domanda di registrazione del marchio stesso – sia nel regime anteriore che in quello successivo alle modifiche dell'art. 120, comma 1, del d.lgs. n. 30 del 2005 – non è carente di giurisdizione a conoscere della domanda, ma è solo tenuto a sospendere il processo fino alla suddetta decisione. In applicazione di tale principio, non trattandosi di una questione di giurisdizione, la Cassazione non ha rimesso la causa al tribunale, ma ha cassato con rinvio alla corte di appello, che aveva dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione (Sez. 1, n. 23980/2015, Lamorgese, in corso di massimazione). 9. Valore artistico dell'industrial design. Ha affermato la S.C. che l'art. 2, n. 10, della l. 22 aprile 1941, n. 633, a mente del quale sono comprese nella protezione delle opere del disegno industriale quelle che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico, va interpretato nel senso che i menzionati parametri debbono risultare riconoscibili, anche attraverso il ricorso a criteri indiziari (riconoscimento in ambiti critico-specialistici, presenza di tratti sicuramente innovativi, sia sul terreno progettuale che realizzativo, precoce ed attendibile musealizzazione), opportunamente pesati (ove presenti), sulla base di un giudizio ex ante, formulato – se del caso – attraverso il ricorso all'esperienza e al sapere specialistico di consulenti idonei a fornire al giudice validi elementi di valutazione (Sez. 1, n. 22118/2015, Genovese, in corso di massimazione). 433 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA CAPITOLO XIX IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA (di Aldo Ceniccola) SOMMARIO: 1. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge n. 287 del 1990. – 2. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. – 3. Il consumatore e il professionista. 1. Le condotte anticoncorrenziali di cui alla legge n. 287 del 1990. Tra i comportamenti anticompetitivi presi in considerazione dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635648, si è particolarmente soffermata sul tema dell'abuso di posizione dominante. È stato in proposito statuito che ai fini dell'accertamento di una condotta anticoncorrenziale ai sensi dell'art. 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, la perimetrazione del mercato rilevante – da attuarsi attraverso l'analisi della sostituibilità della domanda (ed eventualmente dell'offerta), con riferimento a beni e servizi intercambiabili dal consumatore in ragione delle loro caratteristiche, dei loro prezzi, delle abitudini e tendenze dei consumatori e con riferimento ad una determinata area geografica in cui le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee – rappresenta un presupposto essenziale per l'eventuale individuazione di un abuso di posizione dominante. La stessa pronuncia ha poi precisato che detta operazione implica l'applicazione ai fatti accertati delle norme giuridiche in tema di "mercato rilevante" come interpretate dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, sindacabile in sede di legittimità per violazione di legge (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva erroneamente escluso l'esistenza dell'abuso di posizione dominante senza compiere una opportuna delimitazione del mercato rilevante in concreto, cioè in funzione della specifica ipotesi di abuso denunciata, non tenendo conto delle relazioni tra soggetti interessati e delle possibilità di reazione da parte di quelli cui si indirizzava l'attività economica contestata). Sempre Sez. 1, n. 11564/2015, Lamorgese, Rv. 635649, ha operato importanti chiarimenti sulla precisa curvatura che in questa materia assume la distribuzione dell'onere probatorio, precisandosi che il giudice non può decidere la causa applicando meccanicamente il principio dell'onere della prova, ma è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in giudizio, tenuto conto dell'asimmetria informativa esistente tra le parti nell'accesso alla 434 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA prova, sicché, fermo restando l'onere dell'attore di indicare in modo sufficientemente plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, il giudice è tenuto a valorizzare in modo opportuno gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d'ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d'indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata. 2. Divieto di concorrenza e concorrenza sleale. Le conseguenze rilevanti sul piano rimediale dalla violazione del divieto di concorrenza posto dall'art. 2557 c.c. a carico dell'alienante dell'azienda sono chiarite da Sez. 1, n. 18692/2015, Mercolino, Rv. 636770, secondo cui la richiesta di pubblicazione della sentenza che accerti gli atti concorrenziali in violazione dell'obbligo di non concorrenza derivante dalla cessione di azienda è riconducibile all'art. 2557 c.c. e non all'art. 2600 c.c., sicché il relativo provvedimento integra una forma di riparazione del pregiudizio subito dall'imprenditore – che, al pari del risarcimento, richiede la prova della diminuzione patrimoniale o del mancato guadagno cagionati dalla violazione del divieto – e non una sanzione autonoma, volta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto leso, rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, nonché indipendente dalla prova di un danno attuale. Che la domanda di accertamento della violazione del divieto di concorrenza derivante dal contratto di cessione dell'azienda (o del ramo di azienda) ben possa coesistere con la domanda di risoluzione contrattuale fondata sul medesimo presupposto è rimarcato da Sez. 1, n. 18692/2015, Mercolino, Rv. 636769, che ha precisato, quanto agli obiettivi che le due domande si propongono, che mentre la prima mira ad ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalla violazione, la seconda è volta a conseguire la restituzione delle rate di prezzo pagate e la dichiarazione di cessazione dell'obbligo di corrispondere quelle non ancora scadute. In tema di concorrenza sleale, soffermandosi sui presupposti soggettivi della fattispecie, Sez. 1, n. 18691/2015, Mercolino, Rv. 636767, ha chiarito che la concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, 435 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto "rapporto di concorrenzialità"; l'illecito, peraltro, non è escluso se l'atto lesivo sia stato posto in essere un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell'imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest'ultimo ne risponde ai sensi dell'art. 2049 c.c. ancorché l'atto non sia causalmente riconducibile all'esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di "occasionalità necessaria" per aver questi agito nell'ambito dell'incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all'insaputa del datore di lavoro (nella specie confermandosi la sentenza di merito la quale, accertata la pronuncia di espressioni diffamatorie ascrivibili ad un soggetto persona fisica fiduciario e mandatario di un concorrente, aveva correttamente imputato a quest'ultimo la responsabilità da concorrenza sleale per denigrazione). Sempre in ordine ai presupposti di carattere generale che condizionano la rilevazione della fattispecie, Sez. 3, n. 02081/2015, Cirillo, Rv. 634393, ha precisato che l'astratta configurabilità della concorrenza sleale tra due o più imprenditori presuppone il contemporaneo esercizio della stessa attività, industriale o commerciale, in un ambito territoriale potenzialmente comune, sicché gli articoli di stampa che denigrino un gruppo imprenditoriale non sono neppure giuridicamente inquadrabili negli atti di concorrenza sleale tra la testata giornalistica, pur di rilievo nazionale, ed un gruppo imprenditoriale, la cui attività sia estremamente ampia e ramificata, e non riconducibile al solo settore dell'informazione. In applicazione di detto principio, la Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito di rigetto della domanda risarcitoria, escludendo che la pubblicazione di un articolo in cui si suggeriva una mobilitazione generale contro la normativa disciplinante l'assetto radio-televisivo nazionale, configurasse atto di concorrenza sleale. Passando ad esaminare il perimetro applicativo delle singole figure riconducibili alla fattispecie generale e la loro differenza con figure affini, Sez. 1, n. 19174/2015, Scaldaferri, Rv. 637121, ha chiarito che mentre l'imitazione servile delle caratteristiche di un prodotto altrui integra gli estremi della concorrenza sleale, a prescindere dall'esistenza di una tutela brevettuale del prodotto imitato, la contraffazione del brevetto non è configurabile in 436 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA mancanza di registrazione e non sussiste neppure successivamente ad essa ove l'attività del contraffattore preesista al brevetto stesso. Sez. 1, n. 22118/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha evidenziato che la concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598, n. 3, c.c., che riguarda comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale, si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti nn. 1 e 2, onde ove si sia correttamente escluso nell'elemento dell'imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell'attività imitativa (requisito pertinente solo alla fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598 c.c.), devesi indicare quali siano state le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l'adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contraria alle regole della correttezza professionale. Riguardo all'ipotesi della concorrenza sleale par denigrazione, Sez. 1, n. 18691/2015, Mercolino, Rv. 636768, ha statuito che le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell'impresa concorrente ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l'attività di quest'ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell'imprenditore nell'ambito professionale (esclusa la sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l'impresa gode presso i consumatori, dovendosi apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, non solo l'effettiva "diffusione" tra un numero indeterminato (od una pluralità) di persone ma anche il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi (nella specie, si era accusato il concorrente di essere mafioso e di essere stato arrestato per aver sottratto denaro alla propria società) ed anche la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari (nella specie, alcuni dipendenti del concorrente denigrato). Si sofferma sul tema della distribuzione dell'onere probatorio Sez. 1, n. 15566/2015, Genovese, Rv. 636538, secondo cui l'attore, che agisca per il risarcimento derivante dall'illegittimo utilizzo di un farmaco antireumatico di propria invenzione, ha l'onere di provare l'originalità, la distintività e la sussistenza delle proprietà antinfiammatorie del prodotto, mentre incombe sul convenuto la 437 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA dimostrazione della sua carenza di novità o della perdita sopravvenuta della sua capacità distintiva. In tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, Sez. 1, n. 22584/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha statuito che la competenza di dette sezioni specializzate va negata sia nei casi di proposizione di domanda di accertamento di un'ipotesi di concorrenza sleale cd. pura (nella quale la lesione dei diritti riservati non sia, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, che esige la valutazione in via incidentale delle privative in gioco), sia nel caso in cui la domanda risarcitoria sia proposta in ragione o in connessione ad un'ipotesi di abuso di dipendenza economica di un'impresa ad un'altra, ai sensi dell'art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192, essendo un tale caso – di natura puramente contrattuale – estraneo al concetto di abuso di posizione dominante, di cui all'art. 3 della l. n. 287 del 1990. 3. Il consumatore e il professionista. Sulla nozione di consumatore, già tratteggiata in generale dall'art. 3 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, interessante è il chiarimento reso da Sez. 6- 2, n. 10679/2015, D'Ascola, Rv. 635415, riguardo al contratto concluso con un professionista da un amministratore di condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, in tal caso trovando applicazione la disciplina di tutela del consumatore, in considerazione della circostanza che, agendo l'amministratore stesso come mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, questi ultimi devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale. Le esigenze di tutela poste a fondamento dello statuto del consumatore si riflettono anche sul piano processuale, con riferimento alla regola del foro del consumatore. Secondo sez. 6-2, n. 00181/2015, Giusti, Rv. 633968, il domicilio elettivo del consumatore, ai sensi dell'art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. n. 206 del 2005, il quale, insieme alla residenza dello stesso consumatore al momento della domanda, costituisce foro esclusivo ed inderogabile (a meno che la previsione di altri fori nel contratto sia stata oggetto di trattativa individuale sanante), è esclusivamente quello che il consumatore può eleggere nel contratto all'atto della sua conclusione per tutte le vicende attinenti al contratto stesso, come stabilito dall'art. 47 c.c., sicché non ha rilevanza l'individuazione del 438 CAP. XIX - IL CONSUMATORE E LA CONCORRENZA domicilio effettivo del consumatore in base al luogo di svolgimento della sua attività lavorativa. Sulla stessa linea argomentativa si pone, poi, Sez. 6-3, n. 14287/2015, Scarano, Rv. 635850, precisando che la disciplina relativa al foro del consumatore – esclusivo e speciale, e, come tale, prevalente rispetto ai fori individuati alla stregua degli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. – è applicabile anche ai contratti di video lotteria, configurandosi le attività dei concessionari che consentono agli utilizzatori di parteciparvi, dietro corrispettivo, come prestazione di servizi ex art. 49 del Trattato CE. L'applicabilità della suddetta disciplina, peraltro, è da ritenersi preclusa solo qualora ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34, comma 4, del d.lgs. n. 206 del 2005, sempre che concretamente caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà ed effettività. Si soffermano sui rapporti tra l'azione di classe amministrativa e quella prevista dal codice del consumo Sez. U, n. 19453/2015, Travaglino, Rv. 636877, secondo cui la class action pubblica prevista dal d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198 è funzionale al conseguimento di un risultato che giovi, indistintamente, a tutti i contitolari dell'interesse diffuso al ripristino del corretto svolgimento della funzione amministrativa ovvero della corretta erogazione del servizio, mentre l'azione di classe prevista dal codice del consumo postula l'esercizio di un diritto individuale, oggetto di trasposizione in capo a ciascun titolare singolarmente identificato, sicché appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda risarcitoria svolta, a norma dell'art. 140-bis del d.lgs. n. 206 del 2005, dall'utente di un servizio pubblico nei confronti del soggetto privato assunto come inadempiente in relazione al corrispondente contratto (nella specie, di trasporto pubblico) attuativo del servizio. 439 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' CAPITOLO XX IL DIRITTO DELLE SOCIETÀ (di Lorenzo Delli Priscoli) SOMMARIO: 1. Limiti dell'oggetto sociale e tutela dell'affidamento dei terzi. – 2. La responsabilità degli amministratori. – 3. La qualificazione giuridica dei finanziamenti dei soci alla società. – 4. La responsabilità dei soci. – 5. La responsabilità della società che svolge attività di direzione e coordinamento. – 6. I diritti individuali del socio. – 7. Il principio di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali nelle società di capitali – 8. Liquidazione della società e liquidazione della quota a seguito di exit del socio. – 9. Redazione del bilancio. – 10. Società e impresa familiare. – 11. Violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto. – 12. Revoca di amministratore di nomina pubblica di società partecipata. – 13. Le società cooperative. 1. Limiti dell'oggetto sociale e tutela dell'affidamento dei terzi. La Suprema Corte è stata chiamata in due occasioni a pronunciarsi in merito al tema dei limiti per gli amministratori di società di capitali del rispetto dell'oggetto sociale nel loro agire con i terzi. Entrambe le sentenze si sono interessate delle conseguenze dell'eccedenza dell'atto rispetto ai limiti dell'oggetto sociale (art. 2328, n. 3, e 2384 c.c.), ovvero del suo compimento al di fuori dei poteri conferiti all'amministratore. La Suprema Corte ha ritenuto che in tali ipotesi non si verifica un caso di nullità, ma, al più, soltanto di inefficacia e di opponibilità nei rapporti con i terzi, cui consegue, ma solo eventualmente, la responsabilità degli amministratori che lo hanno compiuto. Il primo arresto (Sez. 1, n. 05522/2015, Bernabai, Rv. 634688) ha sottolineato che è rimesso solo alla società il potere di respingere gli effetti dell'atto, e quindi deve correlativamente essere riconosciuto alla società stessa anche il potere di assumere ex tunc quegli effetti, attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri, attraverso una delibera autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell'amministratore. Ne deriva che ogni questione relativa alla estraneità dell'atto compiuto dall'amministratore rispetto all'oggetto sociale è da ritenersi irrilevante a seguito e per effetto dell'adozione di una delibera di autorizzazione preventiva da parte della società, posto che tale delibera impegna l'organo di gestione ad una condotta esecutiva e conforme, sia essa idonea o meno rispetto al perseguimento dell'oggetto sociale. 440 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' La seconda decisione (Sez. 3, n. 18449/2015, Carluccio, Rv. 636761) si pone invece nella prospettiva della società di capitali come soggetto autonomo e completamente indipendente da limiti nel suo agire giuridico, accentuando il profilo della necessità di offrire una adeguata tutela ai terzi, con la conseguenza che la sua capacità giuridica, in mancanza di specifiche limitazione stabilite dalla legge, è generale, sicché può porre in essere qualsiasi atto o rapporto giuridico, inclusa la donazione, ancorché esuli od ecceda od, anche, tradisca lo scopo lucrativo perseguito, dovendosi ritenere che l'oggetto sociale costituisca solamente un limite al potere deliberativo e rappresentativo degli organi societari. Questa pronuncia mostra dunque ai massimi livelli l'esigenza di garantire ai terzi il massimo affidamento nelle contrattazioni con una società, fino al punto da ritenere che quest'ultima possa smaccatamente "tradire" il proprio scopo precipuo, quello di lucro, attraverso quello che è il suo atto antitetico per antonomasia, la donazione. Sempre in tema di tutela dell'affidamento dei terzi si pone Sez. 1, n. 22560/2015, Cristiano, in corso di massimazione, secondo cui la simulazione di una società di capitali iscritta nel registro delle imprese non è configurabile in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell'agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi che con la società instaurano rapporti e che fanno affidamento sulla sua esistenza. Tipo e scopo sociale, una volta compiute le formalità di legge, sono quelle che emergono dal sistema di pubblicità, con la conseguenza che l'atto di costituzione dell'ente non può più essere interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti e resta consacrato nei termini in cui risulta iscritto ed è portato a conoscenza dei terzi. Tali principi trovano applicazione anche nel caso di trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, in quanto la vicenda modificativa non si traduce nell'estinzione di un soggetto e correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente. 2. La responsabilità degli amministratori. La Corte sviluppa e precisa, il principio, di origine nordamericana, della business judgement rule (temperato dal "nostro" principio di ragionevolezza), già espresso negli anni passati (ad esempio, Sez. 1, n. 03409/2013, Rordorf, Rv. 625022), secondo cui 441 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' all'amministratore di una società non può essere imputato di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. La responsabilità degli amministratori di società per azioni delineata dal legislatore della riforma del 2003 può discendere non solo dalla violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico già delineato dalla legge e dallo statuto, ma anche dall'inadempimento all'obbligo generale di gestire l'impresa con la dovuta diligenza. Tuttavia l'attenzione della giurisprudenza si è focalizzata prevalentemente sulla violazione da parte degli amministratori di specifici obblighi previsti dalla legge o dallo statuto: a quelli di ampia portata – quali i divieti di agire in conflitto di interessi (art. 2391 c.c.) e di esercitare un'attività in concorrenza con quella della società in assenza di specifica autorizzazione da parte dell'assemblea (art. 2390 c.c.) – si affiancano disposizioni assai più specifiche, la cui violazione, se foriera di danno, è anch'essa idonea a determinare la responsabilità dell'organo di gestione. Sono i casi, fra gli altri, del precetto che impone agli amministratori di convocare l'assemblea su richiesta della minoranza, del regime dell'acquisto di azioni proprie, del dovere di verificare la congruità della stima dei conferimenti in natura, delle norme in materia di diritto di opzione, nonché dell'art. 2404-quater, co. 2, c.c., in tema di fusione. Le disposizioni che più di frequente vengono in rilievo a livello operativo sono poi gli artt. 2485 e 2486 c.c., i quali stabiliscono che, una volta verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori devono iscriverla senza indugio nel registro delle imprese, con il che sorge l'obbligo di limitare la gestione alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. Più raramente invece la Suprema Corte ha riconosciuto che la responsabilità degli amministratori si riferisce anche al generico 442 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' obbligo di amministrare con diligenza, pur se deve considerarsi che anche la gestione della società è un'attività contemplata dalla legge: l'art. 2380-bis, comma 1, c.c. stabilisce infatti che «la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale». Del resto, l'esistenza di un generale principio di diligente amministrazione lo si evince anche dalla previsione, al comma 3 dell'art. 2381 c.c., di un obbligo di valutazione da parte del consiglio di amministrazione del generale andamento della gestione da parte degli amministratori delegati e di un obbligo specifico di vigilanza sul rispetto di tali principi in capo agli organi di controllo, anche se, per un difetto di coordinamento, la statuizione espressa si rinviene soltanto per il collegio sindacale (art. 2403 c.c.: «il collegio sindacale vigila (...) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione») e per il consiglio di sorveglianza (art. 2403- terdecies, comma 1, lett. c), ma non per il comitato per il controllo sulla gestione (art. 2403-octiesdecies); anche sul quale però si ritiene che, ricorrendone la stessa ratio, gravi in via analogica un obbligo di vigilanza sul rispetto di una condotta diligente e corretta da parte degli amministratori. Il principio di corretta e diligente amministrazione, prima espressamente contemplato soltanto per le società quotate (cfr. art. 149, co. 1, lett. a) e b), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, secondo cui «il collegio sindacale vigila (...)» non solo «sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo», ma anche «sul rispetto dei principi di corretta amministrazione», è dunque assunto a clausola generale di comportamento degli amministratori di tutte le società di capitali. Il rispetto delle regole, anche tecniche e non solo giuridiche, di buona gestione è oggi, pertanto, norma di diritto comune, e come tale è riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità. Le regole organizzative escono dunque dall'area della tecnica aziendalistica, superano i confini dei settori vigilati (banche, assicurazioni, società quotate) e si estendono a tutte le società azionarie. Occorre pertanto distinguere non tra l'attività degli amministratori prevista dalla legge e quella non prevista, ma, nell'ambito dell'attività degli amministratori (che è interamente prevista dalla legge), tra attività discrezionale e attività vincolata. In altre parole ciò che cambia è la più o meno penetrante specificità o meno dell'obbligo di legge, che altro non significa che nel caso di attività discrezionale è più difficile la prova della non diligenza dell'amministratore, non anche che egli possa tenere una diligenza 443 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' inferiore e diversa da quella che accompagna l'esecuzione di obblighi specifici o possa non averne affatto. L'attività di amministrare e gestire l'impresa con la dovuta diligenza costituisce infatti un obbligo di legge degli amministratori al pari di altri obblighi specifici quale ad esempio quello di convocare, in certe circostanze, l'assemblea. L'unica differenza è la maggiore discrezionalità che è posta in capo agli amministratori nel perseguire l'obiettivo di gestire la società. Ha affermato Sez. 1, n. 17794/2015, Nazzicone, Rv. 636637 che, a fronte dell'inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell'altro contraente non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede, ai sensi dell'art. 2395 c.c., la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente. Ne consegue che, nel caso di bilancio contenente indicazioni non veritiere, che si assumano avere causato l'affidamento incolpevole del terzo circa la solidità economico- finanziaria della società e la sua decisione di contrattare con essa, il terzo che agisca per il risarcimento del danno avverso l'amministratore che abbia concorso alla formazione del bilancio asseritamente falso ha l'onere di provare non solo tale falsità, ma anche, con qualsiasi mezzo, il nesso causale tra il dato falso e la propria determinazione di concludere il contratto, da cui sia derivato un danno in ragione dell'inadempimento della società alle proprie obbligazioni. La Cassazione ha poi ritenuto estensibile al direttore generale di società di capitali la disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori, precisando però che ciò può avvenire solo se la posizione apicale di tale soggetto all'interno della società è desumibile da una nomina formale da parte dell'assemblea o del consiglio di amministrazione, in base ad apposita previsione statutaria, poiché, non avendo il legislatore fornito una nozione intrinseca di direttore generale collegata alle mansioni svolte, non è configurabile alcuna interpretazione estensiva od analogica che consenta di estendere lo speciale ed eccezionale regime di responsabilità dell'amministratore ad altre ipotesi, salva la ricorrenza dei diversi presupposti dell'amministratore di fatto (Sez. 1, n. 23630/2015, Di Virgilio, in corso di massimazione). Sempre in tema di informazioni non veritiere destinate oltre che ai soci ai terzi, secondo Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635451, la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, 444 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' pur se addebitabile all'amministratore, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa, ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo. Il tema dell'informazione (artt. 2381, ultimo comma, e 2392 c.c.) ricorre anche in Sez. 1, n. 09193/2015, Mercolino, Rv. 635356, ove si affronta il problema di un amministratore di una società che, succedendo ad una precedente gestione d'altro amministratore caratterizzata da gravi irregolarità, ometta del tutto di informare l'assemblea dei soci. Secondo la Suprema Corte egli è responsabile non già di tali irregolarità ma della propria colpevole omissione, la quale non può dirsi esclusa dalla circostanza che i bilanci redatti dai precedenti amministratori abbiano riportato il giudizio positivo della società di revisione. Invero, le relazioni periodiche di tale società e quella annuale sul bilancio di esercizio esprimono un'opinione sull'attendibilità della contabilità sociale e del bilancio in funzione delle esigenze informative dei soci e dei terzi, ma non attribuiscono un'attestazione legale d'idoneità ai predetti atti a rappresentare fedelmente la situazione patrimoniale e finanziaria della società revisionata; tanto più che esse non sono dirette agli amministratori, i quali, disponendo di tutti gli elementi necessari per la formazione della contabilità e la predisposizione dei bilanci, sono perfettamente in grado di rendersi conto di eventuali irregolarità, anche ascrivibili alla precedente amministrazione, e non possono confidare acriticamente nell'operato di terzi, sia pure dotati di particolari competenze tecniche, sulla cui attività sono anzi tenuti a vigilare. Inoltre, colui che agisce in giudizio per l'accertamento della responsabilità degli amministratori di una società di capitali, ex art. 2449 c.c., deve fornire la prova soltanto della novità dell'operazione, dimostrando il compimento di atti negoziali in epoca successiva all'accadimento di un fatto che determini lo scioglimento della società, mentre spetta agli amministratori convenuti provare i fatti estintivi o modificativi del diritto 445 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' azionato, mediante dimostrazione che quegli atti erano giustificati dalla finalità liquidatoria, in quanto non connessi alla normale attività produttiva dell'azienda, non comportanti un nuovo rischio d'impresa o necessari per portare a compimento attività già iniziate (Sez. 1, n. 02156/2015, Lamorgese, Rv. 634155). Nella valutazione di tale prova occorre, peraltro, considerare che gli amministratori non sono solo tenuti all'ordinario (e non anomalo) adempimento delle obbligazioni assunte in epoca antecedente allo scioglimento della società (art. 2449, comma 2, testo previgente, e attuale art. 2486, comma 2, c.c.), ma hanno anche il potere-dovere di compiere, in epoca successiva al menzionato scioglimento, quegli atti negoziali di gestione della società necessari al fine di preservarne l'integrità del patrimonio (art. 2486, comma 1, c.c.). 3. La qualificazione giuridica dei finanziamenti dei soci alla società. La Cassazione si è interrogata sul problema della qualificazione giuridica dei finanziamenti dei soci alla società. In molti casi infatti, in mancanza di una specificazione da parte della società e dei soci, la funzione di tale erogazione di denaro risulta equivoca potendo essere a titolo di mutuo, con la conseguenza che il socio diventa anche obbligazionista nei confronti della società, oppure a titolo di conferimento, con la conseguenza che il socio amplia la sua quota di capitale sociale posseduta. Spesso i soci preferiscono attribuire al finanziamento la qualifica di mutuo quando però sarebbe necessario un conferimento, in ragione di perdite subite in precedenza o delle difficoltà di perseguire adeguatamente i fini sociali. Tale ipotesi, che non è espressamente prevista in tema di s.p.a., lo è per la s.r.l., la quale però, a seguito della riforma del 2003, ha ormai una disciplina autonoma rispetto alla s.p.a., con la conseguenza che l'applicazione di norme in via di interpretazione analogica da una tipologia societaria all'altra può sì certamente compiersi, ma richiede una attenta valutazione della ricorrenza dell'identità di ratio. A tal proposito ritiene Sez. 1, n. 14056/2015, Nappi, Rv. 635830, che la ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall'art. 2467 c.c. per le s.r.l. – consistente nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società "chiuse", determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l'esposizione al rischio d'impresa, ponendo i capitali a disposizione dell'ente collettivo nella forma del finanziamento anziché in quella del conferimento – è compatibile anche con altre forme societarie, come desumibile dall'art. 2497-quinquies c.c., che 446 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' ne estende l'applicabilità ai finanziamenti effettuati in favore di qualsiasi società da parte di chi vi eserciti attività di direzione e coordinamento. Pertanto occorre valutare in concreto se una s.p.a., per le sue modeste dimensioni o per l'assetto dei rapporti sociali (compagine familiare o, comunque, ristretta), sia idonea a giustificare l'applicazione della menzionata disposizione. Ha altresì specificato Sez. 1, n. 13084/2015, Di Amato, Rv. 635735, che l'interesse del socio ad erogare un finanziamento alla società è collegato al rapporto sociale solo in via di fatto poiché opera soltanto sul piano dei motivi ed è connesso alla soddisfazione delle esigenze finanziarie della società, salvo che non rinvenga la sua fonte in un obbligo giuridico derivante da una deliberazione o dal contratto sociale. Ne consegue che il diritto del socio ad ottenere la restituzione del finanziamento erogato si prescrive nel termine ordinario di dieci anni e non in quello breve, di cinque, di cui all'art. 2949, comma 1, c.c., la cui portata riguarda le sole relazioni tra i soggetti dell'organizzazione sociale, sorte in dipendenza diretta del contratto di società o di deliberazioni sociali. 4. La responsabilità dei soci. Sul tema della responsabilità dei soci di società di persone la Cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 03022/2015, Ragonesi, Rv. 634104) è pervenuta ad una rilevante affermazione di principio stabilendo che nelle società di persone la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali del socio trae origine proprio da tale sua qualità e si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale. Tale affermazione responsabilizza non poco il socio e ha portato a concludere che l'atto con cui il socio rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società non può considerarsi costitutivo di garanzia per un'obbligazione altrui, ma propria. Sempre nel solco di una piena assunzione responsabilità del socio nelle società di persone si pone il dictum di Sez. 6-T, n. 15252/2015, Conti, Rv. 636058, la quale, a proposito di una società in accomandita di persone, ha stabilito che il socio accomandante ingeritosi nella gestione sociale (come tale diventato illimitatamente responsabile) risponde per tutte le obbligazioni sociali esistenti sino al giorno dello scioglimento del rapporto sociale, anche per quelle sorte anteriormente al suo ingresso o al suo mutamento di ruolo nella compagine sociale. 447 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' È stato invece affermato in tema di società di capitali (Sez. 1, n. 00585/2015; Lamorgese, Rv. 635020) che il socio che ometta il pagamento della quota nel termine prescritto non può esercitare il diritto di voto in virtù del disposto dell'art. 2477 c.c., malgrado non sia stato destinatario di uno specifico atto di costituzione in mora o di una diffida ad eseguire quel pagamento entro trenta giorni, dovendogli quest'ultima essere indirizzata al solo scopo di dare inizio alla vendita in danno dell'intera quota sottoscritta. 5. La responsabilità della società che svolge attività di direzione e coordinamento. La Cassazione si è occupata dei rapporti tra società che svolge attività di direzione e coordinamento e società eterodirette, con particolare riferimento all'eventuale responsabilità della prima nei confronti delle seconde Secondo l'insegnamento di Sez. 1, n. 12254/2015, Scaldaferri, Rv. 635757, l'art. 2497 c.c. prevede un'unica azione di responsabilità che può essere esercitata dai creditori sociali della società eterodiretta nei confronti della società che ha abusato dell'attività di direzione e coordinamento, al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio conseguente alla lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale. Pertanto, il comma 3 della menzionata disposizione, nel prevedere che il creditore sociale può agire nei confronti della società che svolge attività di direzione e coordinamento solo se non sia stato soddisfatto dalla società soggetta a tale attività, si limita ad individuare una condizione di ammissibilità dell'azione di responsabilità prevista dal comma 1, ma non costituisce il fondamento normativo di un'ulteriore responsabilità sussidiaria tipica della cd. holding per il pagamento dei debiti insoddisfatti della società eterodiretta. Ha altresì precisato Sez. 1, n. 02952/2015, Di Amato, Rv. 634700, che la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, e l'amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso non sono situazioni incompatibili, poiché mentre la prima corrisponde ad una situazione di diritto nella quale la controllante svolge l'attività di direzione della società controllata nel rispetto della relativa autonomia e delle regole che presiedono al suo funzionamento, la seconda, invece, corrisponde ad una situazione di fatto in cui i poteri di amministrazione sono esercitati direttamente da chi sia privo di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita. Ne consegue che un soggetto, cui pure siano attribuiti poteri di direzione in quanto amministratore 448 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' di una holding (o in quanto socio di una società di fatto che ne svolge le funzioni), può, di fatto, esercitare poteri di amministrazione e, al contempo, disattendendo l'autonomia della società controllata e riducendo i relativi amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, comportarsi come se ne fosse l'amministratore, pur utilizzando, formalmente, gli strumenti propri della direzione unitaria, quali le direttive, sicché egli risponde delle condotte relative all'amministrazione delle società controllate. 6. I diritti individuali del socio. Ha ritenuto Sez. 1, n. 16049/2015, Nazzicone, Rv. 636152, che la cessione del diritto di credito agli utili spettante al socio, posta in essere dopo che l'assemblea, a seguito dell'approvazione del bilancio, abbia deliberato di non distribuirli imputandoli a riserva, dà luogo alla garanzia per l'inesistenza del credito in favore del cessionario di cui all'art. 1266 c.c. Altra decisione (Sez. 1, n. 07003/2015, Didone, Rv. 634911), sempre in tema di società di capitali, ha statuito che l'acquisto di quote sociali effettuato in violazione del patto di prelazione statutariamente previsto in favore dei soci determina l'inefficacia, peraltro nella sola misura in cui si realizzi un'alterazione nella proporzione fra le rispettive quote, del relativo trasferimento nei confronti degli altri soci e della società, ma non anche la nullità del negozio traslativo tra il socio alienante ed il terzo acquirente. È stato anche evidenziato che la pretesa lesione del diritto di sottoscrizione dell'aumento di capitale sociale, spettante a tutti i soci in misura proporzionale alle partecipazioni da essi possedute, non legittima il socio ad esercitare il diritto di recesso alla stregua del combinato disposto degli artt. 2473, comma 1, e 2468, comma 4, c.c., riferendosi queste ipotesi normative alla sola ipotesi in cui vengano attribuiti a singoli soci, dall'atto costitutivo, «particolari diritti in materia di amministrazione della società o distribuzione degli utili», ovverosia diritti diversi, quantitativamente o qualitativamente, rispetto a quelli normalmente spettanti a ciascun socio sulla base della partecipazione detenuta (Sez. 1, n. 22349/2015, Valitutti, in corso di massimazione). La stessa sentenza ha altresì sottolineato che l'art. 2481-bis escludere, di loro iniziativa, il diritto di opzione dei soci sulle quote di nuova emissione, essendo la limitazione o esclusione suddette consentite solo se previste nell'atto costitutivo, in quest'ultimo 449 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' caso assicurandosi, peraltro, al socio dissenziente il diritto di recedere dalla società ai sensi dell'art. 2473 c.c. Tale diritto di recesso non è, quindi, configurabile allorquando, nell'ipotesi di deliberato aumento di capitale da attuarsi tramite conferimenti «in natura o mediante immediata, integrale sottoscrizione delle quote in denaro», il socio deduca esclusivamente la pretesa lesione del diritto di sottoscrizione dell'aumento di capitale sociale spettante a tutti i soci, non essendo tale situazione assimilabile, sul piano normativo, alla fattispecie codificata di offerta di nuove quote a terzi, affatto distinta ed alla prima non sovrapponibile. Qualora infine l'atto costitutivo di tale società non ne preveda specifiche ipotesi, il diritto di recesso convenzionale del socio postula necessariamente, per il suo perfezionamento, la delibera societaria di accettazione. 7. Il principio di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali nelle società di capitali. La Cassazione ha riaffermato il principio di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali attribuendo efficacia obbligatoria e non reale al patto di prelazione, rilevando che l'art. 2479 c.c., dettato in tema di s.r.l., non prevede un diritto di prelazione ma consente il relativo patto, per cui l'eventuale previsione di una prelazione ha fonte non legale, ma negoziale e solo in tale ambito trova la sua disciplina. Ne deriva che la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'inopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, della cessione della partecipazione sociale, nonché l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni, e non anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente, che non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettante ai relativi titolari (Sez. 1, n. 22349/2015, Valitutti, in corso di massimazione). 8. Liquidazione della società e liquidazione della quota a seguito di exit del socio. La Suprema Corte ha ribadito il suo costante orientamento secondo cui lo scioglimento della società non determina la nascita di un nuovo soggetto giuridico, ma semplicemente la prosecuzione da parte dello stesso dell'attività con però una modifica delle finalità, dirette a conseguire la liquidazione della società. Ha così coerentemente affermato Sez. 2, 450 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' n. 22690/2015, D'Ascola, Rv. 637143, che qualora la delibera di chiusura della liquidazione sia stata revocata in data anteriore al 1° gennaio 2004, la società di capitali non è estinta e la sua liquidazione procede in base al regime anteriore al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, non rilevando la mancata iscrizione della delibera di revoca, attesa la funzione non costitutiva e di sola pubblicità che l'iscrizione aveva in quel regime. Sulla scia di tale decisione si pone anche Sez. 1, n. 22349/2015, Valitutti, in corso di massimazione, secondo cui la messa in liquidazione di una società non determina la sostituzione di un soggetto di diritto ad un altro: infatti, ai sensi dell'art. 2272 c.c. per le società di persone, e dell'art. 2448 c.c., per quelle di capitali, la società si scioglie al verificarsi di determinati eventi i quali comportano però solo un mutamento dei fini sociali e la nomina del liquidatore, il quale dovrà perseguire tali fini. Del resto, che si tratti sempre dello stesso soggetto lo dimostra anche, con riferimento alle società di capitali, l'art. 2487-bis, comma 2, c.c., il quale impone unicamente che sia aggiunta la locuzione "in liquidazione" alla denominazione sociale, ai soli fini di informazione e non decettività a tutela dei terzi. Ha altresì precisato Sez. 1, n. 09124/2015, Cristiano, Rv. 635341, che la declaratoria di nullità della società di persone va equiparata, quoad effectum, allo scioglimento della stessa, sicché la ripartizione, fra coloro che hanno agito come soci, delle spettanze sul patrimonio comune (una volta adempiute le obbligazioni verso i terzi) si configura alla stregua della liquidazione delle rispettive quote. Sempre a proposito di società che si trovi in liquidazione, Sez. 1, n. 01623/2015, Lamorgese, Rv. 634030, si è espressa nel senso che l'azione promossa dal socio di una società di capitali per la revoca del liquidatore ex art. 2450, comma 4 (oggi art. 2487, comma 4), c.c. – rimedio cui il primo è direttamente legittimato a tutela dei suoi diritti di partecipazione, che diventano liquidi ed esigibili solo con la liquidazione della società – implica il litisconsorzio necessario con la società, così come nelle società di persone è necessaria la presenza in giudizio di tutti i soci. Esaurite le operazioni di liquidazione, e addivenutisi all'estinzione della società, di persone o di capitali, e alla cancellazione dal registro delle imprese, non necessariamente corrisponde il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta: si determina così un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l'obbligazione della società non si 451 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo. In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che dall'estinzione della società (nella specie una s.r.l.) ha tratto la duplice conseguenza da un lato che la cancellazione della società, determinando un'implicita rinuncia all'azione giudiziale proposta dalla società, avesse provocato la cessazione della materia del contendere e dall'altro che, trattandosi di mera pretesa, non si fosse determinato alcun fenomeno successorio a favore del suo ex socio tale da attribuirgli la legittimazione attiva all'azione (Sez. 1, n. 25974/2015, Ragonesi, in corso di massimazione). Venendo al tema dell'exit del socio e al relativo problema dei parametri da utilizzare per ottenere una liquidazione corretta (fair) della quota del socio, ha sottolineato Sez. 1, n. 05449/2015, Didone, Rv. 634708, che la situazione patrimoniale da assumere in una società di persone ai sensi dell'art. 2289 c.c. a base della liquidazione della quota non può essere redatta – a differenza di quanto si pratica in caso di recesso da una società per azioni – facendo riferimento all'ultimo bilancio o, comunque, ai criteri di redazione del bilancio annuale di esercizio, ma occorre tener conto dell'effettiva consistenza al momento della uscita del socio, sicché, ai fini della determinazione del valore dell'avviamento – la cui rilevanza, quale elemento del patrimonio sociale, si proietta nel futuro, traducendosi nella probabilità, pur fondata su elementi presenti e passati, di maggiori profitti per i soci superstiti –, vanno considerati non solo i risultati economici della gestione passata, ma anche le prudenti previsioni della futura redditività dell'azienda. Sempre in tema di exit, ha altresì affermato Sez. 1, n. 01624/2015, Nazzicone, Rv. 633981, che la deliberazione assembleare di esclusione del socio da una società personale, 452 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' assunta con il voto di una società partecipante rappresentata da un falsus procurator, è viziata da annullabilità, in quanto il diritto di partecipare all'assemblea è tutelato dalla legge in funzione dell'interesse individuale dei soci ed il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela di tale interesse determina un'ipotesi di mera annullabilità, in applicazione analogica dell'art. 2377 c.c.; il voto così espresso, invalido per vizio di rappresentanza, è peraltro suscettibile di ratifica, proveniente dalla medesima società legittimamente rappresentata, ai sensi dell'art. 1399 c.c., restando compito esclusivo del giudice del merito accertare l'integrazione della fattispecie sanante, su eccezione della parte interessata a farla valere. 9. Redazione del bilancio. La Cassazione (Sez. 1, n. 05450/2015, Nazzicone, Rv. 634854) ha avuto modo di esprimersi in tema di iscrizione in bilancio dei crediti delle società, affermando che, ai sensi dell'art. 2425, n. 6, c.c., il criterio legale del "valore presumibile di realizzazione" deve essere esercitato dagli amministratori alla stregua del canone generale della ragionevolezza della valutazione (o svalutazione) operata, con prudente apprezzamento della situazione patrimoniale ed economica del debitore e della sua solvibilità, sicché essi sono tenuti a formulare una prognosi ex ante circa il grado di probabilità del futuro adempimento, pieno e tempestivo, del debitore, di modo che il valore nominale dei crediti costituisce soltanto un parametro, da correggere prudenzialmente tenendo conto di tutti i suoi caratteri a latere debitoris, senza che assuma rilievo quanto attiene alla sfera giuridica del creditore. 10. Società e impresa familiare. Ha affermato la Cassazione (Sez. 1, n. 24560/2015, Lamorgese, in corso di massimazione) che il modello societario è incompatibile con l'impresa familiare di cui all'art. 230-bis in quanto quest'ultima appartiene solo al suo titolare, e ciò anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari; essa pertanto implica l'inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire, che invece sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell'azienda o all'acquisto di beni. 453 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' 11. Violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto. Secondo la Suprema Corte (Sez. 1, n. 20560/2015, Valitutti, in corso di massimazione) il soggetto che abbia superato il trenta per cento delle azioni di una società quotata su di un mercato regolamentato che violi l'obbligo di offerta pubblica di acquisto delle totalità delle azioni di tale società, così come invece previsto dall'art. 106 del d.lgs. n. 58 del 1998, è tenuto a risarcire il danno patrimoniale subito dagli altri azionisti che riescano a dimostrare di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata presentazione di tale offerta. 12. Revoca di amministratore di nomina pubblica di società partecipata. Hanno affermato le Sezioni Unite (Sez. U, n. 01237/2015, Di Palma, Rv. 633757) che nelle s.p.a. partecipate da un ente locale la revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ai sensi dell'art. 2449 c.c., può essere da lui impugnata davanti al giudice ordinario e non davanti al giudice amministrativo, trattandosi di atto uti socius, non iure imperii, compiuto dall'ente pubblico "a valle" della scelta di fondo per l'impiego del modello societario, ogni dubbio essendo risolto a favore della giurisdizione ordinaria dalla clausola ermeneutica generale in senso privatistico di cui all'art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 135. L'amministratore revocato dall'ente pubblico, come quello revocato dall'assemblea dei soci, può chiedere al giudice ordinario solo la tutela risarcitoria per difetto di giusta causa a norma dell'art. 2383 c.c., non anche la tutela "reale" per reintegrazione nella carica, in quanto l'art. 2449 c.c. assicura parità di status tra amministratori di nomina assembleare e amministratori di nomina pubblica. 13. Le società cooperative. Ritiene Sez. 1, n. 10641/2015, Nappi, Rv. 635518, che i cosiddetti ristorni – da tenere distinti dagli utili in senso proprio, che in quanto remunerazione del capitale sono distribuiti in proporzione ai conferimenti effettuati da ciascun socio – costituiscono uno degli strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa o maggiore retribuzione) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa, traducendosi in un rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o servizi acquistati dalla cooperativa (nel caso delle cooperative di consumo), ovvero in integrazione della retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (nelle cooperative di produzione e lavoro). 454 CAP. XX - IL DIRITTO DELLE SOCIETA' Pertanto, se nel regolamento di una cooperativa di produttori di porfido viene previsto che il prezzo di acquisto del materiale possa essere integrato a fine esercizio secondo un'addizionale determinata ex post in ragione dei risultati della gestione, il rischio d'impresa incide unicamente sull'an e sul quantum dell'obbligazione di corresponsione del ristorno, eventuale e non predefinita, non anche sull'obbligazione relativa al prezzo della compravendita intercorrente tra la cooperativa e i soci produttori venditori, certa e predeterminata. Secondo la Cassazione in tale tipologia societaria la comunicazione della deliberazione di esclusione del socio prevista dall'art. 2527 c.c. ai fini del decorso del termine di trenta giorni per proporre opposizione, non richiede l'adozione di specifiche formalità o di particolari mezzi di trasmissione, né la rigorosa enunciazione degli addebiti, dovendosi considerare sufficiente qualsiasi fatto o atto idoneo a rendere edotto il socio delle ragioni e del contenuto del provvedimento per porlo, conseguendosi in tal modo le finalità previste dalla legge, nelle condizioni di articolare le proprie difese. Tale principio è valido anche per la comunicazione relativa alla preventiva contestazione dei fatti legittimanti l'esclusione nel caso in cui lo statuto di una società cooperativa esiga tale comunicazione (Sez. 1, n. 23628/2015, Didone, in corso di massimazione). Deve infine evidenziarsi che la Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite una questione di massima ritenuta di particolare importanza concernente il termine di decadenza di trenta giorni per l'impugnazione della delibera di esclusione del socio previsto dall'art. 2527, comma 3, c.c., nella sua formulazione antecedente alla modifica introdotta dall'art. 8 del d.lgs. n. 6 del 2003. La prima sezione della Corte si è chiesta se tale termine debba ritenersi in ogni caso applicabile, e quindi se la relativa norma debba considerarsi avente natura imperativa, oppure se possa essere derogata mediante la previsione di una clausola compromissoria contenuta nello statuto della società cooperativa (Sez. 1, n. 20105/2015, Campanile, in corso di massimazione). 455 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI CAPITOLO XXI IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI (di Aldo Ceniccola) SOMMARIO: 1. I contratti bancari. – 2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. 1. I contratti bancari. Con riferimento alle operazioni regolate in conto corrente e riguardo agli oneri probatori a carico delle parti in ipotesi di contitolarità, Sez. L, n. 18777/2015, Berrino, Rv. 637049, ha precisato che la cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, ex art. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell'onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa (nella specie, è stata confermata la decisione di merito che aveva desunto la prova dell'esclusiva provenienza del denaro dall'attività professionale di uno dei coniugi, dalla circostanza che l'altro coniuge, legalmente separato, fosse titolare di un conto corrente personale utilizzato per l'accredito dello stipendio ed il pagamento delle utenze). Sempre in tema di conto corrente bancario e con particolare riguardo alla convenzione relativa agli interessi, Sez. 1, n. 22179/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha ribadito che la pattuizione deve contenere la puntuale indicazione del tasso praticato e, ove esso sia convenuto come variabile, ai fini della sua precisa indicazione concreta, nel corso della vita del rapporto contrattuale, è necessario il riferimento a parametri che consentano la sua precisa determinazione, non essendo sufficienti generici riferimenti (come ad esempio ai cd. usi di piazza), dai quali non emerga con chiarezza quale previsione le parti abbiano inteso richiamare con la loro pattuizione. Gli effetti del recesso della banca dal contratto di conto corrente e le conseguenze che in tal caso lo scioglimento del rapporto produce nei riguardi del fideiussore sono questioni esaminate da Sez. 1, n. 12263/2015, Nazzicone, Rv. 635647, secondo cui in tal caso il fideiussore resta tenuto al soddisfacimento 456 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI del debito quale esistente alla data dello scioglimento del rapporto e in tale misura cristallizzato, dovendo ad esso essere raffrontato il limite di massimale della garanzia; viceversa gli interessi moratori maturati dopo quel momento a causa del mancato tempestivo adempimento imputabile (anche) allo stesso fideiussore restano a suo carico oltre il limite del massimale della fideiussione, in applicazione della regola generale della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. per i fatti a lui riferibili, nonché dei principi di divieto dell'abuso del diritto e della correttezza nei rapporti interprivati. La natura giuridica dell'esecuzione del bonifico da parte della banca su ordine del correntista è il tema affrontato da Sez. 3, n. 10545/2015, Stalla, Rv. 635520, con la precisazione che in tal caso si configura un negozio giuridico unilaterale con efficacia vincolante ai sensi dell'art. 1856 c.c. e, dunque, una specificazione del mandato generale da lui conferito all'ente creditizio, cui è estraneo il beneficiario (terzo rispetto all'ordine). Nei confronti di quest'ultimo l'incarico di effettuare il pagamento ha natura di delegatio solvendi, senza che, pur in assenza di un espresso divieto del delegante, la banca delegata possa assumere un'autonoma obbligazione, ai sensi dell'art. 1269, comma 1, c.c., verso il creditore delegatario al fine di compensare i crediti dalla stessa vantati, ove l'assunzione di tale obbligo si ponga in contrasto con il rapporto di mandato ex art. 1856 c.c. In tema di clausole vessatorie contenute nei contratti bancari, Sez. 6-1, n. 15278/2015, Ragonesi, Rv. 636044, ha evidenziato che l'espressa designazione convenzionale di un foro territoriale esclusivo, contenuta in un contratto bancario per adesione, presuppone una inequivoca e concorde volontà delle parti volta ad escludere la competenza degli altri fori previsti dalla legge ed ha natura di clausola vessatoria, sicché va specificamente approvata per iscritto, dovendosi, a tal fine, ritenere sufficiente, quale indicazione specifica e idonea a suscitare l'attenzione del sottoscrittore, il richiamo al numero ovvero alla lettera che contraddistingue la clausola, senza necessità dell'integrale trascrizione della previsione contrattuale. Le controversie nascenti da un contratto di conto corrente stipulato con una filiale estera di una banca italiana appartengono alla giurisdizione italiana. È quanto statuito da Sez. U, n. 10088/2015, Bernabai, Rv. 635276, secondo cui l'attività delle filiali o succursali di una banca, in quanto prive di personalità giuridica, deve essere imputata all'istituto di credito, di cui costituiscono 457 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI emanazione periferica, sicché, qualora il consumatore abbia instaurato un rapporto di conto corrente con la succursale lussemburghese di una banca italiana, la controversia relativa all'investimento della provvista non appartiene alla giurisdizione lussemburghese, ma alla giurisdizione italiana. Sul tema più generale della vigilanza sull'attività svolta dagli istituti di credito e con specifico riferimento alle sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia ad amministratori non esecutivi degli istituti di credito, Sez. 1, n. 22848/2015, Nazzicone, in corso di massimazione, ha precisato che l'ordinamento ripone un particolare affidamento sulla specifica competenza degli amministratori, sia pure non esecutivi, in ragione dei loro requisiti di professionalità e, perciò, di una dovuta sensibilità percettiva, nonché nella connessa reazione che concreta il dovere di ostacolare l'accadimento dannoso: in presenza di segnali di allarme percepibili da un amministratore diligente secondo la specifica competenza, egli risponde del mancato utile attivarsi, salva la prova da parte di quest'ultimo di aver tenuto la condotta attiva dovuta o della sussistenza di una causa esterna che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno. 2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. La necessità di un'attenta verifica dei requisiti soggettivi che l'intermediario finanziario deve possedere per poter legittimamente svolgere la propria attività anche in ambito comunitario è il principio rimarcato da Sez. 1, n. 03458/2015, Di Amato, Rv. 634454, secondo cui nel quadro dei principi di equivalenza causale e di causalità adeguata ex artt. 40 e 41 c.p., ben può il giudice di merito ritenere – con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato – che il danno sofferto dal creditore, per l'inadempimento della società straniera che ha garantito l'obbligazione del debitore, sia conseguenza dell'omesso controllo, da parte dell'amministrazione, dei requisiti per l'iscrizione del garante nell'elenco degli intermediari finanziari comunitari, qualora tale iscrizione abbia rappresentato il presupposto per l'abilitazione a concedere la garanzia, atteso che, in difetto di essa, il creditore sarebbe stato libero di concludere, o meno, il contratto con il debitore oppure di richiedere altre forme di garanzia, evitando di incorrere nell'incolpevole affidamento sulla garanzia offerta da un soggetto privo della patrimonializzazione minima e dei richiesti requisiti professionali. 458 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI Con riferimento ai rapporti tra gli intermediari autorizzati e quelle speciali categorie di investitori tra cui rientrano gli operatori qualificati, Sez. 1, n. 17333/2015, Acierno, Rv. 636539, ha precisato che la qualità di operatore qualificato ha un ben determinato contenuto tecnico giuridico, espressamente disciplinato dall'art. 31, comma 2, del regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522, e non integrato dal mero riferimento all'entità del patrimonio dell'investitore ed alle sue attitudini imprenditoriali. Sotto tale profilo e più nello specifico Sez. 1, n. 21887/2015, Nazzicone, Rv. 637336, ha affermato che l'art. 31 del regolamento Consob, il quale prevede che gli investitori persone fisiche rientrino nella categoria degli operatori qualificati ove documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti per gli esponenti aziendali delle società di intermediazione mobiliare, presuppone la volontà del cliente, manifestata in modo espresso o tacito, ad essere così considerato ed impone all'intermediario di accertare, al momento dell'instaurazione del rapporto, il pregresso svolgimento di quei ruoli e compiti da parte dell'investitore per il periodo minimo indicato, non obbligando peraltro l'intermediario a limitarsi, all'uopo, esclusivamente alla documentazione fornita dal cliente, ma ammettendo altri mezzi di conoscenza, forniti o no dal cliente stesso, idonei ad attestarne le peculiari qualità. Ha ribadito tale principio Sez. 1, n. 23805/2015, De Chiara, in corso di massimazione, ritenendo che affinché le persone fisiche siano considerate operatori qualificati, ai sensi dell'art. 31, comma 2, del regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522, occorre che le stesse abbiano manifestato all'intermediario la volontà di essere considerate tali e non è sufficiente che siano in possesso dei requisiti di professionalità stabiliti dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso società di intermediazione mobiliare. Si occupa, invece, delle conseguenze derivanti dalla violazione dei doveri informativi Sez. 1, n. 12262/2015, Nazzicone, Rv. 635617, precisando che la responsabilità dell'intermediario che ometta di informarsi sulla propensione al rischio del cliente o di rappresentare a quest'ultimo i rischi dell'investimento, ovvero che compia operazioni inadeguate quando dovrebbe astenersene, ha natura contrattuale, investendo il non corretto adempimento di obblighi legali facenti parte integrante del contratto-quadro intercorrente tra le parti, onde il danno invocato dal cliente medesimo non può essere limitato al mero interesse negativo da responsabilità precontrattuale. 459 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI Interessante è il percorso seguito da alcune pronunce particolarmente inclini a verificare l'incidenza eziologica della condotta dell'investitore. Così, ad esempio, Sez. 1, n. 17333/2015, Acierno, Rv. 636540, ha evidenziato che l'intermediario, che sia rimasto inadempiente agli specifichi obblighi informativi previsti dalla legge con riferimento alle operazioni inadeguate, non può invocare l'attenuazione della sua responsabilità, ex art. 1227 c.c., per non avere l'investitore condiviso i suggerimenti (nella specie, a diversificare gli investimenti o a disinvestire) da lui ricevuti dopo l'esecuzione dell'ordine di acquisto ed entro il termine di scadenza dell'investimento, atteso che una siffatta condotta non comporta un'esposizione volontaria ad un rischio, né viola una regola di comune prudenza. Considerando la vicenda da una diversa angolazione, secondo Sez. 3, n. 18613/2015, Rubino, Rv. 636983, la violazione da parte del promotore finanziario degli obblighi di comportamento che la legge pone a suo carico non esclude la configurabilità di un concorso di colpa dell'investitore, qualora questi tenga un contegno significativamente anomalo ovvero, sebbene a conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento, ometta di adottare comportamenti osservanti delle regole dell'ordinaria diligenza od avalli condotte del promotore devianti rispetto alle ordinarie regole del rapporto professionale con il cliente e alle modalità di affidamento dei capitali da investire, così concorrendo al verificarsi dell'evento dannoso per inosservanza dei più elementari canoni di prudenza ed oneri di cooperazione nel compimento dell'attività di investimento. La valutazione del grado di consapevolezza e della condotta concretamente tenuta dall'investitore risulta necessaria, per Sez. 1, n. 04620/2015, De Marzo, Rv. 634934, anche al fine di verificare l'assolvimento, da parte dell'intermediario, dei doveri informativi. In tal senso è stato statuito che la dichiarazione resa dal cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, in ordine alla propria consapevolezza circa le informazioni ricevute sulla rischiosità dell'investimento suggerito e sollecitato dalla banca e della inadeguatezza dello stesso rispetto al suo profilo d'investitore, pur non costituendo dichiarazione confessoria (in quanto rivolta alla formulazione di un giudizio e non all'affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo), può comprovare l'avvenuto assolvimento degli obblighi di informazione incombenti sull'intermediario. Nella specie, è stata ritenuta idonea a comprovare l'avvenuto assolvimento degli obblighi di informazione la 460 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI circostanza che il cliente, in occasione dell'acquisto di bond argentini, abbia fatto riferimento alle avvertenze ricevute circa l'inadeguatezza dell'ordine, sia per la mancata quotazione del titolo sia per la sua non rispondenza alla scelta prudenziale di investimenti operata fino ad allora, sottoscrivendo la seguente dichiarazione: «prendiamo atto delle indicazioni sotto riportate e tuttavia vi autorizziamo comunque ad eseguire l'operazione: titolo non quotato-operazione non allineata alla linea di investimento concordata» Peraltro, secondo Sez. 1, n. 07922/2015, Didone, Rv. 635022, è comunque configurabile la responsabilità dell'intermediario finanziario che abbia dato corso ad un ordine, ancorché vincolante, ricevuto da un cliente non professionale, concernente un investimento particolarmente rischioso (nella specie, l'impiego dell'intero ed ingente patrimonio dello stesso per l'acquisto di un unico titolo obbligazionario di una piccola società emittente, avente sede in Islanda, da tempo in conclamata crisi), atteso che la professionalità del primo, su cui il secondo abbia ragionevolmente fatto affidamento in considerazione dello speciale rapporto contrattuale tra essi intercorrente, gli impone comunque di valutare l'adeguatezza di quell'operazione rispetto ai parametri di gestione concordati, con facoltà, peraltro, di recedere dall'incarico, per giusta causa, qualora non ravvisi tale adeguatezza. L'incidenza della condotta del risparmiatore concretamente si manifesta anche allorché si tratti di verificare la responsabilità della banca per comportamento del preposto. Relativamente a tale aspetto Sez. 1, n. 22956/2015, Nazzicone, in corso di massimazione, ha ribadito il necessario riscontro di un nesso tra il fatto illecito del dipendente e l'esercizio delle mansioni a lui affidate, da inquadrarsi nell'ampio significato del rapporto di occasionalità necessaria, spettando al giudice di merito l'accertamento di eventuali circostanze idonee ad integrare la prova dell'assoluta estraneità della banca al fatto del promotore, tali da interrompere il nesso di causalità e mandare la banca indenne da responsabilità, come avviene, ad esempio, proprio quando la condotta del risparmiatore presenti connotati anomali di consapevole e fattiva acquiescenza alla violazione delle regole di condotta gravanti sul promotore. Si sofferma sui profili di aleatorietà del contratto e sulla verifica dell'effettiva meritevolezza degli interessi sottesi al programma negoziale Sez. 6-3, n. 19559/2015, De Stefano, Rv. 637208, che ha rimarcato l'immeritevolezza dell'interesse perseguito mediante un contratto atipico, fondato sullo sfruttamento delle preoccupazioni previdenziale dell'utenza da parte di operatori 461 CAP. XXI - IL DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI professionali ed avente ad oggetto il compimento di operazioni negoziali complesse relative alla gestione di fondi comuni che comprendano anche titoli di dubbia redditività, il cui rischio sia unilateralmente trasmesso sul cliente, al quale, invece, il prodotto venga presentato come rispondente alle esigenze di previdenza complementare, a basso rischio e con libera possibilità di disinvestimento senza oneri, ponendosi in tal caso il programma negoziale in conflitto con i principi desumibili dagli artt. 38 e 47 Cost. sulla tutela del risparmio e l'incentivo delle forme di previdenza, anche privata, sicché è inefficace ove si traduca nella concessione, all'investitore, di un mutuo, di durata ragguardevole, finalizzato all'acquisto di prodotti finanziari della finanziatrice, e nel contestuale mandato conferito a quest'ultima per l'acquisto dei prodotti anche in situazione di potenziale conflitto di interessi. Sullo stesso tema si sofferma Sez. 1, n. 22950/2015, Nazzicone, in corso di massimazione, con specifico riferimento al contratto My Way, il quale costituisce un contratto atipico unitario, attesa la stretta ed indissolubile connessione tra le varie operazioni nelle quali il programma negoziale fondamentalmente si scompone, onde unitaria ne è la causa, precisandosi che non viene in rilievo, quindi, un mero collegamento negoziale, perché le singole operazioni preordinate al raggiungimento dello scopo finale non hanno alcuna autonomia concettuale, giuridica o pratica, ciascuna di esse richiedendo, per mantenere la struttura e la funzione dell'insieme, la contestuale stipula delle altre. Siffatta struttura negoziale, peraltro, intercettando un'alea solo in capo al risparmiatore, in assenza di una ragionevole incertezza in ordine al vantaggio per la banca ed al pregiudizio del cliente, non supera positivamente il vaglio della meritevolezza dell'interesse. 462 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI CAPITOLO XXII LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI (di Giuseppe Fichera) SOMMARIO: 1. Il fallimento dell'imprenditore: rinvio. – 2. Gli organi della procedura: il – 3. Le revocatorie fallimentari: i presupposti. – 3.1. Gli atti a titolo gratuito e postfallimentari. – 3.2. Gli atti negoziali. – 3.3. I pagamenti. – 4. I rapporti pendenti. – 5. La formazione dello stato passivo. – 5.1. Le rivendiche. – 5.2 I privilegi. – 6. La liquidazione dell'attivo. – 7. Questioni sostanziali nel concordato preventivo. 1. Il fallimento dell'imprenditore: rinvio. Anche nel corso del 2015 la S.C. si è occupata dei presupposti, oggettivi e soggettivi, per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore. In proposito si rinvia al contributo che ha esaminato le problematiche di carattere processuale, nelle quali gli stessi sono compiutamente affrontati. 2. Gli organi della procedura: il curatore. Sul ruolo del curatore fallimentare, appare di sicuro interesse, Sez. 2, n. 17605/2015, Bursese, Rv. 636403, secondo cui la redazione dell'inventario, attraverso il quale vengono individuati, elencati, descritti e valutati i beni della massa, non comporta la materiale apprensione delle cose da parte del curatore, il quale ne diviene mero detentore, senza alcuna sottrazione ope legis delle stesse al fallito, non costituendo, pertanto, tale atto una causa interruttiva del possesso esercitato da quest'ultimo. Pronunciandosi, per la prima volta dopo la riforma introdotta dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, sull'impugnazione del provvedimento di revoca del curatore fallimentare, Sez 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634686, evidenzia, per quanto qui interessa, che nell'ipotesi di sostituzione del curatore fallimentare su richiesta avanzata dai creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi, ex art. 37-bis l.fall. (nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006), la volontà dei creditori non vincola il tribunale, il quale non è chiamato a verificare unicamente la legittimità formale della richiesta, ma deve anche valutare se risultino integrati quei giustificati motivi solo in presenza dei quali, ex art. 23 l.fall., può farsi luogo alla sostituzione del curatore. Sulla liquidazione dei compensi spettanti agli organi della procedura, Sez. 1, n. 07298/2015, Genovese, Rv. 635249, ribadisce come il decreto con il quale il tribunale fallimentare abbia concesso o rifiutato gli acconti sul compenso richiesti dal commissario 463 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI giudiziale della procedura di amministrazione controllata (disciplina, questa, peraltro ormai definitivamente abrogata a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006), è espressione di un potere discrezionale ed interviene in una fase anteriore alla presentazione ed approvazione del conto, non assumendo, pertanto, efficacia di cosa giudicata, né potendo pregiudicare, dopo la presentazione del rendiconto, la futura e definitiva decisione sul compenso. La predetta sentenza (Rv. 635248) evidenzia, poi, come nella liquidazione del compenso spettante al commissario in sede di amministrazione controllata, il tribunale non può che riferirsi ai dati emergenti dall'inventario, dovendo le consistenze allegate dalla parte istante essere riscontrate dagli accertamenti compiuti e dai documenti ufficiali consegnati alla procedura. Del resto, l'inventario redatto dal commissario giudiziale costituisce uno strumento indispensabile dell'amministrazione controllata e, perciò, un autonomo e specifico compito di tale organo, che non può ritenersi adempiuto per relationem all'inventario allegato dall'imprenditore alla domanda di ammissione, né surrogato dalla relazione per l'adunanza dei creditori, la quale, quand'anche faccia riferimento ad attività e passività, è prevista per differenti finalità. Assai interessante, appare Sez. 1, n. 20111/2015, Didone, in corso di massimazione, sul compenso minimo da liquidare ai curatori fallimentari, in caso di attivo incapiente. E invero, secondo la cennata decisione, in base ai criteri dettati dall'art. 1 del d.m. 28 luglio 1992, n. 570 (oggi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2012, n. 30), il compenso del curatore fallimentare va in ogni caso determinato applicando le percentuali sull'attivo (se esistente) e quelle sul passivo, mentre la somma minima liquidabile ex art. 4 del citato decreto ministeriale (€ 516,46, oggi € 811,35), è determinata a garanzia dell'organo del fallimento solo nell'ipotesi in cui i menzionati criteri conducano alla liquidazione di un compenso inferiore a quello minimo. In tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui al d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (e con riguardo al periodo anteriore all'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 47 del detto d.lgs. ad opera dell'art. 50, comma 1, lett. d), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modif. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), Sez. 1, n. 09407/2015, Genovese, Rv. 635342, ha stabilito che il compenso spettante ai commissari giudiziali per l'attività svolta nella cd. fase di osservazione propria della procedura, deve essere corrisposto 464 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI facendo ricorso analogico a quanto stabilito in materia di fallimento, soltanto con riferimento al parametro del valore dell'attivo della procedura, opportunamente modulandolo tra i valori minimi e massimi. Invero, la figura del commissario giudiziale nell'ambito dell'amministrazione straordinaria, oltre ad eventuali (anche se probabili) attività liquidatorie, svolge principalmente quella relativa alla fase di osservazione della procedura, che, altrimenti, rimarrebbe del tutto priva di remunerazione. 2.1. Il giudice delegato e il tribunale fallimentare. Quanto alle sentenze che si sono occupate nel corso dell'annata del ruolo del giudice delegato e del tribunale fallimentare, sembra anzitutto interessante segnalare una decisione in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato nei giudizi in cui è parte un fallimento. Secondo Sez. T, n. 07842/2015, Vella, Rv. 635174, anche nel caso di procedura fallimentare che non disponga di fondi sufficienti per affrontare le spese di un giudizio innanzi alle commissioni tributarie, l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve seguire la procedura di cui all'art. 144 del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 (che prevede l'adozione di un decreto del giudice delegato), e non quella di cui agli artt. 138 e 139 del medesimo decreto (laddove è previsto l'intervento delle commissioni del patrocinio a spese dello Stato, istituti innanzi ad ogni commissione tributaria), prevalendo le funzioni di vigilanza del giudice delegato rispetto all'operato del curatore. Dando continuità ad un risalente orientamento della S.C., Sez. T, n. 13242/2015, Greco, Rv. 635873, ha ribadito che la mancanza di autorizzazione del giudice delegato o del tribunale, prevista dall'art. 35 l.fall. (nella formulazione vigente prima della riforma introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006), ad integrazione dei poteri spettanti al curatore nello svolgimento di attività negoziale, comporta non già la nullità dei negozi posti in essere, ma la loro annullabilità, che può essere fatta valere solo dalla curatela fallimentare, ai sensi dell'art. 1441 c.c. Nella vicenda all'esame della S.C., si è ritenuto che la presentazione dell'istanza di accertamento con adesione da parte del curatore, in assenza della necessaria autorizzazione del giudice delegato, non determinando la nullità del relativo procedimento, comporta comunque – per il prescritto periodo di novanta giorni dalla data di presentazione – la sospensione del termine per 465 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI l'impugnazione dell'avviso, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218. Spetta poi al giudice delegato, secondo Sez. 1, n. 23626/2015, Didone, in corso di massimazione, anche nell'ambito del concordato preventivo, la liquidazione del compenso al difensore, ex art. 25, comma 7, l.fall., a condizione però che il mandato professionale sia stato conferito all'avvocato dal liquidatore giudiziale e non, come nella vicenda sottoposta all'esame della S.C., dal liquidatore volontario della società. Riafferma, poi, Sez. 1, n. 13881/2015, Rv. 635828, che l'autorizzazione ad agire in giudizio rilasciata al curatore dal giudice delegato, ai sensi dell'art. 25 l.fall., non ha portata decisoria, non spiegando effetti sostanziali in materia di diritti soggettivi, ma costituisce espressione dei poteri ordinatori ed amministrativi spettanti agli organi fallimentari, il cui esercizio, ancorché comporti la manifestazione di un'opinione in ordine alla fondatezza dell'azione, non rappresenta un condizionamento tale da imporre al medesimo giudice delegato di astenersi dalla cognizione della domanda oggetto di autorizzazione, ex art. art. 51, comma 1, n. 4), c.p.c. L'intervento autorizzatorio del giudice delegato, semmai, rende applicabile il comma 2 dell'art. 51 c.p.c., involgendo la valutazione discrezionale riservata al capo dell'ufficio in ordine alla sussistenza di gravi ragioni di convenienza, la cui sopravvenienza, comunque, non si riflette sulla validità degli atti già compiuti dal magistrato autorizzato ad astenersi. Infine sulla competenza del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 l.fall., Sez. 6-1, n. 14844/2015, De Chiara, Rv. 635941, afferma che, in deroga alla previsione di cui agli artt. 21 e 447-bis c.p.c., restano devolute al tribunale fallimentare – in quanto controversie che traggono origine o fondamento nel fallimento – anche le azioni del curatore volte a far dichiarare l'inopponibilità alla massa del contratto di locazione immobiliare stipulato dal fallito a norma dell'art. 2923 c.c., ovvero la risoluzione del medesimo contratto ai sensi dell'art. 80 l.fall. 3. Le revocatorie fallimentari: i presupposti. Tradizionalmente sono ancora assai numerose le pronunce della S.C. in tema di atti pregiudizievoli per la massa dei creditori. Sulla conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634414, riafferma il consolidato orientamento, a tenore del quale la scientia decoctionis del contraente 466 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI deve essere effettiva, ma può essere provata anche con indizi e fondata su elementi di fatto, purché idonei a fornire la prova per presunzioni di tale effettività. La scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l'esistenza del fatto ignoto, poi, costituiscono un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità. Sempre sotto il profilo soggettivo, Sez. 1, n. 06998/2015, Nazzicone, Rv. 634752, chiarisce come, anche in presenza di una società di fatto o irregolare, l'acquirente convenuto in revocatoria fallimentare, ai sensi del comma 1 dell'art. 67 l.fall., ha l'onere di provare la sua ignoranza, sia in ordine alla qualità di socio del disponente e sia sull'insolvenza della società partecipata, il cui fallimento sia stato esteso al socio illimitatamente responsabile, senza che possa giovarsi, in contrario, dell'omessa iscrizione della società nel registro delle imprese. Sez. 1, n. 16158/2015, Ferro, Rv. 636492, nel ricordare che le azioni esecutive individuali pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, in conseguenza della sentenza, sono assorbite dalla procedura concorsuale, che si sostituisce ad esse, precisa che gli effetti anche sostanziali degli atti già compiuti, che non siano incompatibili con il sistema dell'esecuzione fallimentare – tra i quali anche il vincolo d'indisponibilità dei beni derivante dal pignoramento –, restano salvi in favore della massa dei creditori, nei cui confronti, quindi, la cessione verso terzi di crediti, che risultino in precedenza già pignorati, è priva di effetti. Di sicuro rilievo pratico, Sez. 1, n. 21273/2015, Didone, in corso di massimazione, secondo cui, ai fini del computo a ritroso del termine di proponibilità dell'azione revocatoria fallimentare, che si calcola ad anno completo e non a giorni, il dies a quo coincide non già con la data della deliberazione della decisione, ma con quella del deposito in cancelleria (pubblicazione) della sentenza dichiarativa di fallimento, dovendosi escludere tale giorno, ai sensi dell'art. 155, comma 1, c.p.c., mentre deve essere conteggiato, quale dies ad quem, il giorno terminale del computo all'indietro. Sulla legittimazione a promuovere l'azione revocatoria fallimentare, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634412, chiarisce che il commissario straordinario designato ai sensi dell'art. 1 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, conv. con modif. dalla l. 3 aprile 1979, n. 95, una volta insediato di fatto nella carica, assume il potere rappresentativo della società in amministrazione straordinaria e, 467 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI pertanto, può esercitare i poteri ad essa correlati in nome e per conto della società, ivi compreso l'esercizio delle eventuali azioni revocatorie, anche allorquando il decreto con cui è stata disposta la procedura concorsuale venga ritenuto illegittimo per incompatibilità con l'art. 87 del Trattato CE (oggi art. 107 TFUE), che sancisce il divieto degli aiuti degli Stati membri alle imprese. Quanto agli oneri probatori gravanti sugli organi della procedura, la cennata sentenza (Rv. 634413), precisa che i limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 c.c. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico, influente sulla decisione del processo, ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo, qual è il curatore che agisce in revocatoria fallimentare. Nella fattispecie portata all'esame della S.C., quindi, si è ritenuta ammissibile la prova per presunzioni dell'accordo, che sarebbe intervenuto tra il fallito ed il convenuto nel giudizio di revocatoria, diretto a porre in essere una situazione di coesistenza di reciproci debiti, allo scopo di ottenerne l'estinzione per compensazione in danno degli altri creditori. Sulla prescrizione dell'azione revocatoria, va segnalata Sez. 3, n. 05586/2015, Travaglino, Rv. 634903, a tenore della quale nel caso in cui sia stato intrapreso un giudizio di revocazione ordinaria di un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore, qualora sopravvenga il fallimento di questi, il curatore può subentrare nell'azione in forza della legittimazione accordatagli dall'art. 66 l.fall., accettando la causa nello stato in cui si trova. Con il corollario che, trattandosi di azione che il curatore trova nella massa fallimentare e si identifica con quella che i creditori avrebbero potuto esperire prima del fallimento, la prescrizione decorre anche nei confronti della curatela, ai sensi dell'art. 2903 c.c., dalla data dell'atto impugnato; tuttavia, il compimento di un atto interruttivo della prescrizione da parte di uno dei creditori, cui il curatore sia subentrato ex art. 66 l.fall., giova alla massa fallimentare e quindi può essere invocato dal medesimo curatore nel giudizio in cui è subentrato. Sulla nota problematica della decorrenza del cd. periodo sospetto in caso di consecuzione delle procedure concorsuali, delle quali la prima sia un'amministrazione controllata e l'ultima della 468 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI serie una procedura, il cui presupposto oggettivo sia costituito dallo stato d'insolvenza, Sez. 1, n. 24861/2015, Didone, in corso di massimazione, ribadisce il consolidato orientamento della S.C., a tenore del quale il computo a ritroso del periodo sospetto di cui all'art. 67, comma 1, l.fall., ha inizio dalla data del decreto di ammissione all'amministrazione controllata. In termini più generali, occupandosi di profili processuali, Sez. 1, n. 13767/2015, Di Virgilio, Rv. 635852, evidenzia come l'azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto un pagamento, ai sensi dell'art. 67 l.fall., mira ad ottenere la reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore fallito, che si realizza qualora il corrispondente importo sia recuperato attraverso la sua restituzione; ne consegue che, per la produzione di tale effetto, non è necessaria un'esplicita domanda, perché il suo perseguimento è compreso necessariamente nel petitum originario, sorgendo, infatti, il debito di restituzione con la sentenza costitutiva che, pronunciando la revoca, attualizza, al momento del suo passaggio in giudicato, il diritto potestativo esercitato dalla massa con l'azione del curatore e volto proprio ad ottenere il recupero delle somme versate dal debitore in violazione della par condicio. Infine, Sez. 1, n. 17338/2015, Didone, Rv. 636525, ricorda che il debito del soggetto che, a seguito di revocatoria fallimentare, sia tenuto alla restituzione di una somma ricevuta in pagamento dal fallito sorge con la sentenza di accoglimento della domanda di revoca e nei confronti della massa dei creditori, sicché non può essere compensato con crediti vantati verso il fallito, ancorché ammessi al passivo, mancando il requisito della reciprocità delle obbligazioni. 3.1. Gli atti a titolo gratuito e postfallimentari. Con riguardo agli atti a titolo gratuito posti in essere dal fallito, va segnalato il recentissimo intervento del legislatore urgente che attraverso il d.l. 27 giugno 2015, conv. con modif. dalla l. 6 agosto 2015 n. 132, ha introdotto, attraverso il nuovo comma 2 dell'art. 64 l.fall., una cd."revocatoria semplificata" a favore della massa dei creditori, stabilendo che senza necessità di promuovere alcun giudizio, «I beni oggetto degli atti di cui al comma 1 sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento. Nel caso di cui al presente articolo ogni interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell'articolo 36». Sul tema occorre segnalare Sez. 1, n. 13087/2015, Nappi, Rv. 635732, la quale precisa che ai fini dell'azione di inefficacia di cui 469 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI all'art. 64 l.fall., si considerano tali non solo gli atti posti in essere per spirito di liberalità – che è requisito necessario della donazione – ma anche quelli caratterizzati semplicemente da una prestazione in assenza di corrispettivo. Ne consegue che l'attribuzione patrimoniale effettuata da un coniuge, poi fallito, a favore dell'altro coniuge in vista della loro separazione, va qualificata come atto a titolo gratuito ove non abbia la funzione di integrare o sostituire quanto dovuto per il mantenimento suo o dei figli, restando assoggetta al regime di cui al ridetto art. 64 l.fall. In tema di atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, invece, Sez. 1, n. 20742/2015, Nappi, in corso di massimazione, evidenzia che l'azione promossa dal curatore, ai sensi dell'art. 44, comma 2, l.fall., volta ad ottenere la dichiarazione d'inefficacia di un pagamento successivo al fallimento, ha natura del tutto autonoma rispetto al rapporto causale che ha determinato il predetto pagamento. Ne consegue che la prescrizione dei diritti relativi a tale rapporto non si applica all'azione di inefficacia, la quale, peraltro, trovando la sua ratio nella perdita, coeva al fallimento, del diritto di disporre da parte del debitore, non è soggetta a prescrizione, essendo diretta a far dichiarare una nullità che si verifica di pieno diritto nei confronti del fallimento e dei creditori. Sempre con riguardo agli atti posti in essere successivamente alla dichiarazione di fallimento, Sez. 1, n. 19716/2015, Mercolino, in corso di massimazione, chiarisce che nel contratto di factoring, caratterizzato dalla cessione dei crediti a titolo oneroso in favore del factor, quest'ultimo è titolare dei crediti medesimi e, quindi, legittimato alla loro riscossione in nome e per conto proprio, e non in qualità di semplice mandatario del cedente. Il pagamento eseguito dal debitore ceduto si configura, pertanto, come l'adempimento non di un debito del cedente verso il factor ma di un debito proprio del debitore ceduto verso quest'ultimo, per cui, seppur eseguito dopo il fallimento del cedente, non comportando alcuna sottrazione di risorse alla massa, non è sanzionato con l'inefficacia ai sensi dell'art. 44 l.fall. Sez. 1, n. 06999/2015, Nazzicone, Rv. 634793, riafferma un orientamento della S.C., formatosi a partire dal 2012, in tema di emolumenti necessari al mantenimento del fallito e della sua famiglia. Partendo dalla considerazione che il diritto a trattenere tali emolumenti sussiste prima ed indipendentemente dal decreto del 470 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI giudice delegato che, ai sensi dell'art. 46 l.fall., ne abbia fissato la misura, la cennata pronuncia afferma l'inefficacia, nei confronti del fallimento, del pagamento eseguito a mani del fallito da colui che quegli emolumenti è tenuto a corrispondere, soltanto se, e nella parte in cui, detto pagamento risulti eccedente rispetto al limite fissato dal decreto del giudice delegato, avente natura dichiarativa ed efficacia retroattiva; il curatore, poi, ha l'onere di richiedere al giudice la preventiva emissione del decreto ex art. 46 l.fall., al fine di documentare in causa l'eventuale eccedenza di quanto pagato direttamente al fallito rispetto ai limiti fissati in tale decreto. Sempre in tema di somme incassate dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, in presenza di importi dovuti a titolo di riscatto, in relazione al contratto di assicurazione sulla vita stipulato dal medesimo quando era ancora in bonis, secondo Sez. 1, n. 02256/2015, Di Virgilio, Rv. 634249, il pagamento così effettuato soggiace alla sanzione di inefficacia di cui all'art. 44, comma 2, l.fall., non assumendo funzione previdenziale e non rientrando, pertanto, tra i crediti impignorabili ex art. 1923, comma 1, c.c., che restano non compresi nel fallimento ai sensi dell'art. 46, comma 1, n. 5), l.fall. Da segnalare, infine, Sez. VI-1, n. 25421/2015, Genovese, in corso di massimazione, che in consapevole contrasto con un diverso orientamento della S.C., afferma che in tema di pagamenti coattivi di debiti del fallito, nell'ambito di procedure di espropriazione presso terzi, verificandosi una scissione tra il momento depauperativo e quello satisfattivo – il primo realizzandosi con l'assegnazione coattiva del credito ed il secondo con il successivo adempimento del terzo –, è al provvedimento giudiziale di assegnazione che bisogna fare riferimento. Ne discende che all'inefficacia, ai sensi dell'art. 44 l.fall., del pagamento del debito del fallito (relativo, cioè, al rapporto obbligatorio tra questi e il creditore procedente), non si accompagna anche l'inefficacia del pagamento del debito corrispondente al credito assegnato (nel rapporto fra creditore procedente e terzo), perché il pagamento di quest'ultimo debito è correttamente fatto all'unico soggetto legittimato, essendo stato il relativo credito trasferito al creditore procedente con il provvedimento di assegnazione, con effetti analoghi a quelli della cessione di credito in luogo dell'adempimento; pertanto, il curatore del fallimento non può esigere dal terzo il pagamento del suo debito, cui più non corrisponde un credito del fallito. 471 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 3.2. Gli atti negoziali. Passando ad esaminare talune fattispecie in materia negoziale, vanno segnalate Sez. 1, n. 12994/2015, Di Virgilio, Rv. 635763, unitamente a Sez. 1, n. 14260/2015, Mercolino, Rv. 635764, secondo cui la cessione dei crediti d'impresa, a norma degli artt. 5 e 7 della l. 21 febbraio 1991, n. 52, è opponibile al fallimento del cedente non già dal momento del perfezionamento dell'atto contrattuale, ma dalla data del pagamento del corrispettivo della cessione da parte del cessionario, sempre che il pagamento abbia data certa, sia stato eseguito nell'anno anteriore al fallimento e prima della scadenza del credito ceduto e che il curatore dimostri la conoscenza da parte del cessionario dello stato di insolvenza del cedente a quella data. Ne consegue che in presenza di un contratto di factoring, per un verso, l'azione revocatoria fallimentare ha per oggetto non già il singolo pagamento, ma l'intero accordo in base al quale i crediti vengono ceduti, divenendo prive di effetto le cessioni di credito che ne sono state o ne potranno essere esecuzione e, per altro verso, che la disciplina applicabile va rinvenuta nell'art. 67, comma 2, l.fall. e non dell'art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., restando inefficaci le disposizioni patrimoniali a titolo oneroso compiute dall'imprenditore dichiarato fallito, le quali, sebbene non inique o squilibrate, vanno comunque a turbare la consistenza della massa attiva, destinata, in sede concorsuale, a soddisfare le ragioni dei creditori. Con riguardo alla revocatoria degli atti costitutivi di garanzie reali, Sez. 1, n. 13508/2015, Di Virgilio, Rv. 635688, precisa che il patto di rotatività del pegno costituisce fattispecie a formazione progressiva, che trae origine dall'accordo scritto e di data certa delle parti, cui segue la sostituzione dell'oggetto del pegno, senza necessità di ulteriori stipulazioni e con effetti ancora risalenti alla consegna dei beni originariamente dati in pegno, a condizione che nella convenzione costitutiva tale possibilità di sostituzione sia prevista espressamente, e purché il bene offerto in sostituzione non abbia un valore superiore a quello sostituito. Con il risultato che, ai fini dell'esperibilità dell'azione revocatoria fallimentare, occorre fare riferimento al momento della stipulazione originaria, che fissa la genesi del diritto reale di garanzia, e non a quello successivo della sostituzione dei beni concessi in pegno. Su altro tema, ricorrente in materia di revocatorie fallimentari di atti negoziali a titolo oneroso, quello della "notevole sproporzione" ai sensi dell'art. 67, comma 1, n. 1), l.fall. (nella versione anteriore alla modifica di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, 472 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI conv. con modif. dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, che com'è noto ha introdotto il parametro del venticinque per cento nella valutazione della sproporzione), Sez. 1, n. 13881/2015, Mercolino, Rv. 635829, ribadisce che la valutazione tra le prestazioni eseguite e le obbligazioni assunte dal fallito e ciò che a lui è stato dato o promesso, deve essere effettuata ex ante, ossia al momento della conclusione del contratto, dovendosi prescindere da una misura fissa o da un parametro da cui desumere il depauperamento patrimoniale del debitore, poiché è sufficiente, per la sua configurabilità, che tale depauperamento sia consistente. Nella vicenda all'esame della S.C. è stata quindi confermata la sentenza di merito, che aveva ritenuto non rientrante nella normale alea dei contratti commutativi l'acquisto, da parte del fallito, di un appartamento per un prezzo superiore di oltre il trentadue per cento rispetto al suo valore di mercato. 3.3. I pagamenti. Sulla notissima questione della revocatoria delle rimesse bancarie, Sez. 1, n. 13767/2015, Di Virgilio, Rv. 635851, afferma che, poiché nel caso di giudizio teso alla dichiarazione di inefficacia di più rimesse bancarie solutorie non viene proposta una sola domanda, ma tante domande quante sono le rimesse ritenute revocabili, trattandosi di domande fondate su fatti costitutivi diversi, ove in sede di precisazione delle conclusioni sia richiesta la revoca di un maggior numero di rimesse rispetto a quelle indicate nell'atto di citazione, deve ritenersi che sia stata proposta una inammissibile domanda nuova, poiché l'estensione della revoca comporta il riferimento a fatti costitutivi nuovi e non allegati con l'originario atto di citazione. Quanto ai criteri per l'individuazione delle rimesse bancarie aventi natura solutoria e, quindi, effettivamente revocabili, Sez. 1, n. 13510/2015, Di Palma, Rv. 635689, ribadisce il consolidato orientamento a tenore del quale, in caso di "castelletto di sconto" o "fido per smobilizzo crediti" non sussiste la cd. copertura di un conto corrente bancario, in quanto detti accordi negoziali tra banca e correntista, a differenza del contratto di apertura di credito, non attribuiscono al cliente della banca la facoltà di disporre con immediatezza di una determinata somma di danaro, ma sono solo fonte, per l'istituto di credito, dell'obbligo di accettazione per lo sconto, entro un predeterminato ammontare, dei titoli che l'affidato presenterà. Ai fini, dunque, dell'esercizio dell'azione revocatoria, le rimesse effettuate sul conto dal cliente poi fallito, hanno carattere 473 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI solutorio soltanto quando, nel corso del rapporto, il correntista abbia sconfinato dal limite di affidamento concessogli con il diverso contratto di apertura di credito. Né tale distinzione viene meno se tra le due linee di credito sia stabilito un collegamento di fatto, nel senso che i ricavi conseguiti attraverso sconti e anticipazioni siano destinati a confluire nel conto corrente di corrispondenza, trattandosi di meccanismo interno di alimentazione del conto attraverso le rimesse provenienti dalle singole operazioni di smobilizzo crediti, alla stregua di qualunque altra rimessa di diversa provenienza. Da segnalare, poi, Sez. 6-1, n. 23101/2015, Genovese, in corso di massimazione, che, in tema di revocatoria ordinaria di rimesse bancarie, afferma che il concetto di pagamento non muta di significato in rapporto alle qualificazioni giuridiche impresse dai due diversi sistemi di revocatoria (quello pauliano e quello fallimentare), evidenziando tuttavia come le conseguenze non sono identiche nell'ambito dei due sistemi revocatori azionati, atteso che in quello pauliano l'esenzione dalla revocatoria, di cui all'art. 2901, comma 3, c.c., opera proprio con riferimento ai pagamenti (il conto chiuso, il conto passivo o il conto con passivo eccedente l'accreditamento) e non certo con riguardo alle rimesse cd. ripristinatorie della valuta disponibile da parte del correntista nell'ambito del conto affidato, fattispecie in cui non è possibile ipotizzare che in sede di revocatoria ordinaria il curatore possa conseguire quello che non è conseguibile attraverso il diverso sistema della revocatoria fallimentare. Sez. 1, n. 24868/2015, Di Virgilio, in corso di massimazione, ribadisce che le modifiche apportate all'istituto della revocatoria fallimentare a seguito dell'art. 2, comma 2, del d.l. n. 35 del 2005 (conv. con mod. dalla l. n. 80 del 2005) si applicano soltanto alle azioni proposte nell'ambito di procedure concorsuali iniziate dopo l'entrata in vigore del decreto stesso, trattandosi di norme innovative che introducono una disciplina diversa per situazioni identiche; ne consegue che anche la disposizione dell'art. 70 l.fall. ha natura innovativa e non d'interpretazione autentica, ove introduce, per l'ipotesi di fondatezza dell'azione – allorché la banca non ha provato che le rimesse non avevano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito ovvero tale riduzione risulti comunque provata – un limite oggettivo al predetto obbligo di restituzione, secondo il criterio del massimo scoperto, cioè del differenziale tra l'ammontare raggiunto dalle pretese, nel periodo 474 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza, e quello alla data del fallimento. Sempre in tema di revocatoria di pagamenti, merita una menzione Sez. 1, n. 13086/2015, Nappi, Rv. 635731, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 67 l.fall. – per violazione degli artt. 3, 35 e 41 Cost. – nella parte in cui non distingue, ai fini della revocabilità, tra pagamento contestuale alla controprestazione del venditore e pagamento non contestuale (nella specie, effettuato prima della consegna della merce). Invero, la revocabilità del pagamento del prezzo, quale debito liquido ed esigibile, indipendentemente dal rapporto con la consegna della cosa venduta, deriva dalla stessa disciplina della compravendita, che, quale contratto consensuale, implica che l'obbligazione sorge al momento della conclusione del contratto e non già a quello della consegna della cosa venduta. Infine, sul ricorrente tema del pagamento da parte di un terzo, Sez. 1, n. 25928/2015, Nappi, in corso di massimazione, riconferma il consolidato orientamento della S.C., a tenore del quale la revocatoria fallimentare del pagamento di debiti del fallito, ex art. 67 l.fall., è esperibile anche quando detto pagamento sia stato effettuato da un terzo, purché questi abbia pagato il debito con danaro dell'imprenditore poi fallito, ovvero con danaro proprio, sempre che, dopo aver pagato, abbia esercitato azione di rivalsa prima dell'apertura del fallimento, con recupero del relativo importo, essendo in tali casi ravvisabile una potenziale idoneità di detto pagamento ad incidere sulla par condicio, stante la configurabilità di una effettiva relazione/interazione con il patrimonio del fallito. Nella vicenda all'esame della Corte, è stato quindi ritenuto astrattamente revocabile il pagamento effettato dalla società committente in favore della subappaltatrice, con denaro che era dovuto alla società appaltatrice poi fallita. 4. I rapporti pendenti. Sulle molteplici fattispecie che riguardano i rapporti ancora pendenti alla data della dichiarazione di fallimento, va certamente in primo luogo segnalata Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343, intervenuta sul delicato tema dello scioglimento dei contratti preliminari stipulati dal fallito in qualità di promittente venditore. Com'è noto, sulla questione si era in passato formato un indirizzo assai consolidato della S.C., che attribuiva al curatore la facoltà di sciogliersi dal contratto preliminare di vendita concluso 475 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI dal fallito e non ancora eseguito, ai sensi del comma 4 dell'art. 72 l.fall., e che poteva essere esercitata fino all'avvenuto trasferimento del bene, ossia fino all'esecuzione del contratto preliminare o al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. Sez. U, n. 12505/2004, Marziale, Rv. 574280, ponendosi in contrasto con tale indirizzo, hanno, per la prima volta, enunciato il principio secondo cui, quando la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto è stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, la sentenza che l'accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori ed impedisce l'apprensione del bene da parte del curatore del contraente fallito, che non può quindi avvalersi del potere di scioglimento previsto, in via generale, dall'art. 72 l.fall.; il principio, però, non è stato sempre seguito dalla giurisprudenza successiva di legittimità che ha affrontato la questione. Le Sezioni unite della S.C., quindi, sono nuovamente intervenute per affermare definitivamente che il curatore fallimentare del promittente venditore di un immobile non può sciogliersi dal contratto preliminare ai sensi dell'art. 72 l.fall. con effetto verso il promissario acquirente, ove questi abbia già trascritto, prima della dichiarazione di fallimento, la domanda ex art. 2932 c.c. e la domanda stessa sia stata accolta con sentenza trascritta, in quanto, a norma dell'art. 2652, n. 2), c.c., la trascrizione della sentenza di accoglimento prevale sull'iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese. In puntuale applicazione del detto pronunciamento delle Sezioni unite, Sez. 1, n. 25799/2015, Nappi, in corso di massimazione, in una vicenda precedente alla riforma dell'art. 72 l.fall., introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006, conferma che quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto, prima del fallimento, la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di compravendita, il sopravvenuto fallimento del promittente venditore non priva il curatore della facoltà di scelta riconosciutagli dalla citata norma, ma l'eventuale scelta compiuta in tal senso non è opponibile al promissario acquirente che ottenga la sentenza costitutiva ex art. 2392 c.c., perché gli effetti di tale sentenza retroagiscono al momento della trascrizione della domanda. Sempre in tema di contratto preliminare, Sez. 1, n. 15561/2015, Nappi, Rv. 636272, precisa che il curatore del fallimento che abbia agito per il rilascio di un immobile detenuto 476 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI senza titolo, a fronte dell'eccezione del convenuto di esserne promissario acquirente, può legittimamente porre a fondamento della domanda di restituzione la scelta di sciogliersi dal contratto preliminare ex art. 72 l.fall.; la quale scelta, determinando lo scioglimento del rapporto con effetto ex tunc, lascia comunque immutati tanto la causa petendi (mancanza di titolo del detentore), quanto il petitum (restituzione dell'immobile) dell'azione originariamente proposta. Sez. 1, n. 05523/2015, Cristiano, Rv. 634736, riconferma il consolidato principio per cui la facoltà del curatore di sciogliersi dal contratto non compiutamente eseguito, prevista dall'art. 72 l.fall., presuppone che il contratto medesimo sia ancora pendente alla data di dichiarazione del fallimento. Nella vicenda portata all'esame della S.C., invece, anteriormente alla dichiarazione di fallimento della promissaria acquirente, la promittente venditrice aveva esercitato il recesso dal contratto preliminare ex art. 1385, comma 2, c.c., sicché quest'ultimo non poteva ritenersi ancora pendente, con conseguente impossibilità per il curatore di sciogliersene. Sez. 1, n. 21273/2015, Didone, in corso di massimazione, chiarisce che nel caso di fallimento del venditore di un immobile, l'opponibilità alla massa fallimentare dell'atto di vendita immobiliare richiede che l'atto stesso abbia data certa, a norma dell'art. 2704 c.c., e che le formalità necessarie a rendere opponibili gli atti ai terzi – nella specie, la trascrizione – siano compiute, ex art. 45 l.fall., in data anteriore all'apertura della procedura concorsuale. In tema di contratto di appalto di opera pubblica, Sez. 1, n. 04616/2015, De Chiara, Rv. 634627, ricorda che a seguito dell'intervenuto fallimento dell'appaltatore, il rapporto si scioglie ai sensi dell'art. 81 l.fall. (nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 5 del 2006), con effetto ex nunc. Ne discende che al curatore spetta il corrispettivo maturato per le opere già eseguite, salvo il risarcimento dei danni conseguenti al ritardo e al non corretto adempimento dell'appaltatore; il committente, invece, non può invocare la disciplina prevista dall'art. 1460 c.c. in materia di eccezione di inadempimento, la quale, implicando la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, presuppone l'esistenza di un contratto non ancora risolto. Soggiunge, Sez. 1, n. 23810/2015, Bernabai, in corso di massimazione, che lo scioglimento del contratto di appalto per effetto del fallimento dell'appaltatore, non preclude di certo la 477 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI pretesa al pagamento delle prestazioni regolarmente erogate; e tuttavia il debitore può opporre l'inadempimento già maturato anteriormente alla dichiarazione di fallimento, consistente nell'esecuzione non a regola d'arte dell'opera. Sempre in materia di appalto di opere pubbliche, Sez. 1, n. 20558/2015, Mercolino, in corso di massimazione, evidenzia come, nel caso di appalto pubblico stipulato da imprese riunite in associazione temporanea, ai sensi degli artt. 23 e 25 del d.lgs. n. 406 del 1991, la dichiarazione di fallimento di una delle società mandanti, pur non comportando lo scioglimento del contratto d'appalto – alla cui esecuzione, a norma del comma 2 del citato art. 25, resta obbligata l'impresa capogruppo –, determina, invece, ex art. 78 l.fall. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006), lo scioglimento del rapporto di mandato conferito all'impresa capogruppo. Con il risultato che, verificatasi la perdita dei poteri di gestione e di rappresentanza nei confronti dell'impresa fallita, la mandataria capogruppo non ha più la legittimazione ad agire, in nome e per conto della mandante, per far valere i crediti dalla stessa vantati nei confronti dell'ente committente. 5. La formazione dello stato passivo. Sez. 1, n. 16214/2015, Scaldaferri, Rv. 636499, in tema di ripartizione degli oneri probatori in seno al procedimento di insinuazione al passivo, nel caso di domande fondate su un contratto di mutuo, afferma che il creditore istante è tenuto a fornire la prova dell'esistenza del titolo, della sua anteriorità al fallimento e della disciplina dell'ammortamento, con le scadenze temporali e con il tasso di interesse convenuti, mentre il debitore mutuatario (e, per esso, il curatore) ha l'onere di provare il pagamento delle rate di mutuo scadute prima della dichiarazione di fallimento, atteso che le rate successive, agli effetti del concorso, si considerano scadute alla data della sentenza dichiarativa, a norma dell'art. 55, comma 2, l.fall., e non è, dunque, necessario, per l'accertamento del capitale residuo, provare la risoluzione del contratto, che rileva solo ai fini degli interessi di mora. Ribadisce, poi, Sez. 1, n. 14054/2015, Ferro, Rv. 635932, che al curatore fallimentare, il quale agisca non in via di successione in un rapporto precedentemente facente capo al fallito, ma nella sua funzione di gestione del patrimonio di costui, non è opponibile l'efficacia probatoria tra imprenditori, di cui agli artt. 2709 e 2710 c.c., delle scritture contabili regolarmente tenute. L'inopponibilità delle scritture in sede di accertamento del passivo, peraltro, non 478 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI resta preclusa ove non sia stata eccepita dal curatore, trattandosi di eccezione in senso lato – e, dunque, rilevabile d'ufficio – poiché non si riconnette ad una azione necessaria del curatore ma al regime dell'accertamento del passivo in sé, nel cui ambito il predetto, quale rappresentante della massa dei creditori, si pone in posizione di terzietà rispetto all'imprenditore fallito. Nella medesima direzione, Sez. 1, n. 16554/2015, Genovese, Rv. 636332, affrontando il tema dell'applicabilità del principio di non contestazione, quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, nell'ambito della verificazione dello stato passivo, afferma che detto principio non può comportare l'automatica ammissione del credito allo stato passivo, solo perché non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti all'adunanza fissata per la verifica dei credi), competendo ancora al giudice delegato nella fase di verifica dello stato passivo e al tribunale fallimentare in sede di giudizi di impugnazione, il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove. Ribadisce poi, Sez. 1, n. 25689/2015, Scaldaferri, in corso di massimazione, che l'accertamento tributario i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento, è inefficace nell'ambito della procedura fallimentare solo nell'eventualità in cui l'atto medesimo non sia stato precedentemente notificato al curatore. Quando, invece, sia stato destinatario della notifica dell'atto impositivo, il curatore che voglia contestare il titolo esecutivo formatosi in via amministrativa, deve, per effetto delle disposizioni vigenti in tema di riparto di giurisdizione, rimettere la questione all'esame del giudice tributario, mediante tempestiva impugnazione dell'atto amministrativo di natura impositiva. Precisa infine, Sez. 1, n. 24449/2015, Di Virgilio, in corso di massimazione, che l'apposizione della riserva prevista dall'art. 96, comma 2, n. 2), l.fall. (nel testo successivo alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), costituisce un potere officioso del giudice di merito, il quale, pertanto, accogliendo la domanda di insinuazione del credito al rimborso di un prestito obbligazionario, può legittimamente apporre, ove fondata su titoli prodotti in mera copia, la riserva della loro esibizione in originale, pur se l'ammissione con riserva non sia stata richiesta o sia stata richiesta in ritardo. 479 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 5.1. Le rivendiche. Con riguardo alle domande di rivendicazione di beni mobili rinvenuti nella casa o nell'azienda del fallito ed acquisiti dal curatore, Sez. 1, n. 13884/2015, Di Virgilio, Rv. 635791, afferma che incombe sul ricorrente, ex art. 103 l.fall., l'onere di dimostrare il proprio diritto sui medesimi beni, trovando peraltro applicazione le limitazioni probatorie previste dall'art. 621 c.p.c., operanti anche in caso di prova presuntiva in virtù del richiamo contenuto nell'art. 2729 c.c. Pertanto, salvo il caso in cui la presunzione non trovi fondamento nella specifica natura dell'attività esercitata, la prova dell'intestazione in favore del rivendicante presso il Pubblico Registro Automobilistico di un veicolo, in thesi trasferito a quest'ultimo da parte della società fallita a seguito di un'operazione di leasing, non è sufficiente per l'accoglimento della domanda di rivendica, in quanto dall'iscrizione nel pubblico registro deriva una presunzione semplice quanto all'effetto traslativo del negozio, come tale cedevole rispetto alla preclusione di cui alla citata disposizione. Ancora nell'ambito delle azioni di rivendica di cose mobili, Sez. 1, n. 04627/2015, Nazzicone, Rv. 634550, in una peculiare vicenda che aveva per oggetto le somme portate dai conti individuali riferibili agli agenti di una compagnia assicuratrice, costituenti il patrimonio della cassa e già depositate presso la compagnia dichiarata insolvente, evidenzia che per l'accoglimento della domanda è necessario che sia stato effettivamente rispettato il prescritto regime della separazione del patrimonio della società da quello gestito per conto e nell'interesse degli agenti; in sostanza, per l'accoglimento della domanda di rivendica è necessaria la prova che non si sia determinata confusione tra il patrimonio della società depositaria ed il denaro ad essa affidato dal depositante, e che la società depositaria non avesse alcuna facoltà, neppure eventuale, di servirsi di tali somme. Ove manchino, per qualsiasi causa, tali presupposti, si applica la norma generale dell'art. 1782 c.c., in forza della quale il depositario acquista la proprietà delle somme mentre il depositante ha solo il corrispondente diritto di credito, da far valere nelle forme dell'insinuazione al passivo, alla restituzione delle somme, destinato a concorrere con gli altri crediti vantati dai terzi nei confronti del depositario. Sempre in tema di azione di rivendica, assai interessante pare Sez. 1, n. 07297/2015, Di Amato, Rv. 635250, secondo cui il promittente acquirente, che abbia proposto azione ex art. 2932 c.c., regolarmente trascritta, davanti al giudice ordinario, non può, a seguito del fallimento del promittente venditore, proporre una 480 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI domanda di rivendica ex art. 103 l.fall., condizionata all'esito negativo del giudizio proseguito in via ordinaria nei confronti della curatela, atteso che l'ammissione con riserva ex art. 96 l.fall. riguarda i diritti condizionati e non anche le azioni, non potendo la domanda principale essere subordinata all'esito di una identica domanda proposta in altra sede. Ne consegue, da un lato, l'invalidità della riserva apposta alla domanda di rivendica e, dall'altro, l'improponibilità della domanda medesima, in quanto il contratto preliminare non trasferisce la proprietà del bene, ma obbliga soltanto a trasferirla, sicché il promissario acquirente non può vantare alcun diritto reale che lo legittimi ad una domanda ex art. 103 l.fall. Infine, Sez. 1, n. 25931/2015, Ferro, in corso di massimazione, riconferma l'orientamento risalente del giudice di legittimità, secondo cui in presenza di una azienda commerciale, che sia stata inventariata tra le attività del fallimento e presa in consegna dal curatore – il quale è immesso ope legis nel possesso dei beni detenuti dal fallito – il terzo, che assuma di essersi reso cessionario dell'azienda medesima prima dell'instaurazione della procedura concorsuale, trova tutela esclusivamente nel procedimento di verificazione dello stato passivo, nei modi e nei termini contemplati dall'art. 103 l.fall. per la rivendicazione o restituzione di cose, mobili o immobili, possedute dal fallito. 5.2. I privilegi. Sulla vasta tematica dei crediti privilegiati, anzitutto, va segnalata Sez. 1, n. 13090/2015, Didone, Rv. 635794, che ha ritenuto ammissibile la domanda tardiva con la quale il cessionario di un credito garantito da ipoteca, ceduto unitamente all'azienda con accollo non liberatorio del cedente e già ammesso al passivo del fallimento di quest'ultimo in via chirografaria, chieda l'ammissione dello stesso credito in privilegio ipotecario a seguito della risoluzione del contratto di cessione dell'azienda e della conseguente retrocessione del bene immobile, su cui gravava il diritto di prelazione, nel patrimonio dell'imprenditore fallito. Secondo la S.C. in questo caso, invero assai singolare, può invocarsi in via analogica il principio secondo cui, in presenza di una legge retroattiva che introduca nuove ipotesi di crediti privilegiati, questi ultimi assistono anche i crediti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, a prescindere dal tempo in cui siano stati azionati in sede concorsuale e, quindi, anche i crediti prima chirografari, e come tali ammessi al passivo fallimentare, con la conseguenza che tale privilegio può esercitarsi anche dopo l'approvazione dello stato 481 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI passivo e fino a quando il riparto non sia divenuto definitivo, con le forme dell'insinuazione ex art. 101 l.fall. Con riguardo al privilegio generale sui beni mobili dovuto sui compensi per le prestazioni rese dai professionisti, in caso di plurimi incarichi, secondo Sez. 1, n. 20755/2015, Di Virgilio, in corso di massimazione, il termine temporale degli «ultimi due anni di prestazione» previsto dall'art. 2751-bis, n. 2), c.c., va riferito al rapporto professionale complessivamente inteso, sicché restano fuori dal privilegio i corrispettivi degli incarichi conclusi in data anteriore al biennio precedente la cessazione del complessivo rapporto. In tema, poi, di privilegio generale, ex art. 2751-bis, n. 4), c.c., spettante al coltivatore diretto e non all'imprenditore agricolo come definito dall'art. 2135 c.c. (nel testo sostituito dall'art. 1 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228), secondo Sez. 3, n. 06842/2015, Barreca, Rv. 634828, la qualifica di coltivatore diretto deve potersi desumere dalla disciplina di cui agli artt. 1647 e 2083 c.c., sicché l'elemento qualificante va rinvenuto nella coltivazione del fondo da parte del titolare con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, attività con la quale è compatibile quella di allevamento del bestiame solo qualora quest'ultima si presenti in stretto collegamento funzionale con il fondo. Il privilegio generale sui mobili per le provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia, previsto dall'art. 2751- bis, n. 3), c.c., per Sez. 1, n. 04627/2015, Nazzicone, Rv. 634551, trova applicazione solo nei rapporti tra l'agente ed il preponente, sicché la predetta causa di prelazione non spetta alla cassa di previdenza degli agenti, creditrice in proprio verso la impresa di assicurazione (in liquidazione coatta amministrativa), per i contributi, lasciati in deposito presso la seconda ma dovuti da questa alla prima, non potendo tale credito farsi rientrare tra le indennità di fine rapporto previste dall'art. 1751 cod. civ, né tra le forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva, che presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente. Sull'ambito di applicazione dell'art. 2751-bis, n. 5), c.c., che prevede il privilegio che assiste i crediti dell'impresa artigiana e delle società od enti cooperativi di produzione e lavoro per i corrispettivi dei servizi prestati e della vendita di manufatti, Sez. 1, n. 04383/2015, Mercolino, Rv. 634753, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale della suddetta norma nella parte in cui non estende il privilegio anche ai crediti per compensi di 482 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI appalti d'opera. E invero la mancanza, in caso di contratto di appalto, della sicura prevalenza dell'attività lavorativa rispetto agli altri fattori produttivi dell'impresa, non consente di valutare l'incidenza delle singole componenti della prestazione lavorativa, sicché risulta ragionevole la previsione di un trattamento differenziato rispetto ai crediti per i servizi prestati e per la vendita dei manufatti. Chiamata a pronunciarsi su questione di massima di particolare importanza, Sez. U, n. 05685/2015, Ragonesi, Rv. 634758, dopo avere affermato la non applicabilità ratione temporis, alla vicenda sottoposta all'esame, del nuovo art. 2751-bis, n. 5), c.c. – nel testo vigente a seguito della novella introdotta dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. con modif. dalla l. 4 aprile 2012, n. 35 –, ha riaffermato il consolidato orientamento a tenore del quale i criteri richiesti dall'art. 2083 c.c., ed in genere dal codice civile, valgono per l'identificazione dell'impresa artigiana nei rapporti interprivati, mentre quelli posti dalla legge speciale (l. 8 agosto 1985 n. 443) sono necessari per fruire delle provvidenza previste dalla legislazione regionale di sostegno, sicché l'iscrizione all'albo di un'impresa artigiana, effettuata ai sensi dell'art. 5 della ricordata l. n. 443 del 1985, non spiega alcuna influenza in tema di privilegio ex art. 2751- bis, n. 5), c.c., dovendosi, a tal fine, continuare a ricavare la relativa nozione alla luce dei criteri fissati, in via generale, dall'art. 2083 c.c. Ne consegue che, per accertare la ricorrenza della qualità di piccolo imprenditore, occorre valutare l'attività svolta, il capitale impiegato, l'entità dell'impresa, il numero dei lavoratori, l'entità e la qualità della produzione, i finanziamenti ottenuti e tutti quegli elementi atti a verificare se l'attività venga svolta con la prevalenza del lavoro dell'imprenditore e della propria famiglia, mentre risulta irrilevante il superamento delle soglie di fallibilità, ex art. 1, comma 2, l.fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, non sussistendo più alcun collegamento tra la condizione di piccolo imprenditore e i presupposti per il fallimento. Sez. 1, n. 17111/2015, Nappi, Rv. 636448, precisa che l'art. 9, comma 5, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 123, in materia razionalizzazione degli interventi di sostegno pubblico alle imprese, riconosce il privilegio solo ai crediti dello Stato per la restituzione delle erogazioni pubbliche, sicché, ove il contributo sia stato erogato in conto interessi sul finanziamento agevolato, il privilegio non si estende al mutuo concesso dalla banca all'impresa. Sez. 3, n. 14631/2015, Vivaldi, Rv. 636165, afferma che in materia di credito agrario, il mutuo di cui all'art. 44, comma 2, del 483 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, come sostituito dall'art. 1 del d.l. 4 gennaio 1994, n. 1, conv. con modif. dalla l. 17 febbraio 1994, n. 135, ha quale finalità il finanziamento dell'impresa in sé considerata, a prescindere dalla persona fisica dell'imprenditore. Ne discende che il privilegio legale speciale sui frutti pendenti, di cui alla lett. a) del comma 2 del citato art. 44, grava anche sulle annate ulteriori fino all'estinzione del credito garantito, ed è opponibile ai terzi ai sensi dell'art. 2747, comma 2, c.c., senza necessità di trascrizione. In relazione al privilegio generale sui mobili del datore di lavoro per i contributi di previdenza sociale di cui agli artt. 2753 e 2754 c.c., Sez. 1, n. 25173/2015, Ferro, in corso di massimazione, richiamando orientamenti consolidati della S.C., ricorda che la causa del credito in considerazione della quale la legge accorda il detto privilegio, va individuata nell'interesse pubblico al reperimento ed alla conservazione delle fonti di finanziamento della previdenza sociale, fine non tutelato, invece, dagli enti privati, pur portatori di interessi collettivi, che gestiscono forme integrative di previdenza ed assistenza. Conseguentemente, restano al di fuori del predetto privilegio i contributi non versati dal datore di lavoro, poi fallito, alle casse edili – promosse e gestite dalle organizzazioni datoriali e da quelle sindacali –, i quali restano dovuti non ex lege ma in forza della contrattazione collettiva. Infine, Sez. 1, n. 25802/2015, Ferro, in corso di massimazione, riconferma l'orientamento già emerso nella giurisprudenza della S.C., secondo cui le cd. spese d'insinuazione al passivo, sostenute dal concessionario incaricato della riscossione dei tributi erariali, devono essere ammesse al passivo fallimentare – ancorché solo in via chirografaria, stante la loro natura di corrispettivo per un servizio reso all'ente impositore e la non inerenza al tributo –, sia in virtù dell'applicazione estensiva dell'art. 17 d.lgs. n. 112 del 1999, che prevede la rimborsabilità delle spese relative alle procedure esecutive individuali, atteso che un trattamento differenziato delle due voci di spesa risulterebbe ingiustificato, potendo la procedura concorsuale fondatamente ritenersi un'esecuzione di carattere generale sull'intero patrimonio del debitore, sia in forza dell'art. 1, comma 1, lett. e), della l. n. 337 del 2008, contenente la delega per il riordino della riscossione, che prevede senz'altro il diritto del concessionario al recupero delle spese dovute dai soggetti che siano sottoposti a procedure concorsuali. 484 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI 6. La liquidazione dell'attivo. Sul tema, particolarmente dibattuto nella giurisprudenza di merito, delle azioni di responsabilità promosse dal curatore fallimentare, a norma dell'art. 146, comma 2, l.fall., nei confronti degli organi della società, Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635451, è intervenuta a ripianare «un disallineamento» nella giurisprudenza della Cassazione in merito alla questione se, nei giudizi di responsabilità promossi da una curatela fallimentare nei confronti di amministratori di società di capitali fallite, sia o meno corretto liquidare il danno utilizzando il criterio della differenza tra l'attivo ed il passivo accertati nell'ambito della procedura concorsuale, quando la mancanza di scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore, impedisca di ricostruire quale è stato l'effettivo andamento dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento. Orbene, secondo le Sezioni Unite, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica tout court che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo. Facendo immediata applicazione del cennato insegnamento, Sez. 1, n. 19733/2015, Scaldaferri, in corso di massimazione, afferma che nell'azione di responsabilità promossa dal curatore, ex art. 146, comma 2, l.fall., contro l'ex amministratore di una società poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l'avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale, il giudice che, ricorrendone le condizioni, si avvalga, nella quantificazione del danno risarcibile, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l'insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell'amministratore e, dall'altro, l'accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime ed il danno allegato sarebbe stato precluso dall'insufficienza delle scritture contabili sociali, 485 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI rivelandosi, invece, affatto insufficiente il solo, generico confronto tra la situazione patrimoniale della società all'inizio della gestione del suddetto amministratore e quella risultante al momento della dichiarazione di fallimento. Occupandosi delle azioni promosse nell'ambito di una società eterodiretta, Sez. 1, n. 12254/2015, Scaldaferri, Rv. 635757, chiarisce che l'art. 2497 c.c. prevede un'unica azione di responsabilità che può essere esercitata dai creditori sociali, ovvero, in caso di fallimento della società eterodiretta dal suo curatore, nei confronti dell'ente o della società che ha abusato dell'attività di direzione e coordinamento, al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio conseguente alla lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale. Pertanto, il comma 3 della menzionata disposizione, nel prevedere che il creditore sociale (ovvero il curatore, in caso di fallimento) possa agire nei confronti dell'ente o della società che svolge attività di direzione e coordinamento solo se non sia stato soddisfatto dalla società soggetta a tale attività, si limita ad individuare una condizione di ammissibilità dell'azione di responsabilità prevista dal comma 1, ma non costituisce il fondamento normativo di un'ulteriore responsabilità sussidiaria tipica della cd. holding per il pagamento dei debiti insoddisfatti della società eterodiretta. Sulla prescrizione dell'azione di responsabilità dei creditori sociali, ex art. 2394 c.c., che sia stata promossa dal curatore fallimentare in forza dell'art. 146 l.fall., va segnalata Sez. 1, n. 25178/2015, Ferro, in corso di massimazione, la quale precisa che la relativa azione può essere proposta dal momento in cui l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto anche senza verifica diretta della contabilità della società, non richiedendosi a tal fine che siffatta incapienza risulti da un bilancio approvato dall'assemblea dei soci. Nella vicenda sottoposta all'esame della S.C., allora, si è ritenuta prescritta l'azione promossa dal curatore fallimentare, in luogo dei creditori sociali, in quanto la prescrizione ha cominciato a decorrere dalla precedente pubblicazione della delibera di riduzione del capitale sociale e di rimborso ai soci del capitale esuberante – idonea come tale a manifestare la sopravvenuta incapienza patrimoniale della società –, anziché dal successivo deposito nel registro delle imprese del relativo bilancio di esercizio. 486 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI Sempre in tema di azione di responsabilità sociale, Sez. 1, n. 14052/2015, Cristiano, Rv. 635926, afferma che la legittimazione all'azione di responsabilità contro il liquidatore giudiziale revocato di un concordato preventivo con cessione dei beni, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 182 e 38 l.fall., appartiene, nella previgente come nell'attuale disciplina concordataria, al nuovo liquidatore giudiziale nominato, e non anche al commissario giudiziale, atteso che a quest'ultimo sono attribuite funzioni di vigilanza, di informazione, consulenza ed impulso, complessivamente tese al controllo della regolarità del comportamento del debitore ed alla tutela dell'effettiva informazione dei creditori, ma non anche di amministrazione o gestione, né di rappresentanza del debitore o del ceto creditorio. Spettano, invece, al liquidatore giudiziale, per effetto dell'omologazione del concordato, i poteri di gestione e di disposizione finalizzati alla liquidazione dei beni ed alla ripartizione del ricavato tra gli aventi diritto, con conseguente sua legittimazione a stare in giudizio per tutte le controversie derivanti dalla liquidazione. In tema di liquidazione dei beni del socio di società di persone che sia stato dichiarato fallito, Sez. 1, n. 05449/2015, Didone, Rv. 634707, afferma che la dichiarazione di fallimento determina l'esclusione del socio di diritto dalla società, ai sensi dell'art. 2288 c.c., applicabile, come nella specie, ex art. 2293 c.c., alla società in nome collettivo; in questi casi, il bilanciamento tra la tutela della società e la massa creditoria del fallimento del socio si realizza, da un lato, evitando alla società l'eventualità pregiudizievole di avere il fallimento nella compagine e precludendo al fallimento di vendere la quota in via esecutiva, dall'altro, rendendo oggetto della massa attiva fallimentare il credito di liquidazione della quota. Degna di nota, infine, Sez. 1, n. 25802/2015, Ferro, in corso di massimazione, che intervenuta in relazione ad un fallimento dichiarato dopo la riforma del 2006, ribadisce l'orientamento formatosi sub Julio, a tenore del quale nell'ipotesi in cui sia iniziata l'espropriazione di un immobile, l'intervenuta dichiarazione di improcedibilità dell'esecuzione – pronunciata nella stessa sede per l'ammissione del debitore al concordato preventivo, ai sensi dell'art. 168 l.fall. –, non determina la caducazione degli effetti sostanziali del pignoramento (tra cui quello, stabilito dall'art. 2916 c.c., per cui nella distribuzione della somma ricavata dall'esecuzione non si tiene conto delle ipoteche, anche se giudiziali, iscritte dopo il pignoramento), allorché, a seguito della successiva dichiarazione di 487 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI fallimento, a norma dell'art. 107, comma 6, l.fall. – nel testo riformato dal d.lgs. n. 5 del 2006 –, il curatore si sostituisca al creditore procedente, al fine di attuare la liquidazione del medesimo bene nella sede concorsuale, conseguendone l'inefficacia delle ipoteche iscritte successivamente al pignoramento. 7. Questioni sostanziali nel concordato preventivo. In tema di concordato preventivo proposto da una società di persone, Sez. U, n. 03022/2015, Ragonesi, Rv. 634103, ha risolto il rilevato contrasto tra le decisioni della S.C., in ordine alla questione se il socio costituitosi fideiussore della società debba considerarsi un terzo che presta garanzia per una obbligazione altrui, oppure come socio illimitatamente responsabile garantisca una propria obbligazione. Le Sezioni Unite, pronunciandosi in fattispecie regolata ratione temporis dalla disciplina precedente al d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005, hanno stabilito che il credito nei confronti di una società di persone garantito da ipoteca, che fosse stata rilasciata dal socio illimitatamente responsabile, va riconosciuto come credito ipotecario nell'ambito del concordato preventivo della medesima società, in seno al quale andrà dunque soddisfatto in misura integrale – e, comunque, nei limiti di capienza del bene ipotecato – in ragione della previsione del vecchio testo dell'art. 177, comma 2, l.fall. e della necessità di non prevedere un trattamento differenziato del creditore ipotecario rispetto alla procedura fallimentare. Soggiungono in motivazione le Sezioni Unite che, nel caso in cui il concordato dovesse risultare incapiente, resta ferma l'obbligazione in capo al socio per quanto non corrisposto dalla società in sede di esecuzione del concordato, non trovando applicazione la previsione di cui all'art. 184, comma 2, l.fall., che estende ai soci illimitatamente responsabili gli effetti esdebitatori del concordato preventivo della società omologato. Infine, neppure potrebbe ritenersi applicabile l'art. 184, comma 1, ultima parte, l.fall., per il quale i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato preventivo conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso, in quanto nell'ambito applicativo della menzionata disposizione rientra senz'altro il terzo datore di ipoteca, ma non anche il socio illimitatamente responsabile di una società di persone che ha prestato ipoteca per un debito 488 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI sociale, non potendo questi considerarsi terzo rispetto alla medesima società. È noto che, secondo l'orientamento finora emerso nella giurisprudenza della S.C. in tema di concordato preventivo, l'art. 182-ter, comma 1, l.fall. (come modificato dall'art. 32 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con modif. dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2), che esclude la falcidia concordataria sul capitale dell'IVA, così sancendo l'intangibilità del relativo debito, ha natura sostanziale e carattere eccezionale, attribuendo al corrispondente credito un trattamento peculiare ed inderogabile, sicché la stessa si applica ad ogni forma di concordato, ancorché proposto senza ricorrere all'istituto della transazione fiscale, attenendo allo statuto concorsuale del credito IVA (da ultimo, Sez. 1, n. 14447/2014, Scaldaferri, Rv. 631445). Va peraltro segnalato che, su istanza delle parti ricorrenti, con provvedimento del giorno 8 gennaio 2015, il Primo Presidente, rilevato che il tema della falcidiabilità dell'IVA nel concordato preventivo, costituisce questione di massima di particolare importanza, ha trasmesso alle Sezioni unite due ricorsi, relativi a concordati preventivi nei quali risultava essere stata respinta la domanda di omologa, in quanto le proposte prevedevano entrambe il pagamento falcidiato dei crediti IVA. Infine, meritano di essere ricordate alcune pronunce intervenute sul tema della compensazione nel concordato preventivo. Com'è noto, nel concordato preventivo la compensazione determina – a norma del combinato disposto degli artt. 56 e 169 l.fall. – una deroga alla regola del concorso ed è ammessa pure quando i presupposti di liquidità ed esigibilità, ex art. 1243 c.c., maturino dopo la data di presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, purché il fatto genetico delle rispettive obbligazioni sia sempre anteriore a detta domanda. Così, Sez. 3, n. 00825/2015, Stalla, Rv. 633971, in una vicenda portata all'esame della S.C., ha escluso che possa operare la compensazione tra il credito vantato da una società, poi ammessa al concordato preventivo, e quello della controparte, nascente dalla ripetizione di un pagamento indebito – giacché avvenuto nei suoi confronti e non del cessionario del credito –, quando siffatto pagamento risulti effettuato successivamente al deposito della domanda di ammissione alla procedura concorsuale. In altra fattispecie, Sez. 1, n. 24047/2015, Nappi, in corso di massimazione, ha ritenuto che la compensazione possa operare tra il credito per il pagamento dei canoni locativi vantato da una società, 489 CAP. XXII - PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI SOSTANZIALI ammessa al concordato preventivo, e quello della controparte, nascente dalla prestazione di un servizio – effettuato prima del deposito della domanda di ammissione alla procedura concorsuale -, poiché la fonte dell'obbligo di pagare il canone è costituita dal contratto di locazione stipulato precedentemente alla domanda di concordato, ancorché il canone sia divenuto esigibile dopo il deposito della stessa. 490 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI PARTE SETTIMA DIRITTO TRIBUTARIO CAPITOLO XXIII L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI (di Marzia Minutillo Turtur e Giuseppe Dongiacomo)* SOMMARIO: 1. Gli accertamenti fiscali: le forme, gli obblighi informativi, le garanzie per il contribuente, accessi, ispezioni e verifiche. – 1.1. Obblighi informativi e garanzie per il contribuente. – 1.2. La notifica dell'atto di accertamento prima della scadenza del termine di cui all'art. 12 l. n. 212 del 2000. – 1.3. La sottoscrizione dell'atto di accertamento: legittimazione e potere del delegato. – 1.4. La necessaria redazione del processo verbale di chiusura operazioni per ogni attività svolta nei confronti del contribuente sottoposto a verifiche fiscali. La legittimità di accessi, verifiche ed ispezioni . – 1.5. L'accertamento parziale. –1.6. L'iscrizione a ruolo straordinario nel caso di illegittimità dell'avviso di accertamento pronunziata da sentenza non passata in giudicato. Il contrasto di giurisprudenza e la rimessione alle Sezioni Unite. – 1.7 La determinazione della categoria catastale e l'accertamento nei confronti di ente pubblico utilizzatore dei beni. - 2. La prova in materia di accertamento. – 2.1. Gli elementi di valore indiziario. – 2.2. I dati e le movimentazioni bancarie, anche relative al nucleo familiare. – 2.3. Le presunzioni relative al luogo di residenza dei cittadini cancellati dalla anagrafe della popolazione residente. – 2.4. Le presunzioni in relazione agli utili extracontabili e ad eventuali ricavi superiori a quelli contabilizzati. – 2.5. La prova e l'accertamento delle plusvalenze patrimoniali a seguito di cessione d'azienda. – 2.6. Gli studi di settore. – 2.7. Il rifiuto di esibire documentazione in sede di accesso e ispezione. 3. La notificazione dell'atto di accertamento. – 3.1. Caratteri e portata quale condizione integrativa di efficacia dell' imposizione tributaria. – 3.2. La residenza anagrafica e la residenza indicata nella dichiarazione dei redditi. – 3.3. La notificazione a mezzo del servizio postale. Il ruolo dell'ufficiale giudiziario. La sottoscrizione illeggibile. La notifica congiunta di più atti di accertamento. – 3.4. Avviso di accertamento e comunicazione ex art. 65 del d.P.R. n. 600 del 1973, le conseguenze dell'omessa comunicazione, effetti della notificazione collettiva ed impersonale agli eredi. – 4. L'abuso del diritto. . – 5. La riscossione. – 5.1. Profili sostanziali. – 5.2. Profili procedurali. – 6. La prescrizione e decadenza. – 6.1. Del potere di accertamento e riscossione dell'Amministrazione finanziaria. – 6.2. Del diritto al rimborso del contribuente. 1. Gli accertamenti fiscali: le forme, gli obblighi informativi, le garanzie per il contribuente, accessi, ispezioni e verifiche. 1.1. Obblighi informativi e garanzie per il contribuente. La Corte si è occupata, in ambito di garanzie riservate al contribuente sottoposto a verifiche fiscali, * L'intero capitolo è stato redatto da Marzia Minutillo Turtur con la sola eccezione dei paragrafi dedicati alla riscossione, di cui è autore Giuseppe Dongiacomo. 491 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI dell'inosservanza degli obblighi informativi e con la sentenza Sez. T, n. 00992/2015, Cirillo, Rv. 634407, evidenzia come tale inosservanza determini la nullità assoluta degli atti della procedura nei casi in cui l'effetto invalidante sia espressamente previsto dalla legge, mentre negli altri casi occorre valutare - in applicazione della giurisprudenza europea, che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca ad una formalità o ad una circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo al quale l'atto è preordinato - se la violazione degli obblighi informativi abbia determinato una mera irregolarità dell'atto o ne provochi la concreta invalidità. In tal senso nella complessiva valutazione dell'atto di accertamento si é ritenuto che un'imprecisa indicazione dell'estensione dell'ambito temporale della verifica non comporta un'invalidità dell'atto in considerazione della complessiva documentazione a disposizione del contribuente e in parte dallo stesso prodotta. La necessità della corretta instaurazione di un contraddittorio con il contribuente emerge anche nel particolare caso analizzato dalla Corte nella sentenza Sez. T, n. 20033/2015, Di Iasi, Rv. 636837, ove si chiarisce che in caso di reddito d'impresa l'Amministrazione finanziaria, prima di procedere all'emanazione di un atto impositivo nei confronti del contribuente che compie operazioni commerciali con imprese aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (identificati mediante la creazione delle c.d. black list), é comunque tenuta ai sensi dell'art. 110 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 a notificare al contribuente un apposito avviso con la possibilità di fornire, entro novanta giorni, la prova che le operazioni sospette poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che sono state concretamente eseguite. Il mancato rispetto dell'obbligo di avviso determina l'annullamento, in sede contenziosa, dell'atto emesso prima del termine predetto per violazione del contraddittorio procedimentale. La necessità di un pieno rispetto del meccanismo di attivazione del contradditorio endoprocedimentale emerge anche dalla sentenza Sez. T, n. 02875/2015, Crucitti, in corso di massimazione, con la quale si é evidenziato - confermando l'orientamento delle Sez. U, n. 19667/2014, Botta, Rv. 632586 - in materia di iscrizione ipotecaria, ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, la necessità di comunicare al contribuente la volontà da parte dell'Amministrazione finanziaria di procedere a tale iscrizione con concessione di un termine, identificato nella misura di trenta giorni, in modo che il contribuente possa o effettuare il relativo 492 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI pagamento o formulare osservazioni. La mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, e dunque la mancata concessione di un termine al contribuente determina dunque la nullità dell'iscrizione ipotecaria. Sempre in relazione alla legittimità dell'iscrizione ipotecaria ai sensi del predetto art. 77 la Corte con la sentenza, Sez. T, n. 23876/2015, Crucitti, in corso di massimazione, ha chiarito che, nel caso in cui tale ipoteca venga attivata su un fondo patrimoniale familiare, il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l'esecuzione sui beni del fondo va ricercato non già nella natura dell'obbligazione, ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l'esercizio dell'attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall'attività professionale o d'impresa del coniuge, dovendosi accertare che l'obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari. In materia di legittimità dell'accertamento ed identificazione del soggetto titolare del relativo potere, da identificarsi nella Direzione regionale della agenzia delle entrate quanto alla categoria dei "grandi contribuenti", la Corte con la sentenza Sez. T, n. 24263/2015, Bruschetta, ha affermato che in tema di accertamenti tributari, il d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito in l. 28 gennaio 2009, n. 2, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all'attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto oggetto di accertamento, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi. Sempre in materia di rispetto delle previsioni di cui all'art. 7 dello Statuto del contribuente ed alle corrette caratteristiche dell'atto di accertamento e del suo contenuto, nel caso in cui lo stesso sia stato notificato al curatore del fallito mediante richiamo per relationem al processo verbale di constatazione originariamente notificato al fallito in bonis, la Corte con la sentenza Sez. T, n. 24254/2015, Perrino, in corso di massimazione, ha chiarito che l'obbligo di consegna al curatore della documentazione amministrativa 493 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI dell'impresa fallita lascia ritenere, con presunzione iuris tantum, che anche il verbale di constatazione sia pervenuto e si trovi nella disponibilità del curatore, e che quindi sia stato dallo stesso conosciuto, con conseguente legittimità del richiamo per relationem, non apparendo necessario che l'avviso di accertamento riporti in allegato il processo verbale richiamato. Sempre in materia di garanzie e certezze in favore del contribuente la Corte con la sentenza Sez. T, n. 24588/2015, Iannello, in corso di massimazione, ha precisato che in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, ai sensi dell'art. 10, comma 2, della l. n. 212 del 2000, la divergenza tra indirizzo interpretativo seguito dall'Amministrazione finanziaria e le indicazioni fornite dall'associazione di categoria del contribuente non integra l'obiettiva incertezza sulla portata e ambito di applicazione delle disposizioni tributarie quanto al loro contenuto, oggetto e destinatari, mentre tale incertezza interpretativa – da riferire al giudice, unico soggetto dell'ordinamento cui é attribuito il potere dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione - e la conseguente esimente, ricorre nel caso in cui si riscontri la presenza di contrasti giurisprudenziali sull'oggetto della controversia. Nel caso concreto la S.C. ha ritenuto la ricorrenza dell'esimente considerato il contrasto interpretativo tra i giudici di merito circa la ricorrenza o meno di plusvalenze generate dalla cessione di calciatori e diritti di compartecipazione. 1.2. La notifica dell'atto di accertamento prima della scadenza del termine di cui all'art. 12 comma 7 della L. n. 212 del 2000. Con la sentenza Sez. T, n. 22786/2015, Conti, in corso di massimazione, si è chiarito - in coerenza con il principio sancito dalle Sez.U, n. 18184/2013, Virgilio, Rv. 627474 - che in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la notifica dell'avviso di accertamento prima dello spirare del termine previsto dall'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, ne determina l'illegittimità, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, riferite al contribuente e al rapporto tributario controverso, il cui onere probatorio grava sull'Amministrazione finanziaria. Specifiche ragioni di urgenza che non possono in alcun modo essere individuate nell'imminente scadenza del termine di decadenza dell'azione accertativa, dovendo la capacità paralizzante dell'urgenza, rispetto alla nullità dell'atto notificato senza il rispetto del termine dilatorio, rimanere agganciata a specifici elementi di 494 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI fatto che esulano dalla sfera dell'ente impositore e fuoriescono dalla sua diretta responsabilità. Con ordinanza interlocutoria n. 00527/2015, la Sezione 6–T, ha disposto trasmettersi gli atti al Primo Presidente ai sensi dell'art. 374 c.p.c., sottoponendo questione di massima di particolare importanza, concernente le modalità di attuazione del principio generale del contraddittorio endoprocedimentale, come riconosciuto dalla sentenza Sez. U, n. 19667/2014, Botta, Rv. 632586, per il caso delle verifiche c.d. "a tavolino" e le correlate questioni, affinché venga chiarito se il suddetto principio abbia fondamento nell'ordinamento interno o nel diritto comunitario e se a tali fattispecie, in conseguenza della proposta estensione analogica dell'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, si applichino i principi fissati nella sentenza Sez. U, n. 18184/2013, Virgilio, Rv. 627484, per la quale l'atto emanato senza essere stato preceduto dalla consegna di un verbale di contestazione, o prima dello spirare del termine di sessanta giorni dalla data di consegna debba essere in ogni caso giudicato invalido (salvo il caso di urgenza di cui all'ultima parte del suddetto comma 7). 1.3. La sottoscrizione dell'atto di accertamento: legittimazione e potere del delegato. Quanto alla regolare sottoscrizione dell'atto di accertamento ed alla conseguente possibilità da parte del contribuente di verificare la effettiva ricorrenza del potere di sottoscrizione in capo al soggetto delegato dal capo dell'Ufficio competente, la Corte con la sentenza in corso di massimazione, Sez. T, n. 22803/2015, Chindemi, ha chiarito che in tema di accertamento tributario, deve essere ritenuta nulla la delega di firma o di funzioni "in bianco" - conferita con atto proprio o con ordine di servizio del dirigente dell'ufficio - con indicazione della sola qualifica professionale del dirigente destinatario della delega, senza alcun riferimento nominativo alle generalità di chi effettivamente rivesta tale qualifica. Si è quindi specificato che dalla nullità della delega consegue la nullità dell'atto impositivo, non essendo ammissibile una delega per relationem nei confronti di soggetto incerto, nell'impossibilità da parte del contribuente di verificare agevolmente la ricorrenza del potere di sottoscrizione in capo al delegatario. Sempre in materia di delega e sottoscrizione dell'avviso di accertamento la Corte con la sentenza Sez. T, n. 24492/2015, Iannello, in corso di massimazione, ha precisato e chiarito, sia in tema di imposte sui redditi che in materia di IVA, che ai sensi 495 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d'ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell'ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva validamente delegato dal reggente, e ciò in relazione sia alla particolare natura dell'atto di accertamento, atto della p.a. a rilevanza esterna, che alla previsione di un'esplicita e tassativa sanzione di nullità in relazione ad un atto che costituisce la più complessa espressione del potere impositivo. Lo stesso principio - che impone dunque all'Amministrazione finanziaria di provare la ricorrenza di valida delega con onere di dimostrare il corretto esercizio del potere - non é invece ritenuto rilevante ed applicabile quanto alla cartella esattoriale, al diniego di condono, all'avviso di mora e all'attribuzione di rendita, perché in questi casi manca una sanzione espressa di nullità, con conseguente ricorrenza di una presunzione generale di riferibilità dell'atto all'organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio l'atto è adottato. Nel caso poi di tributi locali la Corte ha evidenziato come si possa ritenere sufficiente anche la mera firma stampata. Con la sentenza Sez. T, n. 22810/2015, Terrisi, in corso di massimazione, la Corte ha affermato un principio di diritto, in questione di particolare importanza ex art. 363 c.p.c., chiarendo che in tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio e da altro funzionario delegato di carriera direttiva (area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005), senza che sia necessaria la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito nella l. 26 aprile 2012, n. 44. 1.4. La necessaria redazione del processo verbale di chiusura operazioni per ogni attività svolta nei confronti del contribuente sottoposto a verifiche fiscali. La legittimità di accessi, verifiche ed ispezioni. Si é evidenziato con la sentenza Sez. T, n. 07843/2015, Di Iasi, Rv. 635300, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, che l'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 impone in ogni caso di accesso o ispezione nei locali di impresa, anche al fine di raccolta di documentazione, la redazione del processo verbale di chiusura delle operazioni, con la 496 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI conseguenza che è solo dal momento del rilascio della copia del verbale di chiusura che decorre il termine di sessanta giorni trascorso il quale può essere emesso l'avviso di accertamento ai sensi dell'art. 12 comma 7, della l. 27 luglio 2000, n. 212. Quanto agli accessi, ispezioni, verifiche per l'accertamento delle imposte dirette, la Corte ha ribadito con la sentenza Sez. T, n. 08206/2015, Ferro, Rv. 635470, che l'autorizzazione del Procuratore della Repubblica - prescritta in materia di IVA dall'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 e richiamata per le imposte dirette dall'art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 - legittima solo lo specifico accesso autorizzato e non quello presso domicilio di persona fisica diversa dal contribuente, con conseguente inutilizzabilità dei documenti acquisiti ed illegittimità derivata dell'avviso di accertamento fondato su tali accessi non legittimi. La Corte ha inoltre evidenziato come un eventuale decreto rivolto a persona terza diversa dal contribuente, che ha subito un immotivato accesso, possa essere impugnato sia dal terzo che dal contribuente, al fine di far rilevare la illegittimità dell'attività dell'Amministrazione finanziaria e conseguente inutilizzabilità dell'esito dell'accertamento. Infine, si è ritenuto, nella sentenza Sez. T, n. 00090/2015, Iacobellis, Rv. 634117, in materia di ispezioni, accessi, verifiche e controlli effettuati dalla Guardia di Finanza, che, ove tale attività venga svolta ai sensi dell'art. 63 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 in collaborazione con gli uffici tributari, non valgono le ordinarie delimitazioni di competenza territoriale poste per gli organi dell'Amministrazione finanziaria, con la conseguenza di una loro piena utilizzabilità a fini fiscali, ancorché provengano da reparti di stanza in località diverse dalla sede dell'ufficio competente sul rapporto d'imposta. 1.5. L'accertamento parziale. Quanto alle diverse modalità dell'accertamento la Corte con la sentenza, Sez. T, n. 21984/2015, in corso di massimazione, ha evidenziato che l'accertamento parziale - che rappresenta uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile - non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui all'art. 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, ma bensì una modalità procedurale che segue le stesse regole previste per gli accertamenti ordinari e che, dunque, può basarsi senza limiti anche sul metodo di accertamento induttivo da ritenersi consentito pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare a seguito di segnalazione o processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza. 497 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI 1.6. L'iscrizione a ruolo straordinario nel caso d'illegittimità dell'avviso di accertamento pronunziata da sentenza non passata in giudicato. Il contrasto di giurisprudenza e la rimessione alle Sezioni Unite. Con l'ordinanza di rimessione, Sez. T, n. 04849/2014 è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa alla sopravvivenza o meno dei presupposti per l'iscrizione nel ruolo straordinario delle imposte o delle maggiori imposte accertate, quando sia intervenuta sentenza, ancorché non definitiva, di annullamento dell'avviso di accertamento. L'ordinanza avverte che, secondo un orientamento interpretativo, Sez. T, n. 20526/2006, Cicala, Rv. 593687, la pronuncia che accoglie il ricorso del contribuente, anche quando non definitiva, priva la pretesa tributaria dell'atto amministrativo che la sostiene, precludendo qualunque forma di riscossione provvisoria. Si invoca a conforto l'art. 68, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale prevede, per l'ipotesi di accoglimento del ricorso, il rimborso d'ufficio del tributo già corrisposto in eccedenza rispetto alla statuizione processuale. Non avrebbe, pertanto, legittimazione alcuna la "reiscrizione" del credito in un ruolo straordinario. La conclusione trova, peraltro, corrispondenza nel principio di "parità delle parti" sancito dall'art. 111 della Costituzione, poiché mentre nella fase amministrativa dell'accertamento e della riscossione trova giustificazione il potere sopraordinato della Pubblica Amministrazione rispetto al contribuente, non altrettanto può affermarsi nella fase demandata al giudice terzo, dinanzi al quale Erario e contribuente si trovano in condizione di parità. Nell'ordinanza si pone, infine, la questione di utilità dell'iscrizione a ruolo nell'ipotesi in cui il contribuente - debitore sia stato dichiarato fallito, sostenendosi che il credito tributario del Fisco va comunque soddisfatto nell'alveo della procedura concorsuale, con le modalità ed i limiti imposti dalla legge fallimentare. Di contro, e in contrasto, si rileva però l'orientamento emerso con Sez. T, n. 07324/2014, Napolitano, Rv. 630172, che in tema di fermo di pagamento dei crediti, previsto dall'art. 69 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2240, ritiene che la pronuncia non passata in giudicato, che accerti l'illegittimità di un accertamento, comunque, non "travolge tutti gli effetti dell'avviso stesso ma lascia in piedi la possibilità di misure cautelari a tutela del possibile credito erariale". Le opposte tesi sono dunque espressione di un contrasto insorto in seno della medesima sezione tributaria, 498 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI che ha reso opportuna la devoluzione della questione alle Sezioni Unite. Con la sentenza Sez. T, n. 23550/2015, Virgilio, in corso di massimazione, la Corte sempre in materia d'iscrizione a ruolo affronta la disciplina conseguente alla previsione di cui all'art. 1, comma 5 ter, del d.l. 17 giugno 2005, n. 106, convertito nella legge 31 luglio 2005, n. 156, in materia di validazione in via centralizzata dal sistema informativo dell'amministrazione creditrice dei contenuti dei ruoli a seguito di accertamento. Si evidenzia in particolare come la disciplina in questione abbia carattere meramente interpretativo e non innovativo, con evidente volontà di attribuire alla previsione portata retroattiva, senza alcuna censura e considerazione di potenziale illegittimità costituzionale della disposizione, poiché la stessa si deve intendere finalizzata ad uniformare e semplificare la modalità del procedimento interno di formazione ed esecutività dei ruoli, in relazione alla nuova disciplina del sistema di riscossione e dei termini di notificazione delle cartelle di pagamento introdotta dalla l. n. 156 del 2005 in attuazione della sentenza della Corte cost. n. 280/2005. 1.7. La determinazione della categoria catastale e l'accertamento nei confronti di soggetto pubblico utilizzatore dei beni. Con la sentenza Sez. T, n. 20026/2015, Napolitano, Rv. 626370, é stato affrontato il problema della corretta individuazione ai fini di accertamento della categoria catastale di beni utilizzati da ente pubblico o che persegue finalità pubbliche (nel caso in esame autorità portuale). È stato in concreto evidenziato come non potendo essere compresi nella previsione di cui all'art. 2, comma 40, del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale, ad ufficio privato o ad usi diversi, in presenza di autonomia funzionale e reddituale, i beni oggetto di accertamento nel caso concreto (comprensorio immobiliare adibito ad uffici e sede della autorità portuale) dovranno essere valutati in relazione al combinato disposto di cui all'art. 5 del r.d.l. 13 aprile 1939, n. 652 e art. 40 del d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142, considerata l'estraneità degli stessi a qualsiasi finalità lucrativa o alla produzione di reddito. 2. La prova in materia di accertamento.2.1. Gli elementi di valore indiziario. La Corte, con la sentenza Sez. T, n. 16951/2015, Cirillo, Rv. 636285, ha evidenziato come 499 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI l'Amministrazione finanziaria possa avvalersi di ogni elemento di valore indiziario, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda dalla legge tributaria o dalla violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Nel caso concreto in applicazione di questo principio sono stati ritenuti pienamente utilizzabili, nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari, ottenuti mediante strumenti di cooperazione comunitaria, dal dipendente di una banca residente all'estero, il quale li avevaacquisiti dati trasgredendo i doveri di fedeltà e di riservatezza nei confronti del datore di lavoro, doveri che non sono stati giudicati di valore costituzionale. Nello stesso senso si è espressa la sentenza Sez. T, n. 08605/2015, Conti, Rv. 635558, chiarendo che è utilizzabile e legittima la valutazione in sede di accertamento di qualsiasi elemento di valore indiziario anche se acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge o dalla tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono stati valutati, quindi, utilizzabili i dati acquisiti irritualmente ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria tramite l'autorità francese in applicazione della direttiva 77/799/CEE del 19 settembre 1977, senza onere di preventiva verifica da parte dell'autorità destinataria. Nel caso concreto i dati in seguito utilizzati dall'Amministrazione finanziaria italiana in sede di accertamento erano stati conseguiti dallo Stato francese dietro pagamento di un corrispettivo in denaro consegnato ad un fornitore indagato per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico e per appropriazione indebita di dati personali. 2.2. I dati e le movimentazioni bancarie, anche relativi al nucleo familiare. La rilevanza dei dati e delle movimentazioni bancarie emerge anche dalla sentenza Sez. T, n. 00428/2015, Olivieri, Rv. 634234, che in materia di imposte sui redditi ha chiarito come lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale rappresenti elemento sufficiente a giustificare, salva un'eventuale prova contraria, la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari di tali soggetti all'attività economica della società sottoposta a verifica. In assenza, dunque, d'idonea giustificazione in ordine alla movimentazione bancaria da parte degli intestatari dei conti (attività economiche autonome e differenti tali da giustificare i prelievi e versamenti effettuati), e ricorrendo un rapporto di collaborazione con la società sottoposta a verifica, gli importi reddituali riscontrati potranno senza alcun dubbio essere imputati e riferiti alla società. 500 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI In termini analoghi, con la sentenza Sez. T, n. 20981/2015, Scoditti, in corso di massimazione, si è chiarito che in tema d'IVA, ed al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall'art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (in virtù della quale le movimentazioni di denaro, nella specie bancarie, risultanti dai dati acquisiti dall'Ufficio si presumono conseguenza di operazioni imponibili), anche nel caso di conti cointestati con il coniuge, è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell'estraneità delle stesse alla sua attività, con conseguente non rilevanza fiscale, non apparendo sufficiente, allo scopo, né il mero richiamo alla contitolarità del conto o alla commistione tra consumi familiari e attività della ditta del contribuente. Infine, nella sentenza Sez. T, n. 04829/2015, Tricomi, Rv. 635057, si è evidenziato in modo univoco e in termini generali che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall'art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell'esercizio dell'attività d'impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell'affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell'estraneità delle stesse alla sua attività. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto non congruo il volume degli affari e l'importo dei ricavi così come ricalcolato dall'Ufficio, esclusivamente in ragione delle modeste dimensioni della società e nonostante fosse stata riscontrata anche la mancanza di documentazione contabile legittima. 2.3. Le presunzioni relative al luogo di residenza dei cittadini cancellati dalla anagrafe della popolazione residente. La valutazione e l'utilizzazione di presunzioni nell'attività di accertamento si evince anche dalla sentenza Sez. T, n. 00961/2015, Cirillo, Rv. 634470, che ha evidenziato come ai fini fiscali e di accertamento si considerano residenti in Italia, in tema di imposte dirette ai sensi dell'art. 2, comma 2, comma 2 bis, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, i cittadini italiani cancellati dalla anagrafe della popolazione residente ed emigrati in stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, con la conseguenza che 501 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI l'Amministrazione finanziaria è legittimata all'emissione di atto impositivo senza necessità di attivare un contraddittorio preventivo, in sé non previsto, mentre incombe sul contribuente dimostrare di avere reciso ogni rapporto significativo con il territorio dello Stato, in applicazione del principio della unità del domicilio ex art. 42 c.c. 2.4. Le presunzioni in relazione agli utili extracontabili e ad eventuali ricavi superiori a quelli contabilizzati. In materia di imposte sui redditi ed in relazione al caso di società di capitali a ristretta base sociale la Corte ha ritenuto, con la sentenza Sez. T, n. 05581/2015, Cosentino, Rv. 635494, che è ammissibile e rilevante la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili ove ricorra a carico della società medesima un valido accertamento di utili non contabilizzati, che sussisteanche quando l'accertamento derivi dalla quantificazione dei profitti contenuta in altra sentenza, pronunziata nei confronti della società e non ancora passata in giudicato, senza che tale decisione nei confronti dei soci violi in alcun modo l'art. 2727 c.c., incombendo sulla parte che ne contesti il fondamento censurare la pronuncia giudiziale per violazione dell'art. 295 c.p.c. in considerazione del rapporto di pregiudizialità tra i giudizi. Con la sentenza Sez. T, n. 04312/2015, Valitutti, Rv. 635062, la Corte ha precisato come, in materia di accertamento d'IVA, per presumere l'esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati ed assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti, con la conseguenza che non si possa ritenere legittima la presunzione di ricavi maggiori di quelli denunciati fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli, piuttosto che su un inventario generale delle merci da porre a base dell'accertamento, né appare legittimo il ricorso al sistema della media semplice, piuttosto che quello della media ponderale, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore e i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio. 2.5. La prova e l'accertamento delle plusvalenze patrimoniali a seguito di cessione d'azienda. In applicazione dei principi di carattere generale in materia di accertamento e di onere della prova posto carico del contribuente la Corte con la sentenza Sez. T, n. 19622/2015, Cirillo, Rv. 636608 ha evidenziato come, ai fini IRPEF, in materia di accertamento delle plusvalenze realizzate a seguito di cessione di azienda, il valore dell'avviamento, determinato 502 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI in via definitiva ai fini dell'imposta di registro assume carattere vincolante per l'Amministrazione finanziaria, con conseguente presunzione di corrispondenza di tale valore con il prezzo reale, salva la possibilità per il contribuente di provare la effettiva ricorrenza di un diverso valore in applicazione del minor coefficiente legale di calcolo, purché si tratti di dati ed elementi rigorosamente dimostrativi e fondati su riscontri obiettivi. Sempre in materia di presunzioni e accertamento, infine, la Corte con la sentenza Sez. T, n. 01976/20125, Botta, Rv. 634566, ha richiamato il principio secondo il quale, in tema di accertamento delle imposte sul reddito, le presunzioni di cessione e di acquisto dei beni, poste dall'art. 53 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e dal d.P.R. 10 novembre 1997 n. 441), sono annoverabili tra le presunzioni legali "miste", che consentono la prova contraria da parte del contribuente, ma solo entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova prefigurati dal citato art. 53, e da quest'ultimo previsti ad evidenti fini antielusivi. 2.6. Gli studi di settore. Con la sentenza Sez. T, n. 23554/2015, Iofrida, in corso di massimazione, la Corte ha evidenziato l'orientamento secondo il quale la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema unitario, frutto di un processo di progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, che giustifica la prevalenza, in ogni caso, e la conseguente applicazione retroattiva, dello strumento più recente rispetto a quello precedente, in quanto più affinato e dunque più affidabile. 2.7. Il rifiuto di esibire documentazione in sede di accesso ed ispezione. La Corte ha affrontato con due diverse pronunzie la questione relativa all'effettiva ricorrenza della preclusione alla utilizzabilità delle prove documentali non esibite ai verificatori nel caso in cui il contribuente abbia dichiarato di non averne la disponibilità. In particolare con la sentenza Sez. T, n. 24503/2015, Olivieri, in corso di massimazione, la Corte ha precisato che l'inutilizzabilità consegue: a) all'effettiva non veridicità della dichiarazione d'indisponibilità della documentazione (che si concretizza di fatto in un rifiuto di esibizione), accertabile con qualunque mezzo di prova ed anche con presunzioni; b) alla coscienza e volontà della dichiarazione stessa; c) alla ricorrenza del 503 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che nel corso dell'accesso possa essere effettuata l'ispezione del documento. La Corte con una motivazione articolata ed esplicativa di precedenti orientamenti ha chiarito che dunque non consegue alcuna preclusione all'utilizzabilità della documentazione prodotta in seguito dal contribuente non solo quando tale mancata produzione sia ascrivibile a caso fortuito o a forza maggiore, ma anche se imputabile a colpa, quale ad esempio la negligenza ed imperizia nella custodia e conservazione. Ciò in modo da non comprimere il diritto alla difesa e da non obbligare il contribuente a pagamenti non dovuti secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla previsione di cui agli art. 24 e 53 della Costituzione. Nello stesso senso si è pronunciata anche Sez. T, n. 15283/2015, Crucitti, Rv. 636041. 3. La notificazione dell'atto di accertamento. 3.1. Caratteri e portata, notificazione quale condizione integrativa di efficacia dell'imposizione tributaria. Analizzando gli elementi tipici della notificazione si è evidenziato che non incide sulla validità ed efficacia dell'atto accertamento nei confronti del singolo socio un eventuale vizio di notifica dell'atto alla società di persone, nell'ambito del giudizio di rettifica del reddito di partecipazione dei soci ad una società di persone. In tal senso la Corte, con sentenza Sez. T, n. 21960/2015, Virgilio, in corso di massimazione, ha confermato l'orientamento secondo il quale la notificazione non è requisito di giuridica esistenza e perfezionamento della imposizione tributaria, ma una condizione integrativa di efficacia, con la conseguenza che la sua invalidità non determina in via automatica l'inesistenza dell'atto quando ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso all'Amministrazione finanziaria. Viene ribadita anche dalla sentenza Sez. T, n. 05057/2015, Botta, Rv. 634874, la natura di mera condizione di efficacia della notificazione, che dunque non rappresenta un elemento dell'atto di imposizione, con la conseguenza che la sua eventuale nullità è sanata, a norma dell'art. 156, comma 2, c.p.c. per effetto del raggiungimento dello scopo, ovvero quando alla notifica dell'atto, seppure invalida, sia seguita comunque la effettiva conoscenza dello stesso da parte del destinatario come ad esempio emerge dall'impugnazione dell'atto notificato invalidamente da parte del destinatario dello stesso. 504 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI 3.2. La residenza anagrafica e la residenza indicata nella dichiarazione dei redditi. Quanto all'accertamento delle imposte dei redditi la Corte ha chiarito che in caso di originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi è da ritenersi valida la notificazione dell'avviso di accertamento presso la residenza indicata nella dichiarazione dei redditi, in applicazione del disposto di cui all'art. 58, comma 4, d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, che dispone che l'indicazione del comune di domicilio fiscale e dell'indirizzo da parte del contribuente vada effettuata in buona fede ed in applicazione del principio di affidamento (così, Sez. T, n. 15258/2015, Cosentino, Rv. 616118). Nello stesso senso la sentenza Sez. T, n. 18934/2015, Tricomi, Rv. 636511, richiama l'orientamento secondo il quale, in tema di accertamenti fiscali, la disciplina delle notificazioni presso il domicilio fiscale del contribuente per ultimo noto, eventualmente nelle forme semplificate di all'art. 60 lettera e) del d.P.R. n. 600 del 1973, rappresenta una garanzia per l'efficacia dell'azione dell'Amministrazione finanziaria, alla quale non può essere addossato l'onere di ricercare il contribuente, che non abbia assolto l'onere informativo a suo carico. Nel caso concreto la Corte ha ritenuto legittima ed efficace la notifica effettuata con metodo anche più garantista, come quella di cui all'art. 139 c.p.c., ovvero mediante consegna presso il luogo di residenza a mani del coniuge convivente. 3.3. La notificazione a mezzo del servizio postale. Il ruolo dell'ufficiale giudiziario. La sottoscrizione illeggibile. La notifica congiunta di più atti di accertamento. Sempre in ordine alla portata e caratteristiche dell'atto di notificazione la sentenza Sez. T, n. 14245/2015, Chindemi, Rv. 635878, ha evidenziato che in tema di accertamento tributario, qualora la notifica sia effettuata a mezzo del servizio postale, la fase essenziale del procedimento è costituita dall'attività dell'agente postale, mentre quella dell'ufficiale giudiziario (o di colui che sia autorizzato ad avvalersi di tale mezzo di notificazione) ha il solo scopo di fornire al richiedente la prova dell'avvenuta spedizione e l'indicazione dell'ufficio postale al quale è stato consegnato il plico, sicché, qualora all'atto sia allegato l'avviso di ricevimento ritualmente compilato, la mancata apposizione sull'originale o sulla copia consegnata al destinatario della relazione prevista dall'art. 3 della legge 20 novembre 1982, n. 890, non comporta l'inesistenza della notifica, ma una mera irregolarità, che 505 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI non può essere fatta valere dal destinatario, trattandosi di un adempimento che non è previsto nel suo interesse. Tale orientamento della Corte non si può tuttavia ritenere unitario nella ricorrenza di difformità con altra pronuncia della Corte ( Sez. T, n. 21762/2009, Crucitti, Rv. 609747). Quanto alla notifica caratterizzata da una sottoscrizione con firma illeggibile di colui che si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, la Corte ha evidenziato, nella sentenza Sez. T, n. 07838/2015, Di Iasi, Rv. 635231, che l'eventuale nullità non può dipendere da tale illeggibilità, ma dall'impossibilità oggettiva di individuare l'identità del firmatario, senza che rilevi la soggettiva ignoranza di alcuni circa l'identità dell'autore dell'atto. E dunque dovrà essere il contribuente a superare la presunzione relativa alla ricorrenza del pubblico potere alla notificazione e dunque all'apposizione della firma o eventualmente relativa alla non autenticità di tale sottoscrizione, con esclusione in caso di mancanza di tale prova della ricorrenza del vizio di nullità o inesistenza della notificazione. La Corte ha, inoltre, ritenuto con il decreto Sez. T, n. 03195/2015, Valitutti, Rv. 634512, che in tema di accertamento delle imposte non ricorre alcuna violazione dell'art. 137 c.p.c. nel caso in cui più avvisi di accertamento siano notificati al medesimo contribuente in un unico plico, mentre ricorre una violazione certa in materia di notificazione nel caso in cui con un unico plico vengano notificati avvisi relativi a diversi contribuenti. In tal caso, infatti, non è stata ritenuta la ricorrenza di un onere per chi riceve la notifica di attivarsi e farsi parte diligente con gli altri destinatari degli avvisi di accertamento. Sempre in materia di notificazione e di validità del relativo procedimento si è inoltre affermato che la qualità di persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda di chi ha ricevuto l'atto si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall'ufficiale giudiziario nella relata di notifica, incombendo al destinatario dell'atto, che contesti la validità della notificazione, l'onere di fornire la prova contraria, Sez. T, n. 25501/2015, Di Iasi, Rv. 633908. 3.4. Avviso di accertamento e comunicazione ex art. 65 del d.P.R. n. 600 del 1973, le consegue dell'omessa comunicazione, effetti della notificazione collettiva ed impersonale agli eredi. Con l'ordinanza Sez.6–T, n. 23416/2015, Crucitti, in corso di massimazione, la Corte affronta il nodo problematico della notificazione dell'avviso di accertamento agli 506 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI eredi in forma impersonale e collettiva presso l'ultimo domicilio del defunto. Nella decisione citata la Corte ha chiarito che, in tema di notifiche di atti tributari ai sensi dell'art. 65 del d.P.R. n. 600 del 1973, l'unico limite alla notificazione collettiva ed impersonale agli eredi presso il domicilio del defunto è rappresentato dall'assolvimento da parte degli eredi dell'onere di comunicazione sugli stessi incombente, sicché, solo ove risulti la comunicazione all'Amministrazione finanziaria, almeno trenta giorni prima la notificazione impersonale e collettiva, del proprio domicilio fiscale e delle proprie generalità, la notificazione non potrà essere ritenuta realizzata legittimamente. È posto, dunque, a carico degli eredi un onere d'informazione il cui mancato assolvimento dispensa gli uffici finanziari dalla ricerca specifica ed individuale di ciascun erede, quale che sia il tempo trascorso dall'apertura della successione, non applicandosi il diverso limite temporale di un anno dall'apertura della stessa previsto dall'art. 303, comma 2, c.p.c. 4. L'abuso del diritto. La Corte ha valutato e definito in senso costituzionalmente e comunitariamente orientato il concetto di abuso del diritto in relazione a diverse fattispecie, precisando l'ambito della disciplina di cui all'art. 37 bis d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973. In particolare con la sentenza Sez. T, n. 00405/2015, Olivieri, Rv. 634069 si è chiarito che l'opzione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare di per sé una condotta elusiva, essendo necessario l'effettivo e concreto raggiungimento di un indebito vantaggio fiscale, evidentemente ed univocamente contrario allo scopo della disciplina tributaria. Nel caso concreto la Corte, analizzando una complessa attività contrattuale ed un insieme di atti tra loro funzionalmente collegati, ha chiarito che un contratto di sale and lease back, caratterizzato da una clausola "tandem" (che comportava il subentro della banca finanziatrice alla società di leasing nel credito per i canoni residui), pur determinando una accelerata deducibilità della prima maxi rata di leasing, rappresentava tuttavia un concreto interesse più generalmente riconducibile all'iniziativa economica del contribuente oggetto di controllo, sostituendo un pregresso debito bancario con un finanziamento a migliori condizioni. L'attività contrattuale non è, quindi, stata ritenuta irragionevole rispetto alle ordinarie logiche d'impresa. È stato, inoltre, evidenziato come pur essendo necessario, al fine di poter effettivamente riscontrare una forma di abuso del 507 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI diritto, che sia presente almeno una delle condotte richiamate dal d.P.R. n. 600 del 1973, tuttavia l'effetto elusivo può anche non derivare direttamente da una di queste condotte, ma bensì dal complesso della fattispecie nella quale deve risultare compresa appunto una delle condotte di cui all'art. 37 bis citato. La Corte, dunque, con questa sentenza, chiarisce che in materia tributaria il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto di strumenti giuridici leciti in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione e che trova il proprio fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) e di progressività dell'imposizione (art. 53, comma 2, Cost.). Nella motivazione si evidenzia, inoltre, come l'elemento integrante "indebito" vantaggio fiscale, per contrarietà allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse, va ricercato nella "causa concreta" dell'operazione negoziale sottesa al meccanismo giuridico contorto e si precisa il fondamentale momento valutativo della realtà effettuale dell'operazione economica a prescindere dalla sua forma giuridica. Nel caso in esame – rappresentato da un lecito collegamento negoziale tra prefinanziamento bancario concesso dalla banca subordinatamente alla cessione pro soluto dei crediti relativi ai canoni di leasing dovuti dallo stesso soggetto finanziato, in virtù di contratto di sale and lease back, stipulato dal finanziato con la società acquirente concedente del bene immobile strumentale – si è ritenuta complessivamente giustificata la scelta imprenditoriale seguita, pur comportando un vantaggio fiscale in relazione alla anticipata deducibilità del costo di fabbricazione dell'immobile, senza che si possa ritenere la ricorrenza di una pratica abusiva non consentita. In definitiva, emerge in tutta la sua chiarezza l'orientamento di legittimità volto a considerare, come già evidenziato in sede comunitaria, il profilo della sostanza economica complessiva dell'operazione giuridica posta in essere: elemento questo che ha in seguito rappresentato la base della nuova disciplina introdotta con il d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, con cui è stato sopressala previsione di cui all'art. 37 bis del d.P.R.600/1973. In applicazione dei medesimi principi, ma in questo caso in senso sfavorevole al contribuente, la sentenza Sez. T, n. 04561/2015, Ferro, Rv. 635403, ha ritenuto che integrasse un'ipotesi di abuso del diritto l'imputazione in conto economico di 508 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI una minusvalenza finalizzata al solo conseguimento di benefici fiscali non altrimenti fruibili. Infatti il beneficio fiscale derivava dall'impropria applicazione del metodo LIFO alla cessione di pacchetto di azioni tra controllante e controllata per giungere ad una sostanziale elusione dell'obbligo di pagamento d'imposta ( IRPEG).In concreto la Corte ha considerato la corretta ricostruzione del giudice di merito che ha valutato l'insieme degli atti giuridici posti in essere quale complessivo disegno elusivo, ed in particolare, nell'ambito di una strategia di rafforzamento della presenza in istituto bancario da parte della società controllante (straniera), si è riscontrata l'imputazione da parte della società italiana a conto economico di una minusvalenza per oltre cinque milioni di euro priva di giustificazione economica, conseguita proprio al solo ed esclusivo fine di ottenere il beneficio fiscale. E ciò è avvenuto in relazione alla cessione di un pacchetto di azioni che la società controllata si era impegnata ad alienare in epoca precedente (anno 1999) alla società controllante, pacchetto di azioni che tuttavia alla fine era risultato costituito non tanto dalle azioni già possedute ed acquisite in precedenza ad un prezzo inferiore, ma bensì da due successivi acquisti di gruppi di azioni a prezzo superiore da parte della controllata, l'ultimo dei quali avvenuto solo cinque giorni prima della scadenza per la retrocessione delle azioni per come precedentemente stabilito.In sostanza con questo complesso di negozi giuridici, mediante valutazioni e classificazioni di bilancio, oltre che in relazione ad un ulteriore e di per sé non necessario acquisto di azioni a prezzo maggiore da parte della controllata, obbligata a rivendere le azioni a breve termine e a prezzo fisso alla controllante, la società controllata ha di fatto mascherato l'originario e più basso prezzo delle azioni che già possedeva in numero sufficiente alla retrocessione con nuovi acquisti a prezzo superiore che hanno determinato a livello contabile anziché la evidente plusvalenza (azioni acquistate a prezzo minore rispetto al valore concordato per la retrocessione e al valore di mercato delle azioni), una minusvalenza determinata dalla indicazione del valore complessivo del pacchetto azionario in relazione agli ultimi acquisti effettuati a prezzi notevolmente superiori rispetto al prezzo di acquisto delle precedenti azioni (appunto con il metodo LIFO), in violazione del disposto di cui all'art. 66 del d.P.R. n. 917 del 1986 relativo all'obbligo di corretta valutazione delle immobilizzazioni e dell'art. 54 relativo alla rivalutazione delle plusvalenze. 509 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI La Corte ha, inoltre, chiarito con la sentenza Sez. T, n. 17175/2015, Olivieri, Rv. 6363659, come l'eventuale accertamento della ricorrenza di condotta abusiva determini l'inopponibilità nei confronti dell'Amministrazione finanziaria del negozio abusivo solo ed esclusivamente con riferimento allo specifico tributo rispetto al quale è stato accertato il raggiungimento di un indebito vantaggio fiscale, mentre l'operazione continua ad integrare presupposto impositivo ai fini di altri tributi. Nel caso concreto, il contratto di sale e lease back ritenuto abusivo ai fini dell'imposta sui redditi è stato ritenuto idoneo a generare debiti e crediti IVA in relazione alle fatture emesse e ricevute in esecuzione del contratto. La sentenza Sez. T, n. 00439/2015, Cirillo, Rv.634098, richiama i medesimi principi anche nel caso di operazioni complesse di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, chiarendo che non si può ritenere la ricorrenza di un'operazione giuridicamente abusiva ove le attività poste in essere possano spiegarsi superando il mero conseguimento di risparmio d'imposta e garantendo nella valutazione complessiva di dati oggettivi la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti diverso carico fiscale. Nel caso concreto l'Amministrazione finanziaria riteneva che si fosse concretizzata un'operazione elusiva del regime fiscale dei disavanzi derivanti da operazioni di fusione o scissione ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, realizzando una cessione della partecipazione di maggioranza e un acquisto di ramo d'azienda, così usufruendo del risparmio d'imposta conseguente alla deduzione delle quote di ammortamento dell'avviamento del ramo di azienda acquisito ed eludendo l'imposta sostitutiva prevista per i disavanzi derivanti da operazioni di fusione o scissione. La Corte evidenzia come dal complesso delle attività poste in essere è emersa senza alcun dubbio una legittima operazione di riorganizzazione produttiva ed economica, mentre il tema controverso era di fatto rappresentato dal perseguimento di questa ragione economica con strumenti corretti. Nel richiamare la raccomandazione della Commissione europea (2012/772/UE) - che individua l'artificiosità di una costruzione, in contratti e negozi giuridici privi di "sostanza commerciale", o più esattamente privi di "sostanza economica", in obiettivo contrasto con lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali - e la disciplina nazionale volta all'attuazione della raccomandazione, la Corte evidenzia l'elaborazione precedente della giurisprudenza di legittimità, che ha chiarito come l'operazione non possa essere considerata abusiva quando emergano ragioni extra fiscali non marginali che rispondono ad esigenze di natura 510 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda del contribuente in un'ordinaria logica di mercato. 5. La riscossione delle imposte. 5.1. I profili sostanziali. La Corte ha ribadito due principi fondamentali: il primo, in tema di riscossione delle imposte dirette, dove, secondo Sez. T, n. 13499/2015, Cigna, Rv. 635737, l'iscrizione a ruolo ex art. 14 del d.P.R. n. 602 del 1973, deve fondarsi su un accertamento definitivo ed è, pertanto, legittima quando, al momento della stessa, i termini per l'impugnazione siano decorsi e non sia stato proposto alcun ricorso avverso il sottostante accertamento, atteso che è irrilevante un'eventuale impugnazione successiva, mentre, invece, è esclusa la definitività dell'accertamento quando, al momento dell'iscrizione a ruolo, sia pendente un giudizio, anche se, in ipotesi, tardivamente introdotto; il secondo in materia di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), dove Sez. T, n. 22248/2015, Chindemi, Rv. 637060, ha ritenuto che l'art. 72, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, attribuisce ai Comuni la facoltà eccezionale, non suscettibile di applicazioni estensive, di procedere direttamente alla liquidazione della tassa ed alla conseguente iscrizione a ruolo sulla base dei ruoli dell'anno precedente, purché sulla base di dati ed elementi già acquisiti e non soggetti ad alcuna modificazione o variazione, sicché, salvo il caso di omessa denuncia o incompleta dichiarazione da parte del contribuente, non occorre la preventiva notifica di un atto di accertamento. La riscossione di un credito tributario fondato su una sentenza passata in giudicato non soggiace più ai termini di decadenza previsti per l'esecuzione degli atti amministrativi, ma al termine di prescrizione decennale di cui all'art. 2953 c.c., in quanto il titolo della pretesa tributaria cessa di essere l'atto e diventa la sentenza che, pronunciando sul rapporto, ne ha valutato la legittimità: Sez. T, n. 21623/2015, Zoso, Rv. 636993. 5.2. I profili procedurali. Sez. 6-T, n. 21676/2015, Conti, Rv. 636848 ha ritenuto che, in tema d'IVA, la potestà dell'Amministrazione finanziaria d'iscrivere direttamente nei ruoli l'imposta non versata dal contribuente, così come risultante dalla dichiarazione annuale dei redditi, non trova ostacolo nella mancata emissione e/o notificazione dell'invito al versamento delle somme dovute di cui all'art. 60, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972 (invito cui l'ufficio risulta tenuto ex lege al fine di consentire al contribuente 511 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI il versamento di quanto addebitatogli entro trenta giorni dal ricevimento dell'avviso, con applicazione della soprattassa - oggi sanzione amministrativa ex d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 - pari al sessanta per cento della somma non versata), atteso che l'unica funzione del predetto avviso è quella di consentire al contribuente di attenuare le conseguenze sanzionatorie della realizzata omissione, fermo restando l'obbligo di corresponsione integrale del tributo (e degli interessi sul medesimo, medio tempore maturati). 6. La prescrizione e la decadenza. 6.1. Del potere di accertamento e riscossione dell'Amministrazione finanziaria. Nelle pronunzie relative alla prescrizione e decadenza la Corte ha valutato e considerato le posizioni dell'Amministrazione finanziaria e del contribuente in diverse situazioni concrete. In particolare con riferimento all'indebito godimento di agevolazioni di cui all'art. 1, comma 6, della l. 22 aprile 1982, n. 168, con la ordinanza Sez. 6-T, n. 15960/2015, Cosentino, Rv. 636148, la Corte ha precisato che l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro con aliquota ordinaria e connessa soprattassa è soggetto a termine triennale di decadenza, ai sensi dell'art. 76, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, a partire dalla data in cui può essere emesso e, cioè, già dal giorno della registrazione dell'atto se il beneficio non spettava ed il contribuente ne ha goduto in base ad una falsa dichiarazione o, in caso contrario, dal giorno in cui i suoi presupposti sono venuti meno o divenuti irrealizzabili. Nel caso concreto è stata cassata con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto decorrere il termine de quo dalla data della domanda di variazione catastale presentata dal contribuente, senza verificare se già dal contratto di compravendita o dai suoi allegati risultasse il superamento, ai fini dell'agevolazione, dei limiti di superficie dell'immobile. In tema di aiuti di Stato, il tempo necessario per recuperare il credito erariale in tema di recupero di aiuti di Stato è sempre individuato in quello ordinario di prescrizione ex art. 2946 c.c. In tal senso la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 15414/2017, Iofrida, Rv. 636039, ha sottolineato come solo tale termine rivesta la necessaria idoneità al fine di garantire e tutelare l'interesse pubblico sotteso alla azione di recupero, così come l'interesse del privato ad evitare l'esposizione ad iniziative senza limiti di tempo, non essendo invece applicabile il termine quinquennale di decadenza di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, sia perché in contrasto con il principio di effettività del diritto comunitario, sia perché l'azione di recupero di 512 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI aiuti di Stato è vicenda giuridica diversa dal potere di accertamento in materia fiscale. Sempre il termine decennale di prescrizione secondo la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 05966/2015, Napolitano, Rv. 635005, deve essere applicato in tema di registrazione a debito di una sentenza, in quanto il procedimento di riscossione risulta condizionato dall'acquisizione del carattere di definitività del provvedimento giudiziario ed affidato all'iniziativa del cancelliere dell'ufficio giudiziario e non della Amministrazione finanziaria, sicché appare incompatibile con il vincolo temporale di decadenza di cui all'art. 76, comma 2, del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131. Circa la portata del potere impositivo dell'Amministrazione finanziaria la Corte, con l'ordinanza Sez. 6-T, n. 03150/2015, Caracciolo, Rv. 634923, ha evidenziato come l'Amministrazione finanziaria è carente di potere impositivo soltanto ove la pretesa sia manifestamente insuscettibile di ricollegarsi a un rapporto di natura tributaria, sia perché la legge non prevede il tributo in via generale, sia perché le norme che istituiscono il tributo sono state dichiarate incostituzionali, ovvero sono state disapplicate perché contrarie al diritto comunitario, con la conseguenza che la previsione di un più breve termine di prescrizione o decadenza per l'azione di ripetizione di tributi riscossi in conseguenza della detta pretesa non contrasta con i principi del diritto interno e comunitario. Nel caso concreto la Corte ha richiamato l'abrogazione del comma 4 bis dell'art. 19 del d.P.R. n. 917 del 1986, con d.l. n. 223 del 2006, riguardante la disciplina fiscale applicabile agli incentivi erogati ai lavoratori dipendenti per la cessazione anticipata del rapporto di lavoro. Quanto all'imposta di successione la Corte con la sentenza Sez. T, n. 01974/2015, Terrusi, Rv. 635033, ha sancito che è suscettibile di essere liquidata mediante uno specifico atto, costituito dall'avviso di liquidazione, assolvendo la cartella di pagamento alla sola funzione di mezzo di riscossione, sicché alla notifica di quest'ultima non si applica il termine decadenziale di cui all'art. 17, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, senza che ne derivi alcun sospetto di illegittimità costituzionale poiché è la stessa attività di liquidazione ad essere soggetta ad un termine di decadenza biennale ai sensi dell'art. 27 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, così da escludere che il contribuente resti assoggettato all'azione amministrativa per un tempo indeterminato o eccessivo, mentre, quanto all'esercizio della successiva azione di riscossione, non viene in questione una pretesa liquidatoria, ma un diritto di credito, 513 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI soggetto, in quanto tale, all'ordinario termine decennale di prescrizione. 6.2. Del diritto del contribuente al rimborso. Per quanto concerne, invece, il diritto del contribuente al rimborso delle imposte indebitamente versate, la Corte con la sentenza, Sez. T, n. 16617/2016, Cigna, Rv. 634219, ha precisato che il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, entro cui il contribuente, ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, deve presentare la relativa istanza, ha portata generale, riferendosi a qualsiasi ipotesi di indebito correlato all'adempimento dell'obbligazione tributaria, qualunque sia la ragione per la quale il versamento risulti in tutto in parte non dovuto, e dunque a versamenti riferibili sia all' an che al quantum del tributo. Inoltre, in materia d'IVA la Corte, con l'ordinanza Sez. 6-T, n. 19682/2015, Caracciolo, Rv. 636609, ha chiarito come, una volta manifestata in dichiarazione la volontà di recuperare il credito d'imposta, il diritto al rimborso, pure in difetto dell'ulteriore apposita domanda, non può considerarsi assoggettato al termine biennale di decadenza previsto dall'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, e oggi dell'art. 21, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, ma solo al termine di prescrizione ordinario decennale di cui all'art. 2946 c.c. La Corte ha, dunque, precisato ed evidenziato che la domanda di rimborso dell'IVA o di restituzione del credito d'imposta maturato dal contribuente deve ritenersi già presentata con la compilazione, nella dichiarazione annuale, del quadro relativo al credito, analogamente a quanto avviene in materia d'imposte dirette, ed in linea con la Sesta Direttiva CEE, per la quale il diritto al ristoro dell'IVA versata "a monte" è principio basilare del sistema comunitario, per effetto del principio di neutralità, mentre la presentazione del modello di rimborso costituisce esclusivamente presupposto per l'esigibilità del credito e, quindi, adempimento necessario solo per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso. Sempre, in materia di IVA, con la sentenza Sez. T, n. 09941/2015, Vella, Rv. 635471, la Corte ha sancito in via generale che la domanda di rimborso relativa all'eccedenza d'imposta risultata alla cessazione dell'attività di impresa è regolata dall'art. 30, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, con la conseguenza che è esaustiva la manifestazione di una volontà diretta all'ottenimento del rimborso, ancorché non accompagnata dalla presentazione del modello ministeriale "VR", che costituisce, ai sensi dell'art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972, solo un presupposto 514 CAP. XXIII - L'ACCERTAMENTO E LA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI per l'esigibilità del credito, ed è soggetta al termine ordinario di prescrizione decennale, e non a quello di decadenza biennale, ex art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, applicabile solo in via sussidiaria e residuale. 515 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI CAPITOLO XXIV LE IMPOSTE SUI REDDITI (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. La dichiarazione. – 2. La dichiarazione integrativa. – 3. L'imputazione dei redditi della società ai soci. – 4. I soggetti passivi. – 5. Il . La determinazione del reddito e i costi deducibili. 7. La deducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cd. Paesi black list). – 8. La repressione del "transfer pricing". – 9. Le plusvalenze. – 10. Il rimborso. 1. La dichiarazione. In linea di principio, la dichiarazione dei redditi, in quanto momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione e non fonte dell'obbligo tributario né atto assimilabile ad una confessione, non può precludere al contribuente di dimostrare, in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva, l'inesistenza anche parziale di presupposti di imposta erroneamente dichiarati, purché - ha precisato Sez. T, n. 04578/2015,Crucitti, Rv. 634722 - siano osservati forme e termini previsti dall'art. 38 del d.P.R 29 settembre 1973, n. 602, che, autorizzando la presentazione dell'istanza di rimborso, oltreché in caso di errore materiale, in quello di "inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento", opera in maniera indifferenziata in tutte le ipotesi di ripetibilità del versamento indebito, a prescindere dalla riferibilità dell'errore al versamento, all'an o al quantum del tributo. La dichiarazione dei redditi – ha aggiunto Sez. T, n. 21968/2015, Cappabianca, Rv. 637018 - non è, del resto, un atto negoziale o dispositivo, bensì una dichiarazione di scienza, sicché, in caso di errore (di fatto o di diritto) commesso dal contribuente, è, in linea di principio, emendabile e ritrattabile quando possa derivarne l'assoggettamento ad oneri contributivi più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a carico del dichiarante. Ne discende che il contribuente che, per errore in dichiarazione, abbia assoggettato propri redditi ad imposta, anche in relazione a quelli prodotti all'estero, può chiederne il rimborso nel termine previsto dall'art. 38, comma 1, del d.P.R. n. 602 cit., non potendosi ritenere di ostacolo la previsione di cui all'art. 15, comma 3, del d.P.R. del 4 agosto 1986, n. 617 (nella versione applicabile ratione temporis), che preclude esclusivamente la possibilità di reddito da lavoro dipendente: i compensi in natura e l'indennità di ferie non godute. 6 516 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI utilizzare il credito d'imposta mediante detrazione in sede di dichiarazione. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. T, n. 22490/2015, Federico, Rv. 637077, la quale ha ritenuto che, nel regime normativo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. del 22 luglio 1998, n. 322 ( - che ha previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2002, l'onere di presentare una dichiarazione integrativa anche per l'ipotesi in cui siano stati dichiarati redditi maggiori del dovuto - al contribuente è consentito di emendare la propria dichiarazione, ove affetta da errore di fatto o di diritto, anche se non direttamente da essa rilevabile, quando dalla stessa possa derivare il suo assoggettamento ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico, con il limite temporale derivante dall'esaurimento, provocato dal trascorrere del tempo o dal sopravvenire di decadenze, del relativo rapporto tributario, ovvero, in assenza di tali evenienze, anche dopo l'emissione di un provvedimento impositivo, nell'ambito del processo tributario. Il contribuente, però- ha aggiunto Sez. T, 04049/2015, Iofrida, Rv. 634718- può contestare la debenza del tributo, frutto di errore nella dichiarazione presentata, anche in sede d'impugnazione della cartella di pagamento, nonostante la scadenza del termine di cui all'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, atteso che le dichiarazioni dei redditi sono, in linea di principio, sempre emendabili se, per effetto dell'errore commesso, derivi, in contrasto con l'art. 53 Cost., l'assoggettamento del dichiarante ad un tributo più gravoso di quello previsto dalla legge. Il principio è stato ribadito da Sez. 6-T, n. 21740/2015, Iacobellis, Rv. 636995, per la quale il termine annuale di cui all'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, per la presentazione della dichiarazione integrativa, finalizzata all'utilizzazione in compensazione del credito eventualmente risultante, così come non interferisce sul termine di decadenza previsto per l'istanza di rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, non esplica alcun effetto sul procedimento contenzioso instaurato dal contribuente per contestare la pretesa tributaria, in cui è ammessa l'emendabilità, in via generale, di qualsiasi errore, di fatto e diritto, contenuto nella dichiarazione, atteso il diverso piano su cui operano le norme in materia di accertamento e riscossione rispetto a quelle che governano il processo tributario. presentazione delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi, all'imposta 517 Regolamento recante modalità per la regionale sulle attività produttive e all'imposta sul valore aggiunto) CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI Tali conclusioni sono state ribadite, in materia di imposta di successione, da Sez. T, n. 02229/2015, Terrusi, Rv. 634224, per cui gli errori commessi dal contribuente nella dichiarazione sono in ogni caso emendabili, sia in virtù del principio generale secondo cui la dichiarazione non ha valore confessorio e non è fonte dell'obbligazione tributaria, sia in virtù dei principi costituzionali di capacità contributiva e buona amministrazione, nonché di collaborazione e buona fede che devono improntare i rapporti tra l'Amministrazione finanziaria ed il contribuente. Alla correzione non osta né l'intervenuta scadenza del termine per la presentazione della denunzia di successione, che non ha natura decadenziale, né l'art. 31, comma 3, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, che concerne le modifiche da apportare agli elementi oggettivi e soggettivi della dichiarazione, né l'eventuale notifica di un avviso di liquidazione, riflettendosi tale circostanza solo sul regime dell'onere della prova in giudizio. Se, però, l'errore riguarda l'indicazione di dati inerenti all'esercizio di un'opzione offerta dal legislatore, costituente, come tale, espressione di volontà negoziale, la rettifica è possibile – secondo Sez. T, n. 19410/2015, Iofrida, Rv. 636605 - solo se il contribuente, secondo la disciplina generale dei vizi della volontà di cui agli artt. 1427 e ss. c.c., estesa dall'art. 1324 c.c. agli atti unilaterali in quanto compatibile, fornisce la prova della sua essenzialità e obiettiva riconoscibilità da parte dell'Amministrazione finanziaria. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto emendabile, a mezzo di dichiarazione correttiva ex art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, in assenza di prova circa l'essenzialità e l'obiettiva riconoscibilità, l'errore compiuto dal contribuente in una precedente dichiarazione in cui si era conformato, ai fini di cui all'art. 10, comma 4, della legge 8 maggio 1998, n. 146, agli studi di settore). Tali principi sono stati affermati anche da Sez. T, n. 15295/2015, Virgilio, Rv. 636042, in materia di condono fiscale: la dichiarazione di volersi avvalere di una determinata definizione agevolata non ha natura di mera dichiarazione di scienza o di giudizio, come tale modificabile, ma integra un atto volontario, frutto di scelta ed autodeterminazione da parte del contribuente, i cui effetti sono previsti dalla legge, sicché, una volta presentata, è irrevocabile e non può essere modificata dall'ufficio, né contestata dal contribuente per un ripensamento successivo, ma solo per errore materiale manifesto e riconoscibile. 518 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI Nello stesso senso si sono pronunciate Sez. 6-T, n. 20208/2015, Caracciolo, Rv. 636860, per la quale, in tema di dichiarazione dei redditi, le manifestazioni di volontà ivi contenute, a cui il legislatore subordina la concessione di un beneficio fiscale, hanno il valore di atto negoziale, come tale irretrattabile anche in caso di errore, salvo che il contribuente non ne dimostri, secondo la disciplina generale dei vizi della volontà di cui agli artt. 1427 e ss. c.c., l'essenzialità ed obiettiva riconoscibilità da parte dell'Amministrazione finanziaria. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto emendabile in corso di giudizio l'omessa tempestiva indicazione, nel quadro RU della dichiarazione di competenza, di un credito d'imposta ex art. 11 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, benchè il contribuente non avesse fornito alcuna prova della essenzialità ed obbiettiva riconoscibilità dell'errore commesso), e Sez. 6-T, n. 18180/2015, Caracciolo, Rv. 636314, per la quale, sebbene le denunce dei redditi costituiscano di norma delle dichiarazioni di scienza e come tali possano essere emendate dal contribuente in presenza di errori che lo espongano al pagamento di tributi maggiori, tuttavia, qualora la legge subordini la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente da compiersi attraverso la compilazione di un modulo, detta dichiarazione assume il valore di atto negoziale, come tale irretrattabile anche in caso di errore (in quanto recante indicazioni volte a mutare la base imponibile e come tali inidonee a costituire oggetto di un mero errore formale), salvo che il contribuente dimostri che lo stesso fosse conosciuto o conoscibile da parte dell'Amministrazione. 2. La dichiarazione integrativa ex art. 2 del d.P.R. n. 322 del 1998. L'art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 del 1998 (Regolamento per la presentazione delle dichiarazioni) prevede che, salva l'applicazione delle sanzioni, le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d'imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni di cui all'art. 3, non oltre i termini stabiliti dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Il successivo comma 8 bis dispone che le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti di imposta possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un 519 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, ed aggiunge che l'eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. La Corte ha, sul punto, affermato il principio per cui « (Sez. T, n. 05947/2015, Cirillo, non massimata sul punto). La dichiarazione fiscale, infatti, non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione dell'acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti, costituendo essa un momento dell'iter volto all'accertamento dell'obbligazione tributaria. Nel medesimo senso, del resto, depongono tanto il principio di capacità contributiva, sancito dall'art. 53 Cost., quanto l'art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. statuto del contribuente), a norma del quale i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede: ed è, appunto, conforme a buona fede che l'amministrazione non percepisca somme non dovute ancorché dichiarate per errore dal presunto debitore, per cui nulla osterebbe a che la possibilità di emenda, mediante allegazione di errori nella dichiarazione e incidenti sull'obbligazione tributaria, sia esercitabile non solo nei limiti delle disposizioni sulla riscossione delle imposte (art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973) ovvero del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (art. 2 del d.P.R. n. 322 del 1998), ma anche nella fase difensiva processuale per opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato. E così ha opinato Sez. 6-T, n. 22443/2015, Conti, Rv. 637152, per la quale la dichiarazione affetta da errori di fatto o di diritto da cui possa derivare, in contrasto con l'art. 53 Cost., l'assoggettamento del contribuente a tributi più gravosi di quelli previsti per legge é emendabile anche in sede contenziosa, attesa la sua natura di mera esternazione di scienza, dovendosi ritenere che il limite temporale di cui all'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del adesione a principi di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di correttezza e legalità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione fiscale allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella sua redazione e incidenti sull'obbligazione tributaria, è esercitarle anche in sede contenziosa per opporsi alla pretesa tributaria in dell'amministrazione finanziaria» 520 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI 1998 sia circoscritto ai fini dell'utilizzabilità in compensazione, ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 dell'eventuale credito risultante dalla rettifica. Tuttavia, Sez. T, n. 05852/2012, Sambito, 621908 ha affermato che, i Rv. n tema di imposte sui redditi, la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione, allegando errori di fatto o di diritto, incidenti sull'obbligazione tributaria, ma di carattere meramente formale, è esercitabile ... anche oltre il termine previsto per l'integrazione della dichiarazione, (fissato in quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo dall'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, come introdotto dall'art. 2 del d.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435), poiché questa scadenza opera, atteso il tenore letterale della disposizione, solo per il caso in cui si voglia mutare la base imponibile, ma non anche quando venga in rilievo un errore meramente formale. E Sez. T, n. 20415/2014, Valitutti, Rv. 632177, ha ribadito che, in tema di imposte sui redditi, la rettifica, con cui il contribuente modifichi la base imponibile, è ammissibile solo entro il termine per la presentazione della dichiarazione del periodo d'imposta successivo, previsto dall'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 del 1998, mentre sono sempre emendabili, anche in sede contenziosa, gli errori meramente formali, che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d'imposta. In applicazione di tale principio, la Corte ha rigettato il ricorso del contribuente che, solo in sede contenziosa, aveva presentato dichiarazione in rettifica, evidenziando una differenza di reddito imponibile da imputarsi ad un errato calcolo della plusvalenza nonché l'erronea indicazione dei ricavi conseguiti e delle relative rimanenze iniziali. Il Primo Presidente, quindi, a seguito dell'ordinanza interlocutoria Sez. T, n. 18383/2015, Cirillo, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se la rettifica del contribuente, intesa a correggere errori od omissioni che abbiano determinato l'indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito o minor credito d'imposta, può essere esercitata, ai sensi dell'art. 2, comma 8 bis, del d.P.R. n. 322 cit., solo entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d'imposta successivo o se, al contrario, tale termine sia previsto solo per avvalersi della compensazione, ivi disciplinata, per cui la rettifica è possibile anche oltre il predetto termine, con dichiarazione da presentare entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, a norma dell'art. 2, comma 8, 521 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI del d.P.R. n. 322 cit., ed, in ogni caso, mediante l'allegazione di errori nella dichiarazione e incidenti sull'obbligazione tributaria, anche nella fase difensiva processuale per opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato. La dichiarazione integrativa prevista dall'art. 2, comma 8, del d.P.R. n. 322 cit., non può essere, però, presentata né dopo la contestazione della violazione commessa nella precedente dichiarazione, né dopo le verifiche, gli accessi, le ispezioni o le altre attività di accertamento di cui il contribuente abbia avuto formale conoscenza, atteso che altrimenti cesserebbe di essere un rimedio per ovviare agli errori commessi ed si trasformerebbe in uno strumento elusivo delle sanzioni (così Sez. T, n. 14999/2015, Crucitti, Rv. 636123, che ha escluso l'ammissibilità della dichiarazione integrativa successivamente alla conclusione delle operazioni di verifica ed appena due giorni prima dalla notifica del processo verbale di constatazione). 3. L'imputazione dei redditi della società ai soci. Sez. T, n. 11989/2015, Greco, Rv. 635811, ha ritenuto che l'imputazione proporzionale dei redditi della società ai singoli soci, prevista dall'art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, è indipendente dall'effettiva percezione degli utili e dalla stessa partecipazione del socio alla gestione sociale ed opera anche nel caso in cui le quote di partecipazione siano solo formalmente intestate ai soci; né, in senso contrario, assume rilievo la previsione di cui all'art. 37, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, che, in ipotesi di interposizione fittizia, prevede solo che le persone interposte, ove dimostrino di aver pagato imposte per redditi successivamente imputati ad altro contribuente, possano chiederne ed ottenerne il rimborso, a cui l'Amministrazione procede, nei limiti dell'imposta effettivamente percepita, dopo che l'accertamento sia diventato definitivo nei confronti dell'interponente. In materia, poi, Sez. 6-T, n. 05581/2015, Cosentino, Rv. 635494, ha confermato l'indirizzo secondo cui, nell'ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili ove sussista, a carico della società medesima, un valido accertamento di utili non contabilizzati, che ricorre anche quando esso derivi dalla quantificazione dei profitti contenuta in altra sentenza, pronunziata nei confronti della società, non ancora passata in giudicato, sicché, in tale evenienza la decisione nei confronti dei soci non viola l'art. 2727 c.c., 522 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI incombendo sulla parte, che ne contesti il fondamento, censurare la pronuncia per violazione dell'art. 295 c.p.c. atteso il rapporto di pregiudizialità tra i giudizi. Se, però, l'accertamento nei confronti della società è annullato con sentenza passata in giudicato, quest'ultima produce effetti, sia pur solo di riflesso, anche nel giudizio proposto dal socio: ed infatti, l'accertamento negativo di utili extracontabili dellla società - ha osservato Sez. 6-T, n. 23899/2015, Cosentino, in corso di massimazione - rimuove il presupposto da cui dipende l'accertamento del maggior utile da partecipazione del socio. In particolare, nella controversia relativa all'accertamento del reddito da partecipazione societaria, Sez. 6-T, n. 22942/2015, Crucitti, Rv. 637172 ha ritenuto che, qualora la difesa del socio non si fondi su eccezioni personali diverse da quelle dedotte dalla società, il giudicato formatosi nel giudizio relativo ai redditi di questa copre necessariamente non solo il vizio di nullità per mancata integrazione del contraddittorio verificatosi in quel giudizio, ma anche l'identico vizio, specularmente riscontrabile, nel giudizio relativo al socio, e manifesta la sua efficacia in quest'ultimo nei limiti del dictum sull'unico accertamento. Tuttavia, se il giudicato favorevole alla società è fondato su un vizio di notifica o su altra causa non rapportabile ai soci, Sez. T, n. 21960/2015, Virgilio, Rv. 637199, ha ritenuto che, in tal caso, i suoi effetti non si estendono ai soci i quali, quindi, non hanno interesse a far valere il vizio di notifica dell'atto impositivo, emesso, a titolo ILOR, a carico della società, nel giudizio avente ad oggetto l'avviso di accertamento e la cartella di pagamento emessi nei suoi confronti, a titolo IRPEF, per il maggior reddito da partecipazione. La definitività dell'avviso di accertamento, emesso ai fini IRPEF nei confronti del socio di società di persone in considerazione dei maggiori ricavi accertati in capo alla società di persone, ne comporta l'intangibilità, escludendo, pertanto, secondo Sez. 6-T, n. 21762/2015, Caracciolo, Rv.637062, che il socio possa invocare, in sede d'impugnazione della conseguente cartella di pagamento, le vicende dell'atto impositivo riferito alla società di persone (nella specie, definizione agevolata della pretesa tributaria scaturita dall'istanza di accertamento per adesione autonomamente proposta dalla società medesima, onde ottenere la sostanziale rideterminazione della pretesa tributaria a proprio carico). Sez. 6-T, n. 14849/2015, Caracciolo, Rv. 636067, infine, con riguardo alla ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti ai soci, ai sensi dell'art. 27 del d.P.R. n. 600 del 1973, ha rilevato che la ritenuta 523 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI fiscale diventa indebita e deve essere restituita solo ove gli utili non siano effettivamente distribuiti e non anche, invece, ove siano distribuiti secondo criteri diversi da quelli previsti nella delibera societaria, atteso che in tale caso non viene meno il presupposto fattuale del prelievo fiscale, se la percezione effettiva dei dividendi non è differente o minore rispetto a quella risultante dalla delibera. Infine, Sez. T, n. 25468/2015, Iofrida, in corso di massimazione, ha confermato l'orientamento per cui «il reddito - correlato agli gli utili extracontabili di una società per azioni a ristretta base familiare - va imputato al socio nell'anno in cui è conseguito e non nel periodo di imposta successivo alla chiusura dell'esercizio sociale, atteso che il principio secondo cui il reddito deve essere imputato al socio nel periodo successivo alla chiusura dell'esercizio sociale vale per gli utili esposti in bilancio, non per quelli occulti che si presumono, al contrario distribuiti nello stesso periodo in cui sono stati conseguiti». Invero, attesa la mancanza - trattandosi di utili occulti - di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio (solo dopo la quale può essere effettuata la distribuzione degli utili dichiarati), la distribuzione deve presumersi avvenuta nello stesso periodo d'imposta in cui gli utili sono stati conseguiti. 4. I soggetti passivi. Sez. T, n. 00678/2015, Crucitti, Rv. 634019, ha ritenuto che, ai fini delle imposte sui redditi, ai sensi del combinato disposto dell'art. 2 del d.P.R. n. 917 del 1986 e dell'art. 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi (nella specie, la collocazione della famiglia e dell'abitazione principale in Italia) ed a prescindere dall'iscrizione del soggetto nell'AIRE. Quanto, invece, all'esenzione dal pagamento dell'IRPEG, sancita dall'art. 88 (oggi 74), comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, Sez. 6-T, n. 08322/2015, Conti, Rv. 635169, ha chiarito che essa riguarda solo gli organi e le amministrazioni dello Stato, gli enti territoriali, i consorzi ed associazioni tra enti locali, nonché gli enti gestori di demani collettivi, non anche gli enti pubblici istituiti esclusivamente al fine dell'esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie che, invece, sono assoggettati al pagamento in forza del combinato disposto di cui agli artt. 87 (oggi 73), comma 1, lett. c), 88 (oggi 74), comma 2, e 108 (oggi 143) del d.P.R. cit. che assegna rilievo all'attività, non commerciale, per cui detti enti sono stati istituiti.Ne consegue che il reddito complessivo di questi ultimi 524 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI va determinato sommando i vari redditi, compresi quelli fondiari, che mantengono la loro autonomia impositiva e non confluiscono nell'unica categoria del reddito d'impresa, senza che sia applicabile la deroga di cui all'art. 40 (oggi 43) del d.P.R. n. 917 cit. Interessante, infine, è Sez. T, n. 10885/2015, Crucitti, Rv. 635698, per la quale le operazioni di cartolizzazione dei crediti, a norma della legge 30 aprile 1999, n. 130, sono realizzate attraverso società appositamente costituite, le cd. società veicolo (o special pourpose veichle), che provvedono all'emissione di titoli destinati alla circolazione per finanziare l'acquisto dei crediti del cedente e, successivamente, al recupero dei crediti acquistati ed al rimborso degli stessi. I crediti oggetto di tali operazioni costituiscono patrimonio separato rispetto a quello della società, a destinazione vincolata, di cui le società di cartolarizzazione non hanno la disponibilità, come anche gli interessi maturati sui depositi ed i conti correnti bancari sui quali le predette somme siano confluite, con la conseguenza che, ai fini fiscali, solo al momento della conclusione dell'operazione di cartolarizzazione, e, quindi, della destinazione finale del patrimonio stesso, potranno operare i presupposti in capo ai soggetti, a tale destinazione legittimati, per chiederne il rimborso, la compensazione, lo scomputo o altro. 5. Il reddito da lavoro dipendente: i compensi in natura e l'indennità di ferie non godute. I compensi in natura (cd. fringe benefits) e, segnatamente, la concessione a titolo gratuito di locali ad uso foresteria, concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente, come stabilito dall'art. 48 (oggi 51) del d.P.R. n. 917 del 1986, ispirato ad una tendenziale onnicomprensiva riconducibilità alla sfera reddituale delle erogazioni a qualsiasi titolo percepite dal dipendente, con la conseguenza – ha osservato Sez. T, n. 24007/2015, Vella, in corso di massimazione - che spetta al contribuente e non già all'Amministrazione finanziaria l'onere di provare che, in concreto, le specifiche modalità di utilizzo a titolo gratuto di un immobili, in connessione al rapporto di lavoro, comportino un'eccezione alla predetta previsione normativa generale. Sez. massimazione, ha, poi, confermato l'orientamento secondo cui l'indennità per ferie non godute ha, agli effetti fiscali, natura retributiva - ciò che non ne compromette l'assimilabilità a prestazione di diversa natura, ove essa venga in considerazione a 6-T, n. 25399/2015, Cosentino, in corso di 525 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI fini diversi – e che, pertanto, deve essere assoggettata all'IRPEF ed alla relativa ritenuta di acconto. 6. La determinazione del reddito e i costi deducibili. In tema di redditi d'impresa, Sez. T, n. 04041/2015, Ferro, Rv. 634740, ha affermato che l'inerenza all'attività d'impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione ex art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986, va definita come una relazione tra due concetti - la spesa (o il costo) e l'impresa - sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un'attività potenzialmente idonea a produrre utili. Sez. T, n. 16596/2015, Federico, Rv. 636438, ha, poi, chiarito che, ai fini dei cui all'art. 108 (ex 74, comma 2) del d.P.R. n. 917 cit., il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, atteso che costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l'immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad un'aspettativa d'incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite, sicché è necessaria una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità delle spese. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. T, n. 21977/2015, Marulli, Rv. 637087, per la quale, in tema d'imposte sui redditi, ai sensi dell'art. 108 (ex 74, comma 2) del d.P.R. n. 917 del 1986, costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l'immagine dell'impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese di pubblicità o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell'attività svolta, con la conseguenza che le spese di sponsorizzazione costituiscono spese di rappresentanza, deducibili nei limiti della norma menzionata contribuente non provi che all'attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale. E così, Sez. T, n. 09715/2015, Federico, Rv. 635487, ha ritenuto che le spese di vitto ed alloggio sostenute dal contribuente, in occasione di convegni organizzati con i propri clienti e ove il 526 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI rappresentanti, costituiscono spese di rappresentanza, e non di pubblicità, essendo costi sostenuti per accrescere il prestigio e l'immagine dell'impresa, e per potenziarne la possibilità di sviluppo, senza dare luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite. Lo stesso è a dirsi, secondo Sez. T, n. 10910/2015, Marulli, Rv. 635641, per le spese relative a beni di produzione e materiale pubblicitario ceduti alla clientela, che, ove la cessione abbia luogo in maniera gratuita, devono essere qualificate, ai fini della loro deducibilità, come spese di rappresentanza, pur se, per le caratteristiche esteriori dei beni, sia identificabile nella distribuzione anche una finalità pubblicitaria. Le spese relative ad un contratto di sponsorizzazione stipulato anche a favore di un terzo, sono, quindi, deducibili ma - come chiarito da Sez. T, n. 10914/2015, Marulli, Rv. 635697 - solo previa dimostrazione, a carico del contribuente, del requisito dell'inerenza, consistente non solo nella giustificazione della congruità dei costi, rispetto ai ricavi o all'oggetto sociale, ma soprattutto nell'allegazione delle potenziali utilità per la propria attività commerciale o dei futuri vantaggi conseguibili attraverso la pubblicità svolta dall'impresa in favore del terzo. Non è, invece, deducibile - secondo Sez. T, n. 21953/2015, Olivieri, Rv. 636925 - la spesa sostenuta dalla s.r.l. contribuente per i compensi agli amministratori ove invalidamente deliberata, secondo la disciplina applicabile, in sede di approvazione del bilancio, difettando in tal caso i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell'ammontare del costo di cui all'art. 109 (già 75) del d.P.R. n. 917 del 1986. 7. La deducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (cd. Paesi black list). L'abolizione del regime di assoluta indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata, ove non separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi, a seguito della modifica all'art. 110, commi 10 e 11, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (apportata dall'art. 1, comma 301, della legge 27 dicembre 2006, n. 296), ha integrale portata retroattiva, come può evincersi - ha ritenuto Sez. T, n. 04030/2015, Crucitti, Rv. 634885 - sia dalla ratio della nuova disciplina, che intende contemperare l'interesse del contribuente a poter dedurre i costi effettivamente sostenuti con quello dell'Amministrazione finanziaria ad un efficace controllo, sia dal 527 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI dato testuale dell'art. 1, comma 303, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che cumula l'applicazione della sanzione prevista dall'art. 8, comma 3 bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (introdotta dall'art. 1, comma 302, della legge n. 296 cit.) con quella prevista dall'art. 8, comma 1, del medesimo decreto, quest'ultima giustificata solo in ragione dell'estensione della portata retroattiva dell'abolizione del previgente regime d'indeducibilità. E la stessa Sez. T, n. 04030/2015, Crucitti, Rv. 634884, ha chiarito che l'art. 1, comma 301, della legge n. 296 cit., modificando (con decorrenza 1 gennaio 2007) l'art. 110, commi 10 e 11, del d.P.R n. 917 cit. (già art. 76, commi 7 bis e 7 ter, del medesimo decreto) - che sanciva l'indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata, ove non fosse provato che i contraenti esteri svolgessero effettiva attività commerciale, che le operazioni poste in essere rispondessero ad un effettivo interesse economico, che le stesse avessero avuto concreta esecuzione e, in ogni caso, che i costi non fossero stati separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi - ha degradato la separata indicazione dei costi da presupposto sostanziale di relativa deducibilità ad obbligo di carattere formale, passibile di corrispondente sanzione amministrativa. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. T, n. 06205/2015, Federico, Rv. 635256, per la quale l'abolizione del previgente regime di indeducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata, prevista dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della legge n. 296 cit., ha carattere retroattivo, sicché la deducibilità risulta subordinata solo alla prova dell'operatività dell'impresa estera contraente e della effettività della transazione commerciale, mentre la separata indicazione di detti costi è degradata ad obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa. Sez. 6-T, n. 15798/2015, Conti, Rv. 636114, ha, poi, affermato che, in caso di omessa o lacunosa esposizione di componenti negative del reddito inerenti operazioni commerciali intercorse con imprese aventi sede in Stati aventi regimi fiscali privilegiati, la contestazione della violazione costituisce causa ostativa alla presentazione della dichiarazione integrativa, di cui all'art. 2, comma 8, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, in quanto se fosse possibile porre rimedio alle irregolarità anche dopo la contestazione delle stesse la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni previste dal 528 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI legislatore. In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto idonea a sanare l'illecito la dichiarazione integrativa del contribuente successiva alla verifica parziale dell'Amministrazione finanziaria, ma anteriore alla notifica del processo verbale di constatazione. Sul piano procedurale, Sez. T, n. 20033/2015, Di Iasi, Rv. 636837, ha ritenuto che l'Amministrazione finanziaria, prima di procedere all'emissione di un atto impositivo nei confronti del contribuente che compie operazioni commerciali con imprese aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata, è tenuta, ai sensi dell'art. 110, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, a notificargli un apposito avviso concedendogli la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, la prova che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione, pena l'annullamento, in sede contenziosa, dell'atto emesso ante tempus per violazione del contraddittorio procedimentale. 8. La repressione del "transfer pricing". Sez. T, n. 18392/2015, Bielli, Rv. 636455 ha ritenuto che la normativa di cui all'art. 76, comma 5, del d.P.R. n. 917 cit. (ora 110, comma 7), non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del "transfer pricing" (spostamento d'imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato: la prova gravante sull'Amministrazione finanziaria non riguarda, quindi, la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l'esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, incombendo, invece, sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c. ed in materia di deduzioni fiscali, l'onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dall'art. 9, comma 3, del menzionato decreto. A diverse conclusioni è, invece, pervenuta Sez. T, n. 15642/2015, Scoditti, Rv. 636110, secondo cui la disciplina prevista dall'art. 76 (ora 110), comma 5, del d.P.R. n. 917 cit., finalizzata alla repressione del cd. "transfer pricing", costituendo una clausola antielusiva diretta ad evitare che all'interno del gruppo vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, onde sottrarli alla 529 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori, impone all'Amministrazione l'onere di provare i presupposti dell'elusione fiscale e, dunque, la superiorità della fiscalità in Italia all'epoca dell'operazione rispetto a quella in vigore nel territorio dello Stato dell'impresa non residente. Sez. T, n. 25281/2015, Iannello, in corso di massimazione, con riguardo alla tassazione cd. per trasparenza disposta dall'art. 127-bis (ora 167) T.U.I.R., ha rilevato che «come stabilito dalla Corte di Giustizia C.E. nella sentenza Cadbury Schweppes del 12 settembre 2006, causa C-196/04, «gli artt. 43 CE e 48 CE devono essere interpretati nel senso che ostano all'inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l'imposta nazionale normalmente dovuta. L'applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive». Argomentando a contrario da tale principio, due sono dunque le condizioni in presenza (dell'una o dell'altra) delle quali una normativa interna che preveda l'imposizione nello Stato residente di utili realizzati da una C.F.C. non potrebbe ritenersi in contrasto con il principio comunitario: da un lato l'accertamento che si tratti di «costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l'imposta nazionale normalmente dovuta»; dall'altro, alternativamente, il fatto che la controllata non risulti «realmente impiantata nello Stato di stabilimento», né ivi esercitare «attività economiche effettive». Ebbene la norma interna risulta formulata in termini pressoché speculari, escludendo l'applicazione della norma di trasparenza di cui al primo comma ove ricorra l'una o l'altra delle seguenti condizioni, con ogni evidenza sovrapponibili a quelle sopra enucleate, sia pure in ordine invertito: «a) la società o altro ente non residente svolga un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento...; b) dalle partecipazioni non consegue l'effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al comma 4». 9. Le plusvalenze. Ogni pagamento, conseguito dopo la sua entrata in vigore, che realizzi una plusvalenza in dipendenza di procedimenti espropriativi è assoggettato, ai sensi dell'art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, a tassazione, ancorché – ha 530 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI osservato Sez. T, n. 16619/2015 Cigna, Rv. 636504 - il decreto di esproprio sia intervenuto in epoca anteriore al 1° gennaio 1989, in quanto la disciplina transitoria di cui al comma 9 del cit. art. 11 - che consente, con una parziale retroattività, la tassazione di plusvalenze percepite prima dell'entrata in vigore della legge, condizionandola, però, al fatto che nel triennio successivo al 31 dicembre 1988 siano intervenuti sia il titolo, fonte della plusvalenza, sia la percezione della somma - non si riferisce anche alle riscossioni di plusvalenze successive all'entrata in vigore della legge, le quali sono assoggettabili ad imposizione ai sensi dei commi 1, lett. f), e 5 della medesima disposizione, indipendentemente dalla data degli atti ablativi che ne hanno determinato la percezione. 10. Il rimborso. Il termine di decadenza, previsto dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 ha portata generale, riferendosi a qualsiasi ipotesi di indebito correlato all'adempimento dell'obbligazione tributaria, qualunque sia - ha precisato Sez. T, n. 16617/2015, Cigna, Rv. 636607 - la ragione per cui il versamento è in tutto o in parte non dovuto, e quindi ad errori tanto connessi ai versamenti quanto riferibili all'an o al quantum del tributo. Anche Sez. 6-T, n. 00111/2015, Bognanni, Rv. 634219 ha ritenuto che il termine di decadenza previsto dall'art. 38 del d.P.R. n. 602 cit., ha portata generale, riferendosi a qualsiasi ipotesi di indebito correlato all'adempimento dell'obbligazione tributaria, qualunque sia la ragione per cui il versamento è in tutto o in parte non dovuto, e quindi ad errori tanto connessi ai versamenti, quanto riferibili all'an o al quantum del tributo, ovvero a ritenute alla fonte, mentre il termine ordinario di cui all'art. 37 del d.P.R. citato è applicabile alle sole ipotesi di ritenuta diretta, operata dalle Amministrazioni dello Stato nei confronti dei propri dipendenti. La legittimazione a richiedere all'Amministrazione finanziaria il rimborso della somma non dovuta e ad impugnare l'eventuale rifiuto dinanzi al giudice tributario ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 cit., spetta – secondo Sez. 6-T, n. 16105/2015, Cosentino, Rv. 636115 - sia al soggetto che ha effettuato il versamento (cd. "sostituto d'imposta"), sia al percipiente delle somme assoggettate a ritenuta (cd. "sostituito"). E' ancora pendente, infine, la questione, rimessa alle Sezioni Unite a seguito dell'ordinanza interlocutoria Sez. T, n. 23529/2014, Di Iasi, per cui resta da chiarire se, qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini dell'imposta sui redditi, esponendo un credito, l'Amministrazione finanziaria sia tenuta, o 531 CAP. XXIV - LE IMPOSTE SUI REDDITI no, a provvedere sulla richiesta di rimborso nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all'accertamento in rettifica, con la conseguenza che, decorso il termine predetto senza che sia stato adottato alcun provvedimento, il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza – oppure no – nell'an e nel quantum. 532 CAPITOLO XXV L'IRAP (di Giuseppe Dongiacomo) CAP. XXV – L'IRAP SOMMARIO: 1. L'Irap: le questioni rimesse alle Sezioni Unite. – 2. I requisiti dell'autonoma organizzazione. – 3. La determinazione della base imponibile. 1. L'Irap: le questioni rimesse alle Sezioni Unite. Nel corso del 2015, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su tre questioni di massima di particolare importanza: a) se, in applicazione del combinato disposto degli artt. 2 e 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, debba essere sottoposto ad IRAP il "valore aggiunto prodotto nel territorio regionale" da attività di tipo professionale espletate nella veste giuridica societaria, ed in particolare di società semplice, anche quando il giudice ritenga insussistente una "autonoma organizzazione" dei fattori produttivi ovvero se, al contrario, occorre accertare, anche in via presuntiva, la sussistenza dell'autonoma organizzazione (Sez. 6-T, n. 03870/2015, Caracciolo); b) se, ai fini dell'integrazione del presupposto dell'"autonoma organizzazione" previsto dall'art. 2, primo periodo, del decreto legislativo n. 446 cit., in funzione dell'assoggettamento all'IRAP, rileva lo svolgimento in forma associata di lavoro autonomo in esecuzione di incarico libero-professionale e se, ai predetti fini, incidono le caratteristiche dell'attività svolta da medico che opera in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) secondo la formula della "medicina di gruppo" (Sez. 6-T, n. 06330/2015, Perrino); c) se la presenza anche di un solo dipendente, pur "part time" ovvero addetto a mansioni generiche, determinerebbe di per sé l'assoggettamento all'IRAP, o se, invece, è necessario accertare in punto di fatto l'attitudine del lavoro svolto dal dipendente a potenziare l'attività produttiva al fine di verificare la ricorrenza del presupposto (Sez. T, n. 05040/2015, La Torre). 2. I requisiti dell'autonoma organizzazione. Quanto ai soggetti passivi, la Corte ha proseguito l'opera di selezione delle attività dotate di autonoma organizzazione, specie nel campo del lavoro autonomo. In base all'art. 2 del d.lgs. n. 446 cit., infatti, ai fini della soggezione ad IRAP dei proventi di un lavoratore autonomo (o un 533 CAP. XXV – L'IRAP professionista) non è sufficiente che il lavoratore si avvalga di una struttura organizzata, ma è anche necessario che questa struttura sia "autonoma", cioè faccia capo al lavoratore stesso, ma – come ha precisato Sez. 6-T, n. 14878/2015, Conti, Rv. 636056 - non solo ai fini operativi, bensì anche sotto i profili organizzativi, sicché, ha ritenuto che, non sono soggetti ad IRAP i compensi che un medico percepisca per le attività da lui svolte extra moenia presso strutture sanitarie. Non basta, quindi, in assenza di elementi di organizzazione anche minima, la produzione di un reddito cospicuo, come nel caso di chi svolga l'attività di cantante, la quale costituisce un elemento presuntivo idoneo a sorreggere l'apprezzamento, congruamente motivato, del giudice tributario, secondo cui il contribuente conta esclusivamente sulle proprie capacità professionali: Sez. T, n. 13471/2015, La Torre, Rv. 635742. Il ricorso al lavoro subordinato altrui corrisponde, al contrario, ad un fatto-indice espressione di capacità produttiva aggiuntiva rispetto a quella propria del professionista e determinata dalla sua preparazione professionale, in quanto implica una gestione amministrativa del rapporto e l'inclusione del dipendente nell'organizzazione, sicché integra, ai fini dell'assoggettamento all'imposta, un criterio, sia pur empirico, di maggior rilievo rispetto all'impiego di un lavoratore che non sia inserito nella struttura produttiva del contribuente: Sez. 6-T, n. 02099/2015, Perrino, Rv. 634345. La sussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione determina - ha rilevato Sez. 6-T, n. 01542/2015, Cosentino, Rv. 634367 - l'assoggettamento del lavoratore autonomo (nella specie, medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale) all'imposta, indipendentemente dai riflessi immediati che la stessa cagiona sull'entità del suo reddito, dovendo il giudice del merito accertare, in concreto, i presupposti della fattispecie impositiva, in considerazione della eventuale eccedenza, rispetto al minimo indispensabile per l'esercizio della professione, della dotazione dei mezzi strumentali a disposizione del professionista e delle specifiche modalità qualitative e quantitative delle prestazioni lavorative di cui egli si avvale. Presupposto dell'imposta è, peraltro, ha precisato Sez. T, n. 22468/2015, La Torre, Rv. 637063, la sussistenza di un'autonoma struttura organizzativa "esterna", che ricorre allorché il professionista impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività 534 CAP. XXV – L'IRAP in assenza di organizzazione oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui, non essendo sufficiente l'assenza di limitazioni e controlli da parte di altri soggetti. 3. La determinazione della base imponibile. Quanto, infine, alla base imponibile, Sez. 6-T, n. 04539/2015, Cicala, Rv. 634981, ha ritenuto che l'art. 5, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ha fornito un'interpretazione autentica del disposto dell'art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 446 cit., (nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 506), nel senso che sono esclusi dalla base imponibile i contributi pubblici erogati per l'anno di imposta solo in presenza di una esplicita previsione, nella legge istitutiva, della correlazione tra il contributo ed un componente negativo non deducibile. Ne consegue che i contributi erogati - prima dal Fondo nazionale trasporti, poi dalle regioni - alle imprese esercenti il trasporto pubblico locale al fine di ripianare i disavanzi di esercizio debbono essere inclusi nel calcolo per la determinazione della base imponibile dell'IRAP, anche se erogati in epoca anteriore al 31 dicembre 2002. Nello stesso senso ha opinato Sez. T, n. 04057/2015, Iofrida, Rv. 634739, per cui i contributi erogati, prima dallo Stato e poi dalle Regioni, agli enti o aziende di trasporto pubblico locale per ripianare i disavanzi di esercizio, sebbene non assoggettati alle imposte sui redditi, concorrono al calcolo della base imponibile, anche se corrisposti in epoca anteriore al 31 dicembre 2002, a meno che l'esclusione dalla base imponibile IRAP sia contemplata dalle relative leggi istitutive, con la previsione espressa della specifica correlazione a determinati componenti negativi non ammessi in deduzione, non essendo sufficiente a tal fine l'affermazione dell'imprenditore di avere utilizzato il contributo per coprire spese non deducibili. 535 CAP. XXVI - L'IVA CAPITOLO XXVI L'IVA (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. Il principio di cartolarità e il meccanismo fraudolento delle fatture per operazioni inesistenti. – 2. Le violazioni degli obblighi di registrazione e di fatturazione – 3. Il diritto alla detrazione. Limiti e condizioni. – 4. Le questioni sottoposte alle Sezioni Unite. Il ribaltamento dei costi nelle società consortili e l'applicabilità della proroga biennale dei termini di accertamento in ipotesi di violazione delle agevolazioni per la prima casa. 5 Le esenzioni. – 6. L'estinzione del debito tributario nelle ipotesi di soggetti ammessi alla esdebitazione. 7. Il credito al rimborso. – 8. L'IVA nelle operazioni intracomunitarie ed extracomunitarie: il regime del margine di utile; gli acquisti in sospensione di imposta. 9. I depositi fiscali e la disciplina doganale. 1. Il principio di cartolarità e il meccanismo fraudolento delle fatture per operazioni inesistenti. I corrispettivi relativi alle prestazioni tipiche verso la clientela, oggetto dell'attività di impresa, misurano i ricavi e costituiscono la grandezza più significativa per esprimere le dimensioni del reddito di impresa, che assumono rilevanza a fini IVA in termini di "fatturato" o di "operazioni attive". Le fatture costituiscono i principali supporti documentali dell'esistenza delle operazioni commerciali di impresa ed esprimono, al contempo, il ricavo per il fornitore/cedente, oggetto di dichiarazione a fini IVA, ed il costo per il cliente, suscettibile di detrazione ai fini della medesima imposta. La giurisprudenza della Corte si è occupata, in particolare, delle modalità di accertamento delle forme di evasione dell'imposta che si siano sostanziate nell'utilizzo di fatture emesse per operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti e dei criteri di imputazione dell'onere della prova, fondati sul principio della cartolarità posto a base del sistema impositivo. In particolare, con la decisione Sez. 6-T, n. 12111/2015, Caracciolo, Rv. 635724, in attuazione del suddetto principio di cartolarità dell'obbligazione tributaria, si è affermato che, in relazione ad operazioni oggettivamente inesistenti (nella specie, generate da una truffa ai danni del cessionario), deve essere escluso il diritto alla detrazione, ai sensi dell'art. 19, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. A tal proposito non assume rilievo la regolarità formale dell'operazione dal punto di vista contabile e fiscale, né il fatto che il cessionario abbia versato al cedente l'ammontare del tributo, atteso che l'imposta è dovuta ogniqualvolta 536 CAP. XXVI - L'IVA la fattura sia emessa, seppure per un'operazione non avvenuta o non avvenuta nei termini in essa descritti. Sullo stesso principio di cartolarità del sistema impositivo si fonda l'arresto di Sez. T, n. 10939/2015, Olivieri, Rv. 635942, che ha negato la legittimazione del destinatario della fattura emessa per un'operazione inesistente alla detrazione dell'imposta, a meno che non sia ripristinata, con la procedura di variazione, la corrispondenza tra rappresentazione cartolare e reale operazione economica, restando salva, in ogni caso, la sua buona fede ove dimostri di avere adempiuto a tutti gli obblighi formali e di diligenza richiesti ad un operatore del settore e di essere stato nell'oggettiva impossibilità di conoscere l'eventuale frode. L'obbligo di versamento dell'IVA da parte del soggetto passivo di imposta, sempre per il principio di cartolarità dell'obbligazione, prevale sui regimi speciali o agevolativi e ciò perché, come nei casi sopraindicati, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente sanzionata come delitto. In tal senso, con la decisione Sez. T, n. 03197/2015, Valitutti, Rv. 634513, l'art. 21, comma 7, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - in base al quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura – è stato interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene ad essere considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione, conseguentemente, "isolata" da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate e, per ciò stesso, estraniata dal meccanismo di compensazione tra IVA "a valle" ed IVA "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'art. 19 d.P.R. citato. Come detto, tale regola prevale su qualsiasi regime speciale o agevolativo, quale quello ex art. 34 del citato d.P.R. 633 del 1972, in tema di debito d'imposta del produttore agricolo. Anche l'eventuale presentazione dell'istanza di condono ai sensi della legge n. 289 del 2002 non preclude l'esercizio del potere di accertamento e verifica circa l'inesistenza dell'operazione, in ipotesi di richiesta di rimborso dell'imposta. Con la decisione Sez. T, n. 06982/2015, Scoditti, Rv. 635115, si è precisato che, quando sia stato chiesto il rimborso dell'IVA per operazioni ritenute inesistenti, non è inibito all'Erario l'accertamento diretto a dimostrare l'inesistenza del diritto a conseguirlo, atteso che il condono fiscale - sia nell'ipotesi di cui all'art. 9, che in quella minore di cui all'art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, in cui l'oggetto 537 CAP. XXVI - L'IVA di definizione non è il tributo, ma la lite potenziale - elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio. Con particolare riguardo alle ipotesi in cui l'amministrazione contesti la soggettiva inesistenza dell'operazione oggetto di fatturazione passiva, con Sez. T, n. 20060/2015, Perrino, Rv. 636663, si è ritenuto che è precluso al cessionario dei beni il diritto alla detrazione dell'IVA nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti, anche solo sotto il profilo soggettivo, nonostante i beni siano entrati effettivamente nella disponibilità dell'impresa utilizzatrice, poiché l'indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l'evasione del tributo relativa alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti. Sul piano del riparto dell'onere probatorio circa l'inesistenza soggettiva dell'operazione documentata con fattura, è stato ribadito il principio secondo cui, in tema di IVA, qualora l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all'Ufficio fornire la prova che l'operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione. Di contro, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Sez. T, n. 00428/2015, Olivieri, Rv. 634233). Nello stesso solco si colloca la decisione della Sez. T, n. 02935/2015, Bruschetta, Rv. 634377, secondo cui in sede processuale, ove il contribuente assolva l'onere, a suo carico, di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi o alla detrazione dell'IVA mediante la produzione delle fatture, l'Amministrazione finanziaria ne può dimostrarne l'inattendibilità anche mediante presunzioni, sicché il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l'esistenza o meno delle operazioni fatturate, ivi compresi i fatti secondari indicati. 2. Le violazioni degli obblighi di registrazione e di fatturazione. Gli artt. 23 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 stabiliscono tempi e precise modalità della registrazione delle fatture e costituiscono espressione di un generalizzato obbligo di 538 CAP. XXVI - L'IVA annotazione che grava sul soggetto passivo di imposta. Si tratta, per le operazioni attive, dei registri delle fatture emesse e/o dei corrispettivi e del registro degli acquisiti. Tale disciplina non trova deroga in altre previsioni di legge, in quanto le modalità e i tempi registrazione delle fatture emesse e degli acquisiti sono funzionalmente collegati alle scansioni temporali prefissate per i versamenti dell'imposta (cd. "liquidazione periodica"), derivante dal confronto dell'IVA a debito sulle operazioni attive e l'IVA detraibile. La documentazione utilizzata nella fiscalità delle imprese e la contabilità corrispondono ad un preciso modello di riferimento e, ai fini tributari, si presentano come un adempimento di diritto amministrativo. In particolare, con la pronuncia Sez. T, n. 11396/2015, Vella, Rv. 635692 si è affermata la necessità che il contribuente, al fine di accedere al regime della variazione in diminuzione ai fini IVA, effettui la registrazione della variazione e della relativa causa, ai sensi degli artt. 23, 24 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, essendo onere del contribuente dimostrare la corrispondenza delle operazioni mediante l'indicazione di quei dati che risultino idonei a collegarle, attraverso la dimostrazione dell'identità tra l'oggetto della fattura e delle registrazioni originarie e l'oggetto della registrazione della variazione, sì da palesare inequivocabilmente la corrispondenza tra i due atti contabili. Analogamente, la Corte (Sez. 6-T, n. 01422/2015, Caracciolo, Rv. 634618) ha evidenziato che, ai fini della determinazione dell'imponibile in via induttiva, nel caso di mancata presentazione della dichiarazione annuale, l'art. 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 - il quale ha carattere sanzionatorio dell'obbligo di presentare tale dichiarazione - consente di computare in detrazione (oltre ai versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente) solo le imposte detraibili ai sensi dell'art. 19 del citato d.P.R. che risultino dalle dichiarazioni mensili e trimestrali, di modo che, in difetto, resta irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d'impresa. Con altra pronuncia (Sez. T, n. 09946/2015, Vella, Rv. 635533), la Corte ha sancito la non ammissibilità della detrazione dell'imposta pagata a monte per l'acquisto o l'importazione di beni o servizi - ovvero per conseguire la prestazione di servizi necessari all'impresa - per il solo fatto che tali operazioni attengano all'oggetto dell'impresa e siano fatturate, poiché è, invece, indispensabile che esse siano effettivamente assoggettabili all'IVA nella misura dovuta, 539 CAP. XXVI - L'IVA ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. 23 ottobre 1972, n. 633, ed in conformità con l'art. 17 della direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, nonché con gli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE. Ne deriva che, ove l'operazione sia stata erroneamente assoggettata all'IVA, restano privi di fondamento il pagamento dell'imposta da parte del cedente, la rivalsa da costui effettuata nei confronti del cessionario e la detrazione da quest'ultimo operata nella sua dichiarazione IVA, con la conseguenza che il cedente ha diritto di chiedere all'Amministrazione il rimborso dell'IVA, il cessionario ha diritto di chiedere al cedente la restituzione dell'IVA versata in via di rivalsa, e l'Amministrazione ha il potere-dovere di escludere la detrazione dell'IVA pagata in rivalsa dalla dichiarazione IVA presentata dal cessionario. Il principio risulta riaffermato da Sez. T, n. 09942/2015, Vella, Rv. 635435. Le irregolarità devono, però, assumere rilevanza sostanziale, incidendo sulla effettiva possibilità di utilizzo dei dati non correttamente registrati. Con la decisione Sez. T, n. 07576/2015, Cirillo, Rv. 635176, la Corte, in controtendenza rispetto a precedenti arresti, ha affermato il principio secondo cui, in tema di acquisiti intracomunitari, il diritto alla detrazione non può essere negato nei casi in cui, pur non avendo l'operatore nazionale applicato la procedura d'inversione contabile (reverse charge) ed in particolare avendo omesso la doppia registrazione delle fatture integrate o autofatture nei registri di cui agli artt. 23 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sia, comunque, dimostrato, o non controverso, che gli acquisti siano fatti da un soggetto passivo IVA e che le merci siano finalizzate a proprie operazioni imponibili. Infatti, il principio fondamentale di neutralità dell'IVA esige che la detrazione dell'imposta a monte sia accordata, nonostante l'inadempimento di taluni obblighi formali, se sono soddisfatti tutti gli obblighi sostanziali, di cui le violazioni formali non impediscano la prova certa. In subiecta materia deve essere segnalato anche l'arresto con cui la Corte (Sez. T, n. 14767/2015, Perrino, Rv. 636158), con riferimento agli acquisti intracomunitari, ha ritenuto che l'applicazione del meccanismo d'inversione contabile comporta che la violazione degli obblighi formali di contabilità e dichiarazione, pur non impedendo l'insorgenza del diritto di detrazione, del quale sussistano i requisiti sostanziali in testa al concessionario, incide sul suo esercizio, potendo provocare la decadenza da esso allorché il contribuente, pur essendo a conoscenza della natura imponibile di 540 CAP. XXVI - L'IVA una fornitura, ometta, per tardività o per negligenza, di richiedere la detrazione dell'IVA a monte entro il termine previsto dalla legge. Nel solco di una applicazione in senso sostanzialistico del principio di cartolarità dell'obbligazione tributaria si richiama la sentenza Sez. T, n. 10939/2015, Rv. 635943, che ha riconosciuto la sussistenza dell'obbligo dell'emittente la fattura di versare l'imposta ivi liquidata, a meno che non l'abbia tempestivamente corretta o annullata ai sensi dell'art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sì da consentire l'applicazione dell'esatta imposta dovuta ed il corretto esercizio del diritto di detrazione da parte del destinatario. Così, nei casi di acquisti intracomunitari resta salva l'applicazione del regime di non imponibilità nei casi in cui la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario – mediante l'indicazione in fattura del codice identificativo del cessionario e la compilazione del modello "Intrastat" – non sia stata completata od attuata, quando l'operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali ai fini della sussumibilità dell'operazione tra quelle previste dagli artt. 41 e 50 del d.l. 30 agosto 1993 n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993 n. 427 (Sez. T, n. 23763/2015, Cirillo, in corso di massimazione). Più in generale, la Corte ha ritenuto che la violazione formale degli obblighi del contribuente (intesa come inadempimento ad un obbligo contabile distinto dalle condizioni essenziali previste dalla direttiva IVA per l'esercizio del diritto di detrazione) incide esclusivamente sul piano probatorio. Invero, l'infrazione è da ritenersi irrilevante sul piano del rapporto impositivo laddove l'Amministrazione finanziaria disponga ugualmente delle informazioni necessarie per dimostrare che il soggetto passivo, in quanto acquirente, ha il diritto di recuperare l'imposta pagata a titolo di rivalsa (Sez. T, n. 25871/2015, Cirillo, in corso di massimazione, in tema di violazione degli obblighi connessi alla tenuta di registro informatico, di cui all'art. 7, co.4-ter, del d.l. n. 357 del 1994; nello stesso senso, Sez. 6-T, n. 22187/2015, Conti, Rv. 637182). Analogamente si è ritenuto che non ostano alla non imponibilità dell'operazione prevista dall'art. 71 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la violazione degli adempimenti di registrazione delle fatture di vendita, mediante "presa nota a margine" nel registro IVA, e l'omessa comunicazione delle operazioni mediante il modello "Intra1" nell'ipotesi di cessioni extracomunitaria di autovetture dall'Italia verso la Repubblica di San Marino. Infatti, alla luce della disciplina comunitaria, il diritto alla esenzione di imposta non può essere condizionato ad adempimenti 541 CAP. XXVI - L'IVA di natura esclusivamente formale, laddove, al contrario, si rende necessario, per la certezza ed incontrovertibilità delle operazioni extracomunitarie, che le fatture restituite dall'acquirente sammarinese abbiano l'apposizione del "timbro a secco" circolare contenente intorno allo stemma ufficiale sammarinese la dicitura:"Repubblica di San Marino - Ufficio Tributario" (Sez. T, n. 13035/2015, Cirillo, Rv. 635972). 3. Il diritto alla detrazione. Limiti e condizioni. Al di là dei casi esaminati di fatturazione di operazioni inesistenti, per le quali, come visto sub par. 1, in ragione della natura fraudolenta di dette operazioni, deve essere esclusa la possibilità di detrazione dell'imposta, la Corte si è occupata di definire, in ordine a specifiche materie, i presupposti per le detrazioni, individuando i casi in cui non deve essere applicata l'IVA sulle operazioni attive. In via generale deve segnalarsi che la Corte, con Sez. T, n. 05958/2015, Tricomi, Rv. 634952, ha richiamato la necessità del rispetto dei vincoli procedurali imposti dall'ordinamento comunitario per l'esclusione di taluni beni dal regime delle detrazioni a fini IVA. Nella specie, le autorità tributarie nazionali non possono applicare le disposizioni con cui uno Stato membro abbia escluso alcuni beni dal regime delle detrazioni senza previa consultazione del comitato consultivo dell'imposta sul valore aggiunto, in violazione dell'art. 17, comma 7, della sesta direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, sicché il soggetto passivo deve poter ricalcolare il suo debito d'imposta senza tenerne conto della misura derogatoria illegittimamente adottata. L'arresto richiama il principio enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 14 settembre 2006, in C-228/2005, relativamente all'art. 19 bis1, comma 1, lett. g, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, vigente ratione temporis, nella parte in cui limita la detraibilità delle spese per l'acquisto e l'uso dei telefoni cellulari nella misura del 50 per cento. Con riferimento ai casi di detrazione, con la decisione Sez. T, n. 01578/2015, Olivieri, Rv. 635261, la Corte ha affermato che, in conformità ai principi affermati dalla Corte di Giustizia europea (sentenza 22 marzo 2012, in causa C-153/11), che ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell'imposta per spese di investimento finalizzate all'esercizio di attività economiche, deve ammettersi la detrazione dell'IVA versata in rivalsa sull'acquisto di beni strumentali alla costruzione di un immobile da destinare a casa di cura, ancorché nel periodo di imposta non siano state svolte attività esenti in mancanza di una convenzione con il servizio pubblico 542 CAP. XXVI - L'IVA sanitario, atteso che quest'ultima presuppone la previa realizzazione della struttura, sicché, pur escludendosi il rapporto di funzionalità tra il bene e l'esercizio di attività "esente" per l'art. 10, comma 1, n. 19, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sussiste comunque il diritto alla detrazione piena, ai sensi dell'art. 19, comma 1, del citato decreto, e non alla minore detrazione pro rata di cui al comma 5 della stessa disposizione. La Corte ha anche esaminato il profilo della inerenza dei costi con l'attività svolta dall'impresa, quale limite per la detrazione a fini IVA. Di rilievo, in argomento, è Sez. T, n. 03205/2015, Valitutti, Rv. 634444, secondo cui, in presenza di un'operazione economica isolata non diretta al mercato, compiuta da una società commerciale, sebbene prevista dall'atto costitutivo o dallo statuto sociale, tale circostanza non può valere, di per sé sola, a dare consistenza ad un'attività imprenditoriale capace di giustificare l'inerenza dell'operazione passiva all'attività svolta, atteso che la previsione statutaria riveste un valore meramente indiziario circa l'inerenza dei relativi costi all'effettivo esercizio dell'impresa, ai sensi dell'art. 19, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Ne consegue che, ai fini della detrazione dell'IVA, il contribuente deve dimostrare che la suddetta operazione, apparentemente singola, rientri in una specifica attività imprenditoriale e sia destinata, almeno in prospettiva, a procurargli un lucro (il caso esaminato riguardava la detrazione dell'IVA assolta su acquisti immobiliari, esclusa sul presupposto che la contribuente, pur avendo mutato l'attività sociale da ristorazione a locazione d'immobili, non aveva dimostrato alcuna successiva operazione imponibile ed aveva, peraltro, terminato gli alloggi da locare sei anni dopo l'acquisto). La sussistenza del requisito dell'inerenza è stato escluso dalla Corte (Sez. T, n. 03651/2015, Cirillo, Rv. 634465) anche nel caso di società consortile, costituita per l'esecuzione dei lavori dalle imprese riunite in associazione temporanea, aggiudicatarie di un appalto pubblico, cui non è stato riconosciuta la possibilità di detrarre dall'imposta dovuta quella relativa ai costi del contenzioso legale con la stazione appaltante, atteso che tale società non subentra nella titolarità del contratto di appalto e delle relative posizioni giuridiche, la cui gestione è devoluta per legge esclusivamente all'impresa capogruppo e mandataria. Tale requisito, infatti, non è condizione sufficiente per legittimare la detrazione dell'imposta pagata a monte per le operazioni di acquisto o di importazione di beni o servizi - ovvero per conseguire la prestazione di servizi necessari all'impresa. 543 CAP. XXVI - L'IVA Il regime della non imponibilità ai fini IVA delle operazioni per esportazione, senza limiti alla detrazione dell'imposta sui correlativi acquisti, con eventuale rimborso, discende dal principio generale secondo cui nelle imposte sui consumi la tassazione deve collocarsi nel paese del compratore-consumatore finale. In proposito si richiama il principio (cfr. supra, par. 2, Sez. T, n. 09946/2015; ma anche, Sez. T, n. 09942/2015) secondo cui ai sensi dell'art. 19 del d.P.R. 23 ottobre 1972, n. 633, ed in conformità con l'art. 17 della direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, nonché con gli artt. 167 e 63 della successiva direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006 n. 2006/112/CE, ove l'operazione sia stata erroneamente assoggettata all'IVA, restano privi di fondamento il pagamento dell'imposta da parte del cedente, la rivalsa da costui effettuata nei confronti del cessionario e la detrazione da quest'ultimo operata nella sua dichiarazione IVA, con la conseguenza che il cedente ha diritto di chiedere all'Amministrazione il rimborso dell'IVA, il cessionario ha diritto di chiedere al cedente la restituzione dell'IVA versata in via di rivalsa, e l'Amministrazione ha il potere-dovere di escludere la detrazione dell'IVA pagata in rivalsa dalla dichiarazione IVA presentata dal cessionario. Inoltre, in virtù del principio fondamentale di neutralità in materia di IVA, si è riconosciuto (Sez. T, n. 06200/2015, Cirillo, Rv. 634953) al contribuente la possibilità di portare in detrazione l'imposta assolta sulle spese di ristrutturazione dell'immobile destinato all'esercizio dell'attività d'impresa, anche se non ne è proprietario, ma conduttore o comodatario, essendo irrilevanti la disciplina civilistica e gli accordi intercorsi tra le parti, salvo che i costi siano fittizi e sia, perciò, configurabile una fattispecie fraudolenta. Il medesimo principio è stato applicato dalla Corte con riferimento all'ipotesi di spese sostenute per la ristrutturazione di un immobile avente catastalmente destinazione abitativa ma, in concreto, utilizzato per lo svolgimento di attività di affittacamere e case per vacanza, per le quali è stata ritenuta la piena detraibilità dell'imposta, ai sensi degli artt. 19 e 19 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in coerenza con quanto prescritto dagli artt. 4 e 17 della sesta Direttiva del Consiglio CE n. 77/388, così come interpretati dalla Corte di giustizia CE (sentenza 11 luglio 1991, causa C-97/90 e sentenza 18 dicembre 2008, causa C-488/07). La valutazione della strumentalità di un acquisto rispetto all'attività imprenditoriale va effettuata, infatti, in concreto, tenendo conto 544 CAP. XXVI - L'IVA dell'effettiva natura del bene, in correlazione agli scopi dell'impresa (Sez. T, n. 08628/2015, Vella, Rv. 635574). Ed anche per l'ipotesi di immobile destinato ad attività agrituristica (Sez. T, n. 11395/2015, Vella, Rv. 635699), il regime ordinario della detrazione dell'IVA è stato ritenuto applicabile ove la relativa opzione sia stata regolarmente esercitata, in quanto l''attività agrituristica include tipicamente l'organizzazione e l'esecuzione del servizio di ospitalità ed alloggio, che non può essere fornito se non attraverso la realizzazione e messa a disposizione di immobili costruiti sul fondo ed adibiti ad uso abitativo, in funzione del temporaneo soggiorno dei clienti. Nello stesso solco si colloca l'arresto espresso da Sez. T, n. 11425/2015, Tricomi, Rv. 635670, che ha ritenuto, in base alla disciplina di cui agli artt. 4 e 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, detraibile dal cessionario imprenditore l'imposta addebitata al cedente solo nel caso in cui il bene acquistato (nella specie, un immobile accatastato in categoria A10 - uffici o studi privati) sia concretamente destinato all'esercizio dell'impresa e sia inerente a detto esercizio (nella specie, commercio all'ingrosso di frutta), non essendo sufficiente il requisito astratto della mera "strumentalità per natura" del bene e non assumendo rilievo la messa a rendita del bene operata successivamente all'acquisto, tanto più per operazioni non rientranti nell'oggetto sociale, quale ad esempio la concessione in locazione. Il diritto alla detrazione rileva anche sotto il profilo della soggettività d'imposta. In particolare, con la pronuncia Sez. T, n. 06234/2015, Cirillo, Rv. 635263, si è affermato che per le aziende concessionarie della distribuzione del gas, che operano nei riguardi del comune concedente sulla base di un rapporto contrattuale che ha per oggetto un'obbligazione di fare, soggetta ad imposta, ai sensi degli artt. 1, 3 e 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, è detraibile l'IVA assolta dalla società contribuente sui canoni versati ai comuni concedenti in ragione: a) del rapporto tributario tra il Fisco e i concedenti, che li rende soggetti passivi d'imposta sui canoni riscossi (art. 17 del d.P.R. IVA cit.); b) del rapporto privatistico tra i comuni e la contribuente concessionaria, che la rende tenuta all'imposta in via di rivalsa (art. 18 d.P.R. IVA cit.); c) del rapporto privatistico tra il Fisco ed la contribuente concessionaria, che la abilita alla detrazione dell'imposta (art. 19 d.P.R. IVA cit.). Con la sentenza Sez. T, n. 12280/2015, Tricomi, Rv. 635729 si è riconosciuto il diritto a godere di trattamento fiscale agevolato, disciplinato dall'art. 74 quater del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 per i 545 CAP. XXVI - L'IVA soggetti che esercitano le attività di spettacolo, di cui al punto 123 della Tabella A, parte terza, del medesimo decreto, attività che si caratterizzano per il loro svolgimento davanti ad un pubblico, che ne è il diretto fruitore. Il biglietto di accesso allo spettacolo - e non la fattura – assume valore di documentazione fiscale, sicché in tali attività, anche alla luce dell'interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 23 ottobre 2003, in C-109/02, non rientra la vendita di uno spettacolo dal produttore all'organizzatore. Né assume rilevanza, ai fini della detrazione dell'imposta, l'eventuale erogazione di finanziamenti pubblici a fondo perduto per l'attività di impresa, ovvero la natura territoriale delle operazioni. Per un verso, come affermato da Sez. T, n. 12523/2015, Marulli, Rv. 635749, l'attività di impresa avente ad oggetto la proposizione di corsi di formazione professionale rientra tra quelle commerciali, soggette all'imposta, e dà diritto, ai sensi dell'art. 19, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, alla detrazione dell'IVA assolta in rivalsa sugli acquisti dei beni e servizi utilizzati, non essendo ostativa l'eventuale erogazione di contributi pubblici a fondo perduto, atteso che l'art. 14, comma 10, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si applica solo qualora il versamento eseguito dagli enti pubblici per l'esecuzione di corsi di formazione del personale s'inserisca in un rapporto sinallagmatico ed assuma natura di corrispettivo. Per altro verso, secondo Sez. T, n. 12763/2015, Cirillo, Rv. 636355, ai sensi dell'art. 19, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 633 del 1972, le cessioni all'esportazione o intracomunitarie, pur essendo operazioni non imponibili, sono assimilate ai fini dell'esercizio del diritto alla detrazione dell'imposta a monte alle operazioni imponibili con territorialità interna, atteso che si tratta pur sempre di operazioni rilevanti ai fini del tributo. Del resto, secondo quanto affermato da Sez. T, n. 17169/2015, Olivieri, Rv. 636364, in tema di acquisto di beni e servizi destinati in via esclusiva, alla realizzazione di operazioni "esenti o non imponibili" (nella specie, spese di ospedalizzazione e cure mediche), ai sensi dell'art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, l'operatore economico assume, ai fini fiscali, la posizione del consumatore finale, non insorgendo a suo favore né il diritto alla detrazione né quello, alternativo, al rimborso dell'IVA a monte, liquidata nella fattura passiva e versata in rivalsa al cedente/prestatore. 546 CAP. XXVI - L'IVA Infine, con riferimento al rispetto degli obblighi formali, con la decisione della Sez. T, n. 02936/2015, Valitutti, Rv. 634565 si è affermato che ai fini della detrazione dell'imposta assolta per l'acquisto di carburanti destinati ad alimentare i mezzi dell'impresa, è necessaria l'apposizione della firma dell'esercente l'impianto di distribuzione sulla scheda carburante per la convalida del rifornimento. 4. Le questioni sottoposte alle Sezioni Unite. Il ribaltamento dei costi nelle società consortili e l'applicabilità della proroga biennale dei termini di accertamento in ipotesi di violazione delle agevolazioni per la prima casa. Con le ordinanze Sez. T, n. 00946/2015, n. 00947/2015, n. 00948/2015, n. 00949/2015 e n. 00951/2015, Vella, la Corte ha investito le Sezioni Unite del contrasto manifestatosi quanto al regime applicabile a fini IVA per il riaddebito o ribaltamento di costi e utili dal consorzio alle imprese consorziate. In particolare, la Corte ha osservato che, a fronte di una consolidata tesi giurisprudenziale il consorzio deve sempre ribaltare tutti gli utili e i costi sulle consorziate () in virtù della sua funzione mutualistica, per cui non può esistere una differenza tra quanto fatturato dal consorzio ai terzi e quanto fatturato dalle singole imprese al consorzio (tranne nel caso di provvigione, che però dovrebbe essere evidenziato esplicitamente nelle scritture contabili sia del consorzio che delle consorziate), è maturato un orientamento basato sull'autonoma soggettività giuridica e fiscale del consorzio rispetto alle imprese consorziate, per cui lo stesso può svolgere attività commerciale e conseguire utili. La prima prospettazione porta a ritenere che, effettivamente, il trattenimento di costi o ricavi da parte del consorzio si traduce in una sottrazione di reddito imponibile delle singole imprese partecipanti al consorzio che rinuncerebbero per accordo tacito ad una quota di corrispettivo. Tale orientamento presuppone, tra l'altro, che, in nome dello scopo mutualistico di cui all'art. 2602 c.c., quasi non si ravvisi una autonoma soggettività giuridica della società consortile di capitali, e ciò non sembra del tutto conforme al disposto di cui all'art. 2615 ter c.c. La seconda tesi, per contro, sebbene più aderente al riconoscimento della società consortile come soggetto dotato di autonoma personalità giuridica, non giustifica però sul piano fiscale, ed in particolare dell'IVA, il rapporto generalmente riconosciuto tra società consorziate e società consortile come mandato senza rappresentanza. Difatti, la normativa fiscale, ed in particolare in 547 CAP. XXVI - L'IVA tema di IVA, sul mandato senza rappresentanza non ammette alcuna differenza tra importo fatturato dal mandatario al terzo e dal mandante al mandatario, e, quindi, nella specie dalla singola impresa al consorzio e dal consorzio al terzo, atteso che l'art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/72, come conseguenza dell'art. 6 paragrafo 4 della Sesta Direttiva del Consiglio UE n. 77/388 sembrano richiedere una totale equivalenza delle due prestazioni, salvo il caso di provvigione del mandatario che però dovrebbe essere chiaramente esplicitato. Altro contrasto oggetto di rimessione alle Sezioni Unite è quello relativo all'applicabilità della proroga biennale del termine di accertamento prevista dai commi 1 e 1 bis dell'art. 11 legge n. 289 del 2002 alle ipotesi di violazione del regime dell'aliquota agevolata dell'IVA per l'acquisto della prima casa (ordinanza interlocutoria della Sez. T n. 18382/2015, Perrino,). Nell'ordinanza si dà atto di un primo consistente orientamento (che esclude che sia prorogabile il termine per l'accertamento di tributi diversi da quelli cui il citato art. 11, commi 1 e 1 bis, fa espresso riferimento, sia nella rubrica dell'articolo, sia nel primo comma, primo periodo - imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni e sull'incremento di valore degli immobili - e, per conseguenza, in considerazione del nesso tra i commi 1 ed 1 bis dell'art. 11 evidenziato nel punto che precede, esclude la prorogabilità del termine dell'azione di accertamento delle violazioni concernenti l'applicazione dell'aliquota agevolata dell' IVA. A questo orientamento se ne contrappone un altro, altrettanto consistente , che ritiene pacifica l'applicabilità della proroga anche al termine per l'accertamento delle violazioni riguardanti la fruizione dell'aliquota agevolata dell'IVA in caso di acquisto della prima casa, così escludendo la maturazione della decadenza dell'Ufficio dall'azione di accertamento delle violazioni inerenti all'applicazione dell'aliquota agevolata dell'imposta. 5. Le esenzioni. Il diritto all'esenzione dal pagamento dell'IVA è connesso alla natura delle operazioni commerciali poste in essere. In particolare, in tema di operazioni all'importazione, si segnala la sentenza Sez. 6-T, n. 17815/2015, Conti, Rv. 636442, che ha affermato il principio secondo cui l'Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell'imposta sul valore aggiunto all'importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è 548 CAP. XXVI - L'IVA illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all'art. 50 bis, comma 4, lett. b), del d.l. del d.l. 30 agosto 1993 n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993 n.427, qualora costui abbia già provveduto all'adempimento, sia pur tardivo, dell'obbligazione tributaria nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile mediante un'autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell'IVA, realizzata dall'importatore per effetto dell'immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13 Equoland. Si rinvia, sul tema delle esenzioni per operazioni extracomunitarie (nella specie, verso la Repubblica di San Marino), all'arresto espresso da Sez. T, n. 13035/2015, Cirillo, Rv. 635972 (supra, par. 1) secondo cui la violazione degli adempimenti di registrazione delle fatture di vendita, mediante "presa nota a margine" nel registro IVA, e l'omessa comunicazione delle operazioni mediante il modello "Intra1" non ostano alla non imponibilità dell'operazione prevista dall'art. 71 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. In ragione della necessità del rispetto degli obblighi di forma nelle operazioni di cessioni all'esportazione, previsti dalla disciplina di cui all'art. 8, comma 1, lett. c), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e all'art. 1, comma 1, lett. c), del d.l. 29 dicembre 1983, n. 746 (conv. con modif. in legge 27 febbraio 1984, n. 17) - che pone in capo al cedente delle merci da esportare un onere personale di diligenza nel verificare la sussistenza e la corrispondenza a realtà della dichiarazione di intento resa dal cessionario esportatore – si è escluso che il cedente possa avvalersi di dichiarazioni emesse in favore di un soggetto diverso, originario titolare dell'azienda poi ceduta ad altri, non essendo consentita, una successione di quest'ultimo anche nella posizione fiscale del cedente (Sez. T, n. 00984/2015, Valitutti, Rv. 634153). In ipotesi di soggetto "esportatore abituale" si è subordinata la non imponibilità delle cessioni all'esportazione effettuate nei confronti di questi, prevista dall'art. 8, primo comma, lett. c), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, all'emissione, da parte dell'esportatore, di specifica "dichiarazione d'intento", mentre il soggetto cedente, una volta riscontratane la conformità alle disposizioni di legge, non è tenuto a nessun controllo, dovendo assolvere successivamente l'IVA sull'operazione solo in caso di 549 CAP. XXVI - L'IVA dichiarazioni ideologicamente false, salvo che provi l'assenza di un proprio coinvolgimento nell'attività fraudolenta del cessionario (Sez. 6-T, n. 00176/2015, Conti, Rv. 634135). Presupposto per l'applicazione del principio di non imponibilità delle cessioni tra operatori comunitari residenti in diversi Stati membri – ai sensi dell'art. 41, comma 1, lett. a) del d.l. 30 agoto 1993 n. 331, conv. con legge 29 ottobre 1993 n. 427, è il materiale trasporto del bene ceduto dallo Stato di origine a quello diverso di destinazione, circostanza che, in relazione a beni strumentali oggetto di contratto di affidamento di costruzione di modelli, forme e stampi ovvero attrezzo strumentali alla lavorazione, deve essere verificata al tempo di cessazione del rapporto contrattuale in questione e non alla cessazione dei rapporti tra le medesime parti pur aventi ad oggetto attività di carattere similare (Sez. T, 23761/2015, Olivieri, in corso di massimazione). Il riconoscimento del diritto all'esenzione è avvenuto anche per i servizi "accessori" svolti da società in favore di altra appartenente al medesimo gruppo. Con la sentenza Sez. T, n. 14202/2015, Di Blasi, Rv. 635799 si è ritenuto che tali operazioni infragruppo, ai sensi dell'art. 6, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133, nel testo applicabile ratione temporis, sono esenti dall'imposizione, in quanto si tratti di prestazioni rese nell'ambito delle attività ausiliarie di cui all'art. 59, comma 1, lett. c), del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, e, cioè, accessorie rispetto alle attività delle società del gruppo bancario o rese dai consorzi a consorziati e soci. Nella specie, tra tali attività accessorie rientrano i servizi di outsourcing informatico forniti da personale distaccato di una società del gruppo, atteso che la gestione di servizi, anche informatici, è inclusa tra le attività di cui al citato art. 59 e che il distacco del personale è una prestazione resa da una società del gruppo in favore di altra società del medesimo gruppo. E' stato, invece, escluso il diritto all'esenzione dell'IVA nel caso di prestazioni effettuate dai consorzi in favore dei propri associati. La Corte, con sentenza Sez. T, n. 07593/2015, Marulli, Rv. 635172, ha ritenuto l'imponibilità di tali operazioni, anche laddove rientrino nell'ambito dei compiti istituzionali dell'ente, allorché siano effettuate dietro pagamento di un corrispettivo specifico che eccede i costi di diretta imputazione, essendo determinato in funzione delle maggiori o diverse prestazioni a cui dà diritto. Ciò vale anche relativamente ai servizi di vigilanza sui beni degli associati, resi, in virtù di specifica autorizzazione prefettizia, tramite guardie giurate, atteso che l'esenzione dall'IVA per l'attività 550 CAP. XXVI - L'IVA di vigilanza è limitata alle sole prestazioni rese dalle guardie giurate quali lavoratori autonomi. Nell'ambito della prestazione di servizi, la Corte, in applicazione del principio espresso dalle Sez. U, n. 23021/2011, Tirelli, Rv. 619288, ha affermato che, ai sensi dell'art. 8, comma 35, della legge 11 marzo 1988, n. 67, il rimborso del costo del personale dipendente di una società, distaccato presso altra, è esente da IVA soltanto se la controprestazione del distaccatario consista nel rimborso di una somma pari alle retribuzioni ed agli altri oneri previdenziali e contrattuali gravanti sul distaccante. Con la decisione richiamata la Corte ha annullato con rinvio la sentenza del giudice di appello che, nel disattendere l'eccezione formulata dall'Ufficio in ordine al ricarico sugli importi riportati in fattura quali prestazioni di personale, aveva considerato il cd. supply of staff verso società consociate estere distinto dalla fornitura di servizi di natura amministrativa e logistica (cd. services agreements), rendendo così applicabile la deroga per esclusione della territorialità, ai sensi dell'art. 7, comma 4, lett d), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, senza valutare la pluralità di elementi, emergenti dalle stesse fatture e dal service agreement, che deponevano per l'unicità della prestazione di risorse umane, materiali ed immateriali (Sez. T, n. 04024/2015, Crucitti, Rv. 635011). Sul piano della soggettività di imposta, si è escluso, poi, il regime di esenzione per le attività svolte dai privati in concessione, delega o contratto di servizio. Con sentenza Sez. T, n. 05947/2015, Cirillo, Rv. 635170, sono stati individuati, infatti, come soggetti passivi di imposta tutti gli operatori economici privati, anche se esercitano l'attività di un ente pubblico per concessione, contratto di servizio o delega, beneficiando dell'esenzione, ove non sia accertato un effetto distorsivo della concorrenza attuale o potenziale, solo lo Stato, le regioni, le province, i comuni e gli altri organismi di diritto pubblico che operano quali pubbliche autorità. Il caso venuto all'attenzione della Corte ha riguardato, in particolare, l'assoggettabilità ad IVA dei rapporti tra la società cooperativa a responsabilità limitata, concessionaria di un parcheggio del comune, e gli utenti del servizio. In applicazione del medesimo principio, invece, si è riconosciuto l'applicabilità del regime dell'esenzione dall'IVA, di cui all'art. 10, n. 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per il servizio di riscossione dei contributi dei consorzi di bonifica, che agiscano per il conseguimento dei propri fini istituzionali e pubblici, sicché gli stessi non sono tenuti al pagamento dell'IVA sull'aggio della 551 CAP. XXVI - L'IVA riscossione, da corrispondere, convenzionalmente e per legge, al concessionario, al fine di chiedere la restituzione delle somme, da questi contabilizzate ed addebitate a titolo di IVA, senza che quest'ultimo possa utilmente opporre di averle versate, in tutto o in parte, all'Erario (Sez. T, n. 00975/2015, Di Blasi, Rv. 634468). Non di ipotesi di esenzione, ma di carenza di presupposto d'imposta si versa nel caso di preliminare di compravendita di immobile rimasto inadempiuto. In tal caso, come affermato da Sez. 6-T, n. 10306/2015, Perrino, Rv. 635436, ai fini IVA il presupposto impositivo è costituito dalla prestazione sinallagmatica di pagamento del prezzo e il versamento di una caparra confirmatoria a corredo del preliminare di vendita, in ipotesi di inadempimento, non è soggetto ad imposizione in quanto assolve ad una mera funzione di risarcimento forfettario del danno e non di anticipazione del corrispettivo. 6. L'IVA. L'estinzione del debito tributario nelle ipotesi di soggetti ammessi alla esdebitazione. Con ordinanza interlocutoria Sez. 6-T, n. 13542/2015, Cicala, Rv. 635739, la Corte ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale d'interpretazione concernente la compatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 4, par. 3, Trattato UE e 22 della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE) della normativa interna che prevede l'estinzione del debito tributario avente ad oggetto l'IVA in favore dei soggetti falliti ammessi alla procedura dell'esdebitazione disciplinata dal R.D. n. 267 del 1942, artt. 142 e 143 Nel suddetto caso, il dubbio interpretativo in ordine alla compatibilità della normativa interna rispetto al diritto comunitario nasce dal fatto che il legislatore nazionale, nel prevedere in modo specifico alcune tassative esclusioni dal beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti senza menzionare in alcun modo i crediti tributari, abbia ritenuto, nell'ambito delle scelte discrezionali ad esso riservate e sulla base di un bilanciamento dei contrapposti interessi, che al soggetto ritenuto dall'autorità giudiziaria meritevole del beneficio dell'esdebitazione non deve farsi carico del pagamento dei debiti fiscali, in una prospettiva dell'estinzione dei propri debiti quale stimolo a condotte incentivanti ad un ripristino di una soggettività economica ritenuta socialmente utile. Tuttavia, l'esclusione del credito viene dalla legge riconosciuta al soggetto debitore non in via astratta ma sulla base della valutazione giudiziale operata dal 552 CAP. XXVI - L'IVA Tribunale fallimentare in ordine alla prognosi che il soggetto beneficiario possa reimmettersi nel mercato produttivo. Con l'ulteriore questione della compatibilità della disciplina anzidetta con le regole della concorrenza, ponendosi detta disciplina come potenzialmente idonea a favorire il reinserimento dei soggetti ammessi al detto beneficio rispetto ai soggetti falliti che non possono godere di tale trattamento perché esclusi ex lege dall'accesso a simile procedura. 7. Il credito al rimborso. L'art. 30 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 prevede il diritto del contribuente al rimborso dell'eccedenza detraibile. In merito con sentenza Sez. T, n. 03627/2015, Vella, Rv. 634776, si è ritenuto che il diritto al rimborso dell'IVA non è soggetto al termine di decadenza previsto dall'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel solo caso in cui il richiedente prestatore di un servizio abbia a sua volta effettivamente rimborsato l'imposta al committente in esecuzione di un provvedimento coattivo, rispondendo tale soluzione al principio di effettività del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia (sentenza 15 dicembre 2001, in C-427/10). Viceversa, si è escluso che l'Amministrazione finanziaria sia tenuta al rimborso dell'imposta anche dopo il decorso del suddetto termine quando la restituzione al committente sia stata spontaneamente corrisposta. Il caso posto all'attenzione della Corte ha riguardato l'ipotesi di emissione di fatture per prestazioni di elaborazione di informazioni sul mercato del gas naturale, commissionata da società estera, in cui le parti avevano autonomamente optato per l'imponibilità della prestazione, attivando poi la procedura di rimborso, disattesa dall'ufficio IVA ai sensi dell'art. 7, comma 4, lett. d) ed e), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, cui è seguita la volontaria restituzione alla committente dell'IVA pagata. Peraltro, si è affermata l'autonoma impugnabilità del provvedimento con il quale l'Amministrazione condiziona il rimborso di un credito IVA al previo pagamento da parte dell'istante di debiti fiscali oppure alla loro compensazione, differendone, in concreto, il pagamento, in quanto tale atto produce l'effetto giuridico proprio dell'atto tipico di sospensione del rimborso. La Corte, con la decisione Sez. 6-T, n. 13548/2015, Caracciolo, Rv. 635738, ha individuato il fondamento di tale autonoma impugnabilità del provvedimento di sospensione condizionato nel combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. i del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e 23, comma 3, del d.lgs. 18 553 CAP. XXVI - L'IVA dicembre 1997, n. 472, ritenendo che la tassatività dell'elenco di cui al citato art. 19 deve intendersi riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente individuati, ma alle categorie a cui sono riconducibili, in cui vanno, pertanto, ricompresi anche gli atti atipici o con nomen iuris diversi da quelli indicati, che producano, però, gli stessi effetti giuridici. 8. L'IVA nelle operazioni intracomunitarie ed extracomunitarie: il regime derogatorio del margine di utile; gli acquisti in sospensione di imposta. L'art. 36 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella legge 22 marzo 1995, n. 85, prevede un regime speciale derogatorio alla disciplina in materia di IVA per gli acquisiti intracomunitari di beni, finalizzato ad evitare una doppia imposizione sugli stessi. Sul tema è da segnalare la sentenza Sez. T, n. 15630/2015, Olivieri, Rv. 636112, che, nell'individuare le condizioni e i presupposti per l'applicabilità del suddetto regime del margine di utile, ha affermato il principio secondo cui l'art. 36 del d.l. n. 41 del 1995, prevedendo un regime speciale, derogatorio dell'ordinaria disciplina fiscale degli acquisti intracomunitari, impone, oltre alla regolarità formale della documentazione contabile, che il contribuente provi la sussistenza dei relativi presupposti di fatto, risultando altrimenti inapplicabile, indipendentemente dalla consapevolezza che il cessionario ne abbia. Nel caso esaminato la Corte, in applicazione di tale principio, ha ritenuto legittimo l'avviso di accertamento fondato sull'elemento presuntivo della presenza tra i cedenti di società di autonoleggio che, utilizzando i veicoli come beni strumentali all'esercizio dell'impresa, avevano diritto di portare in detrazione l'IVA. In tema di cessioni all'esportazione, l'art. 8 lett. c) del d.P.R. n. 633 del 1972 individua tra le operazioni non imponibili, le cessioni di beni (tranne i fabbricati e le aree edificabili) e le prestazioni di servizi fatte a soggetti che abbiano effettuato abitualmente cessioni all'esportazione od operazioni intracomunitarie, consentendo – per limitare l'inconveniente del porre tali operatori in permanente attesa del rimborso dell'eccedenza di imposta - di effettuare acquisiti senza applicazione dell'IVA. Trattandosi di regime agevolativo - che si traduce sul piano fiscale in un regime di sospensione di imposta, e non di esenzione - il beneficio in questione, per esigenze di cautela dell'Erario, è subordinato a rigorosi presupposti e limiti. 554 CAP. XXVI - L'IVA Con riferimento alla necessità del rispetto del plafond di cui all'art. 8, primo comma, lett. c), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la Corte (Sez. T, n. 04556/2015, Vella, Rv. 634676) ha affermato che il plafond rappresenta un semplice limite quantitativo monetario - pari all'ammontare complessivo dei corrispettivi delle esportazioni registrate nell'anno precedente- utilizzabile nell'anno successivo per effettuare acquisti in sospensione d'imposta. L'avviso di accertamento relativo al recupero a tassazione dell'imposta non versata, per la carenza o lo sforamento di detto limite, deve essere, dunque, emesso entro il termine di cui all'art. 57, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, che decorre non dall'anno di imposta in cui il plafond si è formato, ma da quello in cui esso viene utilizzato per operare in regime di sospensione di imposta. 9. I depositi fiscali e la disciplina doganale. La disciplina nazionale delle operazioni relative a scambi con Paesi che si trovino fuori del territorio dell'Unione Europea, come configurata dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, è ispirata al principio della detassazione dei beni "in uscita" dal territorio comunitario, e dell'applicazione dell'IVA italiana a quelli "in entrata". E tuttavia, al fine di conciliare l'esenzione da IVA delle operazioni di cessione di beni destinati al consumo all'estero, e non in territorio nazionale, ai sensi dell'art. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, con il diritto - essenziale nel sistema comunitario dell'IVA - alla detrazione dell'imposta sugli acquisti, il legislatore ha introdotto talune operazioni concretamente non imponibili, sebbene astrattamente assoggettabili ad imposta. Giova, però, evidenziare che le operazioni escluse dall'IVA per difetto di territorialità non devono essere confuse con le operazioni non imponibili – tra le quali, le cessioni all'esportazione - per le quali, come visto sub par. 5., il presupposto territoriale, a differenza delle prime, si realizza, come conferma il loro assoggettamento agli obblighi formali di fatturazione, dichiarazione ecc. In ragione della operata distinzione, con la già richiamata sentenza Sez. 6-T, n. 17815/2015, Conti, (Rv. 636442) in tema di depositi fiscali, la Corte ha ritenuto che, per la natura solo formale della violazione del sistema del versamento dell'IVA, realizzata dall'importatore per effetto dell'immissione solo virtuale della merce nel deposito, non può essere messo in discussione il diritto alla detrazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13 Equoland, e, dunque, l'Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell'imposta sul valore 555 CAP. XXVI - L'IVA aggiunto all'importazione, pur se il soggetto passivo è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all'art. 50 bis, comma 4, lett. b), del d.l. n. 331 del 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, nella legge n. 427 del 1993, ma ha provveduto all'adempimento, sia pur tardivo, dell'obbligazione tributaria nell'ambito del meccanismo dell'inversione contabile mediante un'autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite. Del resto, come osservato da Sez. 6-T, n. 15988/2015, Perrino, Rv. 636315, l'assolvimento dell'IVA intracomunitaria e, cioè, al momento dall'estrazione dal deposito fiscale e col metodo dell'inversione contabile, in luogo dell'IVA all'importazione (da effettuarsi al momento dell'accettazione della dichiarazione in dogana), pur legittimando l'applicazione delle sanzioni, non consente al fisco di chiedere nuovamente il pagamento del tributo, in ragione del generale divieto di duplicazione, trattandosi della stessa imposta, pur se assoggettata a termini e a modalità diverse di riscossione. Sul medesimo tema dei depositi fiscali di cui all'art. 50 bis del d.l. 30 n. 331 del 1993, convertito, con modificazioni, nella legge n. 427 del 1993, è da segnalare la decisione della Sez. 6-T, n. 16109/2015, Conti, Rv. 636297, che ha individuato la sanzione applicabile all'importatore che si avvalga del sistema di sospensione del versamento dell'IVA senza immettere materialmente la merce nel deposito - in assenza di disposizioni sanzionatorie speciali per l'omesso o ritardato versamento del tributo, non rinvenibili né nel d.P.R. n. 43 del 1973 né nel Reg. CEE n. 2913 del 1992 (codice doganale comunitario) - nell'art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997, che è norma di carattere generale, atteso che, conformemente a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia, nella sentenza del 17 luglio 2014 in C-272/13, l'IVA all'importazione è un tributo interno. Nelle ipotesi di cessione a terzi dei containers - i quali, in quanto destinati allo stivaggio di merci nel traffico internazionale, godono di un regime di "temporanea importazione", per cui, pur esistenti nel territorio dello Stato, sono esentati dai dazi all'importazione, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 01567/2015, Bielli, Rv. 635260, ha affermato che non si verifica la perdita del diritto all'agevolazione purché non ne sia modificata la loro naturale destinazione, con l'immissione delle merci nel mercato interno, e il cessionario assuma gli obblighi già imposti al cedente, la cui inosservanza comporta l'insorgenza dell'obbligazione doganale, ai 556 CAP. XXVI - L'IVA sensi dell'art. 204 del codice doganale comunitario, e l'applicabilità dell'IVA ex art. 7, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Nel caso, invece, di operazioni di esportazione al di fuori dei confini comunitari, nelle cessioni di cui all'art. 8, primo comma, lett. a), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, la Corte (Sez. T, n. 03193/2015, Valitutti, Rv. 634515) ha ritenuto che, ai fini del recupero dell'IVA, la prova della destinazione della merce all'esportazione, il cui onere incombe sul primo cedente in caso di operazioni triangolari, deve essere fornita tramite la documentazione doganale e, quindi, se la dichiarazione di esportazione è effettuata sulla base del Documento Unico Amministrativo (DAU), a mezzo dell'esemplare 3 DAU, munito di timbro e visto dell'ufficio doganale di uscita, ai sensi degli artt. 792, 793 e 795 del Regolamento CEE 2 luglio 1993, n. 2454, applicabile ratione temporis. In assenza di tale documentazione, non potendosi addebitare all'esportatore la mancata esibizione di un documento di cui egli non ha la disponibilità, la prova può essere fornita con ogni mezzo che abbia il requisito della certezza ed incontrovertibilità, quale l'attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell'avvenuta presentazione delle merci in dogana, mentre sono inidonei documenti di origine privata, quali le fatture o la documentazione bancaria attestante il pagamento. Sul piano della osservanza dei requisiti formali per beneficiare del regime più favorevole della esenzione dei dazi all'importazione, previsto per le unità di visualizzazione delle macchine automatiche di elaborazione dell'informazione, la Corte ha ritenuto necessario che tali apparecchi abbiano, contestualmente, le caratteristiche specificamente individuate dalla Corte di giustizia UE, con sentenze 17 luglio 2014, in causa C-472/12, e "Kamino International Logistics" del 3 luglio 2014 nelle cause riunite C 129/13 e C 130/13, con riferimento alle note esplicative di cui alla sottovoce 8471.60.90 della nomenclatura combinata (NC), SA ("sistema armonizzato di designazione e codificazione merci"), di cui all'all. I del Regolamento CEE 23 marzo 1987, n. 2658, del Consiglio d'Europa, la cui prova è a carico dell'importatore (Sez. T, n. 01561/2015, Cirillo, Rv. 634821). Sempre in tema di dazi doganali è da segnalare il consolidamento della giurisprudenza della Corte sulla decorrenza del termine di prescrizione per l'azione di accertamento nel caso di omesso versamento che abbia rilevanza di illecito penale. Si è ribadito, infatti, che l'interpretazione dell'art. 84 della legge n. 43 del 1983 (TULD), come modificato dall'art.. 29 della legge 29 dicembre 557 CAP. XXVI - L'IVA 1990 n. 229, in punto di necessità che la notitia criminis intervenga nel termine di tre anni al fine di consentire la sospensione del corso della prescrizione, risponde all'esigenza di rendere il precetto nazionale compatibile con il quadro dei principi costituzionali fra i quali spiccano, in materia, quelli della certezza dei rapporti giuridici e della ragionevolezza, correlati alla necessità di impedire l'indeterminabile ed indefinita possibilità che l'amministrazione possa realizzare la pretesa impositiva, ritardando a sua discrezione il momento dal quale far decorrere la sospensione del termine di prescrizione in presenza di condotte penalmente perseguibili (Sez. 6-T, n. 24674/2015, Conti, in corso di massimazione). L'azione di recupero a posteriori dei dazi doganali, pertanto, può essere avviata dopo la scadenza del termine di tre anni dalla data di contabilizzazione dell'importo originariamente richiesto, quando la mancata determinazione del dazio derivi da fatto penalmente rilevante, purché sia trasmessa nel corso del termine di prescrizione – e non dopo la sua scadenza – la notitia criminis, primo atto esterno prefigurante il nodo di commistione tra fatto-reato e presupposto di imposta, a prescindere dall'esito del giudizio penale. 558 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA CAPITOLO XXVII L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA (di Marzia Minutillo Turtur) SOMMARIO. 1. La prevalenza della causa reale nell'interpetazione del contratto. – 2. Individuazione del regime impositivo, _– 3. Termini di decadenza e prescrizione. – 4. Agevolazioni varie. – 5. Le agevolazioni prima casa. - 5.1. Il requisito della residenza. – 5.2. L'impedimento assoluto all'acquisto della residenza. – 5.3. L'acquisto della residenza in caso di alienazione di immobile entro i cinque anni e riacquisto di nuovo bene entro il termine di diciotto mesi dal primo acquisto al fine del mantenimento dell'agevolazione prima casa. – 6.. Il termine per l'Amministrazione per far valere l'indebito godimento del trattamento agevolato. – 7. L'individuazione dei presupposti di ampiezza per godere della agevolazione. – 8. Il mantenimento dell'agevolazione prima casa: 1) nel caso di alienazione del bene, senza riacquisto di altro immobile nell'anno successivo, al coniuge separato; 2) nel caso di vendita e acquisto di secondo immobile a titolo gratuito; 3) nel caso di vendita e appalto di costruzione di nuova casa su terreno di proprietà del contribuente. 1. La prevalenza della causa reale nell'interpetazione del contratto. La Corte ha affrontato anche nel 2015 il problema della corretta portata e interpretazione dell'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 con la sentenza Sez. T, n. 16019/2015, Napolitano, Rv. 636100, in cui ha evidenziato che nell'applicare l'imposta secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione si deve tener conto della natura e degli effetti del singolo atto da registrare, sicché le successive rettifiche, ove comportino una diversa destinazione di beni, vengono ad integrare e completare l'atto originario, mentre, sul piano negoziale, costituiscono nuovi atti, separatamente tassabili, in quanto modificativi degli effetti giuridici del primo atto, che conserva piena autonomia. Nel caso concreto cassando con rinvio la decisione di merito si è ritenuta soggetta all'imposta di registro la rettifica notarile di una precedente compravendita, in cui erano stati indicati «per mero errore di scritturazione» due acquirenti in luogo di uno, ricorrendo in sostanza una pluralità e diversità di operazioni negoziali. Sempre in relazione all'art. 20 citato si è chiarito come la disciplina dia rilievo preminente alla causa reale del negozio ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti, anche se mediante più pattuizioni non contestuali, che tuttavia manifestano un evidente collegamento tra loro (così Sez. T, 559 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA n. 01955/2015, Chindemi, Rv. 634166, che, ha riconosciuto, senza ricorrere alla figura dell'abuso del diritto, un'unitaria cessione di azienda, valutando i beni non nella loro individualità, ma quale organizzazione finalizzata alla produzione, nel caso di distinte ma collegate operazioni di cessioni di magazzino, attribuzione d'indennizzo di spoliazione, formale trasferimento di un dipendente in posizione apicale e distacco di due dipendenti presso la società cessionaria, trasferimento di altro dipendente presso società partecipata dalla cessionaria che di fatto proseguiva l'attività della cessionaria predetta). In applicazione dello stesso principio ed a prescindere da qualsiasi prova dell'intento elusivo (che non grava sull'Amministrazione finanziaria), Sez. 6-T, n. 24594/2015, Cosentino, in corso di massimazione, ha evidenziato che la cessione totalitaria delle quote di un'azienda debba essere intesa come cessione di azienda, con conseguente sottoposizione all'imposta proporzionale di registro nella misura del tre per cento. In questo caso si è infatti evidenziato come la causa reale del contratto sia da individuare nella medesima funzione economica della cessione d'azienda, ovvero il trasferimento dei poteri di godimento e disposizione dell'azienda per intero da un soggetto ad un altro. 2. Individuazione del regime impositivo. Un caso particolare nell'identificazione e portata dell'ambito di applicazione dell'imposta di registro è stato affrontato dalla sentenza Sez. T, n. 23580/2015, Zoso, in corso di massimazione, con la quale la Corte ha evidenziato che con l'usucapione di un terreno l'usucapiente acquisisce per accessione anche le costruzioni realizzate prima che si sia verificata l'usucapione, con la conseguenza che l'imposta di registro conseguente alla pronuncia di sentenza di usucapione si applica solo ai beni già esistenti al momento del perfezionamento dell'acquisto per usucapione, comprese le accessioni avvenute prima di quel momento, ma non a quelle successive, anche se già concluse al momento del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa. La Corte ha dunque confermato il precedente orientamento secondo il quale in tema d'imposta di registro la tassazione del bene usucapito (nel caso di specie un terreno) deve avvenire in base al suo valore al momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento dell'usucapione, restando escluso, però, che ai fini della determinazione del valore possano essere considerati quegli ulteriori beni (nel caso di specie costruzione) sussistenti al momento 560 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA del passaggio in giudicato di detta sentenza, ma non esistenti al momento di maturazione della usucapione. Ancora in relazione alla liquidazione di imposta di registro a seguito di registrazione di sentenza civile, che aveva accertato l'intervenuto recesso da contratto di appalto da parte dei committenti con condanna al pagamento di somma a titolo di indennizzo e a titolo di risarcimento del danno, la Corte, con la sentenza, Sez. T, n. 23577/2015, Zoso, in corso di massimazione, ha affrontato una questione controversa, ovvero la assoggettabilità ad IVA dell'indennizzo riconosciuto dal tribunale a seguito del recesso dal contratto di appalto. In particolare nella decisione richiamata si è affermato come l'indennizzo ex art. 1671 c.c. abbia natura risarcitoria, con la conseguente esclusione dell'assoggettabilità dello stesso all'IVA, ed applicazione dell'imposta di registro con aliquota proporzionale del tre per cento. Sempre in ambito relativo alla corretta identificazione dell'imposta di registro applicabile, la Corte ha affrontato il caso relativo alla conclusione di un contratto di locazione di un'immobile tra la società proprietaria ed una banca appartenenti allo stesso gruppo, ed ha precisato che tale contratto, esente IVA ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a), della l. 13 maggio 1999, n. 133, deve scontare l'imposta di registro in misura proporzionale, atteso che l'art. 40, comma 1, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, applicabile ratione temporis, con norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica, prevedeva il pagamento in misura fissa solo per le operazioni esenti IVA ex artt. 7 e 21, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, come chiarito dalle modifiche apportate dall'art. 82, comma 14, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, all'art. 40, comma 1, del citato d.P.R. n. 131 del 1986, laddove è ora espressamente escluso che la locazione in parola possa scontare il pagamento in misura fissa, Sez. T, n. 08345/2015, Bruschetta, Rv. 635571. In applicazione dei principi generali in materia d'imposta di registro, e dunque in considerazione dell'effettiva portata dell'operazione economica realizzata, la Corte ha precisato, con la sentenza Sez. T, n. 09075/2015, Terrusi, Rv. 635944, che in caso di cessione d'azienda o di ramo di essa (nella specie, di un complesso svolgente attività bancaria), la scelta, ai fini della determinazione del valore dell'azienda e, dunque, della base imponibile, tra il metodo patrimoniale semplice - che considera l'azienda come un insieme mero di attività e passività e postula, quindi, l'inesistenza dell'avviamento - e il metodo patrimoniale complesso - che integra il 561 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA primo, considerando quei fattori (ossia le plusvalenze da beni immateriali, come pure il know-how aziendale, la formazione del personale ed altro) rappresentanti l'avviamento, compreso nel trasferimento e soggetto all'imposta ai sensi dell'art. 51, comma 4, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 - costituisce oggetto di un giudizio di fatto, rimesso al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato, trattandosi, in ogni caso, di criteri idonei ad apprezzare il congruo valore economico di scambio. In materia di cessione di azienda si è puntualizzato quale sia l'aliquota applicabile in ordine all'imposta di registro con la sentenza Sez. T, n. 06716/2015, Di Iasi, Rv. 635141, evidenziando che la cessione di azienda è tassata applicando al suo valore complessivo (o al maggior prezzo pattuito) l'aliquota più elevata fra quelle contemplate per i singoli beni che la compongono, giusta il combinato disposto di cui all'art. 23, comma 1, e art. 51, commi 1 e 4, del d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, facendo salva la separata tassazione dei cespiti nel caso in cui sia pattuito un corrispettivo distinto. Ne consegue che, ove le parti convengano il corrispettivo in relazione a ciascuno dei diritti congiuntamente trasferiti, l'accertamento dell'Ufficio, il quale ritenga il prezzo incongruo in relazione al suo valore in comune commercio, può essere limitato ad uno solo di tali diritti, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 51 citato, che disciplina il caso in cui i beni aziendali siano stati negoziati con autonomi corrispettivi. Quanto alla corretta individuazione della base imponibile ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 43, comma 1, lettera a) e art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, nel caso di contratto traslativo o costitutivo di diritti reali sottoposto a condizione sospensiva, la Corte con Sez. T, n. 24514/2015, Chindemi, in corso di massimazione, ha evidenziato che tale momento - al fine dell'applicazione dell'imposta - debba riferirsi al valore del bene nel momento in cui si producono concretamente gli effetti del contratto e dunque al verificarsi della condizione sospensiva o al momento della sua rinuncia, proprio per evitare un'incidenza aleatoria e non proporzionata al fatto influente per la tassazione. Quanto al profilo dell'eventuale restituzione dell'imposta di registro per la parte eccedente la misura fissa in caso di nullità o annullamento dell'atto per causa non imputabile alle parti, in applicazione del disposto di cui all'art. 38 del d.P.R. 26 aprile 1986, n.131, Sez. 6-T, n. 00791/2015, Bognanni, Rv. 634211, ha chiarito come tale restituzione si debba intendere limitata, in considerazione 562 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA della ratio della norma e di una sua interpretazione letterale alle sole ipotesi di nullità o annullamento dell'atto per patologie ascrivibili a vizi esistenti ab origine, con esclusione di quelli sopravvenuti o relativi ad inefficacia contrattuale derivante da altre e diverse ragioni. Nella specie si è quindi escluso il diritto alla restituzione dell'imposta a seguito della retrocessione del bene determinata dalla successiva pattuizione di risoluzione del contratto originario. La Corte ha, inoltre, affrontato con la sentenza Sez. T, n. 16417/2015, Perrino, Rv. 636101, la questione relativa al decreto ingiuntivo ottenuto dal garante nei confronti del debitore inadempiente per il recupero delle somme pagate al creditore principale e soggette ad IVA, esprimendo un orientamento innovativo, secondo cui è applicabile l'aliquota proporzionale del tre per cento al valore della condanna, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. b della Tariffa, Parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, non avendo spazio il principio di alternatività', in quanto l'obbligo azionato con tale pretesa, da un lato, deriva da un rapporto distinto ed autonomo da quello principale e, dall'altro, non si risolve in un corrispettivo o in una prestazione soggetta all'imposta sul valore aggiunto. La Corte ha evidenziato, dunque, come la cessione del credito stipulata per finalità di garanzia, con atto cronologicamente successivo ad un contratto di apertura di credito, sconta l'imposta di registro in misura proporzionale, trattandosi di un negozio collegato al precedente finanziamento, caratterizzato da una sua autonoma causa, ed escluso dal campo di applicazione dell'IVA per l'assenza di una prestazione remunerata. Nello stesso senso anche la più recente sentenza Sez. T, n. 200262/2015, Perrino, Rv. 636907. Occorre, tuttavia, evidenziare come tale orientamento non sia unanime e come sia già stata evidenziata la ricorrenza di contrasto anche nella sentenza Sez. T, n. 24997/2015, Chindemi, in corso di massimazione, con la quale si richiama il tradizionale orientamento difforme (sentenza Sez. T, n. 14000/2014, Caracciolo, Rv. 631538), che riconosce invece la ricorrenza di un collegamento negoziale e una successione del fideiussore nella medesima posizione attiva del creditore, con conseguente applicazione dell'imposta di registro in misura fissa in applicazione del principio di alternatività di cui all'art. 40 del d.P.R. n. 131/1986. Quanto ai contratti di finanziamento infruttiferi e alle operazioni sostanzialmente integranti un vero e proprio prestito di denaro Sez. T, n. 24268/2015, Terrusi, in corso di massimazione, ha chiarito che in tema d'imposta di registro, tanto nel vigore del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (art. 38), che del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 563 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA 131 (art. 40), alla luce del principio dell'alternatività con l'IVA, gli atti sottoposti, anche teoricamente, perché di fatto esentati, a questa imposta non debbono scontare quella proporzionale di registro. In particolare, poiché secondo gli artt. 5, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, e 1, lettera b), dell'allegata Tariffa, parte seconda, sono sottoposte a registrazione in caso d'uso, e scontano l'imposta in misura fissa, le scritture private non autenticate contenenti disposizioni relative ad operazioni soggette all'imposta sul valore aggiunto, fra cui le "prestazioni di servizi", nelle quali la legge sull'IVA (art. 3, comma 2, n. 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) comprende i prestiti in denaro, questi, ancorché siano poi esentati dall'imposta stessa dal successivo art. 10, n. 1, quando possano considerarsi "operazioni di finanziamento", tuttavia, essendo in astratto soggetti all'IVA, non devono scontare l'imposta proporzionale di registro. In materia fallimentare, Sez. T, n. 19596/2015, Meloni, Rv. 615217, ha chiarito che il provvedimento di omologazione del concordato preventivo va inquadrato nella previsione di cui alla lettera g) dell'art. 8 della tariffa parte nona, allegata la d.P.R. 131 del 1986, riferibile genericamente agli atti "di omologazione", sicché ad essa si applica l'imposta di registro in misura fissa. Ancora quanto alla corretta e puntuale identificazione della base imponibile in materia di contratto di cessione di azienda Sez. 6–T, n. 23873/2015, Cosentino, in corso di massimazione, ha evidenziato che deve aversi riguardo alla maggiore somma risultante tra il corrispettivo dichiarato ed il valore accertato, con la conseguenza che nessuna rilevanza può attribuirsi alle modalità convenute dagli stessi contraenti per il pagamento del corrispettivo (nella specie, il corrispettivo per la cessione di un azienda era costituito dall'accollo da parte degli acquirenti dei debiti dell'azienda). 3. Termini di accertamento. La Corte ha ritenuto inapplicabile il termine di decadenza ex art. 76 del d.P.R. n. 131 del 1986, nel caso di registrazione a debito di una sentenza, chiarendo che poiché il procedimento di riscossione dell'imposta risulta condizionato all'acquisizione del carattere di definitività del provvedimento giudiziario ed affidato all'iniziativa del cancelliere dell'ufficio giudiziario e non dell'Amministrazione, l'unica disciplina applicabile èdel quella del termine decennale di prescrizione previsto dall'art. 76 del medesimo decreto presidenziale (in questo senso, Sez. T, n. 05966/2016, Napolitano, Rv. 635055). 564 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA Sempre in materia di decadenza la Corte con la sentenza Sez. T, n. 25001/2015, Chindemi, in corso di massimazione, ha chiarito che nel caso di pluralità di atti non contestuali occorre dare preminenza alla causa reale dell'operazione economica al fine della determinazione dell'imposta di registro, con la conseguenza che ove venga riscontrato un collegamento negoziale tra i vari atti e una unica causa il termine iniziale di decadenza decorrerà dal momento in cui si verifica l'effetto giuridico finale conseguente al collegamento negoziale. Con la sentenza Sez. T, n. 23222/2015, Napolitano, in corso di massimazione, la Corte ha precisato che, in tema di revoca del beneficio fiscale concesso per la prima casa ai fini dell'imposta di registro conseguente al riscontro della natura di bene di lusso dell'immobile oggetto di agevolazione, il termine per la rettifica e liquidazione della maggiore imposta dovuta a decorrere dall'accertamento delle diverse caratteristiche del bene immobile resta soggetto alla sospensione in materia di definizione agevolata degli avvisi di liquidazione della maggiore imposta di registro ed è prorogato di due anni ai sensi dell'art. 11 della l. n. 289 del 2002 in ragione della piena assimilazione da parte del legislatore tra le violazioni delle disposizioni agevolative e le disposizioni relative all'enunciazione del valore degli immobili. 4. Agevolazioni varie. Quanto agli atti soggetti ad imposta di registro in misura fissa e alla esenzione dalle imposte catastale ed ipotecaria, ai sensi dell'art. 32, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 601, la Corte ha evidenziato, con Sez. T, n. 14800/2015, Botta, Rv. 636031, che tali agevolazioni si applicano solo agli atti e contratti relativi all'attuazione dei programmi di edilizia residenziale di cui al titolo IV della legge n. 865 del 1971, affidati a istituti autonomi, cooperative edilizie, società con prevalente partecipazione statale, con esclusione di qualsiasi altro programma, sia pure introdotto da altro ente pubblico, quale una regione. In concreto dunque la Corte ha escluso l'applicabilità di tale disposizione normativa alla concessione di prestiti per l'acquisto di case a cittadini meno abbienti. Sempre in materia di terreni a vocazione edificatoria ed imposta di registro la Corte con la sentenza Sez. T, n. 01991/2015, Sambito, Rv. 634327, ha evidenziato come il concetto di utilizzazione edificatoria ai fini del riconoscimento del beneficio dell'assoggettamento all'imposta di registro nella misura dell'uno per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, di cui 565 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA all'art. 33, comma 3, della l. 23 dicembre 2000, n. 388, consiste non solo nella realizzazione di nuova costruzione su terreni non edificati, ma anche nella trasformazione radicale di fabbricati già esistenti, che modifichi l'originaria identità funzionale e commerciale del bene in virtù della totale demolizione e ricostruzione del fabbricato, o in conseguenza di un'opera di demolizione così penetrante ed avanzata da ridurre l'iniziale costruzione ad un mero residuo strutturale, privo di autonoma valenza economica. Ancora in ordine all'edificabilità e all'effettiva ricorrenza dei presupposti per potere usufruire delle agevolazioni previste la Corte, con la ordinanza Sez. 6-T, n. 00722/2015, Caracciolo, Rv. 634217, ha precisato che spetta al contribuente che impugni l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro – ipotecaria - catastale, concernente il recupero delle agevolazioni previste dall'art. 33, comma 3, della l. 30 dicembre 2000, n. 388, applicabile ratione temporis, provare di aver realizzato l'intento edificatorio, dichiarato nell'atto di acquisto, nel termine di legge di cinque anni, atteso che tale circostanza è un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto e solo provvisoriamente concesso dalla legge al momento della registrazione. 5. Agevolazioni prima casa. Nella valutazione della concessione del beneficio fiscale "prima casa" la Corte ha affrontato in diverse pronunce l'insieme dei presupposti e requisiti legittimanti nelle sue diverse declinazioni. 5.1. Il requisito della residenza. In particolare Sez. 6-T, n. 00110/2015, Perrino, Rv. 633995 ha chiarito come, quanto al requisito della residenza, debba ordinariamente prevalere il dato anagrafico sulle risultanze fattuali, e pur tuttavia il beneficio spetta ed è legittimamente concesso a coloro che, pur avendone fatto formale richiesta, non abbiano ancora al momento dell'acquisto dell'immobile ottenuto il trasferimento della residenza nel Comune in cui è situato l'immobile stesso in applicazione del principio dell'unicità del procedimento amministrativo, per cui il dato che appare rilevante è quello della dichiarazione di cambio di residenza, momento dal quale si deve ritenere ricorrente il requisito della residenza nel comune dell'immobile acquistato. Non appare preclusiva dunque alla possibilità di usufruire del beneficio la mancata conclusione della pratica di cambio di residenza. Nello stesso senso si è espressa l'ordinanza Sez. 6-T, n. 18187/2015, Caracciolo, Rv. 636310, così come Sez. 6-T, n. 19684/2015, 566 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA Caracciolo, Rv. 637218, che ha puntualizzato come la decorrenza della residenza anagrafica vada ancorata alla dichiarazione di trasferimento resa dall'interessato nel comune di nuova residenza. 5.2. L'impedimento assoluto all'acquisto della residenza. Sempre in tema di residenza Sez. 6-T, n. 04800/2015, Perrino, Rv. 635067, ha sottolineato come non possano essere ritenute un impedimento assoluto al trasferimento della residenza eventuali lungaggini burocratiche connesse al rilascio delle concessioni edilizie, che non possono rappresentare in alcun modo la forza irresistibile ostativa al trasferimento nel comune dove si trova ad essere ubicato l'immobile oggetto delle agevolazioni. Nello stesso senso Sez. 6-T, n. 05015/2015, Perrino, Rv. 634480, ha precisato come la forza maggiore o il caso fortuito - idonei ad impedire la decadenza dell'acquirente che non abbia trasferito la propria residenza nel comune ove è ubicato l'immobile nel termine di diciotto mesi dall'acquisto - debbano consistere in un evento inevitabile ed imprevedibile, e certamente non possono essere ritenuti tali né la mancata ultimazione di un appartamento in costruzione, né la protrazione di lavori di straordinaria manutenzione. In tutti questi casi il mancato trasferimento della residenza ha comportato l'inevitabile revoca del beneficio concesso in ordine all'acquisto della prima casa, in mancanza appunto di uno degli elementi costitutivi dello stesso, considerata la natura di vero e proprio obbligo che assume in tal senso il contribuente verso il fisco. 5.3. L'acquisto della residenza in caso di alienazione di immobile entro i cinque anni e riacquisto di nuovo bene entro il termine di diciotto mesi dal primo acquisto al fine del mantenimento dell'agevolazione prima casa. L'importanza di tale obbligo, assunto dal contribuente nei confronti del fisco, è stato oggetto di diverse valutazioni da parte della Corte al fine della legittima concessione e del mantenimento dell'agevolazione prima casa. In particolare Sez. 6-T, n. 08847/2015, Iacobellis, Rv. 635532, ha chiarito come in tema di agevolazioni tributarie per l'acquisto della prima casa, ai sensi della nota II bis dell'art. 1 della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. del 26 aprile 1986 n. 131, il contribuente può mantenere l'agevolazione nel caso di vendita del primo immobile, rispetto al quale aveva richiesto l'agevolazione, e successivo riacquisto di altri due immobili in successione entro il 567 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA termine di un anno dalla prima alienazione, solo se provi materialmente di aver provveduto a trasferire la propria residenza nei diversi immobili progressivamente acquistati, con ciò effettivamente realizzando la destinazione ad abitazione propria di questi diversi immobili progressivamente acquistati e poi rivenduti. L'ordinanza in questione affronta il tema dei plurimi atti di rivendita e riacquisto di immobili da adibire a prima casa di abitazione a seguito del godimento del beneficio in riferimento ad un acquisto iniziale, nell'ottica della integrazione dei requisiti necessari a conservare la agevolazione originariamente goduta. La Corte ha chiarito come tale beneficio possa essere mantenuto solo nel caso in cui il contribuente effettivamente trasferisca la propria residenza negli immobili via via acquistati nel termine perentorio previsto per legge, senza che possa essere ritenuta sufficiente la mera dichiarazione resa nell'atto di compravendita di voler adibire l'immobile a propria abitazione, e ciò all'evidente fine di evitare intenti speculativi, considerato che i requisiti necessari per godere della agevolazione devono sussistere per ogni acquisto effettuato e non solo al momento del primo acquisto. In conclusione la Corte rileva come sia da ritenere sufficiente tuttavia, in relazione al termine perentorio di diciotto mesi introdotto con l'art. 3 della l. 23 dicembre 2000 n. 388, che il contribuente originariamente in possesso dei requisiti per usufruire dell'agevolazione prima casa fissi la «residenza anagrafica in uno qualunque degli immobili oggetto di riacquisto dopo la rivendita del precedente». Con un'interpretazione che si presenta come una sostanziale evoluzione dell'ordinanza appena citata, Sez. T, n. 20042/2015, Iofrida, Rv. 630660, ha statuito che non incorre in alcun tipo di decadenza il contribuente che nei diciotto mesi dal primo acquisto, pur non avendo stabilito la propria residenza nel comune dell'immobile originariamente acquistato, lo abbia rivenduto e ne abbia acquistato, entro un anno dalla alienazione, un altro, provvedendo a fissare la propria residenza nel comune ove ha acquistato il secondo immobile, come dichiarato nel successivo atto di compravendita. In questo caso per usufruire dell'agevolazione e per il mantenimento della stessa, in caso di rivendita del primo immobile, non è stata ritenuta preclusiva l'assenza di richiesta di residenza nel primo immobile, purchè sia stata effettuata in seguito nel comune del secondo immobile acquistato nel termine di diciotto mesi previsto per legge. 568 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA È dunque questo termine a rappresentare l'elemento determinante per poter ritenere legittimamente concessa l'agevolazione. Non occorre che sia acquistata la residenza nel primo immobile per il quale era stata formalizzata la dichiarazione di volerlo adibire a propria abitazione nell'atto di compravendita, quando si sia giunti alla vendita di questo e riacquisito di un nuovo immobile entro un anno. Se il contribuente rispetta il termine di diciotto mesi, ed entro tale termine acquista la residenza nel comune del secondo immobile acquistato, potrà usufruire del beneficio fiscale, pur non avendo acquisito la residenza nel comune del primo immobile acquistato. La Corte non ha, tuttavia, un orientamento unanime sul punto. Occorre, difatti, ricordare Sez. 6-T, n. 15266/2015, Conti, Rv. 636050, in cui si è evidenziato come la conservazione dell'agevolazione, in caso di alienazione del primo bene e riacquisto di secondo bene immobile entro un anno dall'alienazione, è subordinata alla presenza di tutti i requisiti per la sua fruizione al momento del primo acquisto, con la conseguenza che l'agevolazione deve essere esclusa nel caso di dichiarazione mendace o di fatti sopravvenuti, quale il mancato trasferimento della residenza nel comune di ubicazione dell'immobile originariamente acquistato entro il termine di diciotto mesi. Secondo tale impostazione, dunque, è assolutamente imprescindibile per la conservazione del beneficio l'effettivo trasferimento della residenza nel primo immobile acquistato. La Corte evidenzia, richiamando precedenti orientamenti, come il trasferimento della residenza nel termine di legge, rispetto al primo immobile acquisito, costituisca requisito costitutivo del diritto all'agevolazione, per cui il mancato adempimento dell'obbligo di trasferimento determina il venir meno del diritto all'agevolazione. 6. Il termine per l'Amministrazione per far valere l'indebito godimento del trattamento agevolato. In ordine al termine per la Amministrazione per far valere l'indebito godimento del trattamento agevolato per l'acquisto della prima casa, Sez. 6-T, n. 15960/2015, Cosentino, Rv. 636148, ha chiarito come l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro con aliquota ordinaria e connessa soprattassa a carico del compratore dell'immobile è soggetto a termine triennale di decadenza, ai sensi dell'art. 76, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986, termine decorrente dal momento della registrazione dell'atto se il beneficio non poteva essere concesso o in alternativa dal giorno in cui i suoi presupposti 569 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA sono venuti a mancare o sono divenuti irrealizzabili. Nel caso concreto la Corte ha ritenuto necessario, cassando con rinvio la sentenza impugnata, un accertamento effettivo del momento in cui fosse stato accertato il superamento dei requisiti di superficie dell'immobile per il godimento del beneficio (domanda di variazione catastale o atto di compravendita per verificare la presenza di un'abitazione di lusso in relazione a locali tavernetta e dispensa della cucina da ritenere o meno idonei a costituire un unico alloggio padronale). 7. L'individuazione dei presupposti di ampiezza per godere della agevolazione. Quanto alla corretta individuazione dei presupposti necessari al fine della agevolazione prima casa, stabilire, infine, se un'abitazione sia di lusso e, quindi, esclusa dai benefici per l'acquisto della prima casa ai sensi della tariffa I, art. 1, nota II bis, del d.P.R. n. 131 cit., Sez. 6-T, n. 24469/2015, Cosentino, in corso di massimazione, ribadito il principio per cui la sua superficie utile - complessivamente superiore a mq. 240 - va calcolata alla stregua del d.m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969, n. 1072, che va determinata in quella che - dall'estensione globale riportata nell'atto di acquisto sottoposto all'imposta - residua una volta detratta la superficie di balconi, terrazze, cantine, soffitte, scale e del posto macchina, non potendo, invece, applicarsi i criteri di cui al d.m. Lavori Pubblici 10 maggio 1977, n. 801, richiamato dall'art. 51 della legge 2 febbraio 1985, n. 47, le cui previsioni, relative ad agevolazioni o benefici fiscali, non sono suscettibili di un'interpretazione che ne ampli la sfera applicativa. Per Sez. 6-T, n. 03148/2015, Caracciolo, Rv. 634926, ha, inoltre, puntualizzato come il concetto di pertinenza debba essere fondato sul criterio fattuale della destinazione effettiva e concreta della cosa a servizio o ornamento di un'altra, senza che si possa ritenere risolutiva la qualificazione catastale che ha esclusivo rilievo formale. Anche nel caso oggetto dell'ordinanza è emersa la valutazione quale casa di lusso di bene immobile per il quale era stata richiesta la agevolazione prima casa, considerato che il terreno circostante alla abitazione doveva essere ritenuto pertinenza della stessa con superamento conseguente dei limiti di superficie previsti. Quindi è stato richiamato il criterio fattuale in relazione alla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio di altra. 8. Il mantenimento dell'agevolazione prima casa: 1) nel caso di alienazione del bene, senza riacquisto di altro 570 CAP. XXVII - L'IMPOSTA DI REGISTRO E LE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA immobile nell'anno successivo, al coniuge separato; 2) nel caso di vendita e acquisto di secondo immobile a titolo gratuito; 3) nel caso di vendita e appalto di costruzione di nuova casa su terreno di proprietà del contribuente. La Corte affronta nuovamente la questione relativa alla possibilità di mantenere la agevolazione prima casa nel caso in cui il bene per il quale la agevolazione era stata concessa venga alienato al coniuge in sede di separazione consensuale omologata. Sez. T, n. 23225/2015, Napolitano, in corso di massimazione, conferma l'interpretazione già espressa da Sez. 6–T, n. 03753/2014, Cicala, Rv. 629984, con la quale si è evidenziato che in tema di agevolazioni tributarie, l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta "prima casa", bensì una modalità di utilizzazione dello stesso per la migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi in vista della cessazione della loro convivenza. Sempre in ordine alla possibilità di mantenere la agevolazione prima casa Sez. T, n. 23219/2015, Bruschetta, in corso di massimazione, ha chiarito che il beneficio permane a favore dell'originario titolare nel caso in cui venga alienato il primo immobile con riacquisto entro l'anno di secondo immobile, anche se a titolo gratuito (nel caso di specie, per donazione). La Corte evidenzia come nel termine acquisto rientri non solo l'acquisto a titolo oneroso, ma anche l'acquisto a titolo gratuito con piena possibilità, dunque, di mantenere l'agevolazione ottenuta in occasione del primo acquisto, in presenza di una effettiva destinazione ad abitazione dell'immobile ricevuto in donazione. Ancora, Sez. T, n. 24253/2015, Vella, in corso di massimazione, ha confermato la ampiezza del concetto di riacquisto da effettuare nel termine di un anno dal primo acquisto di bene poi rivenduto, affermando come anche l'appalto di costruzione di nuova casa, rispetto alla quale si possa effettivamente ritenere la destinazione abitativa, su terreno già di proprietà del contribuente al momento del primo acquisto, possa integrare i requisiti e presupposti per godere dell'agevolazione, purché entro l'anno venga effettivamente realizzata la costruzione appaltata ed essendo irrilevante che il terreno fosse già di proprietà o meno del contribuente al momento del primo acquisto. 571 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI CAPITOLO XXVIII I TRIBUTI LOCALI (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. L'imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni. – 2. La TARSU. – 3. L'ICI. 1. L'imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni. La tassazione locale è rivolta a capacità economiche fortemente legate al territorio, come gli immobili o mobili registrati, oppure a varie forme intermedie tra tasse e tariffe, connesse all'utilizzo o gestione di spazi pubblici. In tema di imposta comunale sulla pubblicità, la Corte ha individuato le forme pubblicitarie dell'uso del segno distintivo dell'impresa o del prodotto (ditta, ragione sociale, marchio), per affermarne l'imponibilità, per le sue caratteristiche strutturali o per le modalità con cui viene utilizzato, quando tale segno risulti obiettivamente idoneo a far conoscere ad un numero indeterminato di possibili acquirenti o utenti il nome, l'attività o il prodotto dell'impresa, e non abbia soltanto una mera finalità distintiva. Il caso esaminato ha riguardato, in particolare, l'assoggettabilità ad imposta delle scritte, se di rilevanti dimensioni e collocate in zona esposta al pubblico, riproducenti il marchio dell'azienda produttrice su beni strumentali aziendali (nella specie, aerogeneratori), anche se installati in zona a traffico ridotto ed a forte vocazione eolica (Sez. T, n. 08658/2015, Sambito, Rv. 635559). Con altra pronuncia la Corte ha distinto le pubbliche affissioni soggette ad autorizzazione comunale dalla pubblicità ordinaria, il cui oggetto è costituito dal mezzo effettivamente utilizzato per la diffusione dei messaggi pubblicitari, e non dal mezzo disponibile, sicché non vanno computati nel calcolo della base imponibile i cosiddetti "spazi bianchi", in quanto il presupposto impositivo si identifica nella diffusione dei detti messaggi, attuata nell'esercizio di un'attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile (Sez. T, n. 02629/2015, Napolitano, Rv. 634336). Il soggetto passivo di imposta, tenuto in via principale al pagamento dell'imposta, ai sensi dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, è stato individuato in «colui che dispone a 572 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso», senza differenze in ordine al titolo da cui dipende tale disponibilità che, quindi, può derivare sia dall'esercizio del diritto di proprietà od altro diritto reale, sia dall'esecuzione di un contratto obbligatorio stipulato con chi disponga giuridicamente dell'impianto pubblicitario, ferma restando la responsabilità solidale, prevista dal secondo comma dell'art. 6 cit., di «colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità» (Sez. T, n. 05039/2015, Meloni, Rv. 634738). 2. La TARSU. Per la TARSU, in ragione della natura di tassa connessa al servizio di raccolta rifiuti, la commisurazione del prelievo avviene in base all'occupazione, a titolo di proprietà o in base a contratti di locazione, di immobili situati sul territorio del comune impositore, delle dimensioni, della destinazione, del numero di occupanti l'immobile e, soprattutto della eventuale attività produttiva svolta. La Corte, con sentenza Sez. T, n. 08336/2015, Meloni, Rv. 635572 ha riaffermato che l'autorità competente alla concreta determinazione delle aliquote delle tariffe per la fruizione di beni e servizi (nella specie, tariffe di diversificazione tra esercizi alberghieri e locali adibiti a uso abitazione), nella vigenza dell'art. 32, comma 2, lett. g), della legge 8 giugno 1990, n. 142, è la giunta e non il consiglio comunale, poiché il riferimento letterale alla «disciplina generale delle tariffe» contenuto nella disposizione, contrapposto alle parole «istituzione e ordinamento» adoperato per i tributi, rimanda alla mera individuazione dei criteri economici sulla base dei quali si dovrà procedere alla loro determinazione, e, inoltre, i provvedimenti in materia di tariffe non sono espressione della potestà impositiva dell'ente, ma sono funzionali all'individuazione del corrispettivo del servizio da erogare, muovendosi così in un'ottica di diretta correlazione economica tra soggetto erogante ed utenza, estranea alla materia tributaria. In proposito, la Corte ha riconosciuto la possibilità per i comuni di procedere alla riscossione diretta del tributo, mediante l'iscrizione a ruolo di quanto liquidato, senza necessità di autonomo previo atto di accertamento. In particolare, con sentenza Sez. T, n. 22248/2015, Chindemi, Rv. 637060, si è ritenuto che, ai sensi dell'art. 72, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, è attribuita ai Comuni la facoltà eccezionale, non suscettibile di applicazioni estensive, di procedere direttamente alla liquidazione della tassa ed alla conseguente iscrizione a ruolo purché sulla base di 573 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI dati ed elementi già acquisiti e non soggetti ad alcuna modificazione o variazione (come nell'ipotesi di calcolo effettuato sulla base dei ruoli dell'anno precedente). Non occorre, dunque, la preventiva notifica di un atto di accertamento, salvo il caso di omessa denuncia o incompleta dichiarazione da parte del contribuente. Altre due pronunce hanno riguardato il tema del regime giuridico applicabile, ai fini della determinazione della tassa, a talune categorie di attività, per natura produttive di rifiuti speciali. In particolare, alle imprese produttrici di rifiuti derivanti dalla lavorazione del legno, per gli anni 2002-2005, successivamente all'abrogazione dell'art. 39, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, e dell'art. 60 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, si è ritenuto che si applichi la disciplina di cui agli artt. 62 e 68 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, con le eccezioni previste dai commi 2 e 3 della norma relativamente alle aree, per natura e destinazione, improduttive di rifiuti, ovvero a quelle produttive di rifiuti speciali che potevano godere di una riduzione di imposta quando i produttori fossero stati tenuti allo smaltimento, sicché, ove, ai sensi dell'art. 68, comma 2, lett. e), del d.lgs. cit., a mezzo di regolamento comunale sia stata dichiarata l'assimilabilità di detti rifiuti a quelli urbani, il produttore deve essere assoggettato all'imposta, senza che assuma rilievo che egli, volontariamente, provveda a smaltirli in proprio (Sez. T, n. 08366/2015, Bruschetta, Rv. 635521). Invece, nell'ipotesi di avviamento al recupero dei rifiuti speciali assimilabili a quelli urbani direttamente da parte del produttore, si è ritenuto che l'esonero dalla privativa comunale, previsto dall'art. 21, comma 7, del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (cd. Decreto Ronchi), non determina la riduzione della superficie tassabile, prevista dall'art. 62, comma 3, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, per il solo caso di rifiuti speciali (non assimilabili o non assimilati), bensì il diritto ad una riduzione tariffaria in concreto, a consuntivo, in base a criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero, ponendosi a carico dei produttori di rifiuti assimilati l'onere della prova dell'avviamento al recupero dei rifiuti stessi (Sez. T, Sentenza n. 09731/2015, Chindemi, Rv. 635472). Con la sentenza Sez. T., n. 23214/2015, Napolitano, in corso di massimazione, la Corte ha ribadito la natura di norme di interpretazione autentica degli articoli 1, commi 17, 18 e 19 della legge 21 dicembre 2001 n. 443, con portata retroattiva rispetto alla normativa interpretata, avente ad oggetto le attività di deposito in siti autorizzati di terre e rocce da scavo, così riconoscendo 574 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI l'applicabilità delle norme del d. lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (c.d. decreto Ronchi) e la sussumibilità nella qualifica di rifiuti speciali, per effetto della abrogazione dell'art. 8, comma 2 del citato d. lgs. n. 22 del 1997, che individuava in via di eccezione i "materiali non pericolosi derivanti da attività di scavo". 3. L'ICI. L'ICI è la principale imposta locale sugli immobili, imposta ordinaria comunale, la cui capacità economica di riferimento è il patrimonio immobiliare esistente sul territorio del comune, essendo commisurata al valore degli immobili determinato con i moltiplicatori della rendita catastale. La Corte si è occupata delle tematiche concernenti l'individuazione e determinazione della capacità economica, affidata alla rilevazione del patrimonio immobiliare soggetto a tassazione. In particolare, le questioni affrontate riguardano il regime impositivo per le aree edificabili, i fabbricati rurali e gli interventi di sopraelevazione di fabbricati. L'iscrizione di un'unità immobiliare (preesistente o di nuova costruzione) al catasto edilizio costituisce presupposto sufficiente per l'assoggettamento del bene all'imposta comunale sugli immobili (ICI), ma non anche necessario, essendo l'imposta dovuta fin da quando il bene presenti le condizioni per la sua iscrivibilità, cioè da quando lo stesso possa essere considerato "fabbricato" in ragione dell'ultimazione dei lavori relativi alla sua costruzione (non essendo nemmeno essenziale a tali fini il rilascio del certificato di abitabilità) ovvero da quando lo stesso sia stato antecedentemente utilizzato. Con la pronuncia (Sez. T, n. 08781/2015, Terrusi, Rv. 635335) si è affermato l'assoggettabilità ad ICI di un immobile oggetto di frazionamento, per imposta riferibile all'anno antecedente ad esso, pur se l'immobile, benché avesse i requisiti per l'iscrivibilità, non era stato materialmente accatastato. Con la sentenza Sez. T, n. 14763/2015, Meloni, Rv. 636122, in tema di aree edificabili, si è ritenuto che, ai fini della determinazione della base imponibile, l'inclusione dell'area in una zona destinata dal piano regolatore generale a servizi pubblici o interesse pubblico, pur incidendo nella valutazione condotta in base alla maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, non ne esclude l'oggettivo carattere edificabile ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 504 del 1992, atteso che i vincoli d'inedificablità assoluta, stabiliti in via generale e preventiva nel piano regolatore generale, vanno tenuti distinti dai vincoli di destinazione (nella specie, per la 575 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI realizzazione della linea ferroviaria), che non fanno venir meno l'originaria natura edificabile. Con altra pronuncia (Sez. T, n. 05068/2015, Meloni, Rv. 635340) si è ritenuta legittima la determinazione dell'imposta per le aree edificabili per zone omogenee con riferimento al valore venale in comune commercio, sulla base di un regolamento del consiglio comunale che, in forza degli artt. 52 e 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e 48 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, trattandosi di atto che ha il fine di delimitare il potere di accertamento del comune qualora l'imposta sia versata sulla base di un valore non inferiore a quello predeterminato e, pur non avendo natura imperativa, integra una fonte di presunzioni idonea a costituire, anche con portata retroattiva, un indice di valutazione per l'Amministrazione ed il giudice, con funzione analoga agli studi di settore. Tale valore imponibile, pur dovendo essere determinato in base ai parametri vincolanti previsti dall'art. 5, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 504, può essere desunto da una perizia giurata di stima, ancorché prodotta ex art. 7 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, per la determinazione delle plusvalenze in tema di imposta sui redditi delle persone fisiche, purché faccia applicazione dei medesimi criteri indicati nel citato art. 5 (Sez. T, n. 04093/2015, Napolitano, Rv. 634677). In ragione della destinazione del bene immobile, la Corte ha ritenuto che resta sottratta al regime fiscale dei suoli edificabili e, dunque, all'ICI, un'area compresa in una zona destinata in base al piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato, come tale sottoposta ad un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, sicché non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (Sez. T, n. 05992/2015, Chindemi, Rv. 635088). Per le medesime ragioni, venendo meno il presupposto di imposta, con sentenza Sez. T, n. 05626/2015, Chindemi, Rv. 635192, si è affermato che l'occupazione temporanea d'urgenza di un terreno da parte della P.A. con effettiva immissione nel possesso dell'immobile ed irreversibile trasformazione del fondo, a seguito della realizzazione dell'opera pubblica, priva il proprietario del possesso del bene, con la conseguenza che lo stesso non è tenuto al pagamento dell'imposta. Per i fabbricati rurali, ai fini del trattamento esonerativo, è rilevante l'oggettiva classificazione catastale, per cui l'immobile che sia iscritto come "rurale", con attribuzione della relativa categoria 576 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dall'art. 9 del d.l. n. 557 del 1993(convertito, con modificazioni, nella legge n.133 del 1994), non è soggetto all'imposta, ai sensi dell'art. 23, comma 1 bis, del d.l. n. 207 del 2008 (convertito, con modificazioni, nella legge n.14 del 2009, n. 14) e dall'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 504 del 1992 (fattispecie in materia di fabbricato utilizzato per la manipolazione e per la trasformazione di prodotti agricoli conferiti dai soci di una società cooperativa). Ne deriva che, in caso di iscrizione in differente categoria catastale, il contribuente, che pretenda l'esenzione dall'imposta, è onerato ad impugnare l'atto di classamento per la ritenuta ruralità del fabbricato, restandovi, altrimenti, quest'ultimo assoggettato. (Sez. T, n. 16737/2015, Terrusi, Rv. 636283). Con sentenza della Sez. T, n. 24020/2015, Napolitano, in corso di massimazione, è stata affermata la natura di norma di interpretazione autentica dell'art. 2, comma 5-ter del d.l. 31 agosto 2013 n. 102, convertito con modificazioni, in legge 28 ottobre 2013 n. 124, nella parte in cui, nel richiamare l'art. 13, comma 14, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011 n. 214, fa retroagire gli effetti delle domande di variazione per il riconoscimento del requisito della ruralità dell'immobili, ai fini dell'esenzione, ai sensi dell'art. 7, comma 2-bis, del d.l. 13 maggio 2011 n. 70, al quinto anno antecedente a quello di presentazione della domanda, consentendo in tal modo l'applicabilità retroattiva, sia pur temporalmente non illimitata, dello ius superveniens. Diverse pronunce sono intervenute sul tema della estensibilità regime di esenzione di imposta alle costruzioni di pertinenza delle zone rurali. Con la sentenza Sez. T, n. 16973/2015, Chindemi, Rv. 636363, si è ritenuto che il fabbricato di una società cooperativa utilizzato per la manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci, è rurale e, come tale, esente dall'imposta, ai sensi dell'art. 42-bis, comma 1, del d.l. 1° ottobre 2007, n. 159, convertito con modificazioni nella legge 29 novembre 2007, n. 222, non assumendo rilievo né la distinzione tra proprietario del fabbricato (la società cooperativa) e i titolari dei terreni agricoli asserviti (soci della cooperativa), né l'iscrizione dell'immobile nel catasto fabbricati. Il richiamato art. 42-bis, comma 1, del d.l. n. 159 del 2007, convertito nella legge n. 222 del 2007, che ha introdotto la nuova formulazione dell'art. 9, comma 3-bis, del d.l. 30 dicembre 1993, n. 577 CAP. XXVIII - I TRIBUTI LOCALI 557, convertito nella legge 26 febbraio 1994, n. 133, sul carattere rurale delle costruzioni strumentali allo svolgimento dell'attività agricola, ha natura interpretativa, sicché consente a tutti i suoi destinatari, ivi comprese le cooperative agricole, la ripetizione di quanto versato per le annualità anteriori alla sua entrata in vigore, attesa la declaratoria d'incostituzionalità, con sentenza della Corte costituzionale del 22 luglio 2009, n. 227, dell'art. 2, comma 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Sez. T, n. 10355/2015, Chindemi, Rv. 635499). In tema di riduzione dell'imposta, infine, con sentenza Sez. T, n. 12015/2015, Meloni, Rv. 635869, si è precisato che, qualora l'immobile sia dichiarato inagibile, l'imposta va ridotta, ai sensi dell'art. 8, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nella misura del 50 per cento anche in assenza di richiesta del contribuente poiché, tenuto conto del principio di collaborazione e buona fede che deve improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente, a quest'ultimo non può essere chiesta la prova di fatti già documentalmente noti al Comune. 578 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE CAPITOLO XXIX LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. Il credito d'imposta. – 2. Agevolazioni nel settore del credito. – 3. Agevolazioni per le zone terremotate della Sicilia del 1990. 1. Il credito d'imposta. Il beneficio del credito d'imposta, previsto dall'art. 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è collegato alla effettuazione di nuovi investimenti nelle aree individuate come svantaggiate dalla Commissione delle Comunità Europee, dovendosi apprezzare la "novità" dell'investimento in termini economici, con riferimento alla sua idoneità a promuovere lo sviluppo della zona interessata, mentre la "strumentalità" del bene acquisito resta integrata quando il bene stesso si inserisca in una struttura produttiva (già esistente o del tutto nuova) effettivamente operante in tale zona, così da realizzare, nella stessa area, l'oggetto dell'attività d'impresa: così Sez. 6-T, n. 08120/2015, Iacobellis, Rv. 635307, la quale ha ritenuto che tale agevolazione va esclusa per gli investimenti relativi ad immobili-merce, ossia quelli alla cui produzione o scambio è diretta l'attività d'impresa, come per le attività immobiliari di compravendita ovvero di costruzione e successiva vendita di fabbricati. Nel medesimo senso si è orientata Sez. T, n. 22236/2015, Terrusi, Rv. 637115, la quale, dopo aver evidenziato che l'art. 8 della legge n. 388 del 2000, nel riconoscere un credito d'imposta per l'acquisizione di beni strumentali "nuovi", intende il requisito della novità in chiave economica, piuttosto che in termini materiali, in quanto l'obiettivo perseguito dalla norma è quello d'incentivare, in determinate zone territoriali, le iniziative che apportino crescita della produzione e sviluppo economico, ha ritenuto che il beneficio può essere riconosciuto anche nel caso di trasformazione di una struttura produttiva preesistente, purché, con accertamento da svolgere caso per caso, la ristrutturazione, la conversione o l'ampliamento dell'opificio siano tali da incidere così significativamente sui livelli produttivi e occupazionali da poter essere equiparati alla creazione di un nuovo stabilimento industriale. Sez. 6-T, n. 14504/2015, Caracciolo, Rv. 635971 ha, invece, affermato che, in materia di agevolazioni fiscali per investimenti in aree svantaggiate, concesse mediante credito d'imposta, l'art. 8 della legge n. 388 cit., considera bene oggetto dei benefici fiscali solo 579 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE quello che presenta il requisito della "novità", tenuto conto della ratio legis d'incentivare il rinnovo tecnologico dell'attività d'impresa, sicché anche nell'ipotesi di cui al comma 7 della predetta disposizione, che prevede la dismissione di detto bene entro il quinto periodo d'imposta successivo e la sua sostituzione, nel medesimo periodo d'imposta, con altro della stessa categoria, va escluso dall'agevolazione il bene a qualunque titolo già utilizzato dal cedente o da un terzo, atteso che, altrimenti, si potrebbe eludere la normativa tramite l'acquisto di un bene provvisto dei requisiti necessari e la sua successiva rivendita e sostituzione con bene carente degli stessi. 2. Agevolazioni nel settore del credito. Le operazioni di finanziamento, a cui l'art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 accorda un trattamento fiscale di favore, vanno individuate - in base alla ratio legis ed al principio secondo cui le norme agevolative sono di stretta interpretazione - in quelle che si traducono nella provvista di disponibilità finanziarie, cioè nella possibilità di attingere denaro, da impiegare in investimenti produttivi. Ne consegue, secondo Sez. T, n. 00695/2015, Chindemi, Rv. 634029, che i negozi di finanziamento aventi ad oggetto i "rimborsi dei finanziamenti a breve termine", garantiti da iscrizioni ipotecarie, non avendo ad oggetto un finanziamento, nel senso precisato, ma piuttosto le modalità ed i tempi di recupero del credito già erogato, esulano dall'ambito applicativo della menzionata disciplina. Infine, Sez. U, n. 11373/2015, Cappabianca, Rv. 635538, ha ritenuto che non è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 41, comma 1, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 del d.P.R. n. 601 cit., nella parte in cui esclude dall'esenzione d'imposta, prevista per i finanziamenti a medio e lungo termine effettuati da aziende e istituti di credito, le medesime operazioni poste in essere da intermediari finanziari, discendendo da tale diverso trattamento un effetto distorsivo sul regime di concorrenza nel mercato di settore, per il vantaggio derivante alle banche dal minor costo del prodotto offerto, riferibile non a specifici meriti imprenditoriali, ma ad una scelta fiscale del legislatore. 3. Agevolazioni per le zone terremotate della Sicilia del 1990. Risulta superata, alla luce dello ius superveniens, la questione, già devoluta alle Sezioni Unite a seguito dell'ordinanza interlocutoria di Sez. 6-T, n. 17369/2014, Cosentino, se l'esercizio del diritto alla 580 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE restituzione del 90% delle imposte pagate, qual è desumibile dall'art. 9, comma 17, della legge n. 289 cit. e succ. mod., a favore dei soggetti colpiti dal sisma del 13 e 16 dicembre 1990 nelle province di Catania, Ragusa e Siracusa, è assoggettato al termine di decadenza biennale previsto dall'art. 21, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, decorrente dall'1° gennaio 2003, data di entrata in vigore dell'art. 9 cit., ovvero se, anche ai fini della richiesta del rimborso, debba tenersi conto del differimento, stabilito dalla normativa sopravvenuta, al 31 marzo 2008 dei termini per beneficiare del condono fiscale. L'art. 1, comma 665, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, ha, infatti, stabilito che «i soggetti colpiti dal sisma del 13 e 16 dicembre 1990, che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa, individuati ai sensi dell'articolo 3 dell'ordinanza del Ministro per il coordinamento della protezione civile 21 dicembre 1990, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 24 dicembre 1990, che hanno versato imposte per il triennio 1990-1992 per un importo superiore al 10 per cento previsto dall'articolo 9, comma 17, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, hanno diritto, ... al rimborso di quanto indebitamente versato, a condizione che abbiano presentato l'istanza di rimborso ai sensi dell'articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni. Il termine di due anni per la presentazione della suddetta istanza è calcolato a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge 28 febbraio 2008, n. 31, di conversione del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248...». L'unica eccezione è costituita da quelli che «... svolgono attività d'impresa", per i quali la predetta norma ha disposto che "l'applicazione dell'agevolazione è sospesa nelle more della verifica della compatibilità del beneficio con l'ordinamento dell'Unione europea». La disposizione - come evidenziato da Sez. 6-T, n. 24089/2015, Cosentino, in corso di massimazione - ha dato attuazione all'ingiunzione contenuta nella decisione interlocutoria assunta dalla Commissione europea il 17 ottobre 2012: e poiché i giudicati nazionali sono recessivi rispetto al carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla Commissione e, quindi, condizionati agli esiti della procedura aperta dalla Commissione ed all'eventuale riesame delle Corti dell'Unione Europea, la predetta norma ha determinato la sospensione ex lege dell'esecutorietà dei titoli, anche giudiziali, a favore dei contribuenti, impedendo, in via transitoria, la riscossione materiale delle somme che, sulla base del diritto interno, sarebbero dovute, senza, tuttavia, precludere la formazione di tali titoli. 581 CAP. XXIX - LE AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE Sez. T, n. 25278/2015, Cicala, in corso di massimazione, infine, dopo aver rilevato che "il condono previsto dal comma 17° dell'art. 9 della legge 289/2002 risponde ad una logica del tutto particolare e diversa rispetto agli altri provvedimenti di sanatoria. Si tratta infatti di una disposizione che riguarda periodi temporali remoti e che mira a indennizzare in qualche misura coloro che sono stati coinvolti in eventi calamitosi (nel caso di specie il sisma del 13 e 16 dicembre 1990, che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa, individuati ai sensi dell'articolo 3 dell'ordinanza del Ministro per il coordinamento della protezione civile del 21 dicembre 1990)" e che "vi era ... il dubbio se la applicazione della legge in questione all"IVA non cadesse sotto il divieto che è alla base della ... sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 17 luglio 2008 in causa C- 132/06", ha osservato che quest'ultima, con ordinanza della sesta sezione 15 luglio 2015 in causa C-82/14, ha dichiarato: "Gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari — Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale, come l'articolo 9, comma 17, della legge del 27 dicembre 2002, n. 289, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Finanziaria 2003), la quale prevede, in seguito al terremoto che ha interessato le province di Catania, Ragusa t Siracusa, a beneficio delle persone colpite da quest'ultimo, una riduzione del 90% dell'imposta sul valore aggiunto normalmente dovuta per gli anni 1990, 1991 e 1992, riconoscendo in particolare il diritto al rimborso, in tale proporzione, delle somme già corrisposte a titolo di imposta sul valore aggiunto, in quanto la suddetta disposizione non soddisfa i requisiti del principio di neutralità fiscale e non consente di garantire la riscossione integrale dell'imposta sul valore aggiunto dovuta nel territorio italiano". 582 CAP. XXX - IL CLASSAMENTO CATASTALE CAPITOLO XXX IL CLASSAMENTO CATASTALE (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. La giurisdizione. – 2. La motivazione dell'atto. – 3.La rendita e la sua rettifica. 1. La giurisdizione. Come già segnalato nel capitolo dedicato al processo tributario, la controversia avente ad oggetto il classamento delle unità immobiliari e l'attribuzione della rendita catastale appartiene alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ex art. 2, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anche quando la rendita o l'atto di classamento siano impugnate dall'amministrazione comunale e non (o non solo) dal contribuente, dovendosi escludere, alla stregua di un'interpretazione letterale, logica e sistematica, oltre che costituzionalmente orientata, che l'inciso "promosse dai singoli possessori", contenuto nella norma, sia idoneo a condizionare, sotto il profilo soggettivo di chi adisca il giudice, i limiti della giurisdizione delle suddette commissioni (Sez. U, n. 15201/2015, Di Iasi, Rv. 635996). 2. La motivazione dell'atto. La revisione del classamento può avvenire a norma dell'art. 3, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 per il mancato aggiornamento dell'immobile o per l'incongruità del suo classamento rispetto a fabbricati similari aventi medesime caratteristiche, in base all'art. 1, comma 335, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, per eventi di carattere generale riguardanti la zona ove l'immobile è collocato, il cui aumento di valore sia accertato con le modalità di cui al successivo comma 339, oppure ai sensi dell'art. 1, comma 336, della medesima legge n. 311 cit. per la presenza di innovazioni specifiche concernenti l'immobile in esame. Ne consegue che, secondo Sez. T, n. 00697/2015, Chindemi, Rv. 634179, è onere dell'Amministrazione indicare la normativa in base alla quale provvede, sicché l'atto in cui si faccia riferimento ad un procedimento, ma se ne applichi un altro, è nullo qualora non siano specificate le concrete ragioni che giustifichino la modifica, in modo da consentire al contribuente di valutare l'opportunità di fare acquiescenza o, in caso di ricorso, di approntare le proprie difese, senza che, nel corso del contenzioso, possano essere addotti motivi diversi da quelli enunciati. 583 CAP. XXX - IL CLASSAMENTO CATASTALE Nel caso previsto dall'art. 3, comma 58, della legge n. 662 cit., la motivazione del classamento non può limitarsi a contenere l'indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'agenzia del territorio, bensì deve specificare, a pena di nullità, ai sensi dell'art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000, a quale presupposto la modifica debba essere associata, se al non aggiornamento del classamento o, invece, alla palese incongruità rispetto a fabbricati similari, ed, in questa seconda ipotesi, l'atto impositivo dovrà indicare la specifica individuazione di tali fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di riclassamento, consentendo in tal modo al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa nella successiva fase contenziosa conseguente alla richiesta di verifica dell'effettiva correttezza della riclassificazione (Sez. T, n. 02184/2015, Bruschetta, Rv. 634665). Il procedimento di "revisione parziale del classamento" di cui all'art. 1, comma 335, della legge n. 311 cit., non essendo diversamente disciplinato se non in relazione al suo presupposto fattuale, e cioè l'esistenza di uno scostamento significativo del rapporto tra i valori medi della zona considerata e nell'insieme delle microzone comunali, resta soggetto alle medesime regole dettate ai fini della "revisione del classamento" dall'art. 9 del d.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, sì da sottrarne l'attuazione alla piena discrezionalità della competente Amministrazione pubblica.Ne consegue, secondo Sez. 6-T, n. 04712/2015, Caracciolo, Rv. 635065, che anche la procedura prevista dal comma 335 cit., pur a fronte del relativo presupposto, non può sottrarsi all'applicazione dei parametri previsti, in via ordinaria, dall'art. 3, comma 154, lett. e) della legge n. 662 del 1996, il quale impone che si tenga conto, nel medesimo contesto cronologico, dei caratteri specifici di ciascuna unità immobiliare, del fabbricato e della microzona ove l'unità è sita, siccome tutti incidenti comparativamente e complessivamente alla qualificazione della stessa. Sez. 6-T, n. 03156/2015, Iacobellis, Rv. 634632 ha ritenuto che, qualora il nuovo classamento sia stato adottato ai sensi dell'art. 1, comma 335, della legge n. 311 cit., nell'ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale in tale microzona rispetto all'analogo rapporto sussistente nell'insieme delle microzone comunali, non può ritenersi congruamente motivato il provvedimento di riclassamento che faccia esclusivamente riferimento al suddetto 584 CAP. XXX - IL CLASSAMENTO CATASTALE rapporto e al relativo scostamento ed ai provvedimenti amministrativi a fondamento del riclassamento, allorchè da questi ultimi non siano evincibili gli elementi (come la qualità urbana del contesto nel quale l'immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l'unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato) che, in concreto, hanno inciso sul diverso classamento. Infine, nel caso della cd. procedura DOCFA, disciplinata dall'art. 2 del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito con legge 24 marzo 1993, n. 75, e dal d.m. 19 aprile 1994, n. 701, con allegata relazione di stima UTE, il classamento, ove sia fondato sui medesimi fatti indicati dal contribuente nella proposta di attribuzione della rendita, è sufficientemente motivato – secondo Sez. T, n. 08344/2015, Bruschetta, Rv. 635573 - con la sola precisazione di unità immobiliare, canone censuario, foglio, particella, subalterno, zona censuaria, categoria, classe, consistenza, rendita, trattandosi di fatti inter partes pacifici che non devono essere provati dall'Ufficio, tenuto, invece, anche a mezzo di allegazione di stima UTE, a rendere note le ragioni della valutazione da cui ha fatto discendere il nuovo classamento- ad esempio con riferimento ai prezzi medi - che il contribuente ben può contrastare anche con il deposito di perizie o relazioni tecniche, nel rispetto delle preclusioni processuali stabilite dalla legge. 3. La rendita catastale e la sua rettifica. La rendita catastale, che non è il fatto costitutivo di alcuna obbligazione tributaria, ma il risultato di un procedimento di tipo accertativo, strumentale alla determinazione del valore economico di un bene, rilevante ai fini di una pluralità d'imposte, ha un efficacia illimitata nel tempo, ma non definitiva. Ne consegue – secondo Sez. 6-T, n. 03001/2015, Cosentino, Rv. 634633 - che, come all'Ufficio finanziario va riconosciuto, oltre il termine di 12 mesi di cui al d.m. 19 aprile 1994, n. 701, il potere d'intervenire per rettificare la rendita proposta dal contribuente, quest'ultimo può sempre presentare istanze di variazione, anche a correzione dei propri errori, atteso che la non emendabilità di eventuali dichiarazioni inesatte cristallizzerebbe, in contrasto con l'art. 53 Cost., un'imposizione falsata nei presupposti. Nel medesimo senso si è pronunciata Sez. 6-T, n. 02995/2015, Caracciolo, Rv. 634383, secondo la quale il contribuente può domandare, in ogni momento, all'Amministrazione la correzione dei dati dichiarati e la rettifica della rendita proposta quando la situazione di fatto o di diritto 585 CAP. XXX - IL CLASSAMENTO CATASTALE denunciata non corrisponde al vero, trattandosi di un procedimento di accertamento, e può ricorrere, in caso di diniego, avendo diritto ad una definizione mirata e specifica della sua proprietà senza necessità di prospettare un interesse generale, al giudice tributario, che procederà alla valutazione dell'immobile, tenendo conto delle sue mutate condizioni ed eventualmente disapplicando i criteri elaborati dall'Amministrazione. 586 CAPITOLO XXXI IL CONDONO (di Giuseppe Dongiacomo) CAP. XXXI - IL CONDONO SOMMARIO: 1. Il condono: la "lite pendente". – 2. Gli effetti giuridici. – 3. I profili procedurali. 1. Il condono: la "lite pendente". Il presupposto della lite pendente sussiste, salve le ipotesi di abuso del processo, in presenza di un'iniziativa giudiziaria del contribuente non dichiarata inammissibile con sentenza definitiva e potenzialmente idonea a consentire il sindacato sul provvedimento impositivo, indipendentemente dal preventivo riscontro della ritualità e fondatezza del ricorso. Ne consegue, secondo Sez. U, n. 00643/2015, Cappabianca, Rv. 634058, che è condonabile la controversia nata dal ricorso avverso l'avviso di liquidazione d'imposta di registro ex art. 12 del d.l. 14 marzo 1988, n. 70, convertito con la legge 13 maggio 1988, n. 154, che investa anche il provvedimento di classamento, contestualmente comunicato, ma non ritualmente impugnato nei confronti dell'Agenzia del territorio. La pendenza della lite va intesa, quindi, in senso formale e non viene esclusa – ha ritenuto Sez. 6-T, n. 05316/2015, Cosentino, Rv. 635089 - da una successiva pronuncia di inammissibilità o improcedibilità, occorrendo, per la definitività dell'accertamento oggetto di impugnazione, l'esaurimento della lite. Ai fini previsti dall'art. 16 della legge n. 289 del 2002, non integra, invece, lite fiscale pendente la controversia introdotta dal socio di società di persone con l'impugnazione della cartella di pagamento per le somme dovute in base all'avviso di accertamento da lui non impugnato, avente ad oggetto l'imputazione del reddito da partecipazione nella società, atteso che non si tratta di nuovo ed autonomo atto impositivo, ma di atto di mera esecuzione di una pretesa ormai definitiva. Né rileva che la società abbia impugnato il prodromico avviso ed il relativo giudizio, estinto a seguito d'istanza di definizione agevolata, si sia svolto senza integrazione del contraddittorio, potendosi dolere di tale difetto genetico solo la parte che ha proposto l'impugnazione (Sez. 6-T, n. 15799/2015, Caracciolo, Rv. 636146). 587 CAP. XXXI - IL CONDONO Né costituisce lite fiscale pendente il giudizio instaurato dall'Amministrazione finanziaria per l'adozione di una misura cautelare nei confronti del contribuente, non integrando tale richiesta un atto impositivo, per cui in tale ipotesi è legittimo il rigetto dell'istanza del contribuente ex art. 16 della legge n. 289 del 2002 (Sez. T, n. 16945/2015, Iofrida, Rv. 636361) e neppure la controversia che investa atti liquidatori, esaurendosi questi nel controllo dei criteri di fissazione del quantum dell'obbligazione, secondo gli stessi dati addotti dal debitore (Sez. T, n. 01571/2015, Cirillo, Rv.634348). L'art. 16 della legge n. 289 del 2002, consentendo la definizione agevolata delle sole liti aventi ad oggetto un atto impositivo comunque denominato, non si applica, invece, secondo Sez. T, n. 01571/2015, Cirillo, Rv. 634349, alle controversie riguardanti la cartella, emessa ai sensi dell'art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell'art. 54 bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, con cui l'Amministrazione finanziaria richiede il pagamento di versamenti omessi e delle conseguenti sanzioni, poiché tale atto non ha natura impositiva, derivando, per quanto attiene ai versamenti, da una mera liquidazione dei tributi già esposti dal contribuente e, con riferimento alle sanzioni, da un riscontro puramente formale dell'omissione, senza alcuna autonomia e discrezionalità da parte dell'Amministrazione (nel caso di specie, la cartella impugnata scaturiva da un controllo automatizzato della dichiarazione che faceva emergere l'omissione del versamento IVA annuale a saldo). Integra, invece, la lite pendente ex art. 16 della legge n. 289 del 2002 l'impugnazione della cartella di pagamento con cui, all'esito della diversa determinazione giudiziale dell'imposta, sia stata riquantificata la sanzione, atteso che, da un lato, la cartella di pagamento non preceduta da altra comunicazione della pretesa fiscale va qualificata, a prescindere dalla sua formale definizione, atto d'imposizione e, dall'altro, l'irrogazione della sanzione, sebbene derivante da rideterminazione giudiziale, costituisce un atto impositivo e non di mera riscossione: Sez. T, n. 22000/2015, Scoditti, Rv. 637010. E' stata, infine, rimessa alle Sezioni Unite, a seguito di ordinanza intercolutoria Sez. T, n. 18382/2015, Perrino, la questione concernente l'applicabilità della proroga biennale del termine di accertamento, prevista dalla combinazione dei commi 1 e 1 bis dell'art. 11 della legge n. 289 del 2002, anche nel caso di violazioni concernenti la fruizione dell'aliquota agevolata dell'IVA al cospetto dell'acquisto della prima casa. 588 CAP. XXXI - IL CONDONO Al riguardo, Sez. 6-T, n. 24118/2015, Cosentino, in corso di massimazione, ha ritenuto che il comma 1 bis della predetta norma consente di definire "le violazioni" relative all'applicazione delle imposte con agevolazioni, a condizione, però, che la violazione sia stata commessa entro la data fissata per poter fruire del condonno (16 ottobre 2003, poi prorogata al 16 aprile 2004). Ne consegue che se la violazione viene commessa dopo la predetta data, mancano i presupposti giuridici per poter aderire al condono e, quindi, della proroga del termine di esercizio della potestà accertativa di cui al comma 1, ultima parte, dell'art. 11 della legge n. 289 cit. Resta, invece, pendente la questione - devoluta alle Sezioni Unite a seguito dell'ordinanza interlocutoria di Sez. T, n. 27290/2014, Valitutti – se, nel giudizio tributario di appello, deve essere qualificata come domanda nuova, ed in quanto tale inammissibile, la richiesta, proposta solo nel giudizio di impugnazione, di pronuncia della cessazione della materia del contendere per effetto di condono intervenuto nel corso del giudizio di primo grado o se la domanda debba ritenersi ammissibile in considerazione della natura officiosa dell'accertamento richiesto. 2. Gli effetti giuridici. La presentazione dell'istanza di condono preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d'imposta definite in via agevolata, anche nell'ipotesi di asserito difetto del presupposto. Il condono, infatti, ha rilevato Sez. T, n. 04566/2015, Cigna, Rv. 634659, determinando la formazione di un titolo giuridico nuovo in forza del quale il contribuente volontariamente sceglie di versare le somme risultanti dall'applicazione di parametri predeterminati, costituisce una modalità di definizione transattiva della controversia, da cui consegue il componimento delle opposte pretese e quindi l'azzeramento, a fronte di eventuali ulteriori rivendicazioni del Fisco, della richiesta del contribuente al rimborso. Sez. T, n. 06982/2015, Scoditti, Rv. 635115, invece, ha ritenuto che il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti - sia nell'ipotesi di cui all'art. 9, che in quella minore di cui all'art. 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, in cui l'oggetto di definizione non è il tributo, ma la lite potenziale - all'eventuale contestazione da parte dell'ufficio. 589 CAP. XXXI - IL CONDONO Pertanto, quando sia stato chiesto il rimborso dell'IVA per operazioni ritenute inesistenti, non è inibito all'Erario l'accertamento diretto a dimostrare l'inesistenza del diritto a conseguirlo. Lo stesso principio è stato affermato da Sez. T, n. 11429/2015, Scoditti, Rv. 635678 con riguardo al condono ex art. 9 della legge n. 289 del 2002 che, elidendo in tutto o in parte i debiti del contribuente verso l'erario, non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all'eventuale contestazione da parte dell'Ufficio, dovendo interpretarsi la previsione del comma 9 della norma citata - secondo cui la definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate - nel senso che tale definizione non sottrae all'Ufficio il potere di contestare il credito esposto dal contribuente. Va, poi, segnalato che, secondo Sez. T, n. 15407/2015, Federico, Rv. 636032, l'art. 9, comma 2, della legge n. 289 del 2002, il quale stabilisce che la definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni o agevolazioni indicate dal contribuente, va disapplicato, in quanto in contrasto con il principio di effettività del diritto comunitario, qualora impedisca il recupero obbligatorio di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione definitiva della Commissione europea. Infine, Sez. T, n. 24494/2015, Iannello, in corso di massimazione, ha affermato che, ai sensi dell'art. 14, comma 5, della legge n. 289 cit., la regolarizzazione delle scritture contabili da parte dei soggetti che, essendone legittimati, si sono avvalsi delle disposizioni di cui all'art. 9 delle legge cit., può riguardare sia i periodi coperti dal condono (1998-2002), sia i periodi antecedenti, ma, perché si producano gli effetti previsti dall'art. 14, comma 3, è necessario – anche quando essa riguarda l'eliminazione delle passività inesistenti – il pagamento dell'imposta sostitutiva del 6 %, ai sensi ed entro il termine di cui al medesimo art. 14, comma 5. 3. I profili procedurali. Sez. T, n. 16400/2015, Di Iasi, Rv. 636602 ha ritenuto che, dal sistema della legge n. 289 del 2002 – quale emerge dalle disposizioni di cui agli artt. 7, comma 5, ultimo periodo, 8, comma 3, quinto periodo, 9, comma 12, secondo periodo, e comma 19, quarto periodo, 15, comma 5, terzo periodo, e 15, comma 2 - si ricava che, nelle ipotesi di rateizzazione dell'importo dovuto, per la definizione della lite pendente è 590 CAP. XXXI - IL CONDONO sufficiente l'accettazione da parte dell'ufficio competente della relativa domanda presentata dal contribuente, seguita dal versamento della prima delle rate in cui sia eventualmente ripartito il pagamento degli importi richiesti dalla norma, determinando tali condizioni la definitiva sostituzione dell'obbligazione, assunta dal contribuente con la domanda di condono, a quella tributaria, oggetto della lite pendente. Pertanto, nell'ipotesi di accoglimento della domanda di definizione della lite pendente con pagamento rateale, l'attestazione relativa al "pagamento integrale di quanto dovuto", prescritta dal comma 8 dell'art. 16 ai fini dell'estinzione del giudizio, deve intendersi riferita all'avvenuto pagamento della prima delle rate previste, che è atto da solo sufficiente a determinare la definizione della lite pendente. Quanto, infine, al rientro "scudato" dei capitali dall'estero, Sez. 6-T, n. 22369/2015, Caracciolo, Rv. 637059, ha ritenuto che la "dichiarazione riservata", di cui all'art. 6 del d.l. n. 282 del 2002, convertito nella legge n. 27 del 2003, ottenuta in copia dagli intermediari di cui all'art. 13 del d.l. n. 350 del 2001, convertito nella legge n. 409 del 2001, costituisce certificazione del tutto idonea a comprovare l'avvenuto rimpatrio della somma in Italia. 591 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA CAPITOLO XXXII LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. Le sanzioni amministrative in materia tributaria: tipicità e proporzionalità. – 2. Le sanzioni: principi generali. 1. Le sanzioni amministrative in materia tributaria: tipicità e proporzionalità. Il sistema sanzionatorio esprime la potestà punitiva connessa all'inadempimento o non corretto e tempestivo adempimento alle obbligazioni tributarie (gli uffici finanziari possono infliggere sanzioni secondo il modello tipico delle autorità amministrative) e realizza una piena "coercitività" del diritto, che non può essere assicurata in pieno solo dalla esecuzione coattiva e dal pagamento degli interessi per ritardato pagamento del tributo. In via generale, appare opportuno richiamare la decisione della Corte (Sez. T, n. 14767/2015, Perrino, Rv. 636159) che ha, in ossequio al diritto comunitario, ha disapplicato le modalità di determinazione delle sanzioni previste dagli artt. 5, comma 4, e 6, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. n. 471. Tali norme ragguagliano le sanzioni irrogabili, in tema di IVA, ad una forbice dal cento al duecento per cento della differenza rispetto all'imposta dovuta e dell'imposta relativa all'imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell'esercizio, ed eccedono il limite necessario per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare l'evasione attesa l'entità minima della percentuale fissata per la maggiorazione e l'impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni singolo caso, per cui vanno disapplicate in quanto contrarie al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia nella sentenza 17 luglio 2014 in C-272/13. Il medesimo principio di proporzionalità della sanzione è stato richiamato nella già citata sentenza Sez. 6-T n. 17814/2015, Conti, Rv. 636441, per l'importatore che si sia avvalso del sistema di sospensione del versamento dell'imposta all'importazione senza immettere materialmente la merce nel deposito fiscale. La Corte ha disapplicato per contrarietà al diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 17 luglio 2014, in C-272/13, Equoland, la sanzione prevista dall'art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, ove ecceda, in ragione della percentuale fissata per la 592 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA maggiorazione e dell'impossibilità di graduarne la misura alle circostanze concrete, il limite necessario per assicurare l'esatta riscossione ed evitare l'evasione, atteso che, tenuto conto della natura formale della violazione, potrebbero costituire un'adeguata sanzione anche i soli interessi moratori (il medesimo principio è ribadito dalla già richiamata decisione Sez. 6-T, n. 16109/2015, Conti, Rv. 636297). 2. Le sanzioni: principi generali. Le sanzioni tributarie amministrative sono regolate da un sistema organico di principi generali - paralleli a quelli del sistema penale - sull'elemento soggettivo, l'errore, il concorso di persone e violazioni, il principio di specialità e del favor rei e della irretroattività della norma meno favorevole ecc. Con riferimento al principio del favor rei, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 00411/2015, Tricomi, Rv. 634095, ha riconosciuto che l'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, applicabile "ai procedimenti in corso" alla data dell'1 aprile 1998, purché il provvedimento di irrogazione della sanzione non sia divenuto definitivo, ha sancito che la sanzione meno grave, più favorevole al trasgressore, ha portata retroattiva nei giudizi pendenti. Tale normativa di carattere generale è stata ritenuta applicabile anche alle violazioni in materia di IVA, atteso che il nuovo regime sanzionatorio, introdotto dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 ed entrato in vigore l'1 aprile 1998, prevede una sistematica repressiva meno onerosa rispetto al precedente sistema. In particolare, l'art. 16 ha abrogato, fra l'altro, l'art. 41 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e l'art. 6, comma 8, ha determinato i margini del quantum della pena pecuniaria dovuta in ipotesi di omessa autofatturazione da parte del cessionario o del committente, senza però riproporre, neppure nella riformulazione contenuta nel d.lgs. 5 giugno 1998, n. 203, il pagamento dell'imposta (avente anch'esso, nel regime dell'abrogato art. 41, natura sanzionatoria). L'applicazione del principio non travolge, però, la sanzionabilità delle violazioni alla normativa fiscale nell'ipotesi di successiva abolizione del tributo. In particolare, si è ritenuto che l'intervenuta abolizione dell'INVIM non comporta, in base all'art. 3 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, alcuna conseguenza riguardo all'irrogabilità delle sanzioni derivanti da comportamenti posti in essere nel periodo di vigenza del tributo, atteso che l'omesso (o incompleto) versamento dell'imposta, nel periodo in cui questa era 593 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA dovuta, continua a integrare un'ipotesi di violazione punibile (Sez. T, n. 02226/2015, Terrusi, Rv. 634100). In applicazione del medesimo principio si segnalano due arresti della Corte in tema di reddito d'impresa. Con il primo, si è ritenuto che, per effetto dell'introduzione dell'art. 1, comma 301, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che ha modificato (con decorrenza 1 gennaio 2007) l'art. 110, commi 10 e 11, del d.P.R 22 dicembre 1986, n. 917 (già art. 76, commi 7 bis e 7 ter, del medesimo decreto) - che sanciva l'indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (c.d. Paesi black list), ove non fosse provato che i contraenti esteri svolgessero effettiva attività commerciale, che le operazioni poste in essere rispondessero ad un effettivo interesse economico, che le stesse avessero avuto concreta esecuzione e, in ogni caso, che i costi non fossero stati separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi - la separata indicazione dei costi è stata degradata da presupposto sostanziale di relativa deducibilità ad obbligo di carattere formale, passibile di corrispondente sanzione amministrativa (Sez. T, n. 04030/2015, Crucitti, Rv. 634884). Parimenti con il secondo, sulla base del riconosciuto carattere retroattivo dell'abolizione del previgente regime di indeducibilità dei costi relativi ad operazioni commerciali intercorse con soggetti domiciliati in Paesi a fiscalità privilegiata (c.d. black list), prevista dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, è stata affermata la subordinazione della deducibilità solo alla prova dell'operatività dell'impresa estera contraente e della effettività della transazione commerciale, mentre la separata indicazione di detti costi è degradata ad obbligo di carattere formale, passibile unicamente di sanzione amministrativa (Sez. T, n. 06205/2015, Federico, Rv. 635256). Con la pronuncia Sez. T, n. 04030/2015, Crucitti, Rv. 634885, la Corte ha affermato l'integrale portata retroattiva dell'abolizione del regime di assoluta indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (cd. Paesi black list), ove non separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi, a seguito della modifica all'art. 110, commi 10 e 11, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (apportata dall'art. 1, comma 301, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). L'assunto si fonda sulla ratio della nuova disciplina, che intende contemperare l'interesse del contribuente a poter dedurre i costi effettivamente sostenuti con quello 594 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA dell'Amministrazione finanziaria ad un efficace controllo. Del resto, il dato testuale dell'art. 1, comma 303, della legge n. 296 del 2006, che cumula l'applicazione della sanzione prevista dall'art. 8, comma 3 bis, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (introdotta dall'art. 1, comma 302, della legge n. 296 del 2006) con quella prevista dall'art. 8, comma 1, del medesimo decreto, torva giustificazione solo in ragione dell'estensione della portata retroattiva dell'abolizione del previgente regime d'indeducibilità. Dunque, all'esito delle modifiche retroattive introdotte dall'art. 1, commi 301, 302 e 303 della legge n. 296 del 2006, la deducibilità delle spese e degli altri componenti negativi inerenti ad operazioni commerciali intercorse con fornitori aventi sede in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi black list) non è più subordinata alla loro separata indicazione nella dichiarazione annuale dei redditi. La violazione del relativo obbligo, che assume natura meramente formale, espone il contribuente unicamente alla sanzione amministrativa prevista dall'art. 8, comma 3-bis, del d.lgs. n. 471 del 1997, da cumulare, per le sole violazioni anteriori all'entrata in vigore della legge n. 296 del 2006, con la sanzione di cui al medesimo art. 8, comma 1 (Sez. T, n. 21955, La Torre, Rv. 637359). Sul tema si segnala, inoltre, la decisione della Sez. T, n. 04854/2015, Tricomi, Rv. 635059, che, con riferimento alla disciplina sanzionatoria prevista dall'art. 7, comma 2, del d. l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, che pone esclusivamente a carico di società o enti con personalità giuridica l'applicazione delle sanzioni anche per le violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione non sia stata irrogata alla data di entrata in vigore del decreto legge, ha ritenuto che la norma, nel produrre retroattivamente la caducazione ex lege dell'obbligazione solidale, prevista dall'art. 11, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, per le violazioni commesse dalla persona fisica antecedentemente all'entrata in vigore del decreto legge, non determina alcun effetto estintivo dell'obbligazione della società, sicché essa non può giovarsi, ai sensi dell'art. 1297, comma 1, c.c. dell'estinzione dell'obbligazione verificatasi per gli altri coobbligati, atteso il carattere personale della relativa eccezione. Resta fermo il limite generale della intangibilità delle sanzioni già irrogate in funzione di garanzia della certezza del diritto e di stabilità delle situazioni quesite, principio ribadito dalla sentenza Sez. T, n. 24498/2015, Olivieri, in corso di massimazione, in tema di sanzioni per violazione degli obblighi derivanti dalla partecipazione in consorzi per il riciclaggio di rifiuti di polietilene, 595 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA cui è onerato chiunque detenga tali rifiuti in ragione della propria attività. Il differimento dell'obbligo di partecipazione e della applicabilità delle sanzioni per l'omessa contribuzione, disposto dall'art. 10 del d.l. 24 dicembre 2003 n. 355, convertito con modificazioni dalla legge 27 febbraio 2004 n. 47, non opera, infatti, per le sanzioni pecuniarie già irrogate con provvedimenti definitivi nel periodo di vigenza temporale dei predetti obblighi Con riferimento all'elemento soggettivo ed alla rilevanza dell'error iuris occorre segnalare l'arresto giurisprudenziale (Sez. T, n. 00440/2015, Cirillo, Rv. 634427; ma anche, Sez. T, n. 13076/2015, Chindemi, Rv. 635871) che, in tema di sanzioni amministrative per violazioni fiscali, ha riconosciuto l'esenzione del contribuente da responsabilità per errore sulla norma tributaria a causa di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, contenga una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione. L'onere di allegazione della ricorrenza di siffatti elementi di confusione, laddove esistenti, grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d'ufficio l'applicabilità dell'esimente, né che sia consentita censura per la mancata pronuncia d'ufficio, ovvero la declaratoria di inammissibilità della questione perché tardivamente introdotta solo in corso di causa (Sez. T, n. 00440/2015, Cirillo, Rv. 634427). Resta, ovviamente, irrilevante l'incertezza soggettiva, derivante dall'ignoranza incolpevole del diritto o dall'erronea interpretazione della normativa o dei fatti di causa (Sez. T n. 13076/2015, Chindemi, Rv. 635871) con riferimento alla utilizzabilità del credito di imposta per aree svantaggiate, ai sensi dell'art. 8 della legge 13 dicembre 2000, n.388. In applicazione del medesimo principio processuale dell'onere di tempestiva allegazione, in tema di tutela dell'affidamento incolpevole, si è affermato (Sez. T, n. 01570/2015, Cirillo, Rv. 634346), che il contribuente che, a sua esimente, alleghi di essersi solo conformato alle indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione finanziaria, è tenuto a dedurre tempestivamente la relativa questione nel giudizio, la quale non può essere proposta per la prima volta in appello in quanto soggetta all'ordinario principio della domanda e non rilevabile d'ufficio. L'indicato principio dell'affidamento del contribuente di fronte all'azione dell'Amministrazione finanziaria opera anche sul 596 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA piano sostanziale. La Corte, con l'ordinanza Sez. 6-T, n. 00537/2015, Caracciolo, Rv. 634360, ha ritenuto che i casi di tutela espressamente enunciati dal comma secondo del cit. art. 10 della legge n. 212 del 2000 (attinenti all'area della irrogazione di sanzioni e della richiesta di interessi), riguardanti situazioni meramente esemplificative e legate a ipotesi ritenute maggiormente frequenti, non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti. Infatti, la situazione di affidamento appare tutelabile quando caratterizzata: a) da un'apparente legittimità e coerenza dell'attività dell'Amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall'assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall'eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono. Si evidenzia, sul medesimo tema, anche la sentenza Sez. T, n. 05934/2015, Iofrida, Rv. 635008 che ha ribadito che il legittimo affidamento del contribuente comporta, ai sensi dell'art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l'esclusione degli aspetti sanzionatori, risarcitori ed accessori conseguenti all'inadempimento colpevole dell'obbligazione tributaria, ma non incide sulla debenza del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale, dipendendo esclusivamente dall'obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi. Con riferimento alla disciplina della continuazione, la Corte, con sentenza Sez. T, n. 10357/2015, Bruschetta, Rv. 635590, ne ha escluso l'applicabilità ai sensi dell'art. 12 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in tema di violazioni della disciplina dell'imposta di bollo, per l'ipotesi in cui la parte alla quale viene rimesso un atto, un documento o un registro, non in regola con le disposizioni del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642, alla cui formazione non abbia partecipato (nella specie, assegni bancari privi di data o postdatati) - non abbia provveduto alla sua regolarizzazione col pagamento del tributo, dovendosi ritenere che la violazione di tale obbligo, traducendosi nel mancato versamento dell'imposta, non abbia carattere meramente formale. Con riferimento all'attuazione del principio del contraddittorio, che si traduce nella necessaria contestazione della sanzione irrogata, quale limite per l'applicazione della sanzione, la Corte, con la sentenza Sez. T, n. 13730/2015, Federico, Rv. 635833, ha espresso il principio secondo cui, per le società o enti con 597 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA personalità giuridica, l'art. 7, comma 1, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326, che ha introdotto il principio della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie, si applica solo alle violazioni che, alla data di entrata in vigore del decreto (2 ottobre 2003), non siano state ancora contestate o la sanzione irrogata. Ne consegue che qualora il processo verbale di constatazione, contenente la specifica contestazione delle violazioni accertate, sia stato notificato in data anteriore, resterà applicabile la previgente disciplina di cui all'art. 11 del d.lgs. 18 settembre 1997, n. 472. La contestazione della sanzione amministrativa ha una propria autonomia rispetto al tributo cui la stessa si riferisce. Secondo la Corte (Sez. 6-T, n. 14848/2015, Caracciolo, Rv. 636068), infatti, dagli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 472 del 1997 si desume che l'Amministrazione finanziaria deve emettere un apposito provvedimento d'irrogazione in caso di violazioni non incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo (cd. violazioni formali), mentre può irrogare le sanzioni collegate al tributo cui si riferiscono anche con l'atto di accertamento o di rettifica, ai sensi dell'art. 17, comma 1, e quelle relative agli omessi e ritardati versamenti anche mediante iscrizione a ruolo, ai sensi dell'art. 17, comma 3, ferma restando la legittimità di un avviso d'irrogazione avente ad oggetto sia violazioni formali sia sostanziali. Sul tema giova richiamare il principio espresso da Sez. 6-T, n. 18740/2015, Bognanni, Rv. 636518, secondo cui l'atto di contestazione ed irrogazione delle sanzioni è autonomo rispetto al procedimento di accertamento del tributo cui le sanzioni ineriscono. Su tale assunto la Corte ha escluso la ripetizione delle somme pagate bonariamente a prescindere dall'esito del processo avente ad oggetto l'avviso di accertamento relativo alle imposte (nella specie, favorevole al contribuente), qualora il contribuente abbia optato, ex art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, per la definizione agevolata di queste ultime, ritenendo definitivamente chiuso, a quel momento, il rapporto tra contribuente e fisco in ordine alle altre conseguenze sanzionatorie delle violazioni già rilevate. Sotto il profilo della personalità dell'illecito tributario, cui è connessa l'irrogazione della sanzione, si segnala la decisione della Sez. T, n. 11433/2015, Perrino, Rv. 635677, che, in tema di società di capitali, ha riconosciuto che il presidente del consiglio di amministrazione risponde, anche in caso di una mera ripartizione interna dei compiti, delle sanzioni amministrative derivanti da 598 CAP. XXXII - LE SANZIONI IN MATERIA TRIBUTARIA violazioni di norme tributarie, ove manchi, da parte sua, la prova dell'assenza di colpa. Infine, con riferimento all'istituto del ravvedimento operoso di cui all'art. 13, comma 1, lett. a), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, la Corte ha ritenuto inammissibile il ravvedimento parziale, in quanto la norma pone come condizioni di perfezionamento della fattispecie tanto la regolarizzazione dell'obbligo tributario, quanto il versamento integrale della sanzione, nella prevista misura ridotta, con il pagamento degli interessi legali, salvo il differimento di trenta giorni laddove la liquidazione debba essere eseguita dall'Amministrazione finanziaria (Sez. 6-T, n. 19017/2015, Caracciolo, Rv. 636561). 599 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE CAPITOLO XXXIII LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE. (di Paolo Porreca) SOMMARIO: 1. Regolamento preventivo di giurisdizione. – 2. Questioni processuali. – 3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. – 4. Limiti esterni e perimetro della giurisdizione contabile. – 5. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. – 5.1. Ulteriore casistica. – 6. Ambito della giurisdizione tributaria. – 7. Usi civici. – 8. Giurisdizione e diritto internazionale. 1. Regolamento preventivo di giurisdizione. Prendendo le mosse dai profili processuali emergenti dal lavoro di approfondimento delle sezioni unite sul tema della giurisdizione, viene in rilievo il regolemento preventivo quale istituto che vive propriamente della giurisprudenza di legittimità. In Sez. U, n. 10092/2015, Amendola, Rv. 635273, si è tornati a precisare i contenuti che il regolamento in parola deve implementare per non incorrere nella sanzione dell'inammissibilità prevista dall'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., qualora, cioè, non contenga gli estremi della controversia necessari alla definizione della questione di giurisdizione e alla verifica di proponibilità del mezzo, ossia le parti, l'oggetto e il titolo della domanda, il procedimento cui si riferisce l'istanza e la fase in cui esso si trova. Si può dire trovi così conferma la giurisprudenza secondo cui l'istanza di regolamento, pur non essendo un mezzo di impugnazione ma soltanto uno strumento per risolvere in via preventiva ogni contrasto, reale o potenziale, sulla potestas iudicandi del giudice adito, e pur potendo quindi non contenere specifici motivi di ricorso, e cioè l'indicazione del giudice avente giurisdizione o delle norme e delle ragioni su cui si fonda, deve recare l'esposizione sommaria dei fatti di causa, in modo da consentire alla Corte di cassazione di conoscere dall'atto, senza attingerli aliunde, gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell'origine e dell'oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti. 600 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE In una chiave coerente, d'altra parte, Sez. U, n. 06496/2015, Giusti, Rv. 634862, sottolineano che il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione non incorre nella pur applicabile sanzione d'improcedibilità di cui all'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., quando il ricorrente non abbia depositato un documento in esso richiamato e tale atto sia irrilevante ai fini della definizione della questione di giurisdizione. Alcune decisioni hanno affrontato poi la connessione con il peculiare tema dell'intervento, chiarendosi, in particolare da Sez. U, n. 11131/2015, Petitti, Rv. 635361, che chi interviene volontariamente in un giudizio in relazione al quale già è stato proposto il regolamento di giurisdizione non ha diritto all'integrazione del contraddittorio davanti alla Corte di cassazione, atteso che l'interveniente volontario accetta lo stato oltre che il grado in cui il giudizio si trova. Mette conto di menzionare, sul punto, che nello stesso arresto, Rv. 635362 ed Rv. 635363, è stato ribadito come la qualità formale di parte nel giudizio di merito, requisito della legittimazione a proporre il regolamento, può essere acquisita anche con intervento volontario successivo alla sospensione per incidente di costituzionalità che, a sua volta, non esclude la pendenza del processo e l'innesco di un'autonoma fase processuale diretta non al compimento di atti propri del giudizio sospeso bensì alla verifica chiarificatrice del potere giurisdizionale del giudice adito. L'interesse ad avvalersi dello strumento, infatti, nasce per ogni parte che veda contestata la giurisdizione del giudice investito, quand'anche, ad esempio, esso sia stato proposto innanzi a due giurisdizioni distinte dubitando soggettivamente quale sia quella effettivamente esistente: in tale ipotesi, specificano Sez. U, n. 14345/2015, Frasca, Rv. 635954, il regolamento può essere proposto con rigurado ad entrambi i processi pendenti, trattandosi della medesima questione il cui apprezzamento non può che essere unitario. Suddetto interesse permane, peraltro, anche se, nelle more della risoluzione del già proposto regolamento, venga pronunciata sentenza di merito, e ciò proprio per il carattere necessariamente "condizionato" che, in punto di giurisdizione, riveste quella pronuncia (Sez. U, n. 09861/2015, Rordorf, Rv. 635278, in un caso che aveva visto la sopravvenuta dichiarazione di fallimento). In prospettiva per certi versi simmetrica merita segnalazione l'opzione di Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635993, a mente della quale l'ammissione al passivo, contestata con 601 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE opposizione, di un credito il cui accertamento è già devoluto alla giurisdizione di un arbitro straniero, non esclude il potere del giudice concorsuale di ammettere il credito con riserva, considerandolo come "condizionale" rispetto all'esito del processo pendente dinanzi al giudice competente, senza che sussista, in tal caso, una questione di giurisdizione proponibile con lo strumento del regolamento ex art. 41 c.p.c. Ed è nella sopra descritta cornice sistematica che vanno collocate quelle decisioni che sottolineano anche in modo piuttosto rigoroso la preclusione alla proposizione del regolamento derivante dalla decisione di merito, specificando che essa interviene al momento del trattenimento in decisione quando, cioè, si radica già il potere decisorio (Sez. U, n. 05747/2015, Amendola, Rv. 634614). Così come la casistica che nega la proponibilità in ipotesi di adozione, da parte del giudice delegato, del decreto di ammissione di un credito al passivo di una procedura concorsuale, posto che esso è idoneo, ove non opposto, ad acquisire efficacia di giudicato seppure endoprocessuale e posto che la successiva opposizione instaura un giudizio diverso rispetto a quello da considerarsi concluso in via decretale (Sez. U, n. 15200/2015, cit., Rv. 635992). Così come ritengono inammissibile il regolamento quando non penda il processo e perciò anche nel caso un procedimento di tipo anticipatorio, quale quello possessorio, non abbia visto seguire l'istanza ex art. 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione nel pieno merito, ferma restando, invece, l'esperibilità dello strumento nella fase sommaria ancorché connotata da risoluzioni involgenti la giurisdizione innervate, però, dal carattere della provvisorietà (Sez. U, n. 15155/2015, Ragonesi, Rv. 636070). Risulta logica, poi, la declinazione ermeneutica secondo cui, stante la funzione dell'istituto e quella della Corte regolatrice, la statuizione ex art. 41, c.p.c., costituisce giudicato vincolante innanzi tutto nel processo all'interno del quale è domandata, motivo per cui non può essere riesaminata con nuovo ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di cui si era affermata, neppure adducendo, come sottolineano Sez. U, n. 13567/2015, Giusti, Rv. 635686, che taluni aspetti non sarebbero stati esaminati. Diversamente dalla decisione delle sezioni unite, le statuizioni dei giudici di merito sulla sola giurisdizione non sono invece idonee ad acquistare autorità di cosa giudicata in senso sostanziale, e cioè con effetti esterni al processo in cui sono state rese, se non quando in esse la decisione, sia pure implicita, sulla giurisdizione, si rapporti 602 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE con una statuizione di merito (Sez. U, n. 15208/2015, Ambrosio, Rv. 635998). Uno degli ultimi provvedimenti dell'anno in senso temporale, ma di certo tra i più rilevanti per le implicazioni sistematiche, è quello di Sez. U, n. 23542/2015, Amoroso, Rv. 637243, Rv. 637244, Rv. 637245, che in primo luogo ha precisato che anche in sede di regolamento preventivo si fa applicazione del principio della "ragione più liquida": in un giudizio elettorale soggetto all'art. 22 del d.lgs. 1° settembre 2011 n. 150, che aveva originato un ricorso ex art. 41 c.p.c. senza notifica al pubblico ministero, invece parte necessaria a mente del comma 3 del prima citato articolo, le sezioni unite rilevano la mancata integrazione del contraddittorio ma non ne dispongono la sanatoria per rilevata inammissibilità del ricorso, così da non dar corso a un'attività processuale inutile e lesiva del valore costituzionale della ragionevole durata del processo di cui il sopra menzionato principio costituisce applicazione. Nello stesso arresto l'inammissibilità del ricorso è stata affermata perché si deduceva una questione di competenza e non di giurisdizione, qual è quella contenuta nella doglianza secondo la quale era comunque la corte di appello ex art. 669-terdecies c.p.c., e non il tribunale in diversa composizione, a doversi pronunciare sul reclamo avverso la cautela disposta dallo stesso ufficio inibendo gli effetti del d.P.C.M. con cui, a norma dell'art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, il presidente della regione Campania era stato sospeso dalla carica per condanna in primo grado penale a titolo di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p. Tutto ciò in uno all'altra inammissibilità rilevata in ordine alla doglianza di eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice, lamentata sull'assunto che la tutela cautelare era preclusa dall'omessa inclusione del giudizio coinvolto nelle ipotesi di sospensione ex art. 5 del d.lgs. n. 150 del 2011, e che la questione di costituzionalità contestualmente sollevata sull'art. 8 in parola non permetteva di omettere l'applicazione della norma della cui legittimità si dubitava fin tanto che non censurata dalla Consulta: temi su cui la Corte con chiarezza osserva che quella così proposta non era identificabile come una questione di giurisdizione, dovendo trovare risposta nel sistema delle impugnazioni, salve ripercussioni in invasioni o turbative di altro potere dello Stato, e in specie del Governo che aveva emesso il d.P.C.M. di sospensione dalla carica. 2. Questioni processuali. Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637136, hanno precisato, sul versante processuale e in sintonia 603 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE con Sez. U, n. 02242/2015, Spirito, Rv. 634186, che, a seguito dell'introduzione legislativa della translatio iudicii intergiurisdizionale, la cassazione senza rinvio dev'essere disposta solo nel caso di vero e proprio difetto assoluto di giurisdizione da parte, cioè, di qualsiasi giudice, non quando, ad esempio, si statuisca un'errata estensione del potere da parte del giudice la cui sentenza viene cassata e che, quindi, può ius dicere sull'oggetto sia pure entro diversi limiti. Quanto alla materia processuale, per così dire residua, che investe il tema qui in esame, è opportuno segnalare ulteriori decisioni. Sez. U, n. 15477/2015, Petitti, Rv. 636043, hanno dato continuità all'orientamento che ammette la convertibilità dell'impugnativa per cassazione, inammissibile come ricorso ordinario e quale istanza di regolamento preventivo, in denuncia di conflitto di giurisdizione, solo, però, ove ne presenti i requisiti formali e i relativi presupposti, ovvero quando, da un lato, il ricorso risulti ritualmente notificato al soggetto destinatario personalmente e non al suo procuratore e, dall'altro, quando sia riferibile a sentenze che costituiscono altrettante decisioni declinatorie della potestas iudicandi, non più revocabili dai diversi giudici che le hanno pronunciate su di una identica domanda, e perciò idonee a integrare gli estremi del conflitto reale negativo, denunciabile ai sensi dell'art. 362 c.p.c., comma 2, n. 1. Da menzionare è poi la puntualizzazione di Sez. U, n. 21951/2015, Petitti, Rv. 636916, sui rapporti tra conflitto negativo di giurisdizione e translatio iudicii normata dall'art. 59 della legge 18 giugno 2009 n. 69, la cui lettura così si stabilizza: il meccanismo delineato dagli artt. 59 ricordato e 11 c.p.a. perché possa essere introdotto un regolamento di giurisdizione d'ufficio presuppone che un primo giudice declini la giurisdizione e indichi un secondo giudice che egli ritiene fornito di giurisdizione; che tale giudizio venga riassunto dinnanzi a questo secondo giudice; che il secondo giudice a sua volta non condivida l'indicazione data dal primo; che per tale ragione, alla prima udienza, chieda alla Corte di cassazione di definire a chi spetti la giurisdizione. In particolare, nel caso esaminato, la causa non era stata riassunta tempestivamente e dunque, anche se la domanda restava la medesima, il secondo giudice, ancorché fosse quello indicato, era tenuto a statuire sulla giurisdizione non ostandovi la precedente statuizione declinatoria della giurisdizione, poiché il decorso del termine ultimo per la riassunzione escludeva che la domanda potesse ritenersi "riproposta" e che il successivo giudizio potesse considerarsi 604 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE riassunzione del primo. Con l'ulteriore e logico corollario che le parti, in un caso simile, se non intendano attendere la pronuncia sulla giurisdizione del secondo giudice, non essendo vincolate alla precedente declinatoria di giurisdizione possono proporre regolamento preventivo, ovvero, se anche questo giudice declini la giurisdizione, sollevare il conflitto, ai sensi dell'art. 362, comma 1, n. 1, c.p.c., stante la precedente pronuncia di difetto di giurisdizione. Sez. U, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, hanno invece ricordato l'estensione del principio della translatio iudicii anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione emesse dai giudici di merito, nonostante queste ultime, a differenza di quella delle sezioni unite della Corte di cassazione, non impongano, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di conformarvisi. Aggiungendo che si tratta di soluzione ragionevole dell'ordinamento atteso che le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c., che consente di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice ad quem, rendendo praticabile la migrazione dinanzi a lui. Infine, Sez. U, n. 04619/2015, De Marzo, Rv. 634674, hanno sottolineato, ancora una volta, la connessione tra la pregiudiziale sulla giurisdizione e il principio di ragionevole durata del processo. Si è quindi ribadito che il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito quale quella attinente alla giurisdizione, non può che avere natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, dovendo essere esaminato con priorità solo se la questione pregiudiziale di rito o altre anche preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, il suddetto ricorso incidentale andrà esaminato solo in presenza dell'attualità dell'interesse, sussistente unicamente nell'ipotesi di fondatezza del ricorso principale. 3. I limiti esterni alla giurisdizione: il sindacato sulle decisioni del giudice amministrativo. Il tema dei limiti esterni alla giurisdizione amministrativa è stato affrontato in un arresto, tra i più significativi degli ultimi anni, concernente l'impugnativa di una decisione del Consiglio di Stato che, riformando quella di prime cure, aveva annullato la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura di nomina del presidente aggiunto della Suprema Corte 605 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE di cassazione. I giudici amministrativi avevano ritenuto preliminarmente che non ostasse il collocamento in quiescenza delle parti in lite in considerazione della natura sostanziale dell'interelle legittimo fatto valere e stante la pesistente esigenza di una risposta di giustizia alle censure mosse all'atto amministrativo aggredito; e, nel merito, che fosse fondato il rilievo con cui il ricorrente aveva evidenziato la minore esperienza giurisdizionale del soggetto nominato, in particolare quella, per 18 anni, presso l'avvocatura dello Stato, che non poteva essere compensata dalla maggiore estensione temporale che, invece, connotava l'esercizio delle funzioni di legittimità del concorrente. Sez. U, n. 19787/2015, cit., Rv. 636134 e Rv. 636135, sono state così indotte dalla fattispecie a svolgere una compiuta disamina della giurisprudenza sull'eccesso di potere giurisdizionale, quale costruzione di matrice applicativa di una fattispecie generale di difetto di giurisdizione del giudice, nella specie amministrativo. Si è in primo luogo distinta l'ipotesi del giudizio di legittimità da quello di ottemperanza, osservando che nel primo caso i limiti esterni sono travalicati quando si entri nel merito della discrezionalità amministrativa debordando dalla verifica della "non pretestuosità", ovvero dell'illogicità, e attingendo alla sfera della "non condivisione" dell'atto sindacato, ovvero della diversa valutazione dei fatti ad esso sottesi. Nel secondo caso, normato come giurisdizione di merito dall'art. 112, comma 3, c.p.a., cui si raccordano le ipotesi di violazione ed elusione del giudicato, l'eccesso si concretizza quando il giudice amministrativo ritiene erroneamente sussistenti i presupposti dell'ottemperanza. Il precedente del 2015 in rassegna precisa altresì che nell'ambito dell'ottemperanza una peculiare ipotesi di eccesso si ha quando il giudice amministrativo conformi l'agire dell'amministrazione a un contenuto impossibile per essere oramai "chiusa" la vicenda, non sussistendo più le condizioni perché si possa provvedere e cioè ottemperare, trovando spazio la sola via compensativa e risarcitoria. Profili che emergono quando il giudice ordini al Consiglio Superiore della Magistratura di attribuire ora per allora un incarico a magistrati che siano in quiescenza. Linea ermeneutica già ripresa quest'anno da Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375, che però aveva escluso l'eccesso di potere giurisdizionale in una decisione del Consiglio di Stato adottata nel giudizio di ottemperanza per la mancata esecuzione di una sentenza di annullamento della delibera di conferimento di un incarico giudiziario direttivo da parte del Consiglio Superiore della 606 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE Magistratura. La decisione del giudice amministrativo aveva ritenuto ammissibili i motivi aggiunti diretti ad accertare la natura elusiva del giudicato propria della rinnovata deliberazione dell'amministrazione e, in accoglimento degli stessi, aveva escluso la presenza di elementi significativi di novità rispetto alla prima delibazione, esercitando i conseguenti poteri sostitutivi mediante designazione di un commissario ad acta. L'esclusione dell'eccesso di potere è stata affermata, in quel caso, perché veniva in questione solo il modo in cui la giurisdizione era stata in concreto esercitata, senza che potesse assumere rilievo il fatto che uno dei candidati all'incarico fosse prossimo a un pensionamento non ancora maturato. Uno del nova del Sez. U n. 19787/2015, cit., sta però nell'affinamento del rapporto tra vicenda "chiusa" e giudizio di legittimità: si esclude, in particolare, che il collocamento in quiescenza possa impedire il sindacato di legittimità del giudice amministrativo, altrimenti, diversamente da quanto accade in sede di ottemperanza, determinandosi uno stallo nelle forme della cristallizzazione accidentale della situazione di fatto precedente la pronuncia di annullamento richiesta che, invece, se accolta, aprirebbe il varco alla possibilità risarcitoria per perdita non del posto ma della chance di ricoprirlo. In buona sostanza, ne sarebbe altrimento leso il diritto alla tutela giurisdizionale e al corretto andamento dell'amministrazione. In questa cornice riesce agevole comprendere l'iter logico dei tre principi di diritto in cui l'arresto è infine sfociato, ossia: a) l'esclusione dell'eccesso di potere giurisdizionale quando, in ipotesi di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza che con ricorso in sede di legittimità, il Consiglio di Stato, dopo ave rigettato la prima domanda, si pronunci sulla seconda accogliendola; b) l'esclusione del medesimo eccesso quando, in ipotesi di concorso bandito dal Consiglio Superiore della Magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario, il Consiglio di Stato si pronunci sull'appello avverso una pronuncia del tribunale amministrativo regionale avente ad oggetto la delibera di conferimento del posto bandito, ancorché il magistrato istante non sia più nel ruolo della magistratura per collocamento in quiescenza e sebbene quest'ultima circostanza inibisca l'ordine, in sede di ottemperanza, di assegnazione dell'incarico ora per allora al magistrato vittorioso; c) l'affermazione della sussistenza dell'eccesso quando, nella fattispecie sopra descritta, il Consiglio di Stato operi direttamente 607 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE una valutazione di merito del contenuto della delibera dell'organo di autogoverno della magistratura ordinaria, apprezzandone la ragionevolezza e così sovrapponendosi alla discrezionalità amministrativa qui espressione del potere costituzionale di cui all'art. 105 Cost. e, in questa latitudine, rafforzata dalle novità legislative apportate dall'art. 2, comma 4, del d.l. 24 giugno 2014 n. 90, convertito dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, all'art. 17, comma 2, della legge 24 marzo 1958 n. 195. Ciò tanto più se si ripensi alle sottolineature di Sez. U, n. 06494/2015, Giusti, Rv. 634786, in cui, in un caso di valutazione comparativa per l'assegnazione di una cattedra universitaria, si richiama l'attenzione sul fatto che la lettera a) del comma 4 dell'art. 114, citato, non limita il potere giudiziale di emanazione diretta dell'atto amministrativo ai soli casi di attività vincolata dalla pubblica amministrazione. Il 2015 è stato in ogni caso un anno ricco di precisazioni in tema di giudizio sui limiti esterni della giurisdizione amministrativa in sede di ottemperanza, e merita di essere menzionata anche Sez. U, n. 15476/2015, Petitti, Rv. 636366, che ha escluso, in quel contesto, l'eccesso di potere pure nel caso di valutazione dello ius superveniens, posto che il giudice deve valutare, in vista dell'esatta realizzazione dello scopo del procedimento, tutte le sopravvenienze, di fatto e di diritto che, ricadendo sul giudicato, ne rendono eventualmente impossibile la realizzazione. Non può peraltro omettersi la segnalazione di un altro caso di particolare messa a fuoco dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa in connessione, questa volta, con il diritto dell'Unione europea. Sez. U, n. 02242/2015, cit., hanno ripreso il nodo della giurisprudenza fatta propria dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 7 aprile 2011 n. 4 (peraltro in overruling rispetto all'arresto 10 novembre 2008 n. 11) secondo cui il ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante censura della sua ammissione a una procedura di gara, dev'essere esaminato prioritariamente anche nel caso in cui nell'impugnativa principale si alleghi l'interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura, indipendentemente dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, inclusa perciò l'ipotesi in cui i concorrenti rimasti in gara siano soltanto due (e coincidano con il ricorrente principale e con l'aggiudicatario ricorrente incidentale), ciascuno mirante ad escludere l'altro per mancanza, nelle rispettive offerte presentate, dei requisiti minimi di idoneità 608 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE dell'offerta. Con la conseguenza che a fronte di due imprese che sollevano a vicenda la medesima questione, una può incorrere nell'inammissibilità del ricorso e l'altra ottenere il mantenimento della sua in tesi illegittima aggiudicazione. Già Sez. U, n. 10294/2012, Tirelli, Rv. 623049, avevano segnalato che in questo modo si innescava una crisi del sistema che, al contrario, dovrebbe assicurare la possibilità di provocare l'intervento del giudice per ripristinare la legalità e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dall'ordinamento, tanto più che l'aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale solo se acquisita in modo legittimo. Tuttavia in quell'occasione la Corte ritenne che «il principio adottato dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato non costituisse conseguenza di un aprioristico diniego di giustizia, ma di un possibile errore di diritto che, pur rendendo ammissibile il ricorso avverso la predetta sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, stante l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti, non ne giustificava la cassazione per eccesso di potere giurisdizionale». Il quadro è mutato a seguito della pronuncia della Corte di giustizia, 4 luglio 2013, causa C-100/12, sull'art. 1, par. 3, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, n. 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2007 n. 2007/66/CE. La Corte europea ha statuito che la norma dell'Unione dev'essere interpretata sul punto nel senso che la suddetta prescrizione sovranazionale osta al fatto che il descritto ricorso principale sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell'esame preliminare dell'eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla conformità con le suddette specifiche tecniche sia dell'offerta dell'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto, sia di quella dell'offerente che ha proposto il ricorso principale. E in Sez. U, n. 02242/2015, cit., è stato per così dire implementato l'assunto del giudice europeo secondo cui devono essere esaminati entrambi i ricorsi simmetricamente "escludenti", siccome ciascuno dei concorrenti potrebbe far valere un analogo interesse legittimo all'esclusione dell'offerta degli altri. La statuizione conclude che quando sia sopravvenuta la decisione della Corte europea, la sua violazione costituisca uno di quei casi «estremi» in cui il radicale sovvertimento delle norme 609 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE sovranazionali, la cui violazione espone peraltro lo Stato a sanzioni anche ingenti, preclude l'accesso alla giurisdizione spettante e quindi viola in negativo i suoi limiti esterni. Lo stravolgimento delle norme di rito, e correlativo diniego di giustizia, è stato ad esempio escluso da Sez. U, n. 20413/2015, Travaglino, Rv. 636915, nell'ipotesi di denuncia della sentenza del Consiglio di Stato che, in una controversia relativa alla tutela di un bene culturale, aveva rilevato il difetto di legittimazione attiva di un'associazione ambientalista: è sembrato qui evidente che la figura dell'eccesso di potere giurisdizionale non potesse spingersi fino a questo, esondando nel sindacato diretto sulla lettura del tessuto normativo applicabile alla fattispecie. Proprio l'aggancio ai casi estremi permette di escludere l'incoerenza dell'affermazione, fatta propria da Sez. U, n. 09099/2015, Spirito, Rv. 635182, che, in un caso concernente la composizione di un collegio del Consiglio di Stato, ha riaffermato l'orientamento per cui la carenza di giurisdizione prende corpo solo nelle ipotesi di alterazioni strutturali dell'organo stesso, per vizi di numero o di qualità dei suoi membri, che ne precludono l'identificazione con quello delineato dalla legge. Diversamente vertendosi in tema di violazione di norme processuali, esorbitante dai limiti del sindacato delle sezioni unite. Forse meno estrema ma altrettanto "incidente" è la violazione, da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, di una norma procedimentale dirimente sull'espansione della giurisdizione quale l'affermazione di un giudicato interno, che si traduce, in questa chiave, non in una violazione interna ai limiti giurisdizionali coinvolti ma in una vera e propria decisione "sulla" giurisdizione, come argomentano Sez. U, n. 04682/2015, Chiarini, Rv. 634425. 4. Limiti esterni e perimetro della giurisdizione contabile. Ai confini tra errore in procedendo e limite esterno alla giurisdizione, questa volta contabile, si muovono anche Sez. U, n. 00476/2015, Ambrosio, Rv. 633599, esaminando la norma sulla definizione agevolata dei giudizi di responsabilità erariale, di cui all'art. 1, comma 231, della legge 23 dicembre 2005 n. 266. La lettura offerta è quella per cui non si tratta di una norma sulla giurisdizione ma di una modalità procedimentale di definizione del giudizio contabile e, quindi, di una questione interna allo stesso processo. 610 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE La Corte ha aggiunto che deve di conseguenza escludersi in radice qualsiasi iniziativa di rimessione da parte della Corte regolatrice al giudice delle leggi, proprio perché la tutela con riguardo agli atti processuali è assicurata nell'ambito del processo ed è all'interno del processo stesso che può essere sollevata la questione di costituzionalità delle norme che, eventualmente, non garantiscano un'adeguata tutela dei diritti della parte. Il corrispondente in qualche modo sostanziale di questa conclusione in latitudine processuale è stato offerto da Sez. U, n. 06493/2015, Giusti, Rv. 634784, che hanno sottolineato una volta di più come l'accertamento della responsabilità per danno erariale operato nei confronti del funzionario pubblico non può mai integrare una violazione dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, non implicando un sindacato sul merito delle scelte discrezionali del funzionario, ma unicamente un controllo sulla legittimità del suo operato. I confini tra giurisdizione ordinaria e contabile, dall'interessante angolo visuale del ne bis in idem, caratterizzano Sez. U, n. 14632/2015, Pellecchia, Rv. 636278, che escludono quella violazione quando al giudizio civile introdotto dall'amministrazione per per danni cagionati da un soggetto investito di un rapporto di servizio con la stessa si aggiunga quello, per i medesimi fatti, promosso dal procuratore contabile davanti al relativo giudice. La ratio della soluzione sta nella diversa matrice dei giudizi, il primo svolto nell'interesse della singola amministrazione, il secondo nel più generale interesse pubblico al corretto utilizzo delle risorse dell'amministrazione in quanto tale e con una funzione sanzionatoria maggiore di quella che, evidentemente, non declina, in questa sistematica, il carattere compensativo dell'altra tipologia di responsabilità. Concettualmente in linea con quanto appena osservato, Sez. U, n. 14689/2015, Bandini, Rv. 635777, rilevano che, invece, nell'attività contrattuale collettiva, i rappresentanti sindacali dei dipendenti pubblici non perseguono gli interessi della pubblica amministrazione quanto gli interessi antagonistici dei lavoratori, e pertanto essi non sono soggetti alla giurisdizione contabile per le conseguenze degli accordi stipulati. In uno al rapporto di servizio è quello concessorio a monte ovvero, a valle, il vincolo di destinazione pubblicistica a fungere da elementi discriminanti per il riconoscimento della giurisdizione contabile. In Sez. U, n. 00473/2015, Amendola, Rv. 634650, si è rimarcato che il nuovo sistema dell'accreditamento per l'assistenza 611 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE sanitaria di cui all'art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come integrato dall'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e successive modificazioni, non ha inciso sulla natura del rapporto tra struttura privata ed ente pubblico che è di natura concessoria, atteso che la prima, a seguito del provvedimento di accreditamento, viene inserita in modo continuativo e sistematico nell'organizzazione pubblica per il settore in questione, in modo da poter accedere alla qualifica di ente erogatore del servizio e fornire le relative prestazioni, istituzionalmente spettanti all'ente pubblico. Ne consegue che tra quest'ultimo e la struttura accreditata si instaura un rapporto di servizio in senso lato e sussiste la giurisdizione della Corte dei conti laddove il privato sia chiamato a rispondere per danno erariale con riferimento ad accordi corruttivi intervenuti con il funzionario che ha agito per l'ente di appartenenza. In Sez. U, n. 23306/2015, Vivaldi, Rv. 637293, la conclusione è opposta nel caso di azione di risarcimento dei danni subiti da Alitalia s.p.a., partecipata pubblica, per le condotte illecite delle sue figure gestorie, stante l'esclusione di un rapporto di servizio, anche latamente inteso, determinata dall'autonomia patrimoniale societaria. Mentre Sez. U, n. 10094/2015, Giusti, Rv. 635272, negano la giurisdizione contabile partendo dall'esclusione del vincolo pubblicistico sulle somme erogate ai partiti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali (nella disciplina anteriore alla legge 6 luglio 2012, n. 96): ragion per cui la condotta appropriativa del tesoriere del partito non può dare luogo a responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione del giudice contabile, ma a responsabilità civile soggetta alla giurisdizione del giudice ordinario, che il partito stesso, associazione privata non riconosciuta, può adire per il ripristino della propria consistenza patrimoniale. Su opposto versante Sez. U, n. 23897/2015, Spirito, in corso di massimazione, che riafferma il principio per cui è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti il giudizio sulla responsabilità di soggetti privati destinatari di fondi pubblici, concessi per attuare interventi di loro interesse ma rientranti in un piano o programma pubblicistico che l'amministrazione si propone di realizzare, i quali distolgano le risorse ottenute dalle finalità cui erano preordinate così arrecando all'amministrazione stessa un danno corrispondente al mancato conseguimento degli obiettivi da essa perseguiti. Proprio il contenuto pubblicistico del rapporto previdenziale, quale relazione trilatera infrazionabile, ha fatto optare Sez. U, n. 11769/2015, Mammone, Rv. 635485, per la giurisdizione contabile nel caso di azione di rivalsa esercitata dall'ente datoriale nei 612 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE confronti del dipendente in quiescenza per ratei erogati in misura superiore al dovuto. 5. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria e amministrativa. Mettendo ora più a fuoco i reciproci confini tra giurisdizione amministrativa e ordinaria devono in primo luogo essere segnalate le decisioni che contribuiscono a una ricognizione sistematica del perimetro in parola. In questo senso vengono in risalto: - Sez. U, n. 19453/2015, Travaglino, Rv. 636877, secondo cui appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda risarcitoria avanzata dall'utente di un servizio pubblico nei confronti del soggetto privato assunto come inadempiente in relazione al corrispondente contratto di trasporto attuativo del servizio: si è colta qui l'occasione per distinguere la class action "pubblica" prevista dal d.lgs. 20 dicembre 2009 n. 198 da quella civilistica prevista dall'art. 140-bis del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, la prima funzionale al conseguimento di un risultato che giovi, indistintamente, a tutti i contitolari dell'interesse diffuso al ripristino del corretto svolgimento della funzione amministrativa ovvero della corretta erogazione del servizio, mentre la seconda a traduzione dell'esercizio di un diritto individuale oggetto di trasposizione in capo a ciascun titolare singolarmente identificato; - Sez. U, n. 10095/2015, Rordorf, Rv. 635334, che rimarcano come spetti al giudice amministrativo stabilire, in concreto e nel merito, se sia meritevole di tutela o di mero fatto l'interesse del privato volto a ottenere o conservare un bene della vita posto a confronto con il potere attribuito dalla legge all'amministrazione non per la soddisfazione di quell'interesse individuale ma di un interesse pubblico che lo ricomprende e per la cui realizzazione è dotata di discrezionalità. La fattispecie era quella azionata in via cautelare dai titolari di una società quotata nei confronti della Consob non per ottenere un risarcimento del danno subìto – sotteso a una distinta domanda non oggetto del regolamento – ma la condanna dell'autorità a esercitare i poteri di vigilanza, assegnati a tutela della correttezza e trasparenza dei mercati finanziari, al fine di elidere il rischio di danni paventati per il futuro; - analogamente ragionano Sez. U, n. 15154/2015, Cappabianca, Rv. 635999, che collocano nella medesima area giurisdizionale la lite riguardante la legittimità del diniego opposto dal gestore delle infrastrutture aeroportuali alla richiesta, del subgestore di una specifica area, di assegnazione di uno spazio per 613 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE l'esercizio dell'attività di "handling" perché quel gestore è affidatario del corrispondente pubblico servizio ed è qualificabile come organismo di diritto pubblico, svolgendo un complesso di attività finalizzate a soddisfare interessi generali, sicché la lite incide sulle modalità di esercizio dei poteri autoritativi allo stesso conferiti (anche se, bisogna dire, la decisione aggiunge altra ratio decidendi facendo leva sul fatto che il conflitto, vertendo su atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici e in materia di pubblici servizi, era attratta comunque alla giurisdizione esclusiva di detto giudice ex art. 133, comma 1, lett. b) e c), c.p.a.). Un pendant logico della perimetrazione è declinato da Sez U, n. 02244/2015, Spirito, Rv. 634254, e Sez. U, n. 20079/2015, Manna, Rv. 637251, quando specificano che il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario non può essere esercitato se venga posto a fondamento del diritto dedotto in giudizio contro l'amministrazione che lo abbia a adottato per un suo sindacato "diretto", ma solo se sia antecedente logico e quindi oggetto di una pregiudiziale nella lite tra soggetti diversi, ovvero, come rimarca la seconda decisione citata, a cognizione propriamente incidentale. Decisioni cui vanno affiancate Sez. U, n. 06788/2015, Giusti, Rv. 634766, che hanno confermato la costante nomofilachia per cui il giudice civile non può comunque disapplicare l'atto amministrativo la cui legittimità sia stata affermata dall'omologo amministrativo con sentenza passata in giudicato. In questo quadro è poi importante la frastagliata casistica sugli accordi tra amministrazioni che determinano la giurisdizione del giudice amministrativo anche se vi sia richiesta risarcitoria o sia coinvolto altro diritto soggettivo anche a primario rilievo costituzionale quale quello alla salute. In questo senso Sez. U, n. 04948/2015, Chiarini, Rv. 634506, osservano che la convenzione stipulata tra il Ministero dei trasporti, l'ente Ferrovie dello Stato e un Comune, avente ad oggetto la soppressione dei passaggi a livello attraverso la costruzione di opere sostitutive secondo il piano poliennale di sviluppo della rete ferroviaria nazionale previsto dalla legge 12 febbraio 1981, n. 17, assolve alla funzione di individuazione convenzionale dell'accordo di programma tra enti pubblici a conclusione di un procedimento preordinato all'esercizio delle rispettive pubbliche funzioni, dal che discende che rientra tra gli accordi di cui all'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, con devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 11, comma 5, della stessa legge. E anche la convenzione per 614 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE la gestione di una farmacia stipulata tra Comune e Consorzio intercomunale è un accordo tra pubbliche amministrazioni e per questo, scrivono Sez. U, n. 11376/2015, Di Palma, Rv. 635509, comporta la stessa conseguenza sul riparto in parola. Il contiguo ambito di quelli che negli studi si qualificano come contratti c.d. pubblici e dei rapporti di tipo concessorio induce a dar conto qui di due decisioni: per Sez. U, n. 12178/2015, Mammone, Rv. 635541, la domanda del gestore di una clinica privata convenzionata diretta ad ottenere la riclassificazione della struttura in una superiore fascia di accreditamento e la conseguente applicazione di un più elevato tariffario delle prestazioni è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ex art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 allora applicabile prima dell'entrata in vigore dell'art. 133, comma 1, lettera c) del c.p.a.), atteso che la pubblica amministrazione, quando riscontra le condizioni di applicabilità o revisione della convenzione di accreditamento di tipo concessorio, esercita una potestà pubblica, che così qualifica la relazione, diretta a organizzare e attuare il servizio sanitario; Sez. U, n. 07959/2015, Spirito, Rv. 634960, prendono invece le mosse dall'appartenenza di beni al patrimonio indisponibile di un ente pubblico (si trattava di piscine comunali, tali quindi ex art. 826, comma 3, c.p.c., essendo destinate al soddisfacimento dell'interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive) per giungere ad affermare che quando essi siano dati in concessione a privati restano alla giurisdizione amministrativa le controversie sul rapporto conseguente, inclusa quella sull'inadempimento degli obblighi concessori e sulla decadenza del concessionario. Va detto che in altra fattispecie su cui risulta utile riflettere in uno a quella sintetizzata, i nodi sono sciolti da Sez. U, n. 12177/2015, Di Cerbo, Rv. 635542, affermando la natura negoziale dell'affidamento di un'area comunale non indisponibile a privati con una convenzione che prevedeva reciproche obbligazioni e, in particolare, da parte del Comune il trasferimento temporaneo del diritto di superficie finalizzato all'installazione di impianti eolici; da parte dei privati la progettazione, realizzazione e gestione degli impianti stessi. La suddetta natura è stata ritenuta anche se l'atto era stato posto in essere in esito a gara pubblica. Dal che si è desunta l'instaurazione di un rapporto paritetico che non permetteva al Comune di esercitare poteri autoritativi. Con conseguente appartenenza alla giurisdizione ordinaria della domanda di nullità o risoluzione della convenzione per inidoneità dovuta all'assenza strutturale di vento. 615 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE Come si può notare riaffiorano, nell'ermeneutica giurisprudenziale, alcuni tradizionali criteri discretivi del riparto, come la natura appunto paritetica, privatistica del rapporto coinvolto: così in Sez. U, n. 14476/2015, Di Blasi, Rv. 635783, sulla domanda di pagamento del compenso avanzata da un professionista incaricato della progettazione di uno sturmento urbanistico particolareggiato. Ma anche Sez. U, n. 17741/2015, Frasca, Rv. 636142, evidenziano in senso omogeneo questo profilo nella controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte di un comune, di una polizza fideiussoria rilasciata a garanzia dell'adempimento di obblighi ed oneri assunti dal partecipante ad una gara di appalto di opere pubbliche, posto che le domande di accertamento dell'inesistenza della debenza dell'importo preteso dall'ente, e di manleva in relazione a quanto eventualmente da pagarsi a quest'ultimo, non potevano che avere riguardo al rapporto civilistico di garanzia. Nel caso invece il rapporto assuma le vesti dell'appalto pubblico, Sez. U, n. 09861/2015, cit., Rv. 635279, confermano che la giurisdizione del giudice ordinario sussiste quando la domanda attenga alla fase esecutiva del rapporto contrattuale – come, in Sez. U, n. 14559/2015, Ragonesi, Rv. 635779, nell'ipotesi della domanda di adempimento in cui si sostanzia la pretesa di revisione dei prezzi espressamente ricondotta a una specifica clausola del contratto – o quando l'amministrazione, dietro lo schermo dell'annullamento in autotutela, intervenga direttamente sul contratto per vizi suoi propri, anziché sulle determinazioni prodromiche. Mentre l'annullamento in autotutela di un atto amministrativo propriamente prodromico alla stipula del contratto ha natura autoritativa e discrezionale e quindi il relativo vaglio di legittimità spetta al giudice amministrativo, la cui giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, c.p.a.) si estende alla conseguente domanda per la dichiarazione di inefficacia o nullità del contratto. In altri termini, come si esprimono Sez. U, n. 14188/2015, Mazzacane, Rv. 635892, riprendendo una lettura che si può definire granitica, nelle procedure ad evidenza pubblica per la conclusione dei contratti da parte dell'amministrazione, gli atti e le condotte assunti prima dell'aggiudicazione e tra questa e la stipula, rientrano nel sindacato spettante al giudice amministrativo, quanto accade successivamente in quello del giudice dei diritti. E pertanto – precisano Sez. U, n. 14555/2015, Ragonesi, Rv. 635780 – la decisione di sciogliersi dal vincolo dopo la stipula o l'aggiudicazione che ad essa equivale nel regime anteriore al codice dei contratti adottato con il d.lgs. 12 616 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE aprile 2006 n. 163, integra un recesso di natura civilistica giustiziabile in sede ordinaria. Si è anche messo a fuoco che nei casi in cui il rapporto privato-amministrazione pubblica sia"misto" bisogna fare perno sul criterio della prevalenza funzionale: così per Sez. U, n. 13864/2015, D'Ascola, Rv. 635923, la convenzione avente ad oggetto l'integrale ristrutturazione e ampliamento di un impianto sportivo comunale nonché la sua successiva gestione pluriennale, è da qualificare come costruzione e gestione di opera pubblica con valenza preponderante della prima ai fini del riparto, e non mero affidamento in gestione dei conseguenti servizi, se, nella comparazione tra le prestazioni a carico del concessionario, risulti preminente il primo aspetto in modo da identificare il vero oggetto del contratto in relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti. Con conseguente giurisdizione ordinaria sulla domanda di pagamento delle opere eseguite, inerente alla fase esecutiva. Nella stessa cornice e per le medesime conclusioni si è esclusa la fattispecie questa volta della fornitura di servizi nel caso di Sez. U, n. 14185/2015, Spirito, Rv. 635895, qualificando quale locazione il contratto stipulato dall'amministrazione per il reperimento di immobili da adibire ad attività istituzionali quali quelle delle aziende sanitarie, stante il permanere della cosa locata nel patrimonio del locatore e l'assenza di una prestazione di attività dello stesso in favore della controparte pubblica. L'elemento dirimente della potestà autoritativa gioca d'altro canto un generale ruolo dirimente nelle variegate ipotesi di domande di pagamento in qualche modo soggette o meno ad essa: Sez. U, n. 06919/2015, Bernabai, Rv. 634768, hanno escluso la legislazione sui servizi di accoglienza per il Giubileo dell'anno 2000 avesse previsto obbligazioni di finanziamento a carico dell'amministrazione statale, dato che gli erogatori in base ad essa non erano destinati ad acquisire diritti soggettivi se non quando l'autorità avesse liquidato le somme in forza di criteri definiti in via amministrativa e connotati da discrezionalità, con conseguente giurisdizione amministrativa; analogamente per Sez. U, n. 15151/2015, Cappabianca, Rv. 635997, resta al giudice amministrativo la controversia proposta da un'amministrazione comunale nei confronti del Ministero della Giustizia per ottenere il rimborso delle spese di gestione degli uffici giudiziari, di cui agli artt. 1 e 2 della legge 24 aprile 1941, n. 392 (secondo il regime antecedente alle modifiche introdotte a cominciare dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190), vista l'insussistenza di un diritto soggettivo 617 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE dei Comuni a conseguire l'integrale restituzione delle spese indicate, nonché l'autoritativa determinazione del quantum del contributo gravante sullo Stato. Nella stessa logica, per conclusioni opposte, si pongono Sez. U, n. 23898/2015, Spirito, in corso di massimazione, in tema di pagamento del corrispettivo dei servizi di trasporto pubblico extraurbano dove si radica la giurisdizione in capo al giudice ordinario «non attenendo [la domanda di pagamento] al mancato o illegittimo esercizio di un potere discrezionale dell'amministrazione concedente, bensì alla radicale negazione delle condizioni normativamente previste per l'insorgenza della pretesa pecuniaria, connotante il petitum, vantata dalla concessionaria». 5.1. Ulteriore casistica. Accostando sistematicamente i temi dell'uso del territorio e quello concettualmente connesso dell'espropriazione, vengono in rilievo gli arresti di Sez. U, n. 08619/2015, Di Iasi, Rv. 635084, e Sez. U, n. 14345/2015, cit., Rv. 635955. Nel primo una domanda di condanna al pagamento di oneri di urbanizzazione avanzata da un consorzio di sviluppo industriale, è stata fatta rientrare nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall'art. 133, comma 1, lettera f), c.p.a., motivando, riguardo al profilo soggettivo richiesto dalla norma come del resto già dal precedente art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, sull'assunto che un tale ente pubblico economico svolge attività non solo privatistica di tipo imprenditoriale, ma anche pubblicistica attinente alla localizzazione industriale. La seconda delle due decisioni da ultimo ricordate aveva riguardo a una lite insorta tra un consorzio per lo sviluppo di aree industriali ed un'impresa insediata nell'area consortile circa la debenza, da parte di quest'ultima, di oneri (non di urbanizzazione ma) conseguenti all'alienazione di un immobile senza l'autorizzazione del consorzio, in asserita violazione di una prescrizione in tal senso contenuta nel regolamento consortile. L'identica conclusione fa perno sull'afferenza, seppure non direttamente alla nozione di urbanistica o edilizia, pur sempre a un particolare aspetto di ciò che resta l'uso del territorio. Questo quand'anche l'impresa sostenga la carenza del potere, in capo al consorzio, di formulare nel suo regolamento quella prescrizione, per l'evidente ragione che si tratta del merito su cui il giudice competente deve pronunciarsi. Nella materia delle espropriazioni è interessante seguire l'analisi nomofilattica del concetto di "atti, provvedimenti, accordi e comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni", locuzione 618 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE come noto utilizzata dall'art. 133, comma 1, lettera g), c.p.a. per la riconduzione alla giurisdizione esclusiva amministrativa. In Sez. U, n. 10879/2015, Di Amato, Rv. 635545, si osserva che la mediata riconducibilità non può essere ravvisata soltanto quando la pubblica amministrazione esercita un pubblico potere avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici, «poiché l'avverbio "mediatamente" viene utilizzato dalla norma anche con riferimento ai comportamenti, il cui connotato caratteristico non è quello di essere strumenti intrinsecamente privatistici». Corollario della premessa è la riconducibilità all'esercizio di un pubblico potere di un'occupazione d'urgenza decretata prima ma proseguita dopo la dichiarazione di pubblica utilità e anche dopo la sopravvenuta inefficacia che aveva travolto quest'ultima. Questo perché restava «riconoscibile» l'esercizio del potere ablatorio che aveva avviato il tutto, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata era stata mantenuta senza titolo. La decisione s'impone all'attenzione anche perché esclude sia possibile ipotizzare una «giurisdizione differenziata» quanto al danno da apprensione e quanto al danno da mancata restituzione, che cozzerebbe con i principi del giusto processo quale volto a realizzare ragionevioli economie processuali. In materia societaria sicuro rilievo hanno Sez. U, n. 01237/2015, Di Palma, Rv. 633757, riferita a un caso di revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ex art. 2449 c.c., di una società per azioni partecipata dall'ente locale revocante. La conclusione della spettanza al giudice ordinario discende dalla qualificazione uti socius e non iure imperii dell'atto posto in essere dall'ente a valle della scelta, soggetta a disciplina pubblicistica (con conseguente bifasicità analoga a quella in tema di appalti), non solo del socio ma ancor prima del modello societario la cui natura privatistica non è mutata dalla partecipazione pubblica. Tanto più dopo che l'art. 4, comma 13, quarto periodo, del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ha segnalato la natura generale del principio, in materia di controllate pubbliche, secondo cui per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali. In tema di pubblico impiego mette conto di segnalare una particolare decisione che si colloca in un quadro generale piuttosto stabile: Sez. U, n. 08069/2015, Curzio, Rv. 635082, hanno statuito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, a norma dell'art. 69 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, la domanda giudiziale di accertamento del diritto al riscatto degli anni universitari per fini 619 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE pensionistici qualora l'istanza, presentata prima della cesura legislativa del 30 giugno 1998, non sia stata definita in alcun modo (nel caso perché era stata smarrita dall'amministrazione). E in un contesto consolidato si pone anche Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634259, che hanno dato continuità all'orientamento per cui, intervenuta l'abrogazione – ex art. 4 della legge 11 aprile 2000 n. 83 – dei commi 6 e 7 dell'art. 28 dello statuto dei lavoratori, le controversie promosse dai sindacati e aventi ad oggetto condotte lesive delle loro prerogative poste in essere da pubbliche amministrazioni, restano assoggettate solo alla disciplina del citato d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 63, comma 3). Con conseguente giurisdizione ordinaria, anche quando la condotta antisindacale afferisca a un rapporto di lavoro pubblico non contrattualizzato e incida su situazioni giuridiche soggettive individuali dei dipendenti. Sono infine connotate da profili di sistematicità Sez. U, n. 13570/2015, Giusti, Rv. 635684, che utilizzano il classico discrimine della carenza di potere per assegnare, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. 16 luglio 2012 n. 109, alla giurisdizione ordinaria l'impugnazione dell'espulsione dello straniero durante il procedimento di emersione del lavoro irregolare, se non adottata per ragioni di ordine pubblico e sicurezza dello Stato. 6. Ambito della giurisdizione tributaria. Il 2015 ha dato modo alla Suprema Corte di operare alcune significative precisazioni sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e tributaria. In Sez. 5, n. 19609/2015, Marulli, Rv. 636547, si legge che la polizza fideiussoria, prevista dall'art. 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 al fine di consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze IVA risultanti dalla dichiarazione annuale in forma accelerata (ovvero senza preventivo riscontro della spettanza), e consistente nell'obbligo per la società di assicurazione di versare le somme richieste dall'ufficio IVA, quando non vi abbia già provveduto il contribuente, configura un contratto autonomo di garanzia connotato dalla non accessorietà dell'obbligazione di garanzia rispetto all'obbligazione garantita, sicché, qualora la società di assicurazione impugni la cartella di pagamento emessa nei suoi confronti contestando l'operatività della garanzia, senza porre in discussione il debito tributario del contribuente, la controversia é devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. All'opposto, come rilevano Sez. U, n. 00641/2015, Greco, Rv. 633758, le controversie aventi ad oggetto il provvedimento di 620 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE iscrizione di ipoteca su immobili, cui l'Amministrazione finanziaria può ricorrere in sede di riscossione delle imposte sul reddito, ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, appartengono sicuramente alla giurisdizione del giudice tributario in ragione della natura tributaria dei crediti garantiti dall'ipoteca, senza che possa avere rilievo la destinazione dei beni a fondo patrimoniale. In generale il decisivo criterio per perimetrare la giurisdizione in parola è appunto la natura tributaria o meno della prestazione in gioco. In questo senso in Sez. U, n. 21950/2015, Petitti, Rv. 636982, si è tornati ad escludere la giurisdizione tributaria, affermando quella ordinaria, riguardo alla controversia relativa al canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (COSASP), proprio perché si tratta di un obbligo dovuto in ragione dell'utilizzazione di suolo pubblico che esula dalla doverosità della prestazione in uno al collegamento di questa alla pubblica spesa. In questo caso la giurisprudenza di legittimità ha ricevuto l'avallo in termini di diritto vivente da parte della Consulta sin dalla decisione di Corte cost., 14 marzo 2008, n. 64. Percorso opposto anche in termini di storia della giurisprudenza quello che assegna alla giurisdizione tributaria la tariffa di igiene ambientale regolata dall'art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (cosiddetta prima versione della TIA, cui poi è succeduto il regime della seconda TIA di cui all'art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, oggetto sul punto dell'interpretazione autentica resa dall'art. 14, comma 33, del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122): Sez. U, n. 23114/2015, Virgilio, Rv. 637137, confermano la natura tributaria, di sostanziale continuità con la tariffa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) affermata da Corte cost., 24 luglio 2009 n. 238. Secondo Sez. 6-T, n. 00134/2015, Cosentino, Rv. 633912 la richiesta di pagamento della tariffa annua forfettaria per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali di cui al d.lgs. 19 novembre 2008 n. 194, innesca una controversia devoluta al giudice specializzato. Si sottolinea come la natura tributaria dell'imposizione emerga dalla doverosità della prestazione, imposta non solo in forza dell'interesse generale al bene della salute ma anche dei vincoli derivati dalle disposizioni comunitarie (in riferimento al regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004 n. 882/CE). Per completezza va rimarcato che l'ordinanza mette l'accento anche sul diretto collegamento con la pubblica spesa, giacché, si evidenzia, grava sullo Stato – per una platea di destinatari 621 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE individuati in relazione al presupposto dall'attività da essi svolta nel settore alimentare – l'obbligo di organizzare controlli ufficiali e di predisporre strutture, mezzi e personale per la loro effettuazione. Infine, Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781, hanno precisato che rientra nella giurisdizione tributaria la controversia sulle somme liquidate dalle commissioni tributarie a titolo di spese processuali, poiché, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, a tale giurisdizione tributaria appartengono tutte le controversie relative ai tributi, di ogni genere e specie, con "ogni accessorio". 7. Usi civici. Per la valenza generale è importante ricordare l'arresto di Sez. U, n. 23112/2015, Virgilio, Rv. 637337, in cui è stato ribadito che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici in materia di esecuzione delle proprie decisioni è limitata alla cognizione sulle opposizioni proposte dalle parti, non estendendosi, cioè, all'esecuzione amministrativa dopo il trasferimento di tali compiti alle regioni secondo quanto stabilito dal d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, all'art. 66, commi 5 e 6. 8. Giurisdizione e diritto internazionale. Sicuramente una delle decisioni di maggiore rilievo di quest'anno è tra le ultime in senso cronologico: si tratta di Sez. U, n. 21946/2015, Giusti, Rv. 637130. Il caso era quello della richiesta di delibazione di una sentenza statunitense che aveva riconosciuto un'ingente somma a titolo di danni, in parte risarcitori in altra parte punitivi, ad alcuni cittadini di nazionalità nord americana nei confronti della Repubblica islamica dell'Iran, del Ministero dell'informazione e della sicurezza dello stesso Stato, in solido con rappresentanti dell'alta amministrazione iraniana, per attentati terroristici contro popolazione civile avvenuti in Israele. La Corte di cassazione innanzi tutto dà seguito agli arresti del 22 ottobre 2014 n. 238 e 3 marzo 2015 n. 30 con cui la Corte costituzionale ha ritenuto che l'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti nell'esercizio dei poteri sovrani, riconosciuta dal diritto internazionale consuetudinario, non può valere a escludere l'accesso alla giurisdizione italiana in relazione ad azioni derivanti da crimini di guerra e contro l'umanità lesivi dei diritti fondamentali della persona, trattandosi di principio irrinunciabile del nostro sistema costituzionale. Con ciò resistendo, in chiave di "controlimite", all'opposto principio affermato dalla Corte internazionale di giustizia, 3 febbraio 2012, Germania c. Italia, secondo cui nella prassi internazionale non si rinvengono elementi sufficienti a 622 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE dedurre l'esistenza in parte qua di una deroga alla regola dell'immunità per atti statali iure imperii. La Corte di cassazione per un verso nega quindi vi potesse essere a tale titolo declinatoria di giurisdizione, anche se, per altro verso, finisce per confermare la negatoria dell'exequatur sull'assunto che, esulando la fattispecie dall'ambito applicativo della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, si doveva far applicazione dell'art. 3 della legge 31 maggio 1995 n. 218, e dunque guardare ai criteri di collegamento stabiliti dal codice di procedura civile italiano quanto alla competenza per territorio, dai quali derivava l'incompetenza della corte statunitense che aveva pronunciato la sentenza. L'ermeneutica applicativa è di assoluta novità nella parte in cui ricostruisce che la giurisprudenza costituzionale italiana non ha implicato una regola di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da delicta iure imperii ma, "solamente", l'inoperatività, nella parte ritagliata, della norma consuetudinaria sull'immunità quale affermata dalla giurisprudenza internazionale. Una peculiare decisione da collocare nel quadro dei rapporti di diritto internazionale tra Stati è poi quella di Sez. U, n. 06496/2015, cit., Rv. 634863, riguardante una controversia tra un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto e alcuni soggetti privati, avente ad oggetto la restituzione di beni immobili situati nel territorio italiano. La Corte ha rilevato il carattere civile della controversia a contenuto patrimoniale, dunque estranea ai profili confessionali. Posto che lo Stato riconosce la giurisdizione della Chiesa cattolica solo in ambito ecclesiastico, a norma dell'art. 2, paragrafo 1, dell'Accordo con la Santa Sede del 18 febbraio 1984, ratificato con legge 25 marzo 1985 n. 121, se ne trae la comprensibile conseguenza della sussistenza della giurisdizione italiana dato che non sono investiti nodi inerenti alla potestà spirituale né l'esercizio del potere disciplinare nei confronti degli appartenenti alla confessione religiosa. Altro arresto degno di nota per la fattispecie affrontata è quella di Sez. U, n. 06603/2015, Travaglino, Rv. 634769, alla cui attenzione era stato portato il caso della Repubblica brasiliana convenuta in giudizio quale garante dei debiti di imprese statali per espressa previsione costituzionale. La Corte ha ritenuto che, anche qui, i profili patrimoniali escludessero interferenze con i poteri sovrani di auto-organizzazione dello Stato e, pertanto, che potesse operare il principio consuetudinario della immunità ristretta. Sia l'obbligazione principale assunta dalla società di diritto brasiliano che quella accessoria di garanzia facente capo allo Stato estero 623 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE gravitavano evidentemente nell'orbita del diritto privato e dei rapporti gestori interprivatistici. Lo Stato brasiliano non aveva emanato atti di contenuto pubblicistico volti all'esclusione degli effetti di tale garanzia, «bensì assunto la qualità di adiectus solutionis causa esclusivamente in forza di una norma (costituzionale) che lo dichiarava co-obbligato (senza necessità di "mediazione" legislativa o amministrativa), dell'impresa insolvente». La fattispecie era diversa da quella, più nota, relativa all'emissione e al collocamento sul mercato internazionale dei titoli obbligazionari argentini, in cui era emersa la «distinzione tra atti compiuti iure privatorum (quelli, appunto, di emissione e collocamento dei bonds) e atti d'imperio, quali, in quella specie, i provvedimenti di moratoria adottati dal governo di quello Stato in attuazione di poteri sovrani incidenti tanto sulla legge di bilancio statuale quanto su finalità pubblicistiche ad essi sottese». Dello stesso tenore sono Sez. U, n. 19784/2015, Travaglino, Rv. 637088, che hanno affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in un caso nel quale un consolato, convenuto in giudizio con una domanda di accertamento del diritto di proprietà su beni illegittimamente affidatigli con provvedimento abnorme dell'autorità giudiziaria penale successivamente revocato, aveva per un verso rifiutato la restituzione e per altro verso eccepito l'operatività dell'immunità ristretta. Anche in questa ipotesi il coinvolgimento di profili meramente patrimoniali escludeva ogni interferenza con funzioni sovrane anche nella forma del mantenimento di buoni rapporti internazionali. In punto di diritto internazionale privato e processualcivilistico, viene in rilievo in primo luogo la precisazione di Sez. 3, n. 22992/2015, Spirito, in corso di massimazione, in cui è stato negato che la clausola convenzionale derogatoria della giurisdizione, pattuita tra un soggetto italiano e un altro straniero, possa impedire a quest'ultimo di optare per la giurisdizione italiana giovandosi della riserva che l'art. 3, comma 1, della legge n. 218 del 1995 assegna al convenuto residente o domiciliato o con rappresentante autorizzato a stare in giudizio in Italia Da ultimo, sembrano sempre utili le precisazioni di Sez. U, n. 08571/2015, Bernabai, Rv. 635085, che hanno ribadito il costante insegnamento secondo il quale ai fini della determinazione della giurisdizione nei casi di responsabilità aquiliana a norma dell'art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, il decisivo luogo dell'evento dannoso coincide sia con quello in cui l'azione ovvero l'omissione è stata compiuta, sia con il luogo del c.d. danno iniziale (si trattava di pretesa lesione del credito dovuta a un'indebita 624 CAP. XXXIII - LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE escussione di una garanzia), con simmetrica esclusione, ai soli fini in discussione, della rilevanza dei c.d. danni-conseguenza nonché, per evitare disfunzionali fenomeni di forum shopping, della rilevanza del luogo dove si trovano le vittime secondarie danneggiate, cioè, in via mediata (nel caso, per l'esercizio di un'azione di rivalsa). 625 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE PARTE NONA IL PROCESSO CAPITOLO XXXIV IL PROCESSO IN GENERALE (di Francesca Miglio ed Andrea Penta)* SOMMARIO: 1. Il giudice. – 1.1. Determinazione del valore della causa. – 1.2. Competenza per valore. – 1.3. Competenza per materia. – 1.3.1. Ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003 n. 168 e giudice del lavoro. – 1.4. Competenza per territorio. – 1.4.1. Foro del consumatore – 1.5. Regolamento di competenza su istanza di parte. – 1.6. Regolamento di competenza di ufficio. – 1.7. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. – 1.7.1. Accertamento del rapporto pregiudicante. – 1.7.2. Domanda riconvenzionale. – 1.8. Litispendenza. – 1.9. Continenza. – 1.10. Astensione e ricusazione. – 2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. – 3. Il Pubblico Ministero, le parti e i difensori. – 3.1. La partecipazione del Pubblico Ministero al processo civile. – 3.2. Le parti. Capacità processuale. – 3.3. I difensori. – 3.4. Le spese processuali. – 4. Il principio della domanda. – 5. Interesse ad agire – 6. Legittimazione ad agire. – 7. Il principio del contraddittorio. – 8. Pluralità di parti. – 8.1. Litisconsorzio necessario. – 8.2. Litisconsorzio facoltativo. – 8.3. Intervento volontario e integrazione del contraddittorio. – 8.4. Successione di parti. – 9. I principi generali. L'art. 112 c.p.c. – 9.1. L'omessa pronuncia. – 10. Il principio di disponibilità delle prove. – 10.1. Il principio di non contestazione. – 11. La valutazione delle prove. – 12. Le forme degli atti e dei provvedimenti. – 12.1. Il contenuto della sentenza. – 12.2. La decisione a seguito di trattazione orale. – 13. La pubblicazione e comunicazione della sentenza. – 14. Le notificazioni. - 14.1. Le varie fattispecie di notificazione. - 14.2. Le notificazioni a mezzo del servizio postale. - 15. I termini processuali. - 16. La nullità degli atti. - 16.1. I vizi di costituzione del giudice. - 17. La nullità della sentenza. 1. Il giudice. La Suprema Corte è tornata ad affermare o a ribadire importanti principi in ordine agli istituti che disciplinano l'individuazione del giudice competente (competenza, litispendenza, continenza, connessione) e agli istituti che ne garantiscono la imparzialità (astensione e ricusazione). 1.1. Determinazione del valore della causa. Sez. 3, n. 17202/2015, Rubino, Rv. 636477, ha statuito che nelle cause originariamente incardinate dinanzi al pretore, ancora pendenti alla data del 2 giugno 1999 ed attribuite, ex art. 1 del d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, alla competenza del tribunale, qualora la parte abbia * Francesca Miglio ha redatto i paragrafi da 1 a 8.4; Andrea Penta quelli da 9 a 17. 626 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE inserito nell'atto introduttivo la c.d. clausola di contenimento del valore complessivo della causa, lo stesso rimane fissato nei limiti della competenza del giudice originariamente adito, in quanto il limite quantitativo della domanda non può variare nel corso del processo in ragione dei mutamenti normativi dei criteri di competenza. In materia di determinazione del valore delle cause aventi ad oggetto prestazioni di assistenza sociale, ha statuito Sez. U, n. 10454/2015, Nobile, Rv. 635277, che tali prestazioni hanno natura alimentare, in quanto fondate esclusivamente sullo stato di bisogno del beneficiario, a differenza delle prestazioni previdenziali, che presuppongono un rapporto assicurativo e hanno più ampia funzione di tutela. Pertanto, in tali controversie, il valore della causa, ai fini della liquidazione delle spese di giudizio, si stabilisce con il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. per le cause relative alle prestazioni alimentari, sicché, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all'ammontare delle somme dovute per due anni. 1.2. Competenza per valore. Secondo Sez. 6-3, n. 11287/2015, Cirillo, Rv. 635602, nel caso in cui vengano proposte cumulativamente, dinanzi al giudice di pace, una domanda di condanna al pagamento di una somma di danaro, inferiore al limite massimo di competenza per valore del giudice adito ed una domanda di condanna ad un facere, per la quale non sia indicato alcun valore, quest'ultima deve ritenersi di valore corrispondente al suddetto limite massimo, sicché il cumulo delle due domande comporta il superamento della competenza per valore del giudice di pace. 1.3. Competenza per materia. Ha affermato Sez. 6-1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420, che ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come novellato dall'art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda di declaratoria di decadenza o di limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, dinanzi al Tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis, di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 CEDU e nell'art. 24 della Carta di Nizza. 627 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 1.3.1. Ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003 n. 168 e giudice del lavoro. Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636585, ha ritenuto che tale ripartizione configura una questione di competenza e non di mera distribuzione degli affari, attesa la mancata istituzione della sezione specializzata presso ogni distretto, realizzandosi, diversamente, una asimmetria del sistema tra l'ipotesi in cui la declaratoria di competenza sia emessa nell'ambito di un tribunale presso il cui distretto non risulti dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero, per contro sia invece istituita, sicché solo nel primo caso, in violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost., sarebbe proponibile dalla parte il rimedio del regolamento di competenza. 1.4. Competenza per territorio. Ha statuito Sez. 6-3, n. 07835/2015, Frasca, Rv. 635215, che l'opposizione a decreto ingiuntivo emesso da una sezione distaccata di tribunale anteriormente alla sua soppressione in forza del d. lgs. 7 settembre 2012, n. 155, con trasferimento del territorio ad altro tribunale e notificato dopo la data di efficacia della soppressione stessa, pur originariamente proponibile dinanzi al tribunale accorpante ex art. 9 comma 2 del d.lgs. cit., a seguito dell'intervento correttivo operato con il d.lgs. 19 febbraio 2014, n. 14 (che ha introdotto i commi 2 bis e 2 ter del medesimo articolo) resta , per competenza sopravvenuta, del tribunale a cui apparteneva il territorio della sezione soppressa. Ne consegue che ove la opposizione sia stata incardinata dinanzi al tribunale accorpante, il giudice è tenuto, senza caducare il decreto, a declinare la competenza a favore del tribunale cui apparteneva la sezione soppressa, spettando a quest'ultimo la cognizione sulla validità dell'atto. Analogamente Sez. 6-3, n. 06276/2015, Barreca, Rv. 634735, ha ritenuto che ai sensi dell'art. 9 del d. lgs. 7 settembre 2012, n. 155, come integrato dall'art. 8 del d. lgs. 19 febbraio 2014, n. 14, l'opposizione a decreto ingiuntivo emesso dalla sezione distaccata di tribunale prima della sua soppressione si propone al tribunale che ne costitutiva la sede principale anche se la porzione di territorio della sede distaccata è stata attribuita – dal 13 settembre 2013 (data di efficacia del d.lgs. n. 155 del 2012) – al circondario di un diverso ufficio giudiziario. Secondo Sez. 6-2, n. 17130/2015, Giusti, Rv. 636140, in materia di competenza territoriale, l'art. 23 c.p.c., che prevede per le 628 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE cause condominiali il foro esclusivo del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi, è derogabile poiché non rientra nell'ipotesi di cui all'art. 28 c.p.c., né il carattere esclusivo del foro stesso implica una diversa soluzione, sicché è valida ed efficace la clausola del regolamento condominiale che stabilisca un foro convenzionale per ogni controversia relativa al regolamento medesimo. Sez. 6-2, n. 12148/2015, Petitti, Rv. 635568, ha peraltro stabilito che la competenza del forum rei sitae, ai sensi dell'art 23 c.p.c., si applica anche quando oggetto di comproprietà sia un bene mobile (nella specie un natante) poiché la norma impiega il termine "condominio" quale sinonimo di "comunione", senza riguardo per il tipo di bene comune. Secondo Sez. 6-2, n. 00180/2015 , Giusti, Rv. 634057, l'art. 23 c.p.c. si applica a tutte le liti tra singoli condomini attinenti ai rapporti giuridici derivanti dalla proprietà delle parti comuni del'edificio o dall'uso e godimento delle stesse, incluse quelle relative al risarcimento dei danni arrecati alla proprietà individuale. La Suprema Corte ha inoltre affrontato il tema del rapporto tra competenza per territorio ed accordo della parti, affermando che la clausola di deroga della competenza territoriale contenuta in un contratto concluso da una società in nome collettivo è vincolante anche per i singoli soci, agli effetti dell'art. 2267 c.c., operando, pertanto, nei confronti della società e dei soci responsabili per le obbligazioni sociali il medesimo foro convenzionale pattuito come esclusivo, senza che possa intervenire alcuna modificazione della competenza per ragioni di connessione oggettiva ex art. 33 c.p.c., che presuppone siano convenuti dinanzi al medesimo giudice più soggetti per i quali operino differenti fori generali, anche convenzionali, sempreché il giudice adito sia competente per territorio per almeno una delle parti convenute (Sez. 6-2, n. 11950/2015, Manna, Rv. 635592). Sullo stesso tema, Sez. 6-2, n. 14390/2015, Manna, Rv. 635896, ha ritenuto che la clausola contrattuale di deroga della competenza per territorio assolve la funzione di designare l'ufficio giudiziario di maggiore prossimità per una delle parti attraverso un rinvio mobile alle norme dell'ordinamento giudiziario che fissano la sede e le articolazioni territoriali del foro prescelto. Ne consegue che la soppressione dell'ufficio giudiziario indicato convenzionalmente non rende inefficace la suddetta clausola, che dovrà intendersi riferita all'ufficio giudiziario che abbia accorpato quello soppresso. 629 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE In materia di azione di risarcimento del danno conseguente al contenuto diffamatorio di una trasmissione televisiva o più in generale, da lesione di diritti della personalità derivanti da mezzi di comunicazione di massa, Sez. 6-3, n. 00271/2015, Cirillo, Rv. 633942, ha affermato che il criterio di competenza del forum commissi delicti di cui all'art. 20 c.p.c., individuato nel luogo di domicilio, o, se diverso, dalla residenza del soggetto danneggiato non ha carattere esclusivo, ma concorre con la regola generale per cui i fori di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. sono comunque alternativi. Secondo Sez. 6- 3, n. 10858/2015, Cirillo, Rv. 635495, ai fini della competenza per territorio di cui all'art. 20 c.p.c., non incide sul forum destinatae solutionis la pattuita modalità del prezzo della vendita per mezzo delle c.d. ricevute bancarie poiché queste, non avendo efficacia di obbligazione cartolare, ma essendo destinate soltanto a facilitare la riscossione delle rate del credito per mezzo dei servizi bancari, non determinano lo spostamento del luogo di adempimento dal domicilio del creditore, come previsto dall'art. 1182, comma 3, c.c., a quello del debitore, salvo che la suddetta modalità di pagamento sia stata convenuta con carattere esclusivo e il creditore abbia rinunziato espressamente al suo diritto di ricevere il pagamento nel proprio domicilio, ai sensi dell'art. 1182 e dell'art. 1498, comma 3, c.c. 1.4.1. Foro del consumatore. Ha ritenuto Sez. 6-3, n. 14287/2015, Scarano, Rv. 635850, che la disciplina del foro del consumatore, esclusivo e speciale e, come tale, prevalente rispetto ai fori individuati alla stregua degli artt. 18, 19 e 20 c.p.c., è applicabile anche ai contratti di video lotteria, configurandosi le attività dei concessionari che consentono agli utilizzatori di parteciparvi, dietro corrispettivo, come prestazione di servizi ex art. 49 Trattato CE. L'applicabilità della suddetta disciplina, peraltro, è da ritenersi preclusa solo qualora ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34, comma 4, del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, sempre che concretamente caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà ed effettività. 1.5. Regolamento di competenza su istanza di parte. La Suprema Corte, sull'istituto in esame, ha ribadito il principio che le pronunce che decidono soltanto sulla competenza e sulle spese di primo e secondo grado, ad eccezione delle sentenze del giudice di pace (art. 46 c.p.c.), devono essere impugnate esclusivamente con il regolamento necessario di cui all'art. 42 c.p.c., che configura il 630 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE regolamento di competenza come mezzo di impugnazione tipico per ottenere una diversa statuizione. Ne consegue che, in tal caso, è inammissibile l'impugnazione proposta nelle forme del ricorso ordinario per cassazione, salva la possibilità di conversione in istanza di regolamento di competenza se ne ricorrono i requisiti e lo stesso sia proposto nel termine di trenta giorni, decorrente dalla notificazione ad istanza di parte o dalla comunicazione del provvedimento a opera della cancelleria (Sez. 6-2, n. 09268/2015, Petitti, Rv. 635258). Nella stessa materia, Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347, ha statuito che nel regime dell'art. 38 c.p.c., novellato dall'art. 4 della legge 26 novembre 1990, n. 353, nel quale tutte le questioni di competenza devono essere introdotte nel processo, sia tramite eccezione di parte che d'ufficio, entro tempi stabiliti, la decisione del giudice di merito che abbia statuito solo sulla competenza deve essere impugnata esclusivamente con il regolamento necessario di competenza; pertanto tale mezzo d'impugnazione è proponibile anche quando esista una questione sulla ammissibilità e tempestività dell'eccezione di competenza o sul tempestivo rilievo di ufficio della medesima, e la Corte di cassazione, ove verifichi che la sentenza declinatoria della competenza sia stata emessa in violazione delle regole di tempestività dell'eccezione o del rilievo di ufficio, deve dichiarare la tardività della eccezione o del rilievo. In merito ai requisiti dell'atto impugnatorio, Sez. 6-3, n. 16134/2015, Scarano, Rv. 636483, ha poi precisato che il regolamento di competenza è configurato - salvo il caso in cui sia destinato a risolvere un conflitto virtuale di competenza - come uno specifico mezzo di impugnazione avverso i provvedimenti che pronunciano sulla competenza, sicché, in ossequio al principio di autosufficienza, deve contenere tutti gli elementi previsti dall'art. 366 c.p.c., in ordine ai quali l'art. 47 dello stesso codice non disponga una regolamentazione differenziata e, dunque, ai sensi del n. 6 della norma, la parte è tenuta, oltre a richiamare gli atti e i documenti del giudizio di merito, anche a riprodurli nel ricorso e ad indicare in quale sede processuale siano stati prodotti. Sez. 6-2, n. 17129/2015, Giusti, Rv. 636136, ha chiarito che il provvedimento di sospensione del processo, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., pur avendo la forma della ordinanza, non è revocabile dal giudice che lo ha pronunciato, poiché tale revocabilità confliggerebbe con la previsione della sua impugnabilità mediante regolamento necessario di competenza. Ne consegue che ove la 631 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE parte, anziché proporre il regolamento nel termine previsto dall'art. 47, comma 2, c.p.c., abbia presentato istanza di revoca dell'ordinanza di sospensione al giudice che l'aveva emanata e questi abbia emesso un provvedimento meramente confermativo di quello precedente, la mancata impugnazione della prima ordinanza, determina la inammissibilità del regolamento proposto avverso il secondo provvedimento, risultando altrimenti eluso - mediante la inammissibile proposizione di un'istanza di revoca - il termine perentorio previsto dalla norma. Nello stesso ambito, Sez. 6-L, n. 02302/2015, Marotta, Rv. 634310, ha statuito che in tema di regolamento di competenza, l'art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69, nel modificare l'art. 42 c.p.c., prevedendo la forma decisoria dell'ordinanza, non ha inciso sul relativo regime impugnatorio, sicché in caso di ordinanza resa a verbale di udienza, il termine per la proposizione della impugnazione decorre dalla data di questa, trattandosi di provvedimento che, ai sensi dell'art. 176 cod. proc. civ, si reputa conosciuto dalle parti. Secondo Sez. 6-1, n. 17650/2015, Bisogni, Rv. 636541, l'ordinanza declinatoria della competenza resa dal tribunale in composizione monocratica in una controversia instaurata dopo la entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 presuppone il previo invito alle parti alla precisazione delle conclusioni, sicché ove la decisione sia stata emessa senza il rispetto di tale formalità, la stessa è impugnabile con il regolamento di competenza. Sempre in tema di provvedimenti impugnabili con lo strumento in esame, Sez. 6-3, n. 03915/2015, De Stefano, Rv. 634538, ha precisato che il provvedimento di sospensione del processo ex art. 48 c.p.c., in ragione della proposizione di un precedente regolamento di competenza, integra una ipotesi di sospensione cd. impropria, avverso la quale non è ammissibile un autonomo regolamento di competenza, trattandosi di evenienza che esula dall'ambito dell'art. 42 c.p.c., riferito esclusivamente ai casi di sospensione per pregiudizialità. Anche nella materia in esame la Suprema Corte ha precisato un importante principio inerente alla incidenza dell'accordo delle parti sulla determinazione del giudice competente. In particolare, secondo Sez. 6-2, n. 05817/2015, Giusti, Rv. 635055, l'accordo endoprocessuale di proroga della competenza può formarsi anche in pendenza di un giudizio per regolamento avverso una ordinanza affermativa della competenza, ma priva del carattere di decisorietà perché non preceduta dalla remissione della 632 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE causa in decisione con invito delle parti a precisare le rispettive conclusioni, atteso che, in tale evenienza, il regolamento è destinato ad una pronuncia di inammissibilità e non può, dunque, condurre ad una statuizione sulla competenza dotata di efficacia maggiore rispetto all'accordo. 1.6. Regolamento di competenza di ufficio. In materia di regolamento di competenza di ufficio, Sez. 6-3, n. 16143/2015, Frasca, Rv. 636484, ha ribadito che il giudice indicato come competente da quello originariamente adito, ed innanzi al quale la causa sia stata riassunta, può rilevare, a sua volta , la propria incompetenza non oltre la prima udienza di trattazione, essendogli altrimenti preclusa la possibilità di sollevare il conflitto di competenza. Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 00728/2015 Ambrosio, Rv. 634389, ha ritenuto che il regolamento di competenza di ufficio postula che il giudice dinanzi al quale la causa è riassunta a seguito di incompetenza dichiarata dal primo giudice per ragioni di materia o di territorio inderogabile si ritenga a sua volta incompetente sotto i medesimi profili, sicché ove il giudice ad quem declini la propria competenza senza individuare la competenza per materia o territoriale inderogabile del primo o di altro giudice, il conflitto di competenza è inammissibile, profilando implicitamente il suo diniego l'applicabilità dell'ordinario criterio di distribuzione per valore. In tema di regolamento di competenza, inoltre, la pronuncia con cui la Corte di cassazione definisca il regolamento proposto da una delle parti, anche quando si sostanzi in una declaratoria di inammissibilità, preclude al giudice innanzi al quale il processo deve essere riassunto di proporre regolamento di ufficio ex art. 45 c.p.c., posto che la decisione intervenuta definisce la questione sotto tutti i profili ipotizzabili anche se non esaminati ex professo dalla Corte ( Sez. 6-3, n. 17478/2015, Vivaldi, Rv. 636513). 1.7. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. Ha affermato Sez. 6-3, n. 18111/2015, Frasca, Rv. 636739, che nel caso di domanda di rilascio di bene immobile asseritamente occupato sine titulo, quando il convenuto spieghi domanda riconvenzionale di accertamento di una rapporto di affittanza, la competenza per materia sull'accertamento positivo o negativo del rapporto agrario impone, salvo che la domanda riconvenzionale risulti prima facie infondata, la rimessione della intera 633 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE controversia al giudice specializzato, inerendo entrambe le pretese all'accertamento dell'unico rapporto, con conseguente nesso pregiudicante per incompatibilità. 1.7.1. Accertamento del rapporto pregiudicante. Secondo Sez. 6-3, n. 03725/2015, Frasca , Rv. 634754, la richiesta del convenuto di accertamento con efficacia di giudicato ex art. 34 c.p.c. di un rapporto pregiudicante, deve essere ritualmente formulata con la comparsa di risposta tempestivamente depositata, mentre ove egli abbia dedotto la questione solo in via di eccezione, riservandosi la domanda in caso di contestazione attorea, la domanda è tardiva (e inammissibile) in quanto per sciogliere il nesso di subordinazione occorre attendere la prima udienza di comparizione, nella quale l'attore potrebbe manifestare la sua contestazione. 1.7.2. Domanda riconvenzionale. Ha affermato Sez. 6-3, n. 14369/2015, Frasca, Rv. 636010, che la pronuncia del giudice il quale, a fronte di una domanda principale ed una riconvenzionale disponga lo scioglimento del cumulo, escludendo che lo stesso possa mantenersi per ragioni di connessione e poi declini la propria competenza in ordine alla domanda riconvenzionale, affermandola, invece, per la domanda principale, ha natura di pronuncia sulla competenza ai sensi dell'art. 36 c.p.c. Nello stesso ambito, secondo Sez. 2, n. 08814/2015, Manna, Rv. 635183, l'inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile di ufficio, ma solo su tempestiva eccezione della parte convenuta. 1.8. Litispendenza. Ha ritenuto Sez. 6-1, n. 18252/2015, Ragonesi, Rv. 636688, che le questioni di litispendenza vanno decise con riferimento alla situazione processuale esistente al momento della relativa pronuncia, dovendosi tenere conto anche delle vicende processuali sopravvenute, sicché, in caso di definizione di uno dei giudizi pendenti, cessano le condizioni per l'applicabilità dell'art. 39 c.p.c. Nello stesso ambito, Sez. 6-1, n. 16454/2015, Scaldaferri, Rv. 636628, ha affermato che due cause pendenti tra le stesse parti e con identità di causa petendi e di petitum sono in rapporto di litispendenza e non di continenza anche nel caso in cui una di esse abbia ad oggetto più domande, una sola delle quali avanzata nell'altro procedimento, ben potendo in tale ipotesi la litispendenza 634 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE essere dichiarata con riferimento ad una soltanto delle domande proposte. Secondo Sez. 6-3, n. 10509/2015, Carluccio, Rv. 635604, in materia di litispendenza, ai fini dell'applicazione del principio di prevenzione tra cause in rapporto di continenza, l'una iniziata con ricorso monitorio, l'altra con citazione, occorre avere riguardo, per quest'ultima, al perfezionamento del procedimento di notificazione con consegna dell'atto al destinatario anche in caso di nullità della notificazione, se il vizio sia stato sanato, con effetto ex tunc a seguito di rinnovazione ex art. 291 c.p.c. Nella materia in esame è stata resa una interessante pronuncia da Sez. 6-2, n. 11949/2015, Manna, Rv. 635595, in particolare in relazione ai procedimenti cautelari. La Suprema Corte ha affermato che in caso di accoglimento della domanda cautelare (confermato in sede di reclamo), seguito da rituale inizio del giudizio di merito, ai fini della individuazione del giudice preventivamente adito, deve tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma impone tra ordinanza di accoglimento e causa di merito, anche in base al testo dell'art. 669 octies, comma 6, c.p.c. aggiunto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, il quale, per i provvedimenti cautelari ivi previsti, ha attenuato, ma non escluso, il vincolo di strumentalità tra la misura e il giudizio di merito, e considerando altresì come la proposizione della domanda cautelare ante causam al giudice competente a conoscere del merito ai sensi del'art. 669 ter c.p.c. preannunci una scelta processuale che, per il principio di autoresponsabilità ed affidamento processuale, vincola la parte ricorrente ed onera quella resistente ad eccepire la incompetenza già in sede cautelare. 1.9. Continenza. Nella materia in esame, Sez. 1, n. 18564/2015, De Chiara, Rv. 636701, ha ritenuto che nel caso di continenza tra una causa introdotta con rito ordinario ed una introdotta con rito monitorio, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adito, il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo deve ritenersi pendente alla data di deposito di quest'ultimo, trovando applicazione il criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 39 c.p.c. come modificato dalla legge n. 69 del 2009, senza che rilevi la circostanza che l'emissione del decreto e la sua notifica siano avvenuti successivamente, agli effetti dell'art. 643, comma 3, c.p.c. 635 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Nello stesso ambito Sez. 6-2, n. 19773/2015, Giusti, Rv. 636557, ha ritenuto che in caso di riassunzione ex art. 50 c.p.c., il processo continua dinanzi al giudice competente, sicché, ai fini della prevenzione, nella continenza di cause, il tempo del processo è quello della notifica dell'atto introduttivo davanti al primo giudice, seppur incompetente. Sez. 6-L, n. 15618/2015, Marotta, Rv. 636582, ha affrontato un particolare caso di riunione per continenza o connessione dell'opposizione a decreto ingiuntivo con altro processo instaurato dinanzi ad un diverso ufficio a seguito di procedimento cautelare ante causam, affermando che la competenza territoriale sulle cause riunite, in tal caso, spetta al giudice del giudizio introdotto con il ricorso monitorio, trattandosi di competenza funzionale e inderogabile, senza che rilevi l'assenza di eccezioni di parte nel giudizio cautelare, che in quanto tale non è soggetto a preclusioni ex art. 38 c.p.c. Sez. 6-L, n. 11076/2015, Mancino, Rv. 635525, ha ritenuto che il socio lavoratore di una società cooperativa nell'ambito di un appalto di servizi, licenziato a fronte dell'impegno della società subentrante di procedere alla sua assunzione, poi non effettuata, qualora agisca per la costituzione del rapporto di lavoro e, in via subordinata, per l'annullamento del licenziamento, può adire, anche per la domanda nei confronti della società subentrante, il tribunale del luogo dove si trova la dipendenza aziendale cui era addetto, trattandosi di domande in rapporto di connessione per il titolo, si da consentire la instaurazione del giudizio davanti al giudice territorialmente competente per il rapporto di lavoro già in essere. 1.10. Astensione e ricusazione. Sez. 2, n. 02593/2015, Falaschi, Rv. 634134, ha ritenuto che l'obbligo del giudice di astenersi, previsto dall'art. 51, comma 1, c.p.c., si riferisce ai casi in cui egli abbia conosciuto della causa in altro grado del processo e non anche ai casi in cui lo stesso abbia trattato una causa diversa vertente su un oggetto analogo, ancorché tra le stesse parti e che in tale ipotesi non sussistono gravi ragioni di convenienza rilevanti come motivo di ricusazione. Nello stesso ambito, Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, ha ritenuto che la fase dell'opposizione, ai sensi dell'art. 1, comma 51, legge 28 giugno 2012, n. 92, non costituisce un grado diverso rispetto a quello che ha preceduto l'ordinanza, ma solo la prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicché non è configurabile alcuna violazione riconducibile all'art. 51, comma 1, 636 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE n. 4 c.p.c., nel caso in cui lo stesso giudice persona fisica abbia conosciuto della causa in entrambe le fasi. Sez. 6-3, n. 18976/2015, Frasca, Rv. 636844, ha affermato che in tema di ricusazione del giudice, la "inimicizia" del ricusato, a sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c. non può essere dedotta dal contenuto di provvedimenti da lui emessi in altri processi concernenti il ricusante, tranne che le anomalie denunciate siano tali da non consentire neppure di identificare l'atto come provvedimento giurisdizionale; tuttavia, qualora ricorra tale ipotesi, il giudice della ricusazione deve anche accertare se quelle anomalie, in ipotesi ascrivibili ad altre cause, siano state determinate proprio da grave inimicizia nei confronti del ricusante, sul quale incombe l'onere di allegare fatti e circostanze rivelatrici dell'esistenza di ragioni di avversione o di rancore estranei alla realtà processuale. Sez. U, n. 13018/2015, Petitti, Rv. 635710, ha affermato che in tema di ricusazione del giudice, non è "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, comma 1, n. 3 c.p.c., il giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, atteso che il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n.18, nei soli confronti dello Stato. Sullo stesso tema, la Suprema Corte, nella decisione in precedenza richiamata, Rv. 635709, ha ritenuto inammissibile l'istanza di ricusazione proposta nei confronti di un giudice solo perché egli aveva concorso al rigetto di una precedente istanza di ricusazione della stessa parte, in quanto, fuori della previsione di cui all'art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., il provvedimento giurisdizionale tipico, non affetto da anomalie evidenti, non rivela grave inimicizia del giudice solo perché contrario all'interesse della parte. Circa il regime impugnatorio relativo alle ordinanze che decidono sulla ricusazione, Sez. 6-3, n. 01932/2015, Frasca, Rv. 634244, ha affermato che l'ordinanza di rigetto dell'istanza di ricusazione non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, perché, pur avendo natura decisoria, manca del necessario carattere di definitività e non ne è precluso il riesame nel corso del processo attraverso il controllo sulla pronuncia resa da (o con il concorso del) iudex suspetctus, in quanto l'eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell'attività svolta dal giudice stesso e, quindi, in gravame della sentenza da lui emessa. 637 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 2. Gli ausiliari del giudice. Il consulente tecnico d'ufficio. Sez. 3, n. 18313/2015, Chiarini, Rv. 636725, ha affermato che il consulente tecnico d'ufficio svolge, nell'interesse della giustizia, funzioni ausiliarie del giudice di natura non giurisdizionale, sicché è obbligato a risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio senza che sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia. Sez. 6-3, n. 01815/2015, Amendola, Rv. 634182, ha affermato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive. Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 12703/2015, Vincenti, Rv. 635773, ha chiarito che il giudice del merito non è tenuto a fornire un'argomentata e dettagliata motivazione là dove aderisca alle elaborazioni del consulente ed esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche, ha l'obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una più puntuale motivazione la propria scelta di aderire alle conclusioni del consulente d'ufficio. Sez. 1, n. 06138/2015 Genovese, Rv. 634880, ha affermato che in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali - ossia organi dell'Amministrazione che hanno avuto contatti sia con il bambino che con i suoi genitori - il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle risultanze di perizie e consulenze. 638 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Sez. 3, n. 12921/2015, Rubino, Rv. 635808, ha affermato che il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultante da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti. Sez. 1, n. 17399/2015, Lamorgese, Rv. 636775, ha ribadito che la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, che, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso (nella specie, documentata attraverso l'allegazione di un certificato medico indicativo del nesso di causalità tra la sindrome depressiva lamentata e la condotta illecita del convenuto), costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza. 3. Il Pubblico Ministero, le parti e i difensori. 3.1. La partecipazione del Pubblico Ministero al processo civile. Ha ritenuto Sez. 6-1, n. 17664/2015, Acierno, Rv. 636543, che nelle cause relative allo stato delle persone (nella specie accertamento giudiziale della paternità), la mancata trasmissione degli atti al P.M., il cui intervento è obbligatorio ai sensi dell'art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., dà luogo a nullità della sentenza, che, se resa nel giudizio di appello, va cassata con rinvio alla corte d'appello affinché, previo coinvolgimento del P.G., provveda alla trattazione e decisione della causa. Nello stesso ambito, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634962, ha riaffermato che al fine del rispetto della prescrizione relativa all'intervento obbligatorio del P.M. nei procedimenti civili riguardanti lo stato delle persone, non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nel corso delle udienze, né che rassegni le proprie conclusioni, ma è sufficiente che egli sia stato 639 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE informato mediante l'invio degli atti del giudizio e così posto in condizioni di sviluppare l'attività ritenuta opportuna. 3.2. Le parti. Capacità processuale. Ha ritenuto Sez. T, n. 12531/2015, Federico, Rv. 635747, che nei confronti delle persone inabilitate, le quali devono stare in giudizio con la necessaria assistenza del curatore, il procedimento di notificazione ha carattere complesso in quanto può ritenersi perfezionato solo quando l'atto sia portato a conoscenza tanto della parte quanto del curatore, per mettere quest'ultimo in grado di svolgere la sua funzione di assistenza. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., analogicamente applicabile, per identità di ratio, alla cartella di pagamento, la notifica al solo inabilitato, che non sia effettuata pure nei confronti del curatore, è giuridicamente inesistente, non assumendo rilievo la mancata indicazione della curatela nelle dichiarazioni dei redditi, atteso che è onere dell'Amministrazione individuare la persona che ha la rappresentanza dell'incapace. Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, ha ritenuto che nell'ipotesi in cui sia convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo di capacità processuale (per essere stato interdetto legalmente ex art. 32 c.p.), il riacquisto della capacità in fase di gravame determina la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, con efficacia ex tunc - ai sensi dell'art. 182 c.p.c. - idonea ad escludere l'invalidità della domanda proposta nei suoi confronti, ma non anche del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, sicché il giudice d'appello è tenuto a pronunciarsi su di essa, previa declaratoria della nullità della sentenza di primo grado, senza rimettere la causa al primo giudice. Nello stesso ambito, Sez. 6-3, n. 14518/2015, Carluccio, Rv. 636002, ha affermato che nel giudizio introdotto dai genitori di un minorenne, quando si verifichi una causa interruttiva riguardante la controparte, è nullo l'atto di riassunzione fatto dal difensore degli attori originari in nome esclusivamente del figlio divenuto, medio tempore, maggiorenne, ma non conferitario della procura, giacché il raggiungimento della maggiore età e la contestuale perdita da parte dei genitori della rappresentanza legale del minorenne, determina esso stesso una causa interruttiva del giudizio, che, solo quando non sia dichiarata, consente all'originario mandato - per il principio della ultrattività - di continuare a spiegare i suoi effetti nella fase processuale in cui l'evento si verifica. Sez. 3, n. 16274/2015, Cirillo, Rv. 636619, ha ritenuto che in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la 640 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché, in difetto, è esclusa la legitimatio ad processum del rappresentante e il relativo accertamento - attenendo alla verifica della regolare costituzione del rapporto processuale - può essere effettuato anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione con cui il giudice di appello - nel pronunciarsi sul gravame proposto dall'assicuratore della responsabilità civile, terzo chiamato in garanzia nell'ambito di un giudizio risarcitorio, diretto a far valere l'inoperatività della polizza - aveva respinto l'eccezione con cui l'attrice-danneggiata, già vittoriosa in primo grado, aveva inteso far valere il difetto di legittimazione del procuratore del chiamato in garanzia per l'omessa dimostrazione del conferimento dei poteri inerenti la qualità di procuratore speciale, erroneamente motivato sul presupposto dell'estraneità dell'appellata al rapporto tra assicurato ed assicuratore). Secondo Sez. 1, n. 18571/2015, Lamorgese, Rv. 636776, l'autorizzazione a stare in giudizio emessa dall'organo collegiale competente, necessaria perché un ente pubblico possa agire o resistere in causa, attiene alla legitimatio ad processum, ossia all'efficacia e non alla validità della costituzione dell'ente a mezzo dell'organo che lo rappresenta, sicché può intervenire ed essere prodotta pure nel corso del giudizio, e, quindi, anche dopo che sia scaduto il termine per l'opposizione a decreto ingiuntivo. Sez. 6-2, n. 05343/2015, Manna, Rv. 634875, ha precisato che il difetto di legittimazione processuale della persona fisica, che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente, può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio (e, dunque, anche in appello), con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell'ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. La ratifica e la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli artt. 83 e 125 c.p.c. 641 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE 3.3. I difensori. Le decisioni di maggior rilievo hanno ad oggetto in modo particolare il mandato alle liti. Sez. 3, n. 14634/2015, Pellecchia, Rv. 636279, ha ribadito che quando la difesa di due parti, tra loro in conflitto anche solo potenziale di interessi, sia stata affidata allo stesso avvocato, la parte che abbia conferito per seconda la procura a quest'ultimo deve ritenersi non costituita in giudizio, perché un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possono trovarsi in posizione di contrasto. Secondo Sez. 6-L, n. 02460/2015, Arienzo, Rv. 634543, nel giudizio di cassazione, la procura speciale al difensore può essere apposta, ai sensi dell'art. 83, comma 3, c.p.c., solo a margine o in calce degli atti ivi indicati (ossia del ricorso e del controricorso, nonché della memoria di nomina del nuovo difensore) in aggiunta o - per i giudizi instaurati successivamente alla novella di cui alla legge n. 69 del 2009 - in sostituzione del difensore originariamente designato. Ne consegue che, fuori da tali ipotesi, la procura deve essere rilasciata, ai sensi dell'art. 83, comma 2, c.p.c., con atto pubblico o scrittura privata autenticata, nel quale debbono essere indicati gli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata. Analogamente, ha affermato Sez. 3, n. 13329/2015, Rossetti, Rv. 635909, che nel giudizio di cassazione, la procura speciale può essere rilasciata a margine o in calce solo del ricorso o del controricorso, trattandosi degli unici atti indicati, con riferimento al giudizio di legittimità, dall'art. 83, comma 3, c.p.c., sicché, ove non sia rilasciata in occasione di tali atti, il conferimento deve avvenire, ai sensi del secondo comma del citato articolo, con atto pubblico o con scrittura privata autenticata che facciano riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata, senza che ad una diversa conclusione possa pervenirsi nel caso in cui sopraggiunga la sostituzione del difensore. Sez. 6-3, n. 01205/2015, Ambrosio, Rv. 634038, ha affermato che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è, per sua natura, speciale, senza che occorra per la sua validità alcuno specifico riferimento al giudizio in corso od alla sentenza contro la quale si rivolge, poiché il carattere di specialità è deducibile dal fatto che la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa si riferisce. Nello stesso ambito, Sez. 3, n. 13314/2015, Scrima, Rv. 635917, ha ritenuto validamente proposto il ricorso per cassazione, 642 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE notificato alla parte avversaria e recante la sottoscrizione di uno solo dei due difensori del ricorrente, se il mandato alle liti, riportato a margine dell'atto, risulti, in chiusura, sottoscritto da entrambi i difensori, ciò bastando per ritenere proveniente da entrambi i difensori nominati la certificazione della sottoscrizione del conferente la procura, e quindi per l'attribuzione a ciascuno di essi di pieni poteri di rappresentanza processuale. Secondo Sez. 2, n. 15538/2015, Lombardo, Rv. 636082, l'art. 83, comma 3, c.p.c., nell'attribuire alla parte la facoltà di apporre la procura in calce o a margine di specifici e tipici atti del processo, fonda la presunzione che il mandato così conferito abbia effettiva attinenza al grado o alla fase del giudizio cui l'atto che lo contiene inerisce, per cui la procura per il giudizio di cassazione rilasciata in calce o a margine del ricorso, in quanto corpo unico con tale atto, garantisce il requisito della specialità del mandato al difensore, al quale, quando privo di data, deve intendersi estesa quella del ricorso stesso, senza che rilevi l'eventuale formulazione genericamente omnicomprensiva (ma contenente comunque il riferimento anche alla fase di cassazione) dei poteri attribuiti al difensore, tanto più ove il collegamento tra la procura e il ricorso per cassazione sia reso esplicito attraverso il richiamo ad essa nell'intestazione dell'atto di gravame. Secondo Sez. 3, n. 07179/2015, Pellecchia, Rv. 635036, l'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce od a margine dell'atto con cui sta in giudizio una società, esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa, dalla certificazione d'autografia resa dal difensore o dal testo dell'atto o anche quando sia con certezza desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica, che ne renda identificabile il titolare per il tramite dei documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese. Ha ritenuto Sez. 3, n. 11165/2015, Amendola, Rv. 635466, che la procura speciale alle liti rilasciata all'estero, sia pur esente dall'onere di legalizzazione da parte dell'autorità consolare italiana, nonché dalla cd. apostille, in conformità alla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961, ovvero ad apposita convenzione bilaterale, è nulla, agli effetti dell'art. 12 della legge 31 maggio 1995, n. 218, relativo alla legge regolatrice del processo, ove non sia allegata la traduzione dell'attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l'attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l'identità, vigendo pure per gli atti prodromici al processo 643 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto. Ha affermato Sez. L, n. 12068/2015, Ghinoy, Rv. 635551, che nelle controversie in materia di lavoro, il giudice può disporre d'ufficio, ai sensi dell'art. 421, comma 2, c.p.c., l'ammissione di mezzi istruttori in ordine al luogo di rilascio della procura alle liti, in quanto presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale, quali, nella specie, la richiesta di produzione dei titoli di viaggio attestanti la presenza in Italia del mandante e l'interrogatorio formale della stessa parte, in modo da ritenere, all'esito, la sussistenza di elementi di giudizio integrativi idonei a concludere che sia stata acquisita la prova contraria al rilascio nel territorio dello Stato di detta procura. Sez. 3, n. 08489/2015, De Stefano, Rv. 635203, ha ritenuto che la procura rilasciata al difensore da una persona giuridica è valida quando nell'intestazione dell'atto processuale, nonché nel testo del mandato a suo margine, siano indicate le persone che rappresentano l'ente, la sottoscrizione delle quali risulti autenticata dal legale, ancorché non sia fatta menzione della fonte dei loro poteri di rappresentanza, potendo il destinatario dell'atto verificare, dal registro delle imprese, l'effettiva spettanza di tali poteri ai soggetti conferenti il mandato difensivo. Secondo Sez. 3, n. 17206/2015, Barreca, Rv. 636651, la procura speciale apposta a margine del ricorso per cassazione, sottoscritta dai due soggetti menzionati nell'epigrafe come rappresentanti della società ricorrente, non è inficiata dalla mancata espressa menzione di uno di essi nel testo a stampa del mandato, poiché la firma della procura è sufficiente ad attribuirne la paternità ad entrambi nella qualità indicata in ricorso e ribadita accanto a ciascuna delle due firme, le quali, inoltre, devono ritenersi correttamente autenticate dal difensore con un unico visto. Ha affermato Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635095, che il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, come disciplinato dagli artt. 618 c.p.c. e 185 disp. att. c.p.c. (nel testo modificato dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52), sebbene diviso in due fasi, presenta struttura unitaria, stante il collegamento tra la fase, eventuale, di merito e quella sommaria, di talché la procura rilasciata al difensore per l'opposizione agli atti esecutivi dinanzi al giudice dell'esecuzione deve intendersi conferita anche per il successivo giudizio di merito, in mancanza di una diversa esplicita volontà della parte che limiti il mandato alla fase sommaria. 644 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Infine appare opportuno segnalare Sez. L, n. 11551/2015, Doronzo, Rv. 635845, che in materia di spese processuali, ha ribadito che qualora il ricorso per cassazione sia stato proposto dal difensore in assenza di procura speciale da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire in giudizio, l'attività svolta non riverbera alcun effetto sulla parte e resta nell'esclusiva responsabilità del legale, di cui è ammissibile la condanna al pagamento delle spese del giudizio. 3.4. Le spese processuali. Sez. 3, n. 17215/2015, Ambrosio, Rv. 636650, ha ritenuto che in tema di liquidazione delle spese del giudizio, in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 del d.m. 10 marzo 2014, n. 55 (salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate dalla prima delle disposizioni citate), senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi (art. 4 del d.m. cit.), né che le predette parti abbiano nominato, ognuna, anche altro (diverso) legale, in quanto la ratio della disposizione di cui all'art. 8, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, è quella di fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati, in conformità con il principio della non debenza delle spese superflue, desumibile dall'art. 92, comma 1, c.p.c. Secondo Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642, nel giudizio di cassazione, si configura un'ipotesi di colpa grave tale da legittimare l'irrogazione, a carico del soccombente, dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo, introdotto dall'art. 13 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, successivamente abrogato dall'art. 46, comma 20, della legge n. 69 del 2009, ma ancora applicabile ratione temporis, operando la nuova disposizione nei giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009, data di sua entrata in vigore), quando la parte abbia agito, o resistito, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione. (Nella specie, la S.C. ha fatto applicazione della norma a carico dei ricorrenti soccombenti, i quali pretendevano di ricondurre alla simulazione del contratto l'ipotesi di contrasto tra la sua "qualificazione formale" e la volontà delle parti). Sez. 3, n. 16056/2015, Sestini, Rv. 636621, ha ritenuto che la condanna di più parti soccombenti al pagamento in solido delle 645 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE spese processuali può essere pronunciata quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ovvero per comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute, ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato il capo della sentenza di merito relativo alla condanna dei due soccombenti al pagamento, in solido, delle spese processuali, non essendo stato individuato alcun interesse comune ad entrambi e, per effetto dell'ingiustificato vincolo solidale, la parte, poi ricorrente in cassazione, era stata condannata al pagamento di diritti ed onorari previsti per uno scaglione più elevato delle tariffe, relativo alla somma maggiore dovuta dall'altro soccombente). Nella materia in esame, infine, Sez. 1, n. 20289/2015, Nappi, Rv. 637441, ha statuito che il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all'esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio e al loro risultato, sicchè non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all'esito finale della lite, può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale o, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione e, tuttavia, complessivamente soccombente, al rimborso delle stesse in favore della controparte. 4. Il principio della domanda. Sez. 2, n. 07260/2015, Manna, Rv. 634830, ha ritenuto che in tema di azioni di nunciazione, il procedimento cautelare termina con l'ordinanza di accoglimento o di rigetto del giudice monocratico o del collegio in caso di reclamo, mentre il successivo processo di cognizione richiede un'autonoma domanda di merito. Il processo di cognizione che si svolga in difetto dell'atto propulsivo di parte a causa dell'erronea fissazione giudiziale di un'udienza posteriore all'ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta, per violazione del principio della domanda, rilevabile d'ufficio e non sanata dall'instaurarsi del contraddittorio tra le parti. Nella stessa materia, Sez. 1, n. 21272 /2015, Nappi, Rv. 637410, ha affermato che la carenza degli elementi costitutivi del diritto azionato è deducibile o rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, fatta salva la preclusione eventualmente derivante dal giudicato, sicché la Suprema Corte, nel cassare la sentenza impugnata avente contenuto solo processuale, può, 646 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE nell'esercizio del potere attribuitole dall'art. 384, comma 2, c.p.c., negare l'astratta configurabilità del diritto soggettivo affermato dall'attore con l'atto introduttivo del giudizio, e così rigettare la domanda, purché sulla corrispondente questione di diritto si sia svolto il contraddittorio nella stessa fase di legittimità. 5. Interesse ad agire. Ha affermato Sez. L, n. 10036/2015, Bandini, Rv. 635390, che la valutazione dell'interesse ad agire deve essere effettuata con riguardo all'utilità del provvedimento richiesto rispetto alla lesione denunciata, non rilevando la valutazione delle diverse, ed eventualmente maggiori, utilità di cui l'attore potrebbe beneficiare in forza di posizioni giuridiche soggettive alternative a quella fatta valere. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto l'interesse ad agire di cittadini italiani dipendenti di società statunitense controllata da impresa italiana, al fine di ottenere il trattamento previdenziale italiano, pur non avendo essi svolto una comparazione tra il vantaggio perseguito e le utilità derivanti dal sistema previdenziale statunitense e dalle forme assicurative private attivate dal datore di lavoro). Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, ha ritenuto che in tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost., in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU. (Nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di euro 12,00 a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento). Nell'ambito del dibattuto tema dell'interesse ad agire nelle azioni di mero accertamento, Sez. L, n. 14961/2015, Tria, Rv. 636240, ha ritenuto che in caso di malattia professionale non indennizzabile per il mancato raggiungimento della soglia minima di inabilità permanente, pari al 6 per cento, il giudice non può emanare una pronuncia di mero accertamento, perché essa avrebbe ad oggetto soltanto uno degli elementi costitutivi del diritto alla rendita 647 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE non suscettibile di autonomo accertamento, dovendosi, peraltro, riconoscere, ove una siffatta positiva declaratoria sia stata comunque adottata, l'interesse dell'INAIL ad impugnare e rimuovere la sentenza di primo grado, emessa contra legem, contenente una statuizione che riguarda, in ogni caso, l'Istituto, e ciò a prescindere dal contenuto immediatamente lesivo della stessa. Nello stesso ambito, si è espressa Sez. 1, n. 16162/2015, Lamorgese, Rv. 636440, secondo la quale, colui che agisce con l'azione di accertamento, anche se negativo, deve essere titolare dell'interesse, attuale e concreto, ad ottenere un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l'intervento del giudice, mediante la rimozione di uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza del rapporto giuridico dedotto in causa. (Nella specie, la S.C. ha escluso l'interesse dei ricorrenti all'azione inibitoria con riferimento allo sfruttamento economico di alcuni film, non avendo gli stessi validamente acquistato i relativi diritti). Sez. L, n. 01035/2015, Manna, Rv. 634049, ha affermato che nelle cause proposte dopo il 3 settembre 1998 - data di entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 - ed aventi ad oggetto il diritto a prestazioni assistenziali (nella specie, l'accertamento della condizione di portatore di handicap grave ai sensi dell'art. 3, commi 1 e 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104), il titolare dal lato passivo del diritto controverso è l'I.N.P.S., soggetto obbligato alle prestazioni, che deve essere convenuto in giudizio, restando esclusa l'ammissibilità di una azione di mero accertamento dello stato di invalidità civile. Sez. L, n. 16262/2015, Manna, Rv. 636587, ha affermato che l'interesse ad agire in un'azione di mero accertamento non implica necessariamente l'attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva, anche non preesistente al processo, in quanto sorto nel corso del giudizio a seguito della contestazione sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata degli obblighi e dei diritti da esso scaturenti, che non sia superabile se non con l'intervento del giudice. (Nella specie, riguardante la cessione di contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento di ramo d'azienda, la S.C. ha ritenuto sussistente l'interesse ad agire al fine di individuare il reale datore di lavoro, pur non avendo i lavoratori ceduti dedotto alcuna conseguenza pregiudizievole). Nella materia in esame, di particolare rilievo è Sez. U, n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, secondo cui sussiste l'interesse del contribuente ad impugnare la cartella di pagamento della quale - a 648 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE causa dell'invalidità della relativa notifica - sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione; a ciò non osta l'ultima parte del comma 3 dell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che l'impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo notificato - impugnabilità prevista da tale norma - non costituisca l'unica possibilità di far valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e quindi non escluda la possibilità di far valere l'invalidità stessa anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione. 6. Legittimazione ad agire. Ha affermato Sez. 6-2, n. 01650/2015, Bianchini, Rv. 634034, che ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investa la intera cosa comune (e non una sua frazione), è legittimato ad agire o resistere in giudizio per la tutela della stessa nei confronti di un singolo condomino, anche senza il consenso degli altri partecipanti. Nella stessa materia, secondo Sez. 3, n. 14671/2015, Vincenti, Rv. 636179, in caso di mandato all'incasso senza rappresentanza, il mandatario non è legittimato ad agire in giudizio per conseguire l'adempimento del terzo debitore, non essendo munito di alcun potere rappresentativo, né avendo acquisito in capo a sé alcun diritto di credito. (In applicazione di tale principio - affermato in relazione ad una fattispecie in cui la società attrice, mandataria all'incasso senza rappresentanza dei crediti delle società mandanti, aveva agito in nome proprio, senza essere titolare dei diritti che intendeva tutelare giudizialmente - la S.C. ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso in capo all'attrice sia la legittimazione ad causam, sia quella sostanziale). Le differenze tra legittimazione ad agire (intesa come diritto di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole) e concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio sono state analizzate nell'ordinanza interlocutoria della Sez. 6-3, n. 02977/2015, Vivaldi. La questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite riguarda, in particolare, il contrasto interpretativo emerso nella 649 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE giurisprudenza delle sezioni civili in materia di contestazione della effettiva titolarità del rapporto controverso. Sul punto, la tesi minoritaria sostiene che tale contestazione costituirebbe mera difesa; l'orientamento maggioritario, al contrario, afferma che la contestazione della concreta titolarità del diritto sostanziale costituirebbe oggetto di un'eccezione in senso tecnico, non rilevabile di ufficio (a differenza dell'eccezione di carenza di legittimazione ad agire) ma affidata alla disponibilità delle parti e da introdursi, dunque, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte. 7. Il principio del contraddittorio. In tale materia si segnala Sez. 1, n. 17392/2015, Di Virgilio, Rv. 636702, secondo cui, nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio. 8. Pluralità di parti. 8.1. Litisconsorzio necessario. Secondo Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974, il terzo pignorato non è parte necessaria nel giudizio di opposizione all'esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo. Sez. 3, n. 08891/2015, De Stefano, Rv. 635265, ha ritenuto che in caso di espropriazione contro il terzo proprietario, ai sensi degli artt. 602 e segg. c.p.c., il debitore originario o diretto è litisconsorte necessario nella controversia distributiva di cui all'art. 512 c.p.c. (nel testo anteriore alla novella intervenuta con l'art. 2, comma 3, lett. e), del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), essendo il soggetto nei cui confronti l'accertamento della sussistenza e dell'entità dei crediti e dei privilegi posti a base dell'azione esecutiva contro il terzo è destinato a produrre effetti immediati e diretti, sicché, ove egli non sia stato evocato in giudizio, la sentenza resa nella controversia 650 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE distributiva è inutiliter data e la conseguente nullità, se non precedentemente rilevata in sede di merito, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità con rimessione della causa al giudice di primo grado. Sez. 3, n. 07685/2015, Rossetti, Rv. 635101, ha ritenuto che in tema di sinistro stradale con pluralità di danneggiati, l'art. 140, comma 4, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, ha natura di norma processuale, poiché introduce una ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché, in difetto di espressa previsione, non è suscettibile di applicazione retroattiva, non trovando applicazione ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore. Secondo Sez. 2, n. 07460/2015, San Giorgio, Rv. 634999, il termine concesso dal giudice per l'integrazione del contraddittorio nei casi previsti dall'art. 102 c.p.c. ha natura perentoria e non può essere né rinnovato, né prorogato ai sensi dell'art. 153 c.p.c., sicché, in caso di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex artt. 291, comma 3, e 307, comma 3, c.p.c. comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte, senza alcuna possibilità di riassunzione, trattandosi di un provvedimento che implica una pronuncia di mero rito ricognitiva dell'impossibilità di proseguire la causa in mancanza di una parte necessaria. Ha ritenuto Sez. 2, n. 00678/2015, Falaschi, Rv. 634744, che in caso di morte di una delle parti nel corso del giudizio di primo grado, la sua legittimazione attiva e passiva si trasmette agli eredi, i quali vengono a trovarsi, per tutta l'ulteriore durata del processo, in una situazione di litisconsorzio necessario di ordine processuale, sicché, ove l'impugnazione sia stata proposta nei confronti di uno soltanto degli eredi della parte deceduta, il giudice d'appello deve ordinare, anche d'ufficio ed a pena di nullità, l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coeredi, o comunque ritenere gli stessi legittimati ove si costituiscano spontaneamente. Secondo Sez. 1, n. 01623/2015, Lamorgese, Rv. 634030, l'azione promossa dal socio di una società di capitali per la revoca del liquidatore ex art. 2450, comma 4 (oggi art. 2487, comma 4), c.c. - rimedio cui il primo è direttamente legittimato a tutela dei suoi diritti di partecipazione, che diventano liquidi ed esigibili solo con la liquidazione della società - implica il litisconsorzio necessario con la società, così come nelle società di persone è necessaria la presenza in giudizio di tutti i soci. 651 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE In tema di litisconsorte necessario pretermesso (come il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile, il falsamente rappresentato e il titolare di status incompatibile con quello accertato tra altre parti), che ai sensi dell'art. 404 c.p.c. è ammesso all'opposizione ordinaria avverso la sentenza resa in un giudizio inter alias, Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634087, ha riconosciuto allo stesso la proponibilità di una azione di accertamento autonoma della sua posizione, precisando tuttavia che, sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta, gli è preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l'efficacia esecutiva o gli effetti esecutivi o accertativi derivanti dalla sentenza inter alias non opposta. Ha ritenuto Sez. L, n. 01172/2015, Bronzini, Rv. 634273, che la domanda della lavoratrice dipendente volta al riconoscimento dell'indennità di maternità (riconducibile alla fattispecie disciplinata dall'art. 2110 c.c.) va proposta non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche dell'INPS, ricorrendo nei loro confronti un'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., in quanto, ai sensi dell'art. 1 del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980, n. 33, l'INPS è l'unico soggetto obbligato ad erogare le indennità di malattia e maternità ex art. 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, mentre il datore di lavoro ha solo il dovere di anticiparne l'importo, salvo conguaglio con i contributi e le altre somme da corrispondere all'Istituto, sempreché la prestazione sia effettivamente dovuta dall'Istituto previdenziale. Nella materia in esame, infine, Sez. 3, n. 20890/2015, Pellecchia, Rv. 637483, ha ritenuto che nel giudizio risarcitorio conseguente all'illecita lesione del diritto alla riservatezza, il Garante per la protezione dei dati personali, quale estraneo alla pretesa, non riveste il ruolo di litisconsorte necessario, diversamente dal caso del giudizio che consegue alla impugnazione di un proprio provvedimento. 8.2. Litisconsorzio facoltativo. Secondo Sez. 2, n. 13414/2015, Mazzacane, Rv. 635889, nel caso in cui più acquirenti di singole unità immobiliari facenti parte dello stesso edificio agiscano congiuntamente per far valere il vincolo di destinazione delle porzioni del fabbricato da riservare a parcheggio, a norma dell'art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, sono dedotti in giudizio i distinti diritti di ognuno, non collegati tra loro se non dall'identità del titolo legale da cui derivano, sicché si verte in un'ipotesi di litisconsorzio tipicamente "facoltativo" ai sensi dell'art. 103 c.p.c. e 652 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE non occorre, quindi, che al giudizio partecipino necessariamente tutti gli altri condomini, a nulla rilevando il corrispettivo dovuto a titolo di integrazione del prezzo di vendita della singola unità immobiliare, posto che il relativo obbligo rimane a carico soltanto di quei condomini che hanno agito per il riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio. 8.3. Intervento volontario e integrazione del contraddittorio. Ha affermato Sez. U, n. 11131/2015, Petitti, Rv. 635361, che chi interviene volontariamente in un giudizio (nella specie, amministrativo) in relazione al quale già è stato proposto regolamento di giurisdizione non ha diritto all'integrazione del contraddittorio davanti alla Corte di cassazione, atteso che l'interveniente volontario accetta lo stato e il grado in cui il giudizio si trova. 8.4. Successione di parti. Secondo Sez. 3, n. 07365/2015, Barreca, Rv. 635196, in tema di azioni possessorie, quando la successione a titolo particolare nel possesso avvenga dopo la proposizione della domanda di reintegrazione o di manutenzione nei confronti dell'autore dello spoglio, la sentenza ha effetto, ai sensi dell'art. 111, comma 4, c.p.c., nei confronti dell'avente causa, senza che operi la clausola di salvezza degli effetti della trascrizione ivi prevista, in quanto la domanda di reintegrazione o di manutenzione non va trascritta ai sensi e per gli effetti dell'art. 2653, n. 1, c.c. e, perciò, resta irrilevante la trascrizione del titolo d'acquisto. Ne consegue che la sentenza pronunciata contro il dante causa è titolo eseguibile nei confronti dell'acquirente. Nella stessa materia, ha affermato Sez. 6-2, n. 04536/2015, Proto, Rv. 634717, che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi dell'art. 111 c.p.c., può intervenire nel processo anche nel giudizio di rinvio, non essendo preclusa tale facoltà nemmeno dall'art. 344 c.p.c., che limita l'intervento in appello. Secondo Sez. T, n. 19611/2015, Marulli, Rv. 6365192, il processo tributario iniziato nei confronti di una società successivamente estintasi per cancellazione dal registro delle imprese non può proseguire nel giudizio di cassazione ad opera o nei confronti degli ex-soci, poiché essi rispondono del pagamento di tali imposte, ex art. 36, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, solo se abbiano ricevuto beni sociali dagli amministratori nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, e 653 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE nei limiti del valore di detti beni, per cui l'accertamento di tali circostanze comporta un ampliamento del thema decidendum e del thema probandum, non consentito in sede di legittimità. Nella stessa materia, Sez. 1, n. 25974/2015, Ragonesi, in corso di massimazione, ha ritenuto che la cancellazione di una società dal registro delle imprese non determina il trasferimento dell'azione in capo al socio, ma la cessazione della materia del contendere, qualora si controverta non già su diritti o beni non compresi nel bilancio di liquidazione, ma in ordine a mere pretese ovvero a diritti ancora illiquidi ed incerti, che necessitino di un accertamento giudiziale non concluso. 9. I principi generali. L'art. 112 c.p.c. Nutrita e significativa è stata, nell'ultimo anno, la produzione giurisprudenziale della Corte in tema di principi generali che governano il processo civile. In termini generali, il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introdurre nuovi elementi di fatto nel tema controverso. Da ciò consegue che il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell'azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Sez. 3, n. 18868/2015, D'Amico, Rv. 636968). Il tema è strettamente connesso a quello della differenza tra mutatio ed emendatio libelli analizzato da Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, di cui si tratterà in altra sezione della presente Rassegna. Sez. 2, n. 19502/2015, Manna, Rv. 636568, ha escluso la sussistenza della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto. In quest'ottica, al cospetto di un'azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, si è ritenuto che non pronunzi ultra petita il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il 654 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE promittente venditore alla restituzione della caparra stessa (producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni). In qualche modo la questione è collegata a quella esaminata e risolta dalla nota Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633506. Parimenti, Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv. 636495, ha ribadito che la diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado non costituisce vizio di extrapetizione, rientrando tale potere-dovere nelle attribuzioni del giudice dell'impugnazione, senza necessità, quindi, di specifica impugnazione o doglianza di parte, purché egli operi nell'ambito delle questioni riproposte con il gravame e lasci inalterati il petitum e la causa petendi, non introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto. Nel medesimo solco, Sez. 2, n. 12953/2015, Abete, Rv. 635707, ha statuito, in tema di rivendicazione, che il giudice può riconoscere l'esistenza di una proprietà pro quota pure laddove si assuma esistere una proprietà esclusiva, senza con ciò trasmodare dai limiti della domanda, ricorrendo il vizio di ultrapetizione soltanto allorché dalla pronunzia derivino effetti giuridici più ampi di quelli richiesti dall'attore. D'altra parte, il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre in vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo contenuto sostanziale della stessa (Sez. 3, n. 21087/2015, Stalla, Rv. 637476). Per Sez. L, n. 08872/2015, Nobile, Rv. 635355, viceversa, nel caso in cui il giudice di merito statuisca su una questione proposta dal ricorrente in primo grado in via incidentale, ritenendola, invece, quale domanda autonoma, sussiste violazione dell'art. 112 c.p.c., sicché la sentenza deve essere cassata per essere incorsa in vizio di ultrapetizione. Sez. 3, n. 06457/2015, Pellecchia, Rv. 634943, ha considerato non nuova la domanda di restituzione di quanto pagato in esecuzione di una sentenza provvisoriamente esecutiva, con la 655 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE conseguenza di ritenere che la stessa possa chiedersi, per la prima volta, con lo stesso atto di appello avverso quest'ultima, anche in sede di precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda considerarsi nuova e, quindi, preclusa. Pertanto, il giudice del gravame che omettesse di pronunciarsi sulla stessa incorrerebbe nella violazione di cui all'art. 112 c.p.c. E' opportuno ricordare che, proprio perché l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, ove questi abbia espressamente ritenuto che era stata avanzata, tale statuizione, ancorché in ipotesi erronea, non può essere censurata per ultrapetizione, atteso che il suddetto difetto non è logicamente verificabile prima di aver accertato l'erroneità della relativa motivazione (Sez. L, n. 21874/2015, Nobile, 637389). 9.1. L'omessa pronuncia. Per Sez. T, n. 03417/2015, Iofrida, Rv. 634649, l'omessa pronuncia, quale vizio della sentenza, può essere utilmente prospettata solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che, ritualmente e incondizionatamente proposta, richiede una pronuncia di accoglimento o di rigetto. Tale vizio deve essere, dunque, escluso in relazione ad una questione esplicitamente o anche implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza e che è, quindi, suscettibile di riesame nella successiva fase del giudizio, se riprospettata con specifica censura. Sez. T, n. 00452/2015, Crucitti, Rv. 634428, ha ulteriormente precisato che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d'appello è configurabile allorché manchi completamente l'esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d'appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda. Secondo Sez. L, n. 02687/2015, Lorito, Rv. 634284, integra violazione dell'art. 112 c.p.c., l'omessa pronuncia su un'eccezione di parte, ritualmente sollevata in giudizio, avente ad oggetto la tardiva introduzione, con l'atto di appello, di nuove allegazioni di fatto, che, alterando uno dei presupposti della domanda iniziale, inseriscano nel processo un nuovo tema d'indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio (nella specie, la sentenza d'appello aveva erroneamente valorizzato, a fronte delle lacunose indicazioni contenute nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado - ai fini dell'individuazione dei fatti determinativi dell'evento lesivo -, nuove ed ulteriori circostanze, introdotte in sede di impugnazione, che non 656 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE si erano risolte in una mera specificazione del thema decidendum, ma in un suo sostanziale ampliamento). 10. Il principio di disponibilità delle prove. Un ambito tuttora non adeguatamente esplorato appare quello delle prove atipiche. Sez. 3, n. 13229/2015, De Stefano, Rv. 636013, ha ammesso che nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice e in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi possa porre a fondamento della decisione anche prove atipiche, non espressamente previste dal codice di rito, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo. Nel solco della stessa impostazione, per Sez. 3, n. 00840/2015, Vincenti, Rv. 633913, il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (costituita, nella specie, da una deposizione testimoniale resa in assenza del contraddittorio nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un avvocato nella fase svoltasi dinanzi al consiglio dell'ordine locale). Interessanti sono le pronunce adottate sull'estensione dei poteri di acquisizione documentali di spettanza del consulente tecnico d'ufficio. Sulla questione si segnalano Sez. 3, n. 12921/2015, Rubino, Rv. 635808 (secondo cui il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultanti da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti), e Sez. 2, n. 04729/2015, Petitti, Rv. 634655 (a mente del quale il consulente tecnico d'ufficio può, ai sensi dell'art. 194, comma 1, c.p.c., assumere, anche in assenza di espressa autorizzazione del giudice, informazioni da terzi e verificare fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti, ma non anche accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio 657 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE incombe sulle parti, sicché gli accertamenti compiuti dal consulente oltre i predetti limiti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio, e, perciò, privi di qualsiasi valore, probatorio o indiziario). 10.1. Il principio di non contestazione. Sez. T, n. 02196/2015, Terrusi, Rv. 634386, ha sostenuto che il principio di non contestazione si applica anche nel processo tributario, ma, attesa l'indisponibilità dei diritti controversi, riguarda esclusivamente i profili probatori del fatto non contestato, e sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l'esistenza. Sez. 3, n. 19896/2015, Rossetti, 637316, ha avuto il merito di chiarire che anche nei giudizi sorti anteriormente all'introduzione formale del principio suddetto mediante la modifica dell'art. 115 c.p.c., era imposto al convenuto di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, in virtù dell'art. 167 dello medesimo codice, sicché quei fatti dovevano darsi per ammessi, senza necessità di prova, quando il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta si era limitato a negare genericamente la "sussistenza dei presupposti di legge" per l'accoglimento della domanda attorea, senza alcuna contestazione chiara e specifica della stessa. Peraltro, il principio in esame non opera con riferimento alla legittimazione ad causam, attenendo essa al contraddittorio e dovendo essere verificata anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, con il solo limite del giudicato interno (Sez. 3, n. 21176/2015, Rubino, Rv. 637493). Non va dimenticato, inoltre, che il difetto di specifica contestazione rileva diversamente a seconda che risulti riferibile ai fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili d'ufficio (fatti principali) ovvero ai fatti dalla cui prova si può inferire l'esistenza dei primi (fatti secondari): mentre nella prima ipotesi trova applicazione l'art. 167 c.p.c. che, onerando il convenuto (come si è visto) di prendere posizione in ordine ai fatti allegati dall'attore, ne rende superflua la prova in quanto non controversi, nella seconda ipotesi la mancata non contestazione consente al giudice solo di utilizzarli liberamente come argomenti di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c. (Sez. 1, n. 19709/2015, Mercolino, Rv. 637339). Da ultimo, è importante ricordare (Sez. 6, n. 22461/2015, Manna, Rv. 637029) che l'onere di contestazione specifica dei fatti 658 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE posti dall'attore a fondamento della domanda opera unicamente per il convenuto costituito e nell'ambito del solo giudizio di primo grado, nel quale soltanto si definiscono irretrattabilmente thema decidendum e thema probandum. Da ciò consegue che non rileva a tal fine la condotta processuale tenuta dalle parti in appello. 11. La valutazione delle prove. Numerose e significative sono le pronunce che si sono dedicate al tema della valutazione delle prove. Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634858, ha ribadito che, nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche - nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre - costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda. Per Sez. L, n. 04773/2015, Macioce, Rv. 634812, qualora il giudice del merito ritenga sussistere un insanabile contrasto tra le deposizioni testimoniali sui fatti costitutivi della domanda, fondando tale convincimento non sul rapporto numerico dei testi, ma sul dato oggettivo di detto contrasto, ritenuto ostativo al raggiungimento della certezza necessaria alla decisione, e, con valutazione congruamente motivata, reputi non superabile il contrasto sulla scorta delle ulteriori risultanze istruttorie documentali, inidonee a dimostrare la fondatezza della domanda, l'insufficienza del quadro probatorio ricade in danno della parte sulla quale grava l'onere della prova, comportando, conseguentemente, il rigetto della domanda da questa proposta. Sempre in tema di prova testimoniale, Sez. 1, n. 00569/2015, Didone, Rv. 634331, ha confermato che, mentre i testimoni de relato actoris sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla (in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell'accertamento, fondamento storico della pretesa), i testimoni de relato in genere, invece, depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata perché indiretta, è idonea ad assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità. 659 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Quanto all'attendibilità di un testimone, la relativa valutazione deve avvenire con riferimento al contenuto della dichiarazione dallo stesso resa, e non aprioristicamente e per categorie di soggetti, al fine di escluderne ex ante la capacità a testimoniare (Sez. 3, n. 19215/2015, Scarano, Rv. 636964). Sez. 3, n. 20125/2015, Vincenti, 637482, ha ribadito il principio per cui, qualora il giudice d'appello dissenta dalle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio nominato in secondo grado ed accolga quelle del consulente tecnico d'ufficio designato in primo grado, deve enunciare le ragioni della scelta, contestando le contrastanti argomentazioni della seconda consulenza. 12. Le forme degli atti e dei provvedimenti. Con riferimento agli atti di parte, Sez. T, n. 12525/2015, Cigna, Rv. 635748, ha ribadito che nel processo tributario, come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti, relativamente ai quali il giudice ha, pertanto, la facoltà, e non l'obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore in forza dell'art. 123 c.p.c., di cui si può fare a meno allorché non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, mentre, al di fuori di queste ipotesi, è necessario procedere alla nomina di un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera. In relazione ai provvedimenti, è opportuno ulteriormente distinguere le irregolarità riguardanti l'intestazione da quelle concernenti la motivazione della sentenza. Quanto alle prime, vengono inquadrate nell'ambito delle mere irregolarità formali la mancata indicazione del nome dei magistrati componenti del collegio giudicante, che, secondo le risultanze del dispositivo letto in udienza coerente con il relativo verbale, abbiano pronunciato la decisione (Sez. L, n. 04875/2015, Ghinoy, Rv. 634814, per la quale trattasi di mero errore materiale, emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c.), la mancata, erronea o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti (Sez. 3, n. 18609/2015, Scrima, Rv. 636980; Sez. 3, n. 12864/2015, Barreca, Rv. 635880; salvo che si sia tradotto in un'omessa pronuncia sulle domande o eccezioni delle parti, oppure in un difetto di motivazione in ordine ai punti decisivi prospettati dalle parti), l'omessa indicazione del nome di una delle parti (Sez. 2, n. 05660/2015, Proto, Rv. 635001; salvo che la stessa riveli che il 660 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE contraddittorio non si è regolarmente costituito a norma dell'art. 101 c.p.c., o generi incertezza circa i soggetti ai quali la decisione si riferisce). Peraltro, con riferimento alla prima fattispecie, è a segnalarsi un contrasto di vedute, se si considera che Sez. 3, n. 19214/2015, Scrima, Rv. 637084, ha sostenuto che la sentenza che, regolarmente sottoscritta dal Presidente (anche in qualità di estensore), non rechi i nominativi dei giudici costituenti il collegio deliberante (con conseguente impossibilità di desumerne l'identità) è nulla per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 c.p.c. La mancanza della data di pubblicazione della sentenza non è causa di nullità, ove la cancelleria del competente ufficio giudiziario ne abbia annotato l'avvenuta pubblicazione nel registro cronologico, l'abbia trasmessa all'ufficio del registro degli atti giudiziari ed abbia comunicato alle parti costituite l'avvenuto deposito della decisione, cosicché la parte interessata abbia potuto tempestivamente impugnare la pronuncia a lei sfavorevole (Sez. 6-T, n. 00118/2015, Iacobellis, Rv. 634218). Da ultimo, meritevole di segnalazione è Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, in corso di massimazione, la quale ha escluso che sia affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice che vi abbia apposto la propria firma digitale a norma dell'art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. Ciò in quanto, in tale evenienza, è garantita l'identificabilità dell'autore, l'integrità del documento e l'immodificabilità (se non dal suo autore e sempre che non sia intervenuta la pubblicazione) del provvedimento ed è equiparata la firma digitale alla sottoscrizione autografa (in base ai principi del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82). 12.1. Il contenuto della sentenza. Sez. 6-3, n. 15088/2015, Cirillo, Rv. 636180, ha ribadito che, nell'ordinario giudizio di cognizione, la portata precettiva della sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche integrando questo con la motivazione. Ne deriva che, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, che va interpretato secondo l'unica statuizione in esso contenuta. Peraltro, in camera di consiglio, poiché il dispositivo redatto ai sensi dell'art. 276, comma 5, c.p.c. ha valore (salvo che nelle controversie assoggettate al rito del lavoro) meramente interno, non può ritenersi alcuna nullità della sentenza per il solo fatto che quel 661 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE dispositivo, munito della sottoscrizione del presidente, non risulti agli atti (Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, 637282). Sul piano formale, è reputata nulla per omessa motivazione la sentenza fin dall'origine priva di una pagina, se la motivazione risultante dalle altre pagine evidenzia una frattura logico-espositiva che non consente di ricostruire l'esatto e compiuto ragionamento posto a base della decisione (Sez. 2, n. 09488/2015, Matera, Rv. 635246). Soddisfa il requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. anche la sentenza che, pur in assenza di una delle pagine originariamente redatte, consenta di desumere la ragione per la quale ogni istanza proposta dalle parti sia stata esaminata (Sez. L, n. 21420/2015, Ghinoy, Rv. 637576). In ordine alla descritta questione, va segnalato che con ordinanza interlocutoria – Sez. 2, n. 24856/2015, Giusti - gli atti sono stati rimessi al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite anche sul contrasto sul se la notifica di copia del ricorso per cassazione incomprensibile perché priva di alcune pagine determini inammissibilità dell'impugnazione o vizio sanabile con notifica integrale. Intimamente connessa alla questione su riportata è quella della sentenza che, pur avendo l'indicazione esatta delle pagine o anche in assenza di una delle pagine originariamente redatte, consenta di desumere la ragione per la quale ogni istanza proposta dalle parti sia stata esaminata e di ricostruire l'esatto ragionamento posto a base della decisione. In siffatta evenienza Sez. L, n. 21420/2015, Ghinoy, cit., ha ritenuto che la decisione soddisfi comunque il requisito di cui all'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., nella parte in cui richiede che l'esposizione dei fatti di causa riassuma concisamente il contenuto sostanziale della controversia e che nella motivazione sia chiaramente illustrato il percorso logico-giuridico seguito. E' parimenti nulla, per violazione dell'art. 132, n. 4, c.p.c., e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, la sentenza in cui sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione (Sez. 3, n. 12864/2015, citata, in un caso in cui la motivazione era materialmente priva della parte idonea a far comprendere le ragioni per cui la prova testimoniale, assunta e valutata con favore nel primo grado, in appello fosse stata ritenuta inadeguata a dimostrare la sussistenza di un fatto controverso e decisivo per il giudizio). 662 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE Quanto all'iter logico, meritevole di particolare menzione è Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, che ha enunciato l'importante principio secondo cui, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla, qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che al giudice non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive (conf. Sez. T, n. 09334/2015, Di Iasi, Rv. 635474). Tuttavia, la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di una parte, consistenti nel rinvio a tutte le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, in quanto non consente di individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione (Sez. 6- T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064). Parimenti, non adempie il dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamente acquisiti, senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa (Sez. T, n. 22242/2015, Botta, Rv. 637116). Ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perché questo è il solo contenuto "statico" della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto "dinamico" della dichiarazione stessa (Sez. 5, 4 dicembre 2015, n. 24784, in corso di massimazione). 12.2. La decisione a seguito di trattazione orale. Per Sez. 3, n. 12203/2015, Travaglino, Rv. 635627, l'adozione del modello "semplificato" di decisione, di cui all'art. 281 sexies c.p.c., non esonera comunque il giudice dall'obbligo di fornire alle parti una motivazione che consenta di ricostruire, sia pur sinteticamente, i fatti di causa, ed offra alla fattispecie concretamente esaminata una soluzione corretta sul piano logico-giuridico. Dal canto suo, Sez. 3, n. 06394/2015, Vivaldi, Rv. 635066, ha precisato che la sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c., con la lettura del dispositivo in udienza, ma senza il 663 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE contestuale deposito della motivazione, è nulla in quanto non conforme al modello previsto dalla norma, dovendosi altresì escludere la sua conversione in una valida sentenza ordinaria, poiché la pubblicazione del dispositivo consuma il potere decisorio del giudice, sicché la successiva motivazione è irrilevante in quanto estranea alla struttura dell'atto processuale ormai compiuto. 13. La pubblicazione e comunicazione della sentenza. Sez. 6-T, n. 00118/2015, citata, ha puntualizzato che, alla stregua di quanto disposto dall'art. 156 c.p.c., le formalità di pubblicazione della sentenza, indicate nel primo comma dell'art. 133 dello stesso codice, non sono previste dalla legge a pena di nullità. Sul tema non può non essere menzionata Corte cost., n. 3 del 12 gennaio 2015, che ha reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, commi 1 e 2, e 327, comma 1, c.p.c. (nel testo anteriore alla modifica apportata dall'art. 46, comma 17, legge 69 del 2009), come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 dell'1 agosto 2012, censurati nella parte in cui, qualora le attività di deposito della sentenza e di effettiva pubblicazione della stessa abbiano luogo in due momenti diversi, farebbero decorrere tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza dalla data del suo deposito. Nella procedura di pubblicazione disciplinata dall'art. 133 c.p.c., che si articola nel deposito della sentenza da parte del giudice e nella presa d'atto del cancelliere, l'atto fondamentale è il primo. Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest'ultima. Il ritardato adempimento (imputabile alla sola amministrazione giudiziaria), attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell'intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa. Nel solco di tale pronuncia Sez. 6-2, n. 10675/2015, D'Ascola, Rv. 635422, ha ritenuto che, in caso di doppia data - di deposito e di pubblicazione - apposta dal cancelliere sulla sentenza, si intende rimessa in termini e non decaduta la parte che abbia proposto l'impugnazione nel termine "lungo" decorrente non dalla data di deposito, ma dalla successiva data di pubblicazione, qualora 664 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE emerga dagli atti, anche per implicito, che dall'attestazione del deposito non sia derivata la conoscenza della sentenza. Sez. 6-L, n. 06050/2015, Arienzo, Rv. 634849, è pervenuta, in tema di ricorso per cassazione (ai fini della decorrenza del termine lungo, di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c.), ad analoga conclusione, conferendo rilevanza alla seconda annotazione, cui consegue l'effettiva pubblicità della sentenza con il compimento delle operazioni prescritte dall'art. 133 c.p.c., quali misure volte a garantire la conoscibilità della decisione, essenziale per l'esercizio del diritto di difesa. Sul tema, va, peraltro, evidenziato che la Seconda Sezione civile, con ordinanze interlocutorie nn. 18775 e 19140 del 2015, ha sottoposto, in presenza di un contrasto, la questione alle Sezioni Unite, al fine di stabilire, in presenza di due date attestanti deposito e pubblicazione della sentenza, la decorrenza del termine lungo per l'impugnazione, nonché l'ambito e le modalità di applicazione dell'istituto della rimessione in termini. Gli indicati problemi non si pongono nel caso di sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., dato che la stessa, integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi in quel momento pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l'udienza (Sez. 3, n. 11176/2015, Barreca, Rv. 635565). Invero, la previsione normativa dell'immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze, con l'attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall'altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia (eventualmente, in forma esecutiva). 14. Le notificazioni. Sez. T, n. 19060/2015, Cigna, Rv. 636563, ha ribadito il principio per cui, in tema di notificazione degli atti processuali, qualora la notificazione dell'atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l'onere di richiedere all'ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché il notificante fornisca la prova che il mancato perfezionamento della prima notifica non gli 665 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE sia addebitabile ed attivi un nuovo procedimento entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l'esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori. Peraltro, con riferimento al ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 16040/2015, Campanile, Rv. 636507, lo ha dichiarato inammissibile in un caso in cui era stato notificato tempestivamente presso il precedente indirizzo del difensore della controparte nonostante la conoscenza o conoscibilità dell'intervenuto trasferimento dello studio (nella specie, risultante dagli atti difensivi e dalla corrispondenza posteriore), non potendosi applicare il principio secondo il quale è legittima la ripresa del procedimento notificatorio in esito all'insuccesso di un precedente tentativo di notificazione, che postula la non imputabilità al richiedente della mancata esecuzione della precedente notificazione. Sez. T, n. 03755/2015, Federico, Rv. 634563, nel confermare che il momento di perfezionamento per il notificante, ai fini della tempestività dell'impugnazione è costituito dalla consegna dell'atto da notificarsi all'ufficiale giudiziario, ha precisato che la relativa prova può essere ricavata dal timbro, ancorché privo di sottoscrizione, da questi apposto sull'atto, recante il numero cronologico, la data e la specifica delle spese, salvo che sia in contestazione la conformità al vero di quanto da esso desumibile, atteso che le risultanze del registro cronologico, che egli deve tenere ai sensi dell'art. 116, comma 1, n. 1, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, fanno fede fino a querela di falso. Per Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, la regola stabilita dall'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione mediante consegna nelle mani proprie del destinatario, ovunque lo trovi, è applicabile anche nei confronti del difensore di una delle parti in causa, essendo questi, dopo la costituzione in giudizio della parte a mezzo di procuratore, l'unico destinatario delle notificazioni da eseguirsi nel corso del procedimento (art. 170, comma 1, c.p.c.), sicché, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, è valida la notifica della sentenza effettuata a mani proprie del procuratore costituito, ancorché in luogo diverso da quello in cui la parte abbia, presso il medesimo, eletto domicilio. Quanto alla notificazione di atti giudiziari e di corretta determinazione del luogo di residenza o dimora abituale del destinatario, costituisce idonea fonte di convincimento, per confermare o superare le risultanze anagrafiche (aventi valore 666 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE meramente presuntivo), l'indicazione della residenza fatta dalla parte nel contratto all'origine della controversia dedotta in giudizio (Sez. 3, n. 17021/2015, Rubino, Rv. 636300). La Terza Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 1392 del 2015, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza avente ad oggetto la possibilità di estendere il principio di "scissione" degli effetti della notificazione agli atti sostanziali o a quelli processuali con effetti sostanziali. Le Sezioni Unite, a soluzione della questione, hanno affermato il principio secondo cui, ove il diritto non si possa far valere se non con un atto processuale, la prescrizione è interrotta dall'atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altro caso opera la soluzione opposta (Sez. U, n. 24822/2015, Vivaldi, in corso di massimazione). 14.1. Le varie fattispecie di notificazione. In base a Sez. 3, n. 03590/2015, Travaglino, Rv. 634482, è nulla la notifica ex art. 140 c.p.c. effettuata nel luogo di residenza del destinatario, come risultante dai registri anagrafici, qualora questi si sia trasferito altrove ed il notificante ne conosca l'effettiva residenza o domicilio, in quanto evincibili dalla stessa relata dell'ufficiale giudiziario. Sempre in tema di notifica in caso di irreperibilità del destinatario, Sez. 6-2, n. 19772/2015, D'Ascola, Rv. 637033, ha precisato che la detta notifica si perfeziona per quest'ultimo col ricevimento della raccomandata informativa, che rende conoscibile l'atto, essendo necessario il decorso dei dieci giorni dalla spedizione della raccomandata solo nel caso in cui questa non sia stata ricevuta. Quando il destinatario della notifica si sia trasferito all'estero senza annotazione nei registri d'anagrafe, il notificante, che abbia comunque avuto conoscenza dell'avvenuto trasferimento di residenza, è tenuto in ogni caso a svolgere ulteriori ricerche presso l'ufficio consolare prima di procedere alla notificazione nelle forme dell'art. 143 c.p.c., fermo restando che l'omissione di tali incombenze comporta l'inesistenza della notificazione solo se eseguita in un luogo privo di collegamento con il destinatario, determinando, altrimenti, la mera nullità della stessa. Due pronunce significative sono state adottate sul tema delle notificazioni alle amministrazioni dello Stato. Sez. 2, n. 04977/2015, Giusti, Rv. 634877, ha affermato che, qualora il ricorso per cassazione sia notificato all'Avvocatura distrettuale dello Stato anziché all'Avvocatura generale dello Stato, il vizio della notifica è sanato, con efficacia ex tunc, dalla costituzione 667 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE in giudizio del destinatario del ricorso, da cui si può desumere che l'atto abbia raggiunto il suo scopo. Nella medesima direzione si sono orientate le Sezioni Unite – sez. U, n. 00608/2015, Napoletano, Rv. 633916 – che con ordinanza interlocutoria hanno statuito, in materia di ricorso per cassazione proposto nei confronti della P.A., che è nulla la notifica effettuata presso l'Avvocatura distrettuale, anziché presso l'Avvocatura generale dello Stato, sicché ne è ammissibile la rinnovazione presso quest'ultima, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo. In proposito, va, peraltro, ricordato che la funzione di rappresentanza e domiciliazione legale delle Amministrazioni dello Stato da parte dell'Avvocatura è circoscritta alla sola attività giudiziaria (Sez. 6-2, n. 04260/2015, Manna, Rv. 634556). Opportunamente, Sez. T, n. 14230/2015, Bielli, Rv. 635876, ha chiarito, in tema di notificazione ad una persona giuridica, eseguita a mezzo posta alla persona fisica che la rappresenta, ai sensi dell'art. 145, comma 1, c.p.c. (sia nell'attuale formulazione, sia nel testo anteriore, applicabile ratione temporis), che non è il plico, ma l'atto da notificare che deve indicare, a pena di nullità, la qualità di rappresentante della persona giuridica e la sua residenza, domicilio e dimora abituale, come si desume sia dal dato letterale sia dalla possibile mancanza del plico. 14.2. Le notificazioni a mezzo del servizio postale. Sez. T, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610, ha ribadito, in tema di ricorso per cassazione, che la prova dell'avvenuto perfezionamento della notifica dell'atto introduttivo, ai fini della sua ammissibilità, deve essere data, tramite la produzione dell'avviso di ricevimento, entro l'udienza di discussione, che non può essere rinviata per consentire all'impugnante di provvedere a tale deposito, salvo che lo stesso ottenga la rimessione in termini, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all'amministrazione postale, a norma dell'art. 6, comma 1, della legge 20 novembre 1982, n. 890, un duplicato dell'avviso stesso. Parimenti, Sez. 6-2, n. 04891/2015, Manna, Rv. 634638, ha confermato che l'avviso di ricevimento della raccomandata rappresenta l'unico documento idoneo ad attestare la consegna del plico e la data di questa, mentre, ove sia il destinatario a dover provare la data della notificazione, è sufficiente la produzione della busta che contiene il plico, in sé idonea ad attestare che prima della 668 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE data risultante dal timbro postale apposto non poteva essere avvenuta la consegna. Per Sez. 6-T, n. 16289/2015, Cosentino, Rv. 636147, in caso di notifica a mezzo del servizio postale, l'avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la consegna al destinatario, a condizione che l'atto sia stato consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o apparentemente apocrifa, nello spazio dell'avviso relativo alla "firma del destinatario o di persona delegata", risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex art. 160 c.p.c., l'omessa indicazione dell'indirizzo del destinatario sulla ricevuta di ritorno. Interessante appare Sez. 3, n. 11140/2015, De Stefano, Rv. 635506, la quale ha avuto modo di precisare che, ai fini della validità della notificazione o comunicazione tramite i servizi postali di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale a persona residente in altro Stato membro dell'Unione Europea, da eseguirsi mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente, ai sensi dell'art. 14 del Regolamento CE n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 novembre 2007, non vanno osservate le formalità diverse e maggiori previste dall'ordinamento italiano per la notificazione a mezzo posta, vanificandosi, altrimenti, la facoltà alternativa concessa da detta norma, ispirata dalla reciproca fiducia nell'efficienza dei servizi postali degli stati membri (cfr., altresì, Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635609, sia pure in materia di circolazione intereuropea di titoli esecutivi). Sebbene concerna maggiormente gli aspetti sostanziali, merita, infine, di essere segnalata Sez. 6-3, n. 03261/2015, Vivaldi, Rv. 634394, a tenore della quale il servizio di notificazioni a mezzo posta si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l'ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell'agente postale, nell'ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue che, in caso di ritardo nella spedizione o nel recapito dell'atto notificato, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell'art. 1228 c.c., esclusivamente l'ufficiale giudiziario, non anche l'agente postale del quale costui si avvalga. Di forte impatto è una recente pronuncia (Sez. L, n. 20072/2015, Ghinoy, in corso di massimazione) la quale, in un caso di notifica a mezzo Pec del ricorso per Cassazione, ha statuito che la stessa si perfeziona per il notificante nel momento in cui viene 669 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE generata la ricevuta di accettazione e per il destinatario con la ricevuta di consegna. La mancata produzione di quest'ultima determina l'inesistenza della notifica, con conseguente impossibilità per il giudice di disporne il rinnovo ex art. 291 c.p.c. 15. I termini processuali. Sez. T, n. 12544/2015, Ferro, Rv. 636356, nell'estendere al contenzioso tributario l'istituto della rimessione in termini ora previsto dalla norma generale di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c., ha confermato che lo stesso opera sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali "interni" al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali. Sez. 6-2, n. 12405/2015, Petitti, Rv. 635569, ha avuto il pregio di chiarire che l'istanza di rimessione in termini può essere contestuale all'atto scaduto, nessuna disposizione imponendo alla parte di avanzare la richiesta separatamente ed anteriormente. Ovviamente, come ha ribadito Sez. L, n. 20992/2015, Maisano, in corso di massimazione, la relativa richiesta richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fatto estraneo alla sua volontà. Da ciò consegue che l'istituto non può essere invocato quando la parte stessa, dovendo integrare una delibera di ammissione al gratuito patrocinio erroneamente emessa da un consiglio dell'ordine degli avvocati incompetente, non abbia per tale ragione provveduto alla iscrizione a ruolo di una causa di appello nel termine di legge (Sez. 3, n. 21794/2015, D'Amico, Rv. 637539), trattandosi in tal caso di una scelta della parte medesima (la quale avrebbe potuto pagare il contributo unificato e ricorrere solo successivamente all'assistenza tramite il patrocinio a spese dello Stato). Pur essendo emanata in ambito fallimentare, applica il principio di economia processuale Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, che, in tema di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, ha disatteso l'istanza con cui l'appellante, che non aveva notificato il ricorso ed il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza nel termine ordinatorio ex art. 18, comma 4, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), ne aveva chiesto, successivamente al suo decorso e senza allegare alcuna causa di giustificazione, uno nuovo per provvedervi. Secondo la Corte ostava a tale concessione l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c. che, in ipotesi di impugnazione e sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost., deve tenere conto della legittima aspettativa 670 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente definito e ragionevolmente breve, del provvedimento giudiziario già emesso. In tema di impugnazioni, Sez. 3, n. 17313/2015, De Stefano, Rv. 636514, ha statuito che il computo del termine di decadenza dall'impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. è operato, ai sensi degli artt. 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 4, c.c., non ex numero bensì ex nominatione dierum, sicché, indipendentemente dall'effettivo numero dei giorni compresi nel periodo, il termine scade allo spirare della mezzanotte del giorno del mese corrispondente a quello in cui il termine ha cominciato a decorrere. Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346, ha sostenuto che la disciplina del computo dei termini di cui all'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto, al primo giorno seguente non festivo, il termine che scade in un giorno festivo, si applica, per il suo carattere generale, a tutti i termini, anche perentori, contemplati dal codice di rito. Interessante, per la peculiari età della vicenda, è Sez. 2, n. 05895/2015, Proto, Rv. 634944, a mente della quale, qualora il termine per la proposizione del ricorso per cassazione scada il 29 giugno, giorno di festività dei Santi apostoli Pietro e Paolo, patroni di Roma, la scadenza deve intendersi prorogata di diritto al giorno seguente non festivo, ai sensi dell'art. 155, comma 4, c.p.c., determinandosi il carattere di "festività" in base alla legge 27 maggio 1949, n. 260, e successive modificazioni, le quali, pur ignorando le festività dei santi patroni delle città, includono espressamente il giorno dei Santi Pietro e Paolo nell'elenco di quelli festivi agli effetti civili. 16. La nullità degli atti. Sez. 3, n. 07086/2015, Cirillo, Rv. 635103, ha chiarito che la sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. (nella specie quelli per il deposito delle memorie di replica) non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive - contenute nello scritto non esaminato dal giudice - la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta. Sulla specifica questione, sembra, peraltro, che si sia in presenza di un contrasto tra sezioni, se si considera che per Sez. 6, n. 20180/2015, Vivaldi, 637461, una sentenza di tal fatta è nulla, 671 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE risultando per ciò solo impedito ai difensori l'esercizio, nella sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte. L'approccio è stato differente per quanto concerne la sentenza resa ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c. pronunciata all'esito di udienza all'uopo appositamente fissata, ma non preceduta dalla discussione orale delle parti, bensì dallo scambio di comparse conclusionali, avendo Sez. 3, n. 07104/2015, Frasca, Rv. 635107, sostenuto che la stessa è affetta da nullità, destinata tuttavia a sanarsi se non tempestivamente eccepita nel corso dell'udienza in cui la sentenza sia stata pronunciata. Si rinvia al par. 4.2., per quanto concerne l'ipotesi di sentenza pronunciata a norma dell'art. 281 sexies c.p.c. con la lettura del dispositivo in udienza, ma senza il contestuale deposito della motivazione, ed al par. 4., per quanto riguarda il caso dell'omessa indicazione, nell'intestazione della sentenza, del nome di una delle parti. Con riferimento alla nota d'iscrizione a ruolo, la stessa, per Sez. 2, n. 04163/2015, Abete, Rv. 634529, è, ai sensi dell'art. 156 c.p.c. ed in mancanza di un'espressa sanzione di nullità, nulla per irregolarità formali, con conseguente mancata costituzione della parte, solo quando difettino i requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, che è quello di portare la causa a conoscenza del giudice perché possa trattare e decidere la lite instauratasi fra le parti con l'atto di citazione. Ne consegue che non ne ricorrono i presupposti quando la nota, ancorché incompleta o erronea in qualcuno dei suoi elementi, sia comunque tale da consentire d'individuare con sicurezza il rapporto processuale su cui è invocata la pronuncia del giudice adito. Sebbene concerni il rito del lavoro, di interesse appare Sez. L, n. 01906/2015, Patti, Rv. 634195, secondo cui il dispositivo letto in udienza non è più modificabile da parte del giudice che ha emesso la decisione, sicché è radicalmente nulla la sentenza con la quale sia stato adottato un nuovo dispositivo, di contenuto diverso dal precedente. Avuto riguardo alle vicende anomale del processo, Sez. 2, n. 01676/2015, Scalisi, Rv. 633984, ha avuto l'occasione per chiarire che la notificazione dell'atto di riassunzione del giudizio alla parte personalmente, anziché al suo difensore costituito (come prescritto dall'art. 170, comma 1, c.p.c. e dall'art. 125, comma 3, disp. att. c.p.c.), impedisce la valida instaurazione del rapporto processuale, 672 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE salvo che il destinatario della notifica si costituisca, verificandosi in tale ultima ipotesi la sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo cui l'atto era diretto, ai sensi dell'art. 156, comma 3, c.p.c., anche quando la costituzione avvenga al solo scopo di far valere tale vizio. 16.1. I vizi di costituzione del giudice. Di particolare spessore è Sez. U, n. 09099/2015, Spirito, Rv. 635182, alla stregua della quale la carenza di giurisdizione per illegittima composizione del giudice speciale (nella specie, Sezione del Consiglio di Stato) è ravvisabile solo in caso di alterazione strutturale dell'organo giudicante, per vizio di numero o qualità dei suoi membri, che ne precluda l'identificazione con l'organo delineato dalla legge, mentre la semplice violazione di norme processuali (nella specie, per dedotta incompatibilità dei magistrati) esorbita dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite. Pur concernendo una fattispecie soggetta ratione temporis alla disciplina antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 15 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, merita menzione Sez. 2, n. 04362/2015, Mazzacane, Rv. 634778, secondo cui la pronuncia sull'opposizione al decreto di liquidazione dei compensi agli ausiliari, ai sensi dell'art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, spetta (recte, spettava) alla competenza funzionale del presidente dell'ufficio giudiziario in composizione monocratica, con riferimento non solo all'ufficio, ma anche alla persona del titolare di questo. Pertanto, la decisione assunta dal tribunale in composizione collegiale è (recte, era) nulla per vizio di costituzione del giudice ai sensi dell'art. 158 c.p.c., in quanto esplicazione di funzioni decisorie da parte di magistrati ai quali le stesse non sono attribuite dalla legge. 17. La nullità della sentenza. Nel rinviare per l'esame di alcuni profili patologici, al par. 4.1., qui merita di essere segnalata, anche per la particolarità della fattispecie, Sez. T, n. 15002/2015, Ferro, Rv. 636162, a tenore della quale la sentenza emessa nei confronti delle parti del giudizio, ma con motivazione e dispositivo relativi a causa diversa, concernente altri soggetti, è priva degli elementi necessari per la formazione del giudicato sul rapporto controverso ed è, quindi, affetta da nullità insanabile, che, nel corso del processo, è rilevabile d'ufficio dal giudice dell'impugnazione. Sez. 3, n. 01448/2015, Stalla, Rv. 633965, ribadisce l'importante principio per cui l'omesso mutamento del rito (da quello speciale del lavoro a quello ordinario e viceversa) non 673 CAP. XXXIV - IL PROCESSO IN GENERALE determina ipso iure l'inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte. 674 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO CAPITOLO XXXV IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO (di Eduardo Campese) SOMMARIO: 1. L'introduzione della causa in generale. – 1.1. Le domande originarie. – 1.2. I vizi degli atti introduttivi e della costituzione delle parti. – 1.3. Chiamata in causa ed intervento del terzo. – 2. La fase di trattazione in generale. – 2.1. La precisazione o modificazione delle domande – 3. Le vicende anormali del processo – 3.1. Riunione, separazione e trasferimento dei procedimenti. – 3.2. Sospensione del processo. – 3.3. Interruzione del processo. – 4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento. 1. L'introduzione della causa in generale. È noto che il procedimento di cognizione di primo grado si articola, convenzionalmente, in tre fasi, – introduzione, istruzione in senso ampio (a sua volta suddivisa in fase di trattazione, di eventuale istruzione in senso stretto e di rimessione in decisione) e decisione – prive di una vera e propria autonomia l'una rispetto alle altre, mirando, invero, tale ripartizione, più semplicemente, a consentire di ricomprendere all'interno di ciascuna di esse una serie di atti con riguardo alla loro particolare funzione, alla quale corrisponde la prevalenza di certe caratteristiche strutturali. In particolare, la fase di introduzione consiste in una serie di atti qualificati, nel loro complesso, dallo scopo di instaurare il processo, così realizzando il primo contatto giuridico tra i suoi soggetti (o, se si preferisce, dando vita al cosiddetto rapporto giuridico processuale) attraverso la proposizione della domanda: ed è proprio su quest'ultima, tipico atto nel quale si concreta l'iniziativa del soggetto che chiede la tutela giurisdizionale, che si impernia tale fase. 1.1. Le domande originariamente proposte. Nel corso del 2015, la Suprema Corte ha reso alcune interessanti pronunce riguardanti la formulazione della domanda dell'attore e di quella eventualmente proposta dal convenuto in via riconvenzionale. In particolare, ad avviso di Sez. 3, n. 03366/2015, Rossetti, Rv. 634518, in caso di azione per il risarcimento dei danni, l'attore, ove abbia chiesto, alternativamente, la condanna generica o quella integrale, può limitare la propria pretesa alla sola pronuncia sull'an debeatur, senza necessità del consenso del convenuto, il quale, peraltro, può chiedere, in via riconvenzionale, che l'accertamento 675 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO della responsabilità si estenda al quantum debeatur, onde verificare l'insussistenza del danno. Sez. 2, n. 10206/2015, Matera, Rv. 635409, resa in tema di usucapione, ha, invece, sancito che la decadenza dalla proposizione di una tale domanda in via riconvenzionale, per inosservanza del termine stabilito dall'art. 166 c.p.c., non impedisce alla stessa di produrre gli effetti di una semplice eccezione di usucapione, mirante al rigetto della pretesa attrice, sempre che la costituzione sia comunque avvenuta nel termine utile per proporre le eccezioni. Meritevole di segnalazione, appare, altresì, Sez. 2, n. 08814/2015, Manna, Rv. 635183, la quale ha chiarito che l'inammissibilità della domanda riconvenzionale che non comporti spostamento di competenza non è rilevabile d'ufficio, ma solo su tempestiva eccezione della parte riconvenuta. 1.2. I vizi degli atti introduttivi e della costituzione delle parti. Tra le decisioni, depositate nel 2015, riguardanti i vizi degli atti introduttivi del giudizio e della costituzioni delle parti, merita di essere immediatamente segnalata Sez. 2, n. 01681/2015, Abete, Rv. 634607, che ha opportunamente specificato che la nullità dell'atto di citazione per petitum omesso od assolutamente incerto, ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c., postula una valutazione caso per caso, dovendosi tener conto, a tal fine, del contenuto complessivo dell'atto di citazione, dei documenti ad esso allegati, nonché, in relazione allo scopo del requisito di consentire alla controparte di apprestare adeguate e puntuali difese, della natura dell'oggetto e delle relazioni in cui, con esso, questa si trovi. Va, poi, ricordata Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636016, secondo la quale, nei giudizi risarcitori, la domanda deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si invoca il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei "danni subiti e subendi", perché tali istanze, quando non nulle ex art. 164 c.p.c., non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa. Sez. 1, n. 12059/2015, Genovese, Rv. 635620, inoltre, occupandosi della contestuale proposizione giudiziale di più domande (nella specie, alcune alternative tra loro ed altre subordinate al mancato accoglimento delle prime), ha statuito che l'omessa indicazione della causa petendi per ciascuna di esse, anche in relazione alla pluralità di negozi ed atti che le riguardano, ne rende assolutamente incerto l'oggetto, attesa la molteplicità delle possibili 676 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO combinatorie e la postulazione di un inammissibile ruolo attivo e selettore da parte del giudice, determinandone, pertanto, la corrispondente nullità, ex artt. 164, comma 4, e 163, comma 3, nn. 3 e 4, c.p.c. Con specifico riferimento, invece, ai vizi della costituzione delle parti, deve subito rimarcarsi Sez. 2, n. 04163/2015, Abete, Rv. 634529, da cui emerge che, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., in mancanza di un'espressa sanzione di nullità, la nota d'iscrizione a ruolo è nulla per irregolarità formali, con conseguente mancata costituzione della parte, solo quando difettino i requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo, che è quello di portare la causa a conoscenza del giudice perché possa trattare e decidere la lite instauratasi fra le parti con l'atto di citazione, sicché non ne ricorrono i presupposti quando la nota, ancorché incompleta o erronea in qualcuno dei suoi elementi, sia comunque tale da consentire d'individuare con sicurezza il rapporto processuale su cui è invocata la pronuncia del giudice adito. Ispirata alle medesime finalità è, poi, Sez. 1, n. 15130/2015, Campanile, Rv. 636049, che, benché resa nell'ambito di un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, ha ribadito, con affermazione di evidente valenza generale, che la costituzione in giudizio avvenuta mediante deposito in cancelleria, oltre che della nota di iscrizione a ruolo, del fascicolo contenente, tuttavia, copia dell'atto di citazione (cosiddetta velina) anziché, come previsto dall'art. 165 c.p.c., l'originale di essa, non arreca alcuna lesione sostanziale ai diritti della controparte, costituendo, pertanto, una mera irregolarità, che resta sanata dal successivo deposito dell'originale medesimo. Sembra opportuno, altresì, menzionare Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, che ha ritenuto che laddove sia convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo di capacità processuale (nella specie si trattava di una persona interdetta legalmente ex art. 32 c.p.), il riacquisto della capacità in fase di gravame determina la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, con efficacia ex tunc – ai sensi dell'art. 182 c.p.c. – idonea ad escludere l'invalidità della domanda proposta nei suoi confronti, ma non anche del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, sicché il giudice d'appello è tenuto a pronunciarsi su di essa, previa declaratoria della nullità della sentenza di primo grado, senza rimettere la causa al primo giudice. Da ultimo, perché pur sempre collegata alla costituzione delle parti, sebbene non inerente specificamente alla sua patologia, non 677 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO appare irragionevole evidenziare che Sez. 1, n. 10741/2015, Genovese, Rv. 635578, ha avuto cura di ribadire che il giudice che accerti che una parte ha ritualmente ritirato, ex art. 169 c.p.c., il proprio fascicolo, senza che poi risulti, al momento della decisione, nuovamente depositato o reperibile, non è tenuto, in difetto di annotazioni della cancelleria e di ulteriori allegazioni indiziarie attinenti a fatti che impongano accertamenti presso quest'ultima, a rimettere la causa sul ruolo per consentire alla medesima parte di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti. 1.3. Chiamata in causa ed intervento del terzo. In tema di chiamata in causa del terzo su istanza di parte, giova segnalare che, in quest'anno, i giudici di legittimità hanno dato ulteriore seguito all'orientamento inaugurato da Sez. U, n. 04309/2010, Forte, Rv. 611567. Infatti, Sez. 3, n. 09570/2015, Scrima, Rv. 635286, e Sez. 6-T, n. 01112/2015, Perrino, Rv. 634031, hanno ribadito che, nel processo civile, come in quello tributario, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo: conseguentemente, sebbene sia stata tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo ex art. 269 c.p.c., in manleva o in regresso, il giudice può, per esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo. Va pure rimarcata, in tema di intervento del terzo, Sez. 2, n. 17328/2015, Bursese, Rv. 636226, la quale, dopo aver premesso che la comparsa di intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso deve essere notificata al convenuto contumace anche se l'interventore si associ alle domande degli altri soggetti, già partecipi del giudizio, poiché il contumace, oltre a poter contestare la legittimità dell'intervento o opporre eccezioni personali, ha comunque diritto ad essere informato della presenza in causa di una nuova parte, salvo il caso in cui la comparsa d'intervento non contenga domande nei suoi confronti, ha precisato che l'omessa notifica dell'atto d'intervento comporta la nullità della sentenza ma non la sua inesistenza, sicché nel giudizio d'appello, non essendo applicabili gli artt. 353 e 354 c.p.c., la causa deve essere decisa nel merito, secondo le regole generali. 678 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO È utile, poi, ricordare anche in questa sede, benché resa in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, Rv. 637283, che ha riaffermato che l'opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo deve necessariamente chiederne l'autorizzazione al giudice, a pena di decadenza, nell'atto di opposizione, non potendo provvedere a citarlo direttamente alla prima udienza, sicché, ove invece proceda in tal modo, il verificarsi della corrispondente decadenza, rilevabile di ufficio, è insuscettibile di sanatoria per effetto della costituzione del terzo chiamato che non abbia, sul punto, sollevato eccezioni, atteso che il principio della non rilevabilità di ufficio della nullità di un atto per avvenuto raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all'inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, stabiliti a pena di decadenza, per i quali vigono apposite e separate norme. Si segnala, da ultimo, che sono tuttora pendenti, innanzi alle Sezioni Unite, le questioni relative: a) al se la nullità dell'atto di chiamata in garanzia di un terzo, determinata dal mancato espresso conferimento al difensore della relativa facoltà nella procura ad litem o nel contesto dell'atto cui essa accede, sia rilevabile d'ufficio o solo su eccezione di parte e, in quest'ultima evenienza, se possa considerarsi sanata qualora il chiamato si costituisca in giudizio senza dedurre preliminarmente il vizio in questione; b) al se la contestazione della titolarità, attiva o passiva, del rapporto dedotto in giudizio costituisca una mera difesa oppure un'eccezione in senso tecnico. 2. La fase di trattazione in generale. Avvenuta la costituzione delle parti (o di almeno una di esse), ha inizio la fase di istruzione, ma va subito precisato che, in tal caso, la parola istruzione assume un significato molto ampio, vale a dire quello che si ricava, per esclusione, dal rilievo che la fase in discorso abbraccia tutte le attività processuali che si svolgono dopo l'introduzione della causa fino al momento in cui iniziano gli atti in funzione diretta della decisione, e che sono raggruppati nella corrispondente terza fase. Dal che si desume che istruire la causa – nel senso ampio che viene ora in rilievo – significa svolgere tutte le attività che sono necessarie perché la stessa possa essere decisa, cioè, in altri termini, renderla matura per la decisione. Occorrerà, insomma, una sorta di impostazione o di programmazione del giudizio in tutti i suoi aspetti di diritto, sia processuale che sostanziale, e di fatto, con la conseguente 679 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO determinazione di un iter logico nel quale si inserirà, poi, – se ed in quanto verrà ritenuta necessaria – l'eventuale attività di acquisizione delle prove (istruzione in senso stretto). Questa fase, come si è già anticipato, si ripartisce, a sua volta, convenzionalmente, in tre sottofasi: quella di trattazione, che ha la particolare funzione della prima presa di conoscenza delle domande con l'impostazione dei relativi problemi, ivi compresi quelli concernenti l'eventuale necessità di precisazioni o ampliamento, nonché di ulteriori atti per acquisire prove o altri elementi di giudizio; quella di istruzione probatoria (altrimenti detta istruttoria in senso stretto), soltanto eventuale, consistente nell'acquisizione dei mezzi di prova che il giudice abbia ritenuto ammissibili e rilevanti ai fini della decisione; quella della rimessione (o riserva) totale della causa in decisione, che funge da ponte per il passaggio alla terza fase del processo, ossia a quella di decisione. Rinviandosi, per quanto riguarda la fase istruttoria in senso stretto, al capitolo XXVII di questa rassegna, si esamineranno, nei paragrafi successivi, le principali pronunce rese, nel corso di quest'anno, dalla Suprema Corte con riguardo alle tematiche delle altre due fasi prima descritte. 2.1. La precisazione o modificazione delle domande. Va immediatamente segnalata Sez. U, n. 12310/2015, Di Iasi, Rv. 635536, che ha composto il contrasto nuovamente manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione concernente il se – ove l'attore abbia chiesto con l'atto di citazione una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. sulla base di una scrittura privata da lui qualificata come preliminare di vendita immobiliare – costituisce domanda nuova o mera emendatio libelli la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita. La suddetta pronuncia ha ritenuto che «la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo». 680 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO In particolare, le Sezioni Unite, al fine di spiegare il perché hanno deciso di mutare orientamento rispetto al proprio precedente costituito da Sez. U, n. 01731/1996, Carbone, Rv. 496140, hanno effettuato – e qui va rimarcata l'importanza della pronuncia – una ricognizione più generale sul rapporto tra mutatio ed emendatio libelli. Si è rilevato, invero, che, sul punto, vige, in linea generale, il principio, più che consolidato, secondo il quale è ammissibile solo la modificazione della domanda introduttiva che costituisce semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi (ma solo sull'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto), né sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere). Al contrario, è assolutamente inammissibile quella modificazione della domanda che si risolve in una mutatio libelli, ricorrente quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d'indagine e spostando i termini della controversia. La situazione, apparentemente univoca, ha generato nella realtà un fenomeno ben più complesso, atteso che finora, in molti singoli casi, pur non contravvenendo espressamente al descritto principio, si è giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano, invece, mutamenti in ordine ai suddetti elementi modificativi. C'è stato, in altre parole, un contrasto in tale crocevia processuale più consistente di quanto non apparisse ad un primo esame della giurisprudenza. Le Sezioni Unite hanno, pertanto, voluto operare, in primo luogo, una ricognizione della struttura dell'udienza di comparizione, disciplinata dall'art. 183 c.p.c.: secondo la pronuncia in esame, la non ammissibilità della proposizione di domande nuove nel corso dell'udienza di cui alla citata norma, considerando come "nuove" le domande che differiscono da quella iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo, è solo una consolidata ma immotivata convinzione. Nell'art. 183 c.p.c. non si rinviene, infatti, alcun esplicito divieto di domande nuove (come, invece, ad esempio, nell'art. 345 c.p.c.). Non solo: l'art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio – laddove afferma che il giudice istruttore invita le parti a 681 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO precisare davanti a lui le conclusioni «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183 c.p.c.» – lascia intendere che, in realtà, le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell'atto introduttivo, anche in modo apprezzabile. Effettuata tale precisazione, si è pertanto proceduto a definire i tre tipi di domande previste dall'art. 183 c.p.c.: le domande "nuove", le "precisate" ed, infine, le "modificate". Con riguardo alle domande "nuove", pur non riscontrandosi un espresso divieto, le Sezioni Unite le hanno ritenute implicitamente vietate ad eccezione di quelle che per l'attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto. Le domande "precisate" sono invece le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni ma semplici precisazioni, finalizzate a definirle, puntualizzarle, circostanziarle meglio. Quanto alle domande "modificate", è stato giustamente rilevato che la norma non prevede alcun limite, né quantitativo né qualitativo, alla modificazione ammessa. Ne consegue che, per la pronuncia in esame, la modificazione delle domande ex art. 183 c.p.c. è ammissibile senza limiti, anche con riferimento al petitum ed alla causa petendi. E tale circostanza si evincerebbe non solo dalla previsione di ben tre termini, per formularle, replicare ad esse e provarle, ma anche perché, trattandosi di udienza di prima comparizione, la trattazione della causa non è ancora sostanzialmente iniziata e, conseguentemente, una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe alcun pregiudizio all'ordinato svolgimento del processo. Peraltro, da tale interpretazione non deriverebbe una degenerazione del processo, giacché la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata o posta in alternativa. E nemmeno si rischierebbe un allungamento dei tempi processuali, atteso che la domanda modificata sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa, interviene nella fase iniziale del giudizio e non comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c. Neppure, infine, può ritenersi che una simile interpretazione possa "sorprendere" la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perché «l'eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire, sicché non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla 682 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO domanda iniziale» e, infine, «alla suddetta parte è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio». Da ultimo, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i risultati ermeneutici così raggiunti appaiono in completa consonanza sia con l'esigenza – ripetutamente perseguita nel codice di rito, talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione e riunione dei procedimenti), sia, più in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati, nel corso degli ultimi anni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità. Sez. 2, n. 01585/2015, Abete, Rv. 633977, dal canto suo, ha sottolineato che si ha mutatio libelli quando la parte immuti l'oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell'azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell'atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio. Sempre con riguardo al tema della precisazione/modifica- zione della domanda originaria, vanno infine segnalate, in ragione della peculiarità delle singole fattispecie affrontate: a) Sez. 3, n. 16801/2015, Stalla, Rv. 636353, secondo cui la domanda di rilascio dell'immobile locato include anche quella diretta al rilascio delle pertinenze, sicché quest'ultima non costituisce domanda nuova e può essere proposta, per la prima volta, anche in appello; b) Sez. 1, n. 13767/2015, Di Virgilio, Rv. 635851, a tenore della quale nell'azione revocatoria fallimentare, avente ad oggetto la dichiarazione di inefficacia di più rimesse bancarie solutorie, non viene proposta una sola domanda, ma tante domande quante sono le rimesse ritenute revocabili, trattandosi di domande fondate su fatti costitutivi diversi, sicché, ove in sede di precisazione delle conclusioni sia richiesta la revoca di un maggior numero di rimesse, rispetto a quelle indicate nell'atto di citazione, deve ritenersi che sia stata proposta una inammissibile domanda nuova, poiché l'estensione della revoca comporta il riferimento a fatti costitutivi nuovi e non allegati con l'originario atto di citazione; c) Sez. 1, n. 01589/2015, Mazzacane, Rv. 633841, che ha nuovamente precisato 683 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO che non costituisce estensione del petitum o domanda nuova, né modifica la materia del contendere, la richiesta di liquidazione del danno in via equitativa, quando la domanda formulata nell'atto introduttivo abbia avuto ad oggetto il risarcimento del danno da determinarsi in corso di giudizio. 3. Le vicende anormali del processo. Per evidenti ragioni di sistematicità, si ritiene opportuno raggruppare nel presente paragrafo, suddividendolo in corrispondenti sottoparagrafi, le più interessanti pronunce rese dalla Suprema Corte, nell'anno in rassegna, con riguardo alle vicende comunemente definite come "anormali" del processo, vale a dire la riunione, separazione e trasformazione dei procedimenti, nonché la sospensione e l'interruzione del processo. 3.1. Riunione, separazione e trasferimento di procedimenti. Con riguardo alle vicende processuali in questione, va immediatamente rimarcata Sez. U, n. 02245/2015, Spirito, Rv. 634424, la quale ha ribadito che, in tema di connessione di cause, il provvedimento di riunione, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituisce esercizio del potere discrezionale del giudice, e ha natura ordinatoria, essendo pertanto insuscettibile di impugnazione ed insindacabile in sede di legittimità. Meritevole di interesse, soprattutto per la ricorrenza, nella pratica, del fenomeno da essa affrontato, è Sez. 1, n. 00567/2015, Cristiano, Rv. 633952, che ha avuto cura di precisare che le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l'introduzione di un secondo giudizio identico al primo ed a questo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinarne il concorso nella definizione dell'effettivo thema decidendum et probandum, restando anzi intatta l'autonomia di ciascuna causa. Ne consegue che, in tale evenienza, il giudice – in osservanza del principio del ne bis in idem ed allo scopo di non favorire l'abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni – deve trattare soltanto la causa iniziata per prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati ed al materiale istruttorio in essa raccolto, salva l'eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l'impedimento alla trattazione della causa successivamente instaurata. 684 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO Sicuramente di rilievo, è, infine, Sez. T, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, che ha ritenuto il principio della translatio iudicii estensibile anche alle pronunce declinatorie della giurisdizione emesse dai giudici di merito (nella specie, dal giudice tributario), nonostante queste ultime, a differenza di quella delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, non impongano, al giudice del quale è stata affermata la giurisdizione, di conformarvisi, atteso che, comunque, le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c., che consente di pervenire alla decisione della questione di giurisdizione con effetti vincolanti nei confronti del giudice ad quem e rende, pertanto, praticabile la translatio iudicii dinanzi a lui. 3.2. Sospensione del processo. Molteplici sono state le decisioni in tema di sospensione necessaria del processo, ex art. 295 c.p.c., che, come è ormai pacifico, può essere disposta quando la decisione del medesimo dipenda dall'esito di altra causa, nel senso che questo abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè vincolante, con effetto di giudicato, all'interno della causa pregiudicata, ovvero che una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo, o comunque elemento fondante della fattispecie di altra situazione sostanziale, sicché occorra garantire uniformità di giudicati, essendo la decisione del processo principale idonea a definire, in tutto o in parte, il thema decidendum del processo pregiudicato. Tanto premesso, Sez. 6-2, n. 17129/2015, Giusti, Rv. 636136, ha chiarito che il provvedimento di sospensione del processo, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., pur avendo la forma dell'ordinanza, non è revocabile dal giudice che lo ha pronunciato, poiché tale revocabilità confliggerebbe con la previsione della sua impugnabilità mediante regolamento necessario di competenza. Da ciò ha tratto la conseguenza che, ove la parte, anziché proporre il regolamento nel termine previsto dall'art. 47, comma 2, c.p.c., abbia presentato istanza di revoca dell'ordinanza di sospensione al giudice che l'aveva emanata e questi abbia emesso un provvedimento meramente confermativo di quello precedente, la mancata impugnazione della prima ordinanza determina l'inammissibilità del regolamento proposto avverso il secondo provvedimento, risultando altrimenti eluso – mediante l'inammissibile proposizione di un'istanza di revoca – il termine perentorio previsto dalla norma. 685 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO Sez. 6-1, n. 15797/2015, Ragonesi, Rv. 636203, ha, invece, escluso la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da imporre la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., tra il giudizio di responsabilità dell'amministratore di una società ex art. 2393 c.c., di natura contrattuale, e quello di accertamento della nullità di alcuni contratti stipulati dalla stessa società e della responsabilità extracontrattuale di terzi soggetti, attesa l'ontologica differenza sia delle parti sia delle causae petendi, idonea ad escludere ogni potenziale situazione di contrasto tra giudicati. Interessanti, soprattutto per la frequenza della tipologia di controversie in cui esse sono state rese, sono, poi, Sez. 6-3, n. 15094/2015, Cirillo, Rv. 636184, che ha negato la configurabilità di un rapporto di pregiudizialità, tale da giustificare la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. tra la controversia, pendente tra locatore e locatario, per intervenuta scadenza del contratto di locazione ed il giudizio di sfratto per morosità, instaurato dal locatario nei confronti del subconduttore, attesa la parziale diversità soggettiva delle parti dei rispettivi giudizi e tenuto conto che l'obbligo del subconduttore al pagamento dei canoni a favore del sublocatore persiste fino a che perduri l'occupazione dell'immobile, senza che assuma rilievo l'intervenuta soluzione del contratto di locazione principale; e Sez. 6-3, n. 13423/2015, Cirillo, Rv. 635782, secondo cui, qualora pendano, contemporaneamente, un procedimento di convalida di licenza ed un altro giudizio, tra soggetti parzialmente differenti, in cui si controverta della validità della scheda testamentaria che il locatore abbia utilizzato come titolo per pretendere il rilascio del bene, non ricorrono i presupposti per la sospensione necessaria del procedimento ex art. 657 c.p.c., sia per la diversità esistente tra le parti dei menzionati giudizi, sia perché l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare. Ha, invece, affrontato i rapporti tra gli artt. 279, comma 4, 295 e 337 c.p.c., Sez. 6-2, n. 05894/2015, Giusti, Rv. 635070, chiarendo che nel rapporto fra il giudizio di impugnazione di una sentenza parziale e quello che sia proseguito davanti al giudice che ha pronunciato detta sentenza o al giudice dichiarato competente, l'unica possibilità di sospensione di quest'ultimo giudizio è quella su richiesta concorde delle parti, ai sensi dell'art. 279, comma 4, c.p.c., che trova applicazione anche nel caso di sentenza parziale sul solo an debeatur, restando esclusa sia la sospensione ai sensi dell'art. 295 c.p.c., sia la sospensione ai sensi del secondo comma dell'art. 337 c.p.c., per l'assorbente ragione che il giudizio è unico e che, 686 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO pertanto, la sentenza resa in via definitiva è sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale. Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancino, Rv. 634272, ha, dal canto suo, ritenuto che quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposto soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., sicché ove il giudice abbia provveduto ai sensi dell'art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento, a prescindere da ogni accertamento circa la sussistenza del rapporto di pregiudizialità, è illegittimo e va annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c. Sez. 6-3, n. 21914/2015, Frasca, in corso di massimazione, ha, tra l'altro, ricordato che, nell'ambito del rito sommario, è illegittima l'adozione di un provvedimento di sospensione ai sensi degli artt. 295 c.p.c. o 337, comma 2, c.p.c. (dovendosi, quando ricorrano i presupposti delle menzionate norme, procedere a disporre il passaggio dal rito sommario a quello di cognizione piena). Da ultimo, vanno segnalate, perché inerenti la tematica della pregiudizialità penale, Sez. 6-2, n. 19383/2015, D'Ascola, Rv. 636533, secondo cui la pendenza del giudizio penale sull'imputazione di usura non impone la sospensione del giudizio civile sulla nullità del patto commissorio, atteso che quest'ultimo può configurarsi anche in assenza di convenzione usuraria, sicché tra i due giudizi, pur concernenti i medesimi fatti, non ricorre il nesso di pregiudizialità-dipendenza ex art. 295 c.p.c., e Sez. 6-2, n. 00313/2015, Giusti, Rv. 633943, la quale ha precisato che la sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità penale, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., nell'ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell'imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile, è subordinata alla condizione della contemporanea pendenza dei due processi, civile e penale, e, quindi, dell'avvenuto esercizio dell'azione penale da parte del P.M. nei modi previsti dall'art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell'imputazione o la richiesta di rinvio a giudizio, sicché tale sospensione non può essere disposta sul presupposto della mera presentazione di una denuncia e della conseguente apertura di indagini preliminari. 687 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO 3.3. Interruzione del processo. Tra le numerose statuizioni di legittimità che, nel corso del 2015, hanno riguardato le vicende interruttive del giudizio, meritano di essere immediatamente ricordate due decisioni, il cui denominatore comune va individuato nel fatto che entrambe precisano le precipue finalità di cui deve essere munita la dichiarazione del procuratore per provocare l'effetto interruttivo. Il riferimento è a: i) Sez. 2, n. 19139/2015, Mazzacane, Rv. 636472, secondo cui la dichiarazione, da parte del procuratore, di uno degli eventi che, a norma dell'art. 300 c.p.c., comportano l'interruzione del processo, deve essere finalizzata al conseguimento di tale effetto o corredata dei necessari requisiti formali (quali la formulazione in udienza o in atto notificato alle altre parti), sicché non determina interruzione del processo la dichiarazione contenuta nella comparsa conclusionale, nella quale il difensore si sia limitato a chiedere la fissazione di apposita udienza istruttoria, riservandosi in tale sede di dichiarare l'evento; ii) Sez. 2, n. 10210/2015, Migliucci, Rv. 635413, a tenore della quale la dichiarazione resa dal procuratore della parte costituita, ai sensi dell'art. 300 c.p.c., pur avendo la struttura di una dichiarazione di scienza, ha carattere negoziale e suppone la volontà del dichiarante di provocare l'interruzione stessa, con la conseguenza che quest'ultima non si realizza allorché la causa interruttiva (nella specie, l'intervenuto fallimento della parte, anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 43, comma 3, l.fall., introdotto dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) risulti esposta soltanto per fini diversi, quale quello di ottenere il rinvio della trattazione della causa per esigenze di difesa. Con specifico riguardo alla riassunzione del processo, dopo il verificarsi della sua interruzione, si ricordano, invece, Sez. 3, n. 18318/2015, Rubino, Rv. 637071, in cui si è spiegato che, nel caso di cumulo di cause scindibili, laddove il giudice – a fronte di un evento che concerna uno solo dei soggetti coinvolti nelle diverse vertenze – non separi le cause ed interrompa, piuttosto, l'intero processo, la riassunzione effettuata mediante deposito del relativo ricorso in cancelleria, nel termine semestrale previsto dall'art. 305 c.p.c., deve ritenersi tempestiva rispetto a tutte le parti, sicché, ove ricorso e decreto di fissazione dell'udienza di riassunzione non siano state notificate ad alcune di esse, non può essere dichiarata, rispetto a costoro, l'estinzione parziale del processo, dovendosi, invece, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c., ordinare la rinnovazione della notifica entro un termine perentorio; Sez. 3, n. 09000/2015, Scrima, Rv. 635210, che ha opportunamente precisato che, per la 688 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO valida riassunzione del processo sospeso o interrotto, l'istante può utilizzare, anziché la comparsa o il ricorso al giudice per la fissazione dell'udienza di prosecuzione, la citazione della parte ad udienza fissa, la cui idoneità al raggiungimento dello scopo previsto nell'art. 297 c.p.c. resta condizionata all'avvenuta notifica dell'atto alla controparte prima della scadenza del termine perentorio entro il quale va promossa la prosecuzione del giudizio; Sez. 2, n. 07465/2015, Scalisi, Rv. 635177, secondo la quale la nullità dell'atto di riassunzione conseguente alla violazione dell'art. 125 disp. att. c.p.c., per l'omessa indicazione dell'oggetto della domanda e delle ragioni della stessa, nonché del richiamo all'atto introduttivo del giudizio, può essere sanata mediante la costituzione in giudizio di tutti – e non solo di alcuni – dei coeredi del defunto; e Sez. 6-3, n. 14518/2015, Carluccio, Rv. 636002, per la quale, nel giudizio introdotto dai genitori di un minorenne, quando si verifichi una causa interruttiva riguardante la controparte, è nullo l'atto di riassunzione fatto dal difensore degli attori originari in nome esclusivamente del figlio divenuto, medio tempore, maggiorenne, ma non conferente la procura, giacché il raggiungimento della maggiore età e la contestuale perdita da parte dei genitori della rappresentanza legale del minorenne, determina esso stesso una causa interruttiva del giudizio, che, solo quando non sia dichiarata, consente all'originario mandato – per il principio della ultrattività – di continuare a spiegare i suoi effetti nella fase processuale in cui l'evento si verifica. Meritevole di menzione appare, poi, Sez. 6-3, n. 19267/2015, Barreca, in corso di massimazione, secondo cui, nell'ipotesi di morte della parte verificatasi nel corso del giudizio di primo grado, gli atti successivamente compiuti senza che sia stata dichiarata l'interruzione del processo, compresa la sentenza, sono nulli ed il vizio è soggetto al principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, sicché la suddetta nullità deve essere dedotta dalla parte colpita dall'evento interruttivo con il mezzo di impugnazione previsto per la sentenza. Da ultimo, vanno evidenziate, riguardando il verificarsi di un evento interruttivo in danno del difensore costituito, Sez. 6-3, n. 03782/2015, Amendola, Rv. 634500, la quale ha chiarito che a seguito delle sentenze della Corte cost. 15 dicembre 1967, n. 139, 2 dicembre 1970, n. 178, 6 luglio 1971, n. 159, e 19 febbraio 1976, n. 36, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento 689 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO interruttivo, bensì da quello in cui la parte interessata alla riassunzione abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, ovvero a seguito di lettura in udienza dell'ordinanza di interruzione; e Sez. 6-3, n. 14520/2015, Carluccio, Rv. 635984, da cui si desume che il principio secondo cui la sospensione dall'esercizio della professione dell'unico difensore, a mezzo del quale la parte è costituita in giudizio, determina l'automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, con conseguente nullità degli atti successivi, presuppone il concreto pregiudizio arrecato al diritto di difesa. 4. La decisione della causa ed i vizi del relativo provvedimento. Giova premettere che la fase di decisione è tuttora oggetto di autonoma disciplina esclusivamente nelle cause riservate al collegio e contempla l'udienza di discussione soltanto nelle ipotesi in cui questa sia stata richiesta; mentre, nelle cause attribuite al giudice unico, la suddetta fase rimane, in pratica, assorbita nella rimessione (o riserva) in decisione, riemergendo in un'apposita udienza (davanti al giudice unico) nelle sole ipotesi di richiesta di discussione, salva la diversa eventualità della discussione prevista dall'art. 281-sexies c.p.c. ove il giudice monocratico scelga la trattazione orale. Fermo quanto precede, e ricordato, altresì, che, come affermato da Sez. 3, n. 19895/2015, Rossetti, Rv. 637313, è ammissibile la pronuncia di sentenze di condanna condizionali, a patto che l'elemento condizionante sia certo ed inequivoco, dovendosi ciò escludere quando l'efficacia di una sentenza sia subordinata ad un ulteriore accertamento di merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione, appaiono meritevoli di menzione alcune decisioni, intervenute nel corso di quest'anno, che hanno contribuito a meglio delimitare i contorni e l'efficacia della pronuncia di cessazione della materia del contendere. Invero, Sez. 3, n. 17312/2015, De Stefano, Rv. 636482, ha chiarito che una siffatta declaratoria, o la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, né possono precluderne la riproposizione in diverso giudizio. Sez. 6-T, n. 05188/2015, Conti, Rv. 634695, invece, muovendo dal presupposto che nel processo tributario, come in quello civile, la cessazione della materia del contendere presuppone, 690 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO da un lato, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l'interesse alla richiesta pronuncia di merito e, dall'altro, che le parti formulino conclusioni conformi, ne ha tratto la conseguenza che l'allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, a cui spetterà l'eventuale dichiarazione dell'avvenuto soddisfacimento del diritto azionato ovvero la pronuncia sul merito dell'azione. Sez. 3, n. 03598/2015, Scrima, Rv. 634471, infine, ha ritenuto che, in caso di intervenuta transazione extraprocessuale, ove le parti non concordino sulla rilevanza giuridica dell'atto o sul suo contenuto, occorre accertare se la transazione investa o meno l'oggetto della domanda contenziosa, sicché non può esservi declaratoria di cessazione della materia del contendere, che costituisce pronuncia processuale per sopravvenuta carenza di interesse, idonea a formare giudicato solo processuale, ma va esaminato il merito della domanda, la quale va rigettata qualora si accerti che la transazione ha regolamentato tutti i rapporti contenziosi tra le parti. In tema di vizi della decisione, poi, merita, senza dubbio, primaria attenzione Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, intervenuta sul tema della validità della sentenza civile che sia costituita dalla mera riproduzione di un atto di parte, dettando le condizioni per escluderne la nullità. In particolare, muovendo dall'assunto che la sentenza civile non è un'opera dell'ingegno tutelabile a norma dell'art. 2575 c.c., ed all'esito di un'accurata analisi dell'evoluzione della disciplina della sentenza – di cui ne è prospettato un iter storico e sociologico, da testo solenne, paludato, compiaciuto e barocco a decisione funzionale rispetto alle richieste delle parti – si è osservato che il lavoro del giudice non è "creativo": egli deve rispettare gli artt. 99 e 112 c.p.c., deve decidere iuxta alligata et probata (art. 115 c.p.c.), gli è inibito l'utilizzo della scienza privata come di private informazioni (art. 97 disp. att. c.p.c.), deve rispettare i canoni del giudizio di diritto (art. 113 c.p.c.) quando non gli sia consentito il ricorso all'equità (art. 144 c.p.c.), deve evitare decisioni "della terza via" (artt. 183, comma 4 e 384, comma 3, c.p.c., cui deve aggiungersi l'art. 101, comma 2, c.p.c.), deve tener conto dell'interpretazione della legge fornita dal giudice di legittimità (più un'aspirazione a cui tende il sistema che una regola positiva effettivamente vigente). 691 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO Non essendo il lavoro del giudice né "letterario", né "creativo", né "originale" («una "originalità" della decisione e delle ragioni che la sostengono, come valore in sé, non è neanche concepibile o auspicabile»), «la sentenza è l'atto conclusivo di un processo nel quale hanno agito più soggetti, ciascuno in certa misura contribuendo alla decisione finale, la quale, sotto questo profilo, può essere considerata un risultato "corale"». Di qui la possibilità che la decisione venga resa «sia richiamando gli atti [del processo], sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza (...) trattandosi di atti anch'essi non costituenti opere letterarie e non protetti dalla disciplina del diritto d'autore (...) per la sentenza, che non è opera letteraria, non conta la paternità del testo nelle sue modalità espressive ma l'attribuibilità al giudice dei suoi contenuti, derivante dal fatto che quei contenuti sono stati "fatti propri" dal giudice nel momento in cui ha ritenuto di riportarli in sentenza per rendere ragione della decisione assunta, assumendosene la relativa responsabilità (...) l'unico problema reale di una motivazione siffatta sorge infatti solo se il contenuto dell'atto riportato a scopo motivazionale non è idoneo e sufficiente a sostenere la decisione. Esclusivamente in questo caso quindi, e solo per tale motivo, non per altri, la sentenza sarebbe censurabile». Alla stregua di tali argomentazioni, si è, pertanto, statuito che «nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato». Successivamente, peraltro, Sez. 6-T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064, ha ritenuto di dover precisare che, nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di una parte, consistenti nel rinvio a tutte le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, ex artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto non consente di individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione. Parimenti degna di nota appare, poi, Sez. 6-3, Vivaldi, n. 20180/2015, Rv. 637461, secondo la quale è nulla la sentenza emessa dal giudice prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., risultando, per ciò solo, impedito ai difensori l'esercizio, nella 692 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO sua completezza, del diritto di difesa, senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, del pregiudizio che da tale inosservanza deriva alla parte, giacché, trattandosi di termini perentori fissati dalla legge, la loro violazione è già stata valutata dal legislatore, in astratto ed una volta per tutte, come autonomamente lesiva, in sé, del diritto di difesa. Sullo stesso punto, peraltro, va segnalata, in senso contrario, Sez. 3, n. 07086/2015, Cirillo, Rv. 635103, che, invece, ha sancito che la sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c., non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive – contenute nello scritto non esaminato dal giudice – la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta. Sempre in tema di vizi della decisione, possono ricordarsi Sez. 3, n. 19214/2015, Scrima, Rv. 637084, la quale ha precisato che la sentenza che, regolarmente sottoscritta dal Presidente, anche in qualità di estensore, non rechi i nominativi dei giudici costituenti il collegio deliberante, con conseguente impossibilità di desumerne l'identità, è nulla per vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell'art. 158 c.p.c., e non per difetto assoluto di sottoscrizione, ex art. 161 c.p.c., sicché la corte di appello, rilevata, anche di ufficio, tale nullità, è tenuta a trattenere la causa ed a deciderla nel merito, senza rimetterla al primo giudice, non ricorrendo, nella specie, alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c., e Sez. 1, n. 17956/2015, Campanile, Rv. 636771, secondo cui non integra gli estremi del vizio di omessa pronuncia la decisione che, accogliendo la domanda di una parte, comporti la reiezione dell'eccezione inerente alla sua inammissibilità, anche se manchi, in proposito, una specifica argomentazione: deve, infatti, ritenersi la sussistenza di una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa (o l'eccezione, nella specie di inammissibilità della impugnazione del lodo) avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia. Di notevole interesse, perché risulta essere la prima decisione intervenuta sullo punto, è Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, in corso di massimazione, che ha sancito che la sentenza redatta in formato elettronica dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale, ai sensi dell'art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da 693 CAP. XXXV - IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO nullità per difetto di sottoscrizione, attesa l'applicabilità al processo civile del cd. "Codice dell'amministrazione digitale". Da ultimo, considerato il peculiare scopo della presente rassegna, va menzionata anche Sez. 6-3, n. 01207/2015, Carluccio, Rv. 633960, la quale ha opportunamente precisato che il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., è diretto a porre rimedio ad un vizio meramente formale della sentenza, derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, con esclusione di tutto ciò che attiene al processo formativo della volontà. Coerentemente, detto procedimento, ed il provvedimento mediante il quale la sentenza può essere corretta, hanno natura amministrativa, sicché, al riguardo, non opera il principio della immutabilità del giudice, di cui all'art. 276 c.p.c., dovendosi intendere il riferimento di cui all'art. 287 alla correzione effettuata dallo "stesso giudice" nel senso di "stesso ufficio giudiziario", senza che rilevi la persona fisica del magistrato che ha pronunciato il provvedimento. 694 CAP. XXXVI - LE PROVE CAPITOLO XXXVI LE PROVE (di Rosaria Giordano) SOMMARIO: 1. Principio di non contestazione. – 2. Onere della prova. – 2.1. Controversie in materia di obbligazioni. – 2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. – 2.3. Controversie in materia di lavoro. – 2.4. Opposizione a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia. – 2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. - 3. Documenti. – 3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. – 3.2. Querela di falso. – 4. Confessione. – 5. Testimonianza. – 5.1. Limiti oggettivi di ammissibilità della prova per testi – 5.2. Limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testi – 5.3. Deduzione ed ammissione della prova. – 5.4. Confronto. – 6. Presunzioni. - 7. Prove atipiche. – 8. Consulenza tecnica d'ufficio. 1. Principio di non contestazione. La necessità di provare attiene ai soli fatti, tra quelli allegati in giudizio, controversi tra le parti. Alla stregua di quanto ribadito da Sez. 3, n. 21176/2015, Rubino, Rv. 637493, invero, il principio di non contestazione mira proprio a selezionare i fatti pacifici ed a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l'esigenza dell'istruzione probatoria. Come noto, l'art. 115 c.p.c. è stato novellato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nel senso che i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita possono essere posti dal giudice a fondamento della decisione senza che occorra dimostrarli. Ne consegue che una contestazione generica – rispetto a fatti oggetto di specifica e puntuale allegazione ad opera dell'altra parte e rientranti nella sfera di conoscibilità di chi è onerato della contestazione – è priva di qualsivoglia effetto. Sulla questione, Sez. 3, n. 19896/2015, Rossetti, Rv. 637316, ha precisato che, anche nei giudizi promossi prima dell'introduzione formale del principio di non contestazione mediante la predetta modifica dell'art. 115 c.p.c., è imposto al convenuto di prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall'attore a fondamento della propria domanda, in virtù dell'art. 167 c.p.c., sicché quei fatti debbono darsi per ammessi, senza necessità di prova, quando il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta si sia limitato a negare genericamente la "sussistenza dei presupposti di legge" per l'accoglimento della domanda dell'attore, senza alcuna contestazione chiara e specifica della stessa. 695 CAP. XXXVI - LE PROVE 2. Onere della prova. L'art. 2697 c.c., in tema di riparto dell'onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi, nell'ipotesi di mancata prova. Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l'esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio della mancata prova tra le parti, affinché, nell'ipotesi in cui manchi, anche in via presuntiva, la dimostrazione dell'esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l'onere di provare la sussistenza dello stesso. La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima nella giurisprudenza di legittimità in diversi ambiti. 2.1. Controversie in materia di obbligazioni. Si segnala, in primo luogo, Sez. 3, n. 01455/2015, Carluccio, Rv. 634067, la quale ha chiarito che, nelle controversie aventi ad oggetto l'estinzione dell'obbligazione per modi diversi dall'adempimento, la restituzione volontaria al debitore del titolo originale del credito, da parte del creditore, vale come liberazione dall'obbligazione, in conformità alla valutazione legale tipica del suddetto comportamento prevista dall'art. 1237, comma 1, c.c., a condizione che il debitore, secondo il principio generale posto dall'art. 2697 c.c., provi la volontarietà della restituzione da parte del creditore o da persona ad esso riferibile. Inoltre, Sez. 2, n. 07820/2015, Proto, Rv. 635232, ha statuito che, nell'ipotesi di cessione pro solvendo di cambiali in luogo dell'adempimento, l'estinzione dell'obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore ceduto, con conseguente onere di quest'ultimo, in applicazione dell'art. 2697, comma 2, c.c., di provare non solo la cessione, ma anche l'intervenuta estinzione del debito. 2.2. Controversie in tema di responsabilità extracontrattuale. Principi significativi sono stati affermati anche in tema di onere della prova della responsabilità extracontrattuale. Invero, Sez. 3, n. 08989/2015, Scarano, Rv. 635339, ha precisato che nell'attività medico-chirurgica, allorché risulti accertata una condotta negligente che depone per la responsabilità del medico operante e, conseguentemente, della struttura sanitaria, spetta 696 CAP. XXXVI - LE PROVE all'uno ed all'altra, in applicazione del principio della "vicinanza della prova", dimostrare che il risultato anomalo o anormale, rispetto al convenuto esito dell'intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l'adeguata diligenza. Con riferimento alla prova del danno patrimoniale da lucro cessante per riduzione della capacità lavorativa specifica, nell'ipotesi di illecito lesivo dell'integrità psico-fisica della persona, Sez. 3, n. 02758/2015, D'Amico, Rv. 634401, ha statuito che il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere, al momento dell'infortunio, un'attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo di esso, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali. Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 25921/2015, Valitutti, in corso di massimazione, ha ribadito che, sebbene ai sensi dell'art. 2600, comma 3, c.c., a fronte dell'accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale, opera una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto materialmente antigiuridico, tuttavia incombe su colui il quale fa valere la responsabilità la prova della sussistenza del danno, che non può considerarsi derivante in re ipsa dai predetti fatti. 2.3. Controversie in materia di lavoro. Sez. L, n. 01335/2015, Amendola, Rv. 634303, ha precisato che, in tema di collocamento obbligatorio, il lavoratore che impugni la mancata assunzione deve dedurre e provare esclusivamente l'iscrizione nell'albo di cui alla l. 29 marzo 1985, n. 113, e l'esistenza di un atto di avviamento al lavoro, mentre è onere del datore di lavoro provare l'insussistenza nella propria organizzazione del posto corrispondente alla mansione assegnata al lavoratore. Sotto altro profilo, Sez. L, n. 04601/2015, Bronzini, Rv. 634850, ha statuito che l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti integranti un trasferimento di ramo d'azienda incombe sul datore di lavoro cedente che intenda avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c., trattandosi di eccezione al principio generale del necessario consenso del lavoratore ceduto. Con riferimento al giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Sez. L, n. 04460/2015, Roselli, Rv. 634596, ha affermato il rilevante principio per il quale, atteso che la causa petendi è costituita dall'inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, grava su quest'ultimo l'onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all'attività produttiva e l'impossibilità di utilizzare il 697 CAP. XXXVI - LE PROVE lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, senza che l'indicazione, da parte del lavoratore che si sia fatto parte diligente, di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l'allegazione di circostanze idonee a comprovare l'insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l'inversione dell'onere della prova. 2.4. Opposizione a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia. Peculiari e sotto alcuni profili innovativi sono i principi enunciati da Sez. 1, n. 22848/2015, Nazzicone, in corso di massimazione, per la quale, in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d'Italia ai consiglieri non esecutivi delle società bancarie, il soggetto che afferma la responsabilità è tenuto ad allegare e provare l'esistenza di segnali d'allarme che avrebbero dovuti indurli, in ragione del dovere di agire informati posto dall'art. 2381, commi 3 e 6, e dall'art. 2392 c.c., anche in considerazione dei requisiti di professionalità richiesti dall'art. 26 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre, assolto tale onere, spetta agli amministratori dimostrare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno, in quanto in materia di sanzioni amministrative l'art. 3 della l. 24 novembre 1981, n. 689, pone una presunzione di colpa a carico dell'autore del fatto vietato. 2.5. Parità delle armi tra le parti ed attenuazione della regola dell'onere della prova. La Corte non ha trascurato di ribadire che la regola generale posta dall'art. 2697 c.c. in tema di riparto dell'onere della prova può essere attenuata quando una rigida applicazione della stessa potrebbe condurre a risultati sostanzialmente iniqui. Si segnala, in tale prospettiva, Sez. 6-1, n. 04262/2015, Acierno, Rv. 634731, la quale ha espressamente affermato che l'onere della prova gravante sul richiedente lo status di apolide deve ritenersi attenuato, poiché quest'ultimo, oltre a godere della titolarità dei diritti della persona la cui attribuzione è svincolata dal possesso della cittadinanza, beneficia, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente, di un trattamento giuridico analogo a quello riconosciuto ai cittadini stranieri titolari di una misura di protezione internazionale, di talché eventuali lacune o necessità di integrazioni istruttorie per la suddetta 698 CAP. XXXVI - LE PROVE dimostrazione possono essere colmate mediante l'esercizio di poteri-doveri officiosi da parte del giudice, che può richiedere informazioni o documentazione alle autorità pubbliche competenti dello Stato italiano, di quello di origine o di quello verso il quale possa ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente medesimo. 3. Documenti. La Suprema Corte è intervenuta per effettuare rilevanti precisazioni sia sulle complesse questioni afferenti il disconoscimento e la verificazione della scrittura privata, sia in ordine a talune problematiche concernenti il giudizio di falso. 3.1. Disconoscimento e verificazione della scrittura privata. Il tempestivo disconoscimento ex art. 214 c.p.c. della scrittura privata da parte dell'apparente sottoscrittore determina, per la parte la quale abbia prodotto e voglia avvalersi del documento, l'onere di proporre tempestiva istanza di verificazione. Sul tema, Sez. 1, n. 16551/2015, Nazzicone, Rv. 636340, ha evidenziato che, a seguito del disconoscimento della fotocopia della scrittura privata, la parte che intende avvalersene è tenuta a produrre l'originale e, in caso di ulteriore disconoscimento, a chiederne la verificazione, atteso che solo con l'originale si realizzano la diretta correlazione e l'immanenza della personalità dell'autore della sottoscrizione, che giustificano la fede privilegiata che la legge assegna al documento medesimo, così da fondare una presunzione legale superabile dall'apparente sottoscrittore solo con l'esito favorevole della querela di falso. Con riguardo all'istruttoria ed alla decisione del procedimento di verificazione, Sez. 1, n. 15686/2015, Nazzicone, Rv. 636202, ha chiarito che il giudice, ancorché abbia disposto una consulenza grafica, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di ogni elemento istruttorio obiettivamente conferente, comprese le risultanze della prova testimoniale e la valutazione del comportamento complessivo tenuto dalla parte cui la sottoscrizione sia attribuita, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di accertamento della verità. Si è evidenziato, sotto quest'ultimo profilo, che la consulenza tecnica sull'autografia di una scrittura privata disconosciuta, da un lato, non costituisce un mezzo imprescindibile per la verifica dell'autenticità della sottoscrizione, come si desume dalla formulazione dell'art. 217 c.p.c., mentre, dall'altro, non è suscettibile di conclusioni obiettivamente certe, 699 CAP. XXXVI - LE PROVE tenuto conto del carattere irripetibile della forma della scrittura umana. In ordine alla valenza del disconoscimento delle riproduzioni informatiche di cui all'art. 2712 c.c., Sez. L, n. 03122/2015, Buffa, Rv. 634590, ha affermato che detto disconoscimento, che fa perdere alle stesse la qualità di prova, pur non soggetto ai limiti ed alle modalità previste dall'art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta. È stato poi ribadito che tale disconoscimento non ha gli stessi effetti di quello previsto dall'art. 215, comma 2, c.p.c., perché mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di suo esito positivo, preclude l'utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all'originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. Significativa, enunciando un principio difforme da quello reso dalla Suprema Corte in altre occasioni, è la posizione di Sez. 2, n. 05574/2015, Petitti, Rv. 634839, per la quale, nel giudizio di opposizione a decreto irrogativo di sanzione pecuniaria per violazione dell'art. 2 del d.l. 6 giugno 1956, n. 476 (convertito in l. 25 luglio 1956, n. 786), ove la prova dell'illecito valutario sia costituita da un assegno, colui contro il quale tale prova è addotta può disconoscere la propria sottoscrizione e porre in discussione l'autenticità del titolo di credito, ma il conseguente accertamento istruttorio non va compiuto nelle forme del giudizio di verificazione ex art. 216 c.p.c., ben potendo l'amministrazione dimostrare l'elemento materiale dell'illecito con altri mezzi di prova ed eventualmente pure con presunzioni. Sotto altro profilo, con riguardo ai documenti per contrastare i quali è necessario esperire la querela di falso, Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554, rivedendo l'orientamento in precedenza affermato sulla medesima questione, ha statuito che la parte la quale contesta l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e grava su di essa l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo e, pertanto, senza necessità di proporre querela di falso. 3.2. Querela di falso. Ribadito da Sez. 3, n. 13321/2015, Armano, Rv. 635927, il consolidato principio in virtù del quale l'efficacia di prova del documento fino a querela di falso riguarda 700 CAP. XXXVI - LE PROVE soltanto il contenuto cd. estrinseco dell'atto, la Corte è inoltre intervenuta su diverse questioni processuali inerenti il giudizio di querela di falso. In particolare, Sez. 2, n. 16919/2015, Scalisi, Rv. 636466, ha precisato che la procura speciale soddisfa i requisiti di cui all'art. 221, comma 2, c.p.c., qualora dall'atto risulti che il rappresentato abbia consapevolezza della falsità di taluni documenti essenziali prodotti in giudizio e nel mandato siano specificati i documenti da impugnare con la volontà esplicita di proporre querela. Inoltre, Sez. 3, n. 25456/2015, Cirillo, in corso di massimazione, ha chiarito che, in tema di querela di falso incidentale, è superfluo l'interpello della parte che ha prodotto il documento oggetto della stessa in ordine alla volontà di avvalersene, nell'ipotesi in cui il giudice abbia previamente delibato l'irrilevanza di detto documento ai fini della decisione. Per altro verso, Sez. 6-2, n. 19576/2015, Rv. 636744, ha evidenziato che è inammissibile il regolamento di competenza, su istanza del proponente la querela di falso innanzi al giudice di pace, avverso il provvedimento di sospensione del processo reso dal medesimo giudice agli effetti dell'art. 313 c.p.c., diretto a far valere l'inammissibilità della querela, atteso che il controllo di legittimità, in tale ipotesi, è limitato alla verifica dell'avvenuta proposizione di querela di falso e che la disposizione non sia stata abusivamente invocata, spettando al giudice della querela l'esame delle questioni procedurali o sostanziali attinenti alla stessa. Sul novero dei giudizi nei quali può essere proposta querela di falso incidentale, Sez. 6-3, n. 17473/2015, Frasca, Rv. 637466, ha statuito che la querela di falso è proponibile nel corso del regolamento di competenza solo quando riguardi atti del medesimo procedimento (ossia, il ricorso, la memoria ex art. 47, ultimo comma, c.p.c., la decisione impugnata, le memorie del procedimento ai sensi dell'art. 380 ter o dell'art. 380 bis c.p.c.) ovvero documenti di cui è ammesso il deposito ai sensi dell'art. 372 c.p.c., e non invece in riferimento ad atti del procedimento che si è svolto innanzi al giudice del merito. Sez. 6-3, n. 15601/2015, Frasca, Rv. 636721, ha affermato che il giudizio sulla causa di merito, sospeso ex lege ai sensi dell'art. 225, comma 2, c.p.c., una volta intervenuta la decisione del collegio sul falso, prosegue innanzi al giudice istruttore e la successiva decisione deve tenere conto della sentenza di primo grado sulla querela, ancorché appellata, ovvero della sentenza di appello se sopravvenuta nelle more del giudizio, senza che il processo possa 701 CAP. XXXVI - LE PROVE essere sospeso in attesa del passaggio in giudicato della decisione sulla querela, poiché non ricorre una ipotesi di pregiudizialità in senso tecnico ai sensi dell'art. 295 c.p.c., essendo la sospensione (cd. impropria) relativa al solo utilizzo di uno strumento probatorio. 4. Confessione. Di importante valenza, anche pratica, sono le precisazioni rese in tema di confessione, specie in ordine ai soggetti che, avendo la disponibilità del diritto relativo ai fatti oggetto della controversia, sono legittimati a rendere la stessa (art. 2731 c.c.). In particolare, per Sez. 1, n. 15570/2015, Ferro, Rv. 636275, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore fallimentare, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione mediante interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all'obbligazione dedotta in giudizio. È stato chiarito, poi, da Sez. 1, n. 07135/2015, Nappi, Rv. 634912, che le dichiarazioni rese dal sindaco di un comune in relazione ad attribuzioni conferite ad altri organi dell'ente rappresentato dallo stesso non possono avere efficacia di confessione, sia per difetto di legittimazione del presunto confitente, sia per difetto della capacità di disporre del diritto controverso. Inoltre, Sez. L, n. 17702/2015, Doronzo, Rv. 636801, ha evidenziato che la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice, in quanto l'ispettore del lavoro, pur agendo quale organo della Pubblica Amministrazione, non la rappresenta in senso sostanziale, e, pertanto, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed anche perché è assente l'animus confitendi, trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell'inchiesta. 5. Testimonianza. La Corte ha affermato importanti e talvolta inediti principi in tema di prova testimoniale, sia in ordine ai limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità della stessa, sia circa questioni di carattere più squisitamente processuale afferenti le modalità di deduzione di tale mezzo di prova, le valutazioni da compiere ai fini della rilevanza della stessa ed i poteri del giudice. 702 CAP. XXXVI - LE PROVE 5.1. Limiti oggettivi di ammissibilità della prova per testi. La Suprema Corte è più volte intervenuta sulle non trascurabili questioni afferenti i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale. Sotto un primo profilo, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634413, ha ribadito che i limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 c.c. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo. Sulla questione si segnala, Sez. L, n. 11479/2015, Manna, Rv. 635717, secondo cui, atteso che il licenziamento è un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, non è ammissibile la prova per testi, salva la perdita incolpevole del relativo documento, senza che tale divieto possa essere superato con l'esercizio officioso dei poteri istruttori da parte del giudice, che può intervenire solo sui limiti fissati alla prova testimoniale dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. e non sui requisiti di forma richiesti per l'atto. Sempre in tema di limiti oggettivi della prova testimoniale, Sez. 3, n. 07090/2015, Vincenti, Rv. 634833, ha precisato che, poiché l'art. 2726 c.c., nell'estendere al pagamento i limiti stessi, si riferisce al pagamento del debito contrattuale oggetto di giudizio, siffatti limiti non operano per la prova dell'aliunde perceptum, quale fatto storico esterno a quel debito. In ordine al principio di prova per iscritto idoneo, ai sensi dell'art. 2724, n. 1, c.c., a consentire l'ammissione della prova testimoniale anche qualora operino i limiti oggettivi di ammissibilità, Sez. 1, n. 15845/2015, Genovese, Rv. 636446, ha affermato che detto principio può anche essere costituito da una scrittura non firmata, purché le dichiarazioni in essa contenute siano state espressamente o tacitamente accettate dal dichiarante, del quale non è necessaria la sottoscrizione. 5.2. Limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testi. La regola enunciata dall'art. 246 c.p.c. («non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio») è ormai da alcuni anni al centro di un 703 CAP. XXXVI - LE PROVE dibattito, arricchito anche da alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, in ordine alla compatibilità della stessa con i principi del giusto processo, con peculiare riguardo al diritto alla prova, come componente essenziale del diritto di agire in giudizio, laddove l'unica persona informata sui fatti si trovi nella condizione soggettiva descritta dalla predetta norma. Si segnala Sez. 3, n. 17199/2015, De Stefano, Rv. 636475, la quale ha chiarito che i singoli condomini sono privi di capacità a testimoniare nelle cause che coinvolgono il condominio, poiché l'eventuale sentenza di condanna è immediatamente azionabile nei confronti di ciascuno di essi. 5.3. Deduzione ed ammissione della prova. Da un lato, l'art. 244 c.p.c. pone in capo alla parte la quale richieda l'ammissione della prova testimoniale l'onere di deduzione della stessa «mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna deve essere interrogata» e, dall'altro, il giudice, nel decidere sull'istanza istruttoria, deve avere riguardo sia all'ammissibilità del mezzo di prova articolato, sia alla rilevanza dei fatti dedotti ai fini della decisione. Quanto alle modalità di deduzione della prova per testi, per Sez. 3, n. 11114/2015, Rubino, Rv. 635449, non si verifica rinuncia al mezzo istruttorio articolato, né, tanto meno, alla volontà di dimostrare i fatti contestati, qualora la parte, che ne abbia comunque formulato i relativi capitoli, rimetta all'apprezzamento del giudice se assumerla direttamente o avvalersi, per il proprio convincimento, anche in conformità a principi di economia processuale e di celerità procedimentale, dei verbali di un diverso giudizio tra le stesse parti, sempre che ritualmente prodotti ed offerti al contraddittorio, in cui quella medesima prova sullo specifico punto sia stata già raccolta. Sui criteri che il giudice deve utilizzare ai fini dell'ammissione della prova per testi, Sez. L, n. 20693/2015, Bronzini, Rv. 637254, ha precisato che è illegittimo, ponendosi in contrasto con il diritto alla prova, il rigetto, per genericità della stessa, dell'istanza di prova testimoniale volta all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, qualora i capitoli di prova siano specificamente finalizzati a dimostrare la ricorrenza degli indici più significativi della subordinazione. Un importante principio è stato inoltre affermato dalla Corte con riguardo ai limiti entro i quali il giudice può esercitare il proprio potere officioso di disporre l'audizione del teste di riferimento. La 704 CAP. XXXVI - LE PROVE questione, esaminata da Sez. 3, n. 18324/2015, Frasca, Rv. 636798, attiene, in particolare, alla possibilità di assumere tale prova qualora la parte avrebbe potuto, tenendo conto degli atti a disposizione, richiederne tempestivamente l'assunzione. La Suprema Corte ha statuito che il potere officioso del giudice di disporre l'assunzione del teste di riferimento ai sensi dell'art. 257, comma 1, c.p.c., comportando una deroga al potere di deduzione probatoria della parte, può essere esercitato soltanto ove la conoscenza del fatto da parte del terzo si sia palesata nel corso di una testimonianza e non anche quando la stessa emergeva già dalle allegazioni di una delle parti. 5.4. Confronto. Sul tema, Sez. 6-1, n. 01547/2015, Cristiano, Rv. 634239, ha chiarito che, nell'ipotesi di contrasto fra le dichiarazioni rese dai testimoni escussi, il giudice è tenuto a confrontare le deposizioni raccolte ed a valutare la credibilità dei testi in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, come la loro qualità e vicinanza alle parti, l'intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con gli eventuali elementi di prova acquisiti, per poi esporre le ragioni che lo hanno portato a ritenere più attendibile una testimonianza rispetto all'altra o ad escludere la credibilità di entrambe. 6. Presunzioni. L'art. 2727 c.c. descrive le presunzioni come «le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato». La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e soltanto in seguito il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario, rilevante ai fini della decisione. Sulle prove presuntive si segnala, in particolare, Sez. 5, n. 04080/2015, Marulli, Rv. 634980, per la quale, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, la "contabilità in nero", costituita da appunti personali ed informazioni dell'imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall'art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore 705 CAP. XXXVI - LE PROVE ed il risultato economico dell'attività svolta, ed incombendo sul contribuente l'onere di fornire la prova contraria. 7. Prove atipiche. Nel ribadire l'assunto in virtù del quale nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice ed in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi può porre a fondamento della decisione anche prove atipiche (assunto condiviso anche in dottrina, ferma l'impossibilità di porre a fondamento della decisione prove acquisite illecitamente), Sez. 3, n. 13229/2015, De Stefano, Rv. 636013, ha precisato che dell'utlizzazione delle stesse deve essere fornita adeguata motivazione e deve trattarsi di prove idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo. Sul punto, Sez. 1, n. 17392/2015, Di Virgilio, Rv. 636702, ha evidenziato che l'assunzione a fondamento della decisione di prove atipiche costituite da dichiarazioni scritte provenienti da terzi non comporta una violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio. 8. Consulenza tecnica d'ufficio. La consulenza tecnica d'ufficio non è un mezzo di prova, bensì uno strumento istruttorio mediante il quale il giudice acquisisce o integra nella fase istruttoria cognizioni tecniche delle quali non è munito e che sono nondimeno necessarie per la decisione della controversia. Peraltro, anche se la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio si concreta nell'esercizio di un potere discrezionale del giudice, per Sez. 1, n. 17399/2015, Lamorgese, Rv. 636775, lo stesso è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell'istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Invero, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che può tradursi in un vizio della motivazione della sentenza. 706 CAP. XXXVI - LE PROVE Nella medesima prospettiva, Sez. 1, n. 06138/2015, Genovese, Rv. 634880, ha precisato che, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori facciano richiesta di una consulenza tecnica relativa alla valutazione della loro personalità e capacità educativa nei confronti del minore per contestare elementi, dati e valutazioni dei servizi sociali, il giudice che non intenda disporre tale consulenza deve fornire una specifica motivazione che dia conto delle ragioni che la facciano ritenere superflua, in considerazione dei diritti personalissimi coinvolti nei procedimenti in materia di filiazione e della rilevanza accordata in questi giudizi, anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, alle risultanze di perizie e consulenze. 707 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI CAPITOLO XXXVII LE IMPUGNAZIONI (di Salvatore Saija) SOMMARIO: 1. Le impugnazioni in generale – 2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa – 3. (segue) In generale. 4. - Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa – 5. (segue) In generale. – 6. Revocazione. – 7. Le altre impugnazioni. 1. Le impugnazioni in generale. Nel presente paragrafo, verranno riportate le più significative pronunce del 2015 con valenza generale per tutti i mezzi di impugnazione. Così, quanto alla notificazione dell'impugnazione, Sez. L, n. 04247/2015, Amendola, Rv. 634580, ha stabilito che la regola secondo cui tutte le notificazioni vanno eseguite presso la cancelleria del giudice, ove il procuratore esercente fuori dalla circoscrizione del tribunale non abbia eletto domicilio nel luogo in cui ha sede l'autorità procedente, non esclude che l'impugnazione possa essere notificata nel domicilio eletto presso lo studio del difensore esercente fuori dal circondario stesso (ma nel medesimo distretto), non potendo ravvisarsi alcuna nullità. Tuttavia, nel caso in cui la notifica così tentata non abbia esito positivo (per mancato reperimento del difensore, stante l'avvenuto trasferimento del proprio domicilio), per Sez. 2, n. 11666/2015, Matera, Rv. 635596, il relativo rischio resta a carico del notificante, sicchè ai fini dell'osservanza del termine breve per la proposizione dell'appello non ha rilievo la notificazione inutilmente tentata presso il domicilio eletto. Ancora, Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, ha ribadito che la regola di cui all'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione a mani del destinatario ovunque lo trovi, è applicabile anche al difensore costituito di una delle parti in causa, con la conseguenza che, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, è valida la notificazione della sentenza effettuata a mani del predetto difensore, per quanto in luogo diverso rispetto al domicilio eletto. Per Sez. 2, n. 03824/2015, Abete, Rv. 634522, poiché l'impugnazione, nel caso di mancata dichiarazione di residenza o elezione di domicilio, dev'essere notificata alla parte personalmente ex art. 330, ult. comma, c.p.c., in caso di decesso della stessa la notificazione agli eredi deve effettuarsi collettivamente e 708 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI impersonalmente, ma va esiguita nominatim ex artt. 137 e ss. c.p.c., a prescindere dall'avvenuta notifica della sentenza e dalla circostanza che il decesso si sia verificato prima o dopo di essa. Sempre sul tema, Sez. 6-L, n. 06389/2015, Fernandes, Rv. 635138, ha ribadito che affinchè la notificazione dell'impugnazione nei confronti del procuratore costituito di controparte, che abbia eletto domicilio nel luogo del procedimento e che abbia successivamente mutato domicilio, debba essere effettuata presso quest'ultimo, occorre la duplice condizione che il procuratore stesso assuma una iniziativa atta a portare a conoscenza di controparte detto mutamento, e che l'iniziativa si esteriorizzi formalmente, o con dichiarazione resa a verbale d'udienza, ovvero con la notificazione di apposito atto. Tuttavia, per Sez. 1, n. 16040/2015, Campanile, Rv. 636507, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso il precedente domicilio del difensore di controparte, nonostante la conoscenza o la conoscibilità del mutamento di domicilio (evincibile dagli atti difensivi e dalla pregressa corrispondenza), comporta l'inammissibilità del ricorso, non potendo autorizzarsi il ricorrente a rinotificare il ricorso, ciò presupponendo che l'esito negativo della notifica non sia a lui imputabile. Per concludere sul tema specifico, la recentissima Sez. 3, n. 25339/2015, Scrima, in corso di massimazione, ha ribadito che ove la notifica dell'impugnazione presso il procuratore costituito (pressso il domicilio eletto o effettivo) abbia avuto esito negativo per caso fortuito o forza maggiore (come nel caso di trasferimento del domicilio non comunicato), il procedimento notificatorio ben può riattivarsi e perfezionarsi anche dopo lo spirare del termine, mediante istanza al giudice ad quem corredata dall'attestazione dell'omessa notifica, tesa ad ottenere la fissazione di un termine perentorio per il completamento della notificazione, ovvero mediante tempestiva richiesta (ossia, entro un tempo ragionevolmente contenuto) rivolta all'Ufficiale giudiziario per la ripresa del procedimento notificatorio, con effetti dalla data iniziale di attivazione del procedimento. Sez. L, n. 00857/2015, Bandini, Rv. 634296, ha affermato che la rinnovazione della notifica dell'impugnazione che avvenga presso il difensore costituito nel precedente grado, ma dopo che sia decorso un anno dalla pubblicazione della sentenza, è nulla per violazione dell'art. 330, ult. comma, c.p.c., con conseguente inammissibilità dell'impugnazione, a meno che la parte, prima che questa sia dichiarata, non provveda a notificare alla parte personalmente, entro il termine perentorio già concesso. 709 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI In relazione al caso di cancellazione della società, parte del giudizio, dal registro delle imprese, Sez. 3, n. 15724/2015, Scarano, Rv. 636189, ha affermato che ove questa sia avvenuta dopo l'emissione della sentenza d'appello e in pendenza del termine per proporre il ricorso per cassazione, sicchè non ne sia stata possibile la dichiarazione, né il procuratore della società estinta abbia notificato l'evento alla controparte, legittimamente questa può notificare l'impugnazione alla società, sebbene cancellata ed estinta, presso il domicilio del suddetto difensore, per il principio di ultrattività del mandato alla lite. Poiché detto principio, per definizione, non può operare ove l'evento interruttivo colpisca la parte contumace, Sez. 2, n. 16555/2015, Manna, Rv. 636166, ha affermato che, ancorchè l'evento non sia stato notificato o certificato ai sensi dell'art. 300, comma quarto, c.p.c., l'atto di impugnazione dev'essere notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso sia avvenuto e a prescindere dall'eventuale sua ignoranza, quand'anche incolpevole, da parte del soccombente. Per il caso in cui l'impugnazione sia stata notificata al legale rappresentante di soggetto divenuto maggiorenne in corso di giudizio, senza che l'evento sia stato dichiarato o notificato, Sez. 3, n. 23213/2015, Cirillo, in corso massimazione, ha ribadito che la spontanea costituzione del soggetto – quand'anche al solo scopo di eccepire la nullità dell'impugnazione – esplica efficacia sanante, non venendo in rilievo alcuna menomazione delle proprie facoltà difensive. In tema di acquiescenza, Sez. 2, n. 17267/2015, D'Ascola, Rv. 636138, dopo aver ribadito che essa può dirsi sussistente solo ove l'interessato ponga in essere comportamenti dai quali si desuma, in modo univoco, la volontà di non contrastare gli effetti giuridici della sentenza, ovvero compia atti incompatibili con la volontà di impugnare, ha precisato come non costituisca acquiescenza la proposizione, con finalità di cautela, di un giudizio ex art. 2932 c.c. per l'esecuzione di un contratto preliminare, con riguardo all'impugnazione di sentenza resa sulla domanda di annullamento del contratto di compravendita ex art. 428 c.c.. Relativamente al termine per impugnare, Sez. 6-2, n. 04260/2015, Manna, Rv. 634556, ha ribadito che la notificazione della sentenza alla parte presso il procuratore costituito, anziché al procuratore stesso, è comunque idonea a far decorrere il termine breve per impugnare sia per il destinatario che per il notificante, 710 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI irrilevante essendo che la notifica sia indirizzata ad una P.A. presso l'Avvocatura dello Stato. Non è invece idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, per Sez. 6-1, n. 18278/2015, Scaldaferri, Rv. 636577, la comunicazione del testo integrale della sentenza effettuata dalla cancelleria a mezzo PEC (anteriormente alla novella dell'art. 133, comma 2, c.p.c., apportata dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modifiche dalla legge 11 agosto 2014, n. 114). Nello stesso senso, Sez. 3, n. 16804/2015, Sestini, Rv. 636386, ha ribadito che la notifica della sentenza (unitamente al precetto) alla controparte personalmente, anziché al procuratore costituito a norma degli artt. 170, comma 1, e 285, c.p.c., è inidonea a far decorrere il termine breve d'impugnazione, sia per il notificante che per il destinatario. Sullo stesso tema, Sez. 2, n. 15326/2015, Nuzzo, Rv. 636026, ha affermato che la regola di cui all'art. 138, comma 1, c.p.c., secondo cui l'ufficiale giudiziario può sempre eseguire la notificazione a mani del destinatario ovunque lo trovi, è applicabile anche al difensore costituito di una delle parti in causa, con la conseguenza che, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, è valida la notificazione della sentenza effettuata a mani del predetto difensore, per quanto in luogo diverso rispetto al domicilio eletto. Ancora, Sez. 6-3, n. 11333/2015, Frasca, Rv. 635600, ha stabilito che ove il procuratore costituito di una delle parti abbia eletto il proprio domicilio in comune diverso da quello sede dell'ufficio giudiziario adito, la notificazione della sentenza che sia stata effettuata sia presso il domicilio irritualmente eletto (per quanto successivamente essa sia stata effettuata anche presso la cancelleria del giudice) è valida e idonea a far decorrere il termine breve per impugnare. Sullo stesso tema, ove la notificazione dell'impugnazione sia invalida, Sez. L, n. 08299/2015, Roselli, Rv. 635122, nel solco di consolidata giuriprudenza, ha affermato che detta notifica equivale comunque alla conoscenza legale della sentenza impugnata, con la conseguenza che, essendosi consumato il potere di impugnare, decorre da essa il termine breve ex art. 325 c.p.c.. Tuttavia, per Sez. 6-3, n. 09258/2015, Frasca, Rv. 635337, in fattispecie assai peculiare (la parte aveva proceduto alla notifica di una prima impugnazione, non seguita da iscrizione a ruolo, e aveva quindi notificato una nuova impugnazione), la notifica così effettuata comunque denota, per il notificante, la legale conoscenza della sentenza, ma determina 711 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI la decorrenza del termine breve ex art. 325 c.p.c. solo dal momento del perfezionamento del procedimento di notificazione nei confronti del destinatario, in quanto esso deve realizzarsi per entrambe le parti nello stesso momento. Ancora, Sez. 3, n. 02848/2015, Scarano, Rv. 634601, ha affermato che il principio di consumazione del potere di impugnazione non esclude che propòstane una prima, viziata, se ne proponga una ulteriore, immune dai vizi che inficiavano la prima, purchè ciò avvenga prima che ne sia dichiarata l'inammissibilità e comunque entro il termine "breve" di decadenza (ut supra), decorrente dalla data di notifica della prima impugnazione. Sempre sul potere d'impugnazione, Sez. L, n. 18162/2015, Blasutto, Rv. 636575, ha ribadito che riguardo alle sentenze del giudice del lavoro, salva l'ipotesi eccezionale di cui all'art. 433, comma 2, c.p.c., esso non sorge per effetto della sola lettura del dispositivo in udienza, postulando che la sentenza sia completa nei suoi elementi strutturali, motivazione compresa. Pertanto, la declaratoria d'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso il solo dispositivo della sentenza d'appello letto in udienza non comporta la consumazione del detto potere, sicchè la sentenza stessa può essere impugnata, dopo il suo deposito, nel rispetto dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c. Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 17003/2015, Sestini, Rv. 636325, ha ribadito che la previsione dell'art. 328, ult. comma, c.p.c., che prevede la proroga del termine annuale di impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c. nel caso in cui, dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, intervengano la morte o perdita della capacità della parte o del suo legale rappresentante, si riferisce solo alla parte, e non al suo procuratore, la cui disciplina è dettata dall'art. 301 c.p.c., insuscettibile essendo la prima previsione di estensione in via interpretativa. Sullo stesso tema, Sez. L, n. 10226/2015, Blasutto, Rv. 635397, ha precisato che l'interruzione del termine per l'impugnazione prevista dall'art. 328 c.p.c. concerne non soltanto l'ipotesi della morte della parte destinataria della notifica, ma anche quella della parte notificante. Sempre riguardo al termine lungo ex art. 327 c.p.c., Sez. 6-3, n. 14267/2015, Carluccio, Rv. 635879, ha ribadito che, ai sensi dell'art. 58 della legge 18 giugno 2009, n. 69, la riduzione del detto termine da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, disposto dall'art. 58 l. cit., si applica ai giudizi instaurati in primo grado a decorrere dal 4 luglio 2009, e non anche alle impugnazioni 712 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI proposte da tale data, che restano quindi soggette al termine annuale. Quanto alla decadenza, nel solco di consolidato indirizzo, Sez. 2, n. 11666/2015, Matera, Rv. 635597, ha ribadito che poiché l'inammissibilità dell'impugnazione per inosservanza dei termini stabiliti a pena di decadenza è correlata alla tutela di interessi indisponibili ed è, quindi, rilevabile d'ufficio, essa non può essere sanata dalla spontanea costituzione dell'appellato. Relativamente alle impugnazioni incidentali, Sez. 1, n. 16171/2015, Nappi, Rv. 636344, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che la parte vittoriosa non può proporre impugnazione incidentale, che presuppone la soccombenza, ma può chiedere al giudice dell'impugnazione di fornire una motivazione più corretta, fermo restando il dispositivo, riproponendo, in appello, le medesime questioni ex art. 346 c.p.c., ovvero sollecitando il potere di correzione della motivazione nel giudizio di cassazione, ex art. 384 c.p.c. 2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa. Nel corso del 2015, la giurisprudenza della Corte ha ulteriormente messo a fuoco le novità introdotte all'istituto dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134. Com'è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in grado d'appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il profilo in esame, un passo indietro rispetto all'impostazione codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l'appello quale novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione dell'appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che, al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell'arretrato che affligge le corti d'appello, ha riformulato gli artt. 342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012. Va segnalata innanzitutto la rimessione alle Sezioni Unite della questione in punto di ricorribilità per cassazione avverso l'ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., stante il contrasto tra Sez. 6-2, n. 07273/2014, Giusti, Rv. 630754, secondo cui tale ordinanza è ricorribile per cassazione ove l'appello sia stato dichiarato inammissibile per ragioni processuali, e Sez. 6-3, n. 08940/2014, Frasca, Rv. 630776, che propende, invece, per la non esperibilità in 713 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI assoluto del ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario (ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 00223/2015, Giusti). Una diversa angolazione prospettica distingue invece Sez. 6- 3, n. 13923/2015, Cirillo, Rv. 636019, secondo cui, ove il giudice d'appello, provvedendo a norma dell'art. 348 bis, c.p.c., non si limiti a dichiarare l'inammissibilità per probabile esito infausto, ma compia anche uno scrutinio sul merito del gravame, si è al cospetto di un provvedimento che, sebbene rivesta la forma di ordinanza, ha in realtà natura di sentenza, ed è quindi ricorribile per cassazione. In relazione al termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-3, n. 15239/2015, Frasca, Rv. 636287, con specifico riferimento alle controversie in materia di opposizione esecutiva, ha stabilito che qualora venga pronunciata l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348 bis, c.p.c., il ricorso dev'essere proposto entro sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della relativa ordinanza, non applicandosi la sospensione feriale dei termini ai sensi dell'art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742. La data della comunicazione di cancelleria dell'ordinanza che abbia pronunciato l'inammissibilità dell'appello per probabile esito infausto, secondo Sez. 6-3, n. 13622/2015, De Stefano, Rv. 635912, costituisce il dies a quo per la proposizione del ricorso per cassazione entro i successivi sessanta giorni, quand'anche essa sia stata effettuata a mezzo posta elettronica certificata. Nello stesso senso, si pone Sez. U, n. 25208/2015, Ambrosio, in corso di massimazione, che ha anche affermato che la Corte, nell'esercizio del suo dovere d'ufficio di verificare la tempestività dell'impugnazione, ha il potere di accedere direttamente agli atti e di accertare la data di comunicazione dell'ordinanza (ove il ricorrente, come nella specie, assuma non aver ricevuto alcuna notifica della stessa), in ciò non potendo ravvisarsi alcuna violazione dell'art. 101, comma 2, in relazione al disposto dell'art. 384, comma 3, c.p.c., trattandosi di questione di diritto, per di più di natura processuale. Ancora più in dettaglio, la recente Sez. 6-3, n. 20236/2015, De Stefano, Rv. 637570, ha precisato che, poichè il termine breve di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in discorso decorre prioritariamente dalla data della sua comunicazione, detta data costituisce requisito essenziale (di contenuto-forma) del ricorso, sicchè il ricorrente è onerato di allegare gli elementi necessari per poterne configurare la tempestività. 714 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Tuttavia, Sez. L, n. 18024/2015, Curzio, Rv. 636571, ha precisato che la suindicata regola che individua il dies a quo vale soltanto quando la comunicazione permetta al destinatario di conoscere la natura del provvedimento adottato, implicante lo speciale regime d'impugnazione previsto. Nella specie, ai fini del decorso del termine in questione, si è quindi ritenuta inidonea la comunicazione tramite posta elettronica certificata di un biglietto di cancelleria che recava l'indicazione, relativa all'appello "dichiarato inammissibile". Sempre riguardo agli effetti della comunicazione di detta ordinanza, Sez. 6-3, n. 15235/2015, Frasca, Rv. 636288, (ribadita ìdalla successiva Sez. 6-3, n. 25115/2015, Frasca, in corso di massimazione) ha affermato che ai fini del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado non è applicabile il termine "lungo" previsto dall'art. 327 c.p.c., sicchè esso dev'essere proposto entro i successivi sessanta giorni (ovvero, entro i sessanta giorni dalla sua notificazione, se anteriore). Il termine "breve", peraltro, inizia a decorrere immediatamente, per le parti presenti e per quelle che avrebbero dovuto esserlo (secondo la regola generale di cui all'art. 176 c.p.c.) ove l'ordinanza di cui all'art. 384, comma 1, c.p.c., sia pronunciata in udienza (Sez. 6-3, n. 25119/2015, Frasca, in corso di massimazione). Sez. 6-3, n. 02784/2015, Frasca, Rv. 634388, ha ancora affermato che, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., costituisce onere del ricorrente, a pena d'inammissibilità, indicare che la questione sollevata in sede di legittimità aveva già trovato ingresso nel giudizio d'appello per essere stata oggetto del relativo motivo di gravame, essendo pur sempre applicabili gli artt. 329 e 346 del codice di rito. 3. (segue) In generale. Sul piano generale, vanno in primo luogo segnalate le numerose pronunce che hanno affrontato la questione dell'appellabilità di provvedimenti resi in primo grado. Anzitutto, Sez. 6-L, n. 02815/2015, Marotta, Rv. 634595, ha confermato l'orientamento per cui, in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione, a seguito dell'abrogazione dell'ultimo comma dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, operata dall'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la sentenza di primo grado è soggetta ad appello secondo la regola generale ex art. 339 c.p.c., e non più a ricorso diretto per cassazione. 715 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Del tutto peculiare è il regime impugnatorio concernente l'ordinanza emessa dal giudice dell'esecuzione per obblighi di fare o di non fare. Al riguardo, Sez. 3, n. 17314/2015, De Stefano, Rv. 636480, ha affermato che ove con questa il giudice abbia risolto una controversia insorta tra le parti, essa assume la natura di sentenza resa in un giudizio di opposizione all'esecuzione, sicchè è soggetta al regime di impugnazione proprio di tale tipo di provvedimento. Ne consegue che, ove l'ordinanza sia stata resa nel periodo compreso tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009, essa non è appellabile, ma solo ricorribile per cassazione (in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c. applicabile ratione temporis, che ne escludeva l'appellabilità). Allo stesso modo, per Sez. 6-3, n. 13628/2015, Barreca, Rv. 635914, le sentenze emesse nello stesso periodo nei giudizi di opposizione all'esecuzione, ex art. 615 c.p.c., sono soggette a ricorso per cassazione e non sono appellabili, a prescindere dal contenuto della statuizione impugnata, compresa la regolamentazione delle spese di lite. Sempre in tema di esecuzione forzata, Sez. 3, n. 06410/2015, De Stefano, Rv. 634941, nonché Sez. 3, n. 10250/2015, Frasca, Rv. 635498, hanno affernato che la sentenza emessa nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., non essendo assimilabile a quella resa in giudizio di opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c., ut supra), è impugnabile con l'appello e non con il ricorso straordinario per cassazione. Con riguardo al procedimento di sfratto per morosità, Sez. 6- 3, n. 17582/2015, Lanzillo, Rv. 636469, ha statuito che poiché la dichiarazione del locatore circa la persistenza della morosità del conduttore costituisce il presupposto del provvedimento di convalida, questo è appellabile solo se col gravame si tenda a contestarne la sussistenza, e non già per dedurne la non veridicità. Ancora, in tema di opposizione a cartella esattoriale per omissioni contributive, Sez. L, n. 15392/2015, Patti, Rv. 636411, ha affermato che qualora l'iscrizione ipotecaria sia stata impugnata solo come atto conseguente, per non aver potuto previamente impugnare la cartella in quanto non notificata, la domanda ha natura ordinaria, investendo il rapporto previdenziale obbligatorio, e non già di opposizione all'esecuzione, con la conseguenza che la relativa decisione è soggetta, ai sensi dell'art. 24, comma 6, d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, all'appello e non al ricorso per cassazione (come propugnato dal ricorrente, avuto riguardo al testo dell'art. 616 c.p.c. 716 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI applicabile ratione temporis), che se proposto va dichiarato inammissibile. Sez. 6-3, n. 11739/2015, Armano, Rv. 635479, ha ribadito che al fine di stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all'art. 339, comma 3, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i princìpi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall'attore ai fini del pagamento del contributo unificato. Pertanto, ove l'attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità cd. "necessaria", ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che "sarà ritenuta di giustizia", la causa deve ritenersi – in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell'art. 14 c.p.c. – di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall'art. 339 c.p.c. Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 09292/2015, Scarano, Rv. 635284, ha ribadito che, nel caso in cui siano proposte dinanzi al giudice di pace due domande connesse, di cui la principale da decidersi secondo equità e la riconvenzionale secondo diritto, la sentenza con cui il giudice affermi la propria competenza sulla prima e la declini sulla seconda, negando l'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p.c., deve considerarsi resa in causa soggetta a regola decisoria secondo diritto, sicchè, nel regime anteriore alla modifica dell'art. 339 c.p.c., disposta dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essa dev'essere impugnata con l'appello. Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 03715/2015, Amendola, Rv. 634462, ha affermato che, qualora il tribunale, adito quale giudice d'appello avverso sentenza del giudice di pace emessa secondo equità, abbia omesso di rilevare l'inammissibilità dell'appello, il ricorrente per cassazione deve comunque dedurre l'inosservanza delle norme sul procedimento, ovvero delle norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia, pena l'inammissibilità ex artt. 339, comma 3, e 360, comma 1, c.p.c.. Sez. 3, n. 05598/2015, Lanzillo, Rv. 634772, ha poi statuito che nel caso di estinzione per incorporazione della società appellata in altra società nel corso del giudizio di primo grado, non dichiarata, la notifica dell'impugnazione effettuata nei confronti del procuratore domiciliatario non è inesistente, bensì nulla, e può 717 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI essere sanata tramite rinnovazione dell'atto o spontanea costituzione della società incorporante. Per il caso di inesistenza della notifica dell'atto d'appello, Sez. 5, n. 20672/2015, Bruschetta, Rv. 636647, ha affermato che costituisce onere dell'appellante dimostrare che il convenuto rimasto contumace fosse a conoscenza del processo, dovendo presumersi la sua ignoranza dello stesso; in mancanza, la sentenza resa in grado d'appello è nulla, e se impugnata per cassazione, essa dev'essere cassata senza rinvio, poiché l'appello avrebbe dovuto dichiararsi inammissibile. Sul piano dell'interesse ad impugnare, Sez. L, n. 02682/2015, Venuti, Rv. 634575, ha ribadito che ove l'appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito, ancorchè con la prima pronuncia si sia deciso anche il merito in senso a lui sfavorevole, l'impugnazione è ammissibile nel solo caso in cui i vizi, se fondati, comportino la rimessione al primo giudice, nelle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.. In caso contrario, ove l'appellante non censuri anche la statuizione di merito, l'appello va dichiarato inammissibile, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione. Nello stesso senso, la recente Sez. 3, n. 24612/2015, D'Amico, in corso di massimazione. Sez. 3, n. 06894/2015, Scrima, Rv. 634985, ha poi ribadito che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha interesse ad impugnare la sentenza in relazione a motivi attinenti alla motivazione stessa, neanche ove lamenti un ipotetico pregiudizio dal formarsi del giudicato su di essa. Ancora, Sez. 3, n. 17017/2015, Stalla, Rv. 636318, ha affermato che non sussiste interesse alla proposizione dell'appello incidentale tardivo ove quest'ultimo sia diretto a impugnare un capo della sentenza estraneo all'appello principale e per una ragione diversa da quest'ultimo. È poi incompatibile con la volontà di avvalersi del mezzo d'impugnazione, ed integra quindi, secondo Sez. 3, n. 12606/2015, Frasca, Rv. 635885, acquiescenza tacita, la condotta processuale dell'appellante che, pur postulando l'erroneità in fatto o in diritto della sentenza di primo grado, non censuri tuttavia la motivazione nella parte idonea a sorreggere comunque la prima decisione. Al contrario, non implica acquiescenza, secondo Sez. 6-3, n. 06027/2015, Frasca, Rv. 634893, l'impugnazione proposta nell'interesse di una sola parte dal difensore che, nel grado precedente, assisteva più parti, ben potendo le restanti promuoverla con l'assistenza di diverso difensore. 718 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sul piano della legittimazione ad impugnare, è stato ribadito l'orientamento per cui essa spetta soltanto al soggetto che sia stato parte nel precedente grado di giudizio. Così, secondo Sez. 2, n. 01671/2015, Falaschi, Rv. 634064, l'interveniente volontario in primo grado, proprio in quanto ha assunto la qualità di parte nel giudizio, è legittimato a proporre appello non solo quando le sue istanze siano state respinte nel merito, ma anche quando la decisione abbia sancito l'inammissibilità dello stesso intervento, o siano state del tutto pretermesse sulle domande con esso formulate. Sotto diversa angolazione, e riguardo all'ipotesi di chiamata in garanzia impropria, la recente Sez. 3, n. 24640/2015, Rubino, in corso di massimazione, ha ribadito che il terzo chiamato può impugnare la sentenza di primo grado anche in relazione al rapporto principale, ma solo nell'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la statuizione può spiegare su di esso, ma a condizione che egli abbia contestualmente impugnato anche la propria condanna in manleva, in caso contrario formandosi il giudicato su questa. In relazione al termine per impugnare, Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346, ha precisato che la regola dettata dall'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto al primo giorno seguente non festivo il termine scadente in un giorno festivo, ha valenza generale e si applica anche al termine breve ex art. 434, comma 2, c.p.c., per la proposizione dell'appello nelle controversie soggette al rito del lavoro. Sempre riguardo a dette controversie, Sez. L, n. 14401/2015, Manna, Rv. 636063, ha ribadito che la proposizione dell'impugnazione oltre tale termine, ovvero, in caso di mancata notifica della sentenza, oltre il termine "lungo" ex art. 327 c.p.c., comporta l'inammissibilità dell'appello anche nel caso in cui esso sia stato proposto con atto di citazione anziché con ricorso, laddove l'atto non sia stato depositato in cancelleria entro i detti termini. La Corte, con Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, resa in un giudizio avente ad oggetto opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento ante riforma del 2006, ha precisato che ove l'appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione di udienza nel termine ordinatorio di cui all'art. 18, comma 4, della legge fallimentare (nel testo applicabile ratione temporis), non può chiedere di essere rimesso in termini senza allegare alcuna causa di giustificazione, ostando a ciò una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c., sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost.. 719 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Nello stesso senso, in relazione alle controversie soggette al rito del lavoro, Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080, ha stabilito che, nel caso in cui l'appellante non abbia notificato il ricorso e il decreto di fissazione di udienza, benché ritualmente avvisato ex art. 435 c.p.c., né, mancando di partecipare all'udienza, abbia addotto alcuna giustificazione onde essere rimesso in termini, l'improcedibilità dell'impugnazione può essere dichiarata d'ufficio ancorchè la notifica sia avvenuta per altra udienza successiva, cui la causa sia stata rinviata d'ufficio dal giudice. La Corte, inoltre, con riguardo ad un giudizio di opposizione a verbale di accertamento di infrazione stradale, iniziato in epoca successiva all'entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, ha altresì ribadito l'inammissibilità del ricorso erroneamente proposto con citazione invece che con ricorso qualora il deposito dell'atto di citazione in cancelleria, per l'iscrizione a ruolo, sia avvenuto oltre il termine fissato per la proposizione dell'appello, quantunque notificato prima della sua scadenza (Sez. 6-3, n. 25061/2015, Vivaldi, in corso di massimazione). Ancora sul termine per impugnare, Sez. 3, n. 16194/2015, Rubino, Rv. 636045, ha affermato che la mancata comunicazione al procuratore costituito di una delle parti della ordinanza di rimessione alla c.d. sezione stralcio, pur comportando la nullità di tutti gli atti processuali e della sentenza resa dal G.O.A., non esime il difensore dalla necessità di dedurre il vizio con la proposizione di appello, entro il termine di cui all'art. 327 c.p.c.. Nell'ambito del contenzioso elettorale, Sez. 6-1, n. 18022/2015, Acierno, Rv. 636711, ha affermato che l'appello avverso l'ordinanza decisoria adottata dal tribunale dev'essere proposta copn atto di citazione entro il termine perentorio previsto dall'art. 702 quater c.p.c., sicchè ove esso sia stato proposto con ricorso, la tempestività dev'essere valutata con riguardo alla data di notifica alla controparte e non già a quella di deposito in cancelleria. Sull'appello incidentale, Sez. 3, n. 01127/2015, Travaglino, Rv. 633990, ha ribadito che, in caso di rinvio d'ufficio dell'udienza ex art. 168 bis, comma 4, c.p.c., non si determina una riapertura dei termini per il deposito della comparsa di costituzione e risposta, e quindi per la proposizione dell'impugnativa, dal momento che occorre far esclusivo riferimento o al termine indicato nell'atto di citazione in appello, ovvero alla data fissata dal giudice istruttore, ex art. 168 bis, comma 5, c.p.c.. Ne consegue che l'appello incidentale proposto con comparsa depositata successivamente all'udienza 720 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI fissata nell'atto d'appello, rinviata però d'ufficio ex art. 168 bis, comma 4, c.p.c., è inammissibile per tardività. Ancora Sez. 3, n. 12724/2015, Carluccio, Rv. 635947, ha ribadito che l'avvenuta impugnazione della sentenza di primo grado comporta che tutte le altre impugnazioni avverso la medesima debbano essere proposte in via incidentale nello stesso giudizio entro il termine di cui all'art. 343 c.p.c., con la conseguenza che l'impugnazione proposta oltre tale termine è inammissibile ancorchè non siano spirati i termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., che conservano rilevanza solo per l'operatività delle conseguenze previste dall'art. 334, comma 2, c.p.c.. L'attore totalmente vittorioso in primo grado, in giudizio avente ad oggetto risarcimento danni, non ha l'onere di proporre appello incidentale per invocare una diversa fonte di responsabilità del danneggiante, per Sez. 3, n. 09294/2015, Scarano, Rv. 635285, ove il giudice di primo grado abbia applicato una delle norme invocate quale titolo di responsabilità, ciò non comportando la formazione di giudicato implicito, trattandosi di mera qualificazione giuridica. Riguardo all'onere di specificità dei motivi d'appello, sancito come detto dall'art. 342 c.p.c., Sez. 3, n. 18307/2015, Scarano, Rv. 636741, in linea con consolidato indirizzo, ha affermato che ai fini del suo assolvimento non occorre una formalistica enunciazione, sufficiente essendo che le argomentazioni contrapposte dall'appellante a quelle riportate nella decisione impugnata siano tali da inficiarne il fondamento logico giuridico (fattispecie antecedente alla riforma del 2012). Sempre Sez. 3, n. 13203/2015, Vincenti, Rv. 636006, ha sancito che ove in primo grado l'attore abbia allegato la conclusione di un contratto di mandato avvenuta, alternativamente, in forma orale o per fatti concludenti, l'accertamento negativo contenuto al riguardo nella sentenza impugnata comporta l'onere di proporre specifici motivi di appello in relazione ad ambedue i profili, pena la formazione del giudicato interno su quello non riproposto, stante la diversità del tema di indagine sotteso a ciascuna delle allegazioni. Nello stesso senso, Sez. 6-2, n. 04259/2015, Manna, Rv. 634914, ha affermato che l'appello avverso la sentenza che affermi una duplice ragione della decisione, di cui la prima logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto alla seconda, va dichiarato inammissibile ove non contenga specifiche censure alla prima di esse. 721 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Con specifico riferimento al processo del lavoro, Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, ha stabilito che l'art. 434, comma 1, c.p.c., anch'esso modificato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 in coerenza col paradigma generale previsto dall'art. 342 del codice di rito, non richiede forma determinate, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame agli specifici capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal giudice di prime cure, in modo da esplicitare l'idoneità delle censure a determinare le auspicate modifiche alla decisione appellata. Sempre riguardo all'onere di specificità, Sez. 3, n. 21791/2015, D'Amico, in corso di massimazione, ha statuito come esso sia rispettato ove l'appellante, che si dolga della mancata o erronea liquidazione delle spese operata dal primo giudice, alleghi all'atto d'appello la nota spese che si assume erroneamente liquidata, e non si limiti a farlo in atti o memorie successivamente depositate. Quanto ai poteri del giudice d'appello, Sez. 3, n. 02880/2015, Carleo, Rv. 634493, ha confermato l'orientamento secondo cui la rimessione al primo giudice ai sensi dell'art. 354 c.p.c., stante la sua eccezionalità, non può essere disposta se non nei casi espressamente previsti, sicchè se ne deve escludere l'applicabilità nel caso di sentenza dichiarativa dell'estinzione emessa nelle forme ordinarie, ai sensi dell'art. 307, ult. comma, c.p.c., limitata essendo la rimessione, in subiecta materia, all'ipotesi di riforma della sentenza con la quale il tribunale, in base all'art. 308, comma 2, dello stesso codice, abbia respinto il reclamo contro la ordinanza del giudice istruttore che ha dichiarato l'estinzione del processo. Sez. 3, n. 17195/2015, Barreca, Rv. 636209, ha poi ribadito che in assenza di uno specifico motivo d'impugnativa, il giudice d'appello che rigetti il gravame non può disporre la compensazione delle spese del giudizio di primo grado. Nel solco di consolidato orientamento, non costituisce vizio di extrapetizione, secondo Sez. 1, n. 16213/2015, Mercolino, Rv. 636495, la diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d'appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ciò rientrando nei suoi poteri, purchè la diversa qualificazione sia coerente con le questioni riproposte, lasciando inalterati il petitum e la causa petendi, e non introduca nel tema controverso nuovi elementi di fatto. 722 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Ancora, sul tema di sentenza declinatoria della competenza pronunciata dal giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della giurisdizione equitativa, Sez. 6-3, n. 13623/2015, De Stefano, Rv. 636072, ha ribadito che ove venga proposto appello avverso tale statuizione, il tribunale è investito dell'esame del merito quale giudice d'appello, dovendo escludersi che, nel caso di fondatezza della censura, debba rimettersi la causa al giudice di pace per la rinnovazione del giudizio di primo grado. Del pari, per Sez. 3, n. 12714/2015, Amendola, Rv. 635819, deve escludersi la rimessione al primo giudice nel caso in cui, convenuto in giudizio, in proprio, un soggetto privo della capacità processuale (nella specie, interdetto legalmente), questi abbia successivamente riacquistato la capacità in fase di gravame, determinandosi in tal caso la sanatoria della nullità della sua costituzione in giudizio, ex art. 182 c.p.c., ma non anche della validità del giudizio svolto in violazione del principio del contraddittorio, occorrendo quindi che il giudice d'appello pronunci sulla domanda originaria, previa declaratoria della nullità della sentenza. Quanto alla riforma in grado d'appello della sentenza declinatoria della giurisdizione, Sez. U, n. 03025/2015, Napoletano, Rv. 634062, ha affermato che il giudice di primo grado al quale la causa sia stata dunque rimessa ex art. 353 c.p.c. non può proporre regolamento di giurisdizione d'ufficio, ma è tenuto a statuire sulla domanda. Ove il giudice d'appello abbia emesso sentenza non definitiva e disposto per il prosieguo del giudizio, secondo Sez. 1, n. 00488/2015, Benini, Rv. 634226, la cassazione senza rinvio della detta sentenza comporta che viene a cessare immediatamente la potestas judicandi dello stesso giudice, sicchè l'eventuale sentenza definitiva successivamente emessa è affetta da inesistenza per abnormità, che può essere denunciata in ogni tempo con ordinaria azione di accertamento, ma anche con i mezzi ordinari di impugnazione. In fattispecie assai peculiare, Sez. 3, n. 22978/2015, Frasca, in corso di massimazione, ha statuito che quando il giudice d'appello ravvisa che il diritto riconosciuto dalla sentenza di primo grado esiste ma è stato erroneamente quantificato, non solo non può pronunciare una pronuncia parziale di riforma della sentenza di primo grado solo sul "quantum", ma, se statuisca erroneamente, non può disporre la condanna alla restituzione di quanto corrisposto dalla parte appellante in forza dell'esecuzione, e ciò in quanto si è 723 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI comunque al di fuori del paradigma dell'art.278 c.p.c., sia degli artt. 277 e 279 n. 4 c.p.c.. Sul piano del procedimento, va anzitutto segnalata Sez. 6-L, n. 02816/2015, Marotta, Rv. 634629, che ha ribadito che la disciplina dell'inattività delle parti dettata dal codice di procedura civile per il giudizio di cognizione di primo grado e di appello trova applicazione anche nell'ambito del cd. rito del lavoro, non ostandovi né la sua specialità, né i principi cui esso si ispira, sicchè, ove all'udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. dinanzi al giudice d'appello nessuno compaia, non è possibile decidere la causa, occorrendo provvedere ai sensi degli artt. 181 e 348 c.p.c.. Per il caso di sentenza declinatoria della competenza e conseguente riassunzione, Sez. U, n. 15996/2015, Travaglino, Rv. 636104, ha affermato che la "conservazione dell'appello ai fini della «translatio iudicii» non opera per l'impugnazione proposta allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata (nella specie, medesimo tribunale, adito quale tribunale regionale delle acque e poi quale tribunale superiore delle acque), mancando, in tal caso, uno strumento processuale che legittimi il passaggio dal primo al secondo grado". Riguardo ai giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione introdotti nella vigenza dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706, ha affermato che le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non si estendono automaticamente al giudizio d'appello in mancanza di specifica previsione normativa, sicchè non trova applicazione nel giudizio di secondo grado la regola per cui occorre procedere alla lettura del dispositivo in udienza, a pena di nullità della sentenza. Sempre sul tema delle modalità di emissione della sentenza d'appello, la recente Sez. 3, n. 22871/2015, Barreca, in corso di massimazione, ha affermato che «è corretto e non viola gli artt. 281 sexies e 350-352 c.p.c., l'operato del giudice d'appello che, intendendo decidere la causa ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., in forza del disposto dell'ultimo comma dell'art. 352 c.p.c. (aggiunto dall'art. 27, comma l, lett. d, della legge 12 novembre 2011 n. 183), esaurita l'attività prevista nell'art. 350, non dovendo provvedere a norma dell'articolo 356, all'udienza fissata per la trattazione dell'appello invita l'unica parte presente – essendo l'altra assente non giustificata – a precisare le conclusioni, senza fissare un'altra udienza allo scopo ed, in mancanza di istanza di parte di rinvio della discussione orale ad un'udienza successiva, ordina la discussione orale nella stessa udienza e pronuncia sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione». 724 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sul tema dell'ultrattività del rito, Sez. 3, n. 13311/2015, Scrima, Rv. 635802, ha statuito che, nelle controversie aventi ad oggetto sinistri stradali, introdotte prima dell'entrata in vigore della legge 21 febbraio 2006, n. 102 (che prevedeva il loro assoggettamento al rito del lavoro, senza dettare una disciplina transitoria), l'appello dev'essere proposto con le forme e nei termini del rito ordinario, allorchè la causa sia stata trattata e decisa in primo grado secondo tale rito. Al contrario, ove la sentenza di primo grado sia stata resa nelle forme del rito del lavoro e, alla data di abrogazione dell'art. 3 della legge n. 102 del 2006, sia ancora pendente il termine per proporre l'appello, secondo Sez. 1, n. 02265/2015, Acierno, Rv. 634976, questo dev'essere proposto con le forme e nei termini di cui all'art. 434, comma 2, c.p.c., trattandosi di controversia ancora pendente ai sensi dell'art. 53, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69. Quanto alle domande "assorbite", Sez. 2, n. 07457/2015, San Giorgio, Rv. 635000, in linea con consolidato orientamento, ha ribadito che l'appellato la cui domanda principale sia stata accolta nel giudizio di primo grado ha l'onere di riproporre la domanda subordinata su cui il primo giudice non abbia pronunciato perché assorbita, pena la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c.. Ancora, Sez. 6-3, n. 15605/2015, De Stefano, Rv. 636467, ha affermato che ove l'attore abbia convenuto in giudizio una pluralità di soggetti, il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione nei confronti di tutti i predetti, in uno con l'accertamento della titolarità passiva in capo ad uno solo di essi, onera l'attore ad impugnare anche tale ultima statuizione, in mancanza formandosi il giudicato su di essa. In relazione alle controversie soggette al rito del lavoro, Sez. L., n. 00461/2015, Balestrieri, Rv. 634077, ha ribadito che alla parte rimasta contumace in primo grado, o che ivi si sia tardivamente costituita, non è preclusa la contestazione in grado d'appello, presupponendo il principio di non contestazione un comportamento concludente della parte costituita. Ove sia stata proposta querela di falso nel corso del giudizio d'appello, secondo Sez. 3, n. 18892/2015, Rubino, Rv. 636667, quando questo sia stato sospeso e il giudice non abbia indicato il tribunale territorialmente competente, la tempestiva riassunzione dinanzi a tribunale comunque incompetente non determina l'estinzione del giudizio, giacchè è sufficiente a scongiurare tale esito la circostanza che il querelante si sia attivato entro il termine 725 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI perentorio assegnatogli ex art. 355 c.p.c. per introdurre il giudizio di falso. Con specifico riguardo al procedimento di adozione, secondo Sez. 1, n. 15365/2015, De Chiara, Rv. 636487, ove l'adottando abbia compiuto i dodici anni al tempo del giudizio d'appello, egli dev'essere audito, ciò potendo ricavarsi dall'art. 15 della legge 4 maggio 1983, n. 184, che, sebbene imponga tale obbligo espressamente ai fini della dichiarazione di adottabilità, esprime tuttavia una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni ed interessi che, pur non vincolando il giudice, non possono essere ignorati. Sempre in tema di dichiarazione di adottabilità del minore, Sez. 1, n. 15369/2015, Valitutti, Rv. 636485, ha precisato che i genitori dell'adottando, se esistenti, sono le sole parti necessarie e quindi litisconsorti necessari anche in grado d'appello, benché non costituiti in primo grado, nonché unici soggetti a dover essere obbligatoriamente sentiti. Per il caso di erronea individuazione del giudice d'appello, Sez. 6-3, n. 22321/2015, Armano, in corso di massimazione, in motivato contrasto con Sez. 6-L, n. 11969/2015, Rv. 635553, ha recentemente escluso che ciò possa configurare – in fattispecie in cui era stata adita la sezione specializzata agraria, sebbene la prima decisione fosse stata resa dal tribunale ordinario – questione di competenza, non potendo trovare applicazione né la regola della translatio judicii di cui all'art. 50 c.p.c., né tampoco la disciplina dinamica della competenza, ex art. 38 c.p.c., essendosi già formato il giudicato sulla sentenza impugnata a cagione di detta erronea individuazione. Secondo la citata pronuncia, dette conclusioni hanno carattere generale, e valgono: «aa) sia per il caso in cui l'impugnazione venga proposta avanti ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge (appello contro sentenza del giudice di pace proposto ad un tribunale di una circoscrizione diversa da quella di cui fa parte il giudice che l'ha pronunciata; appello contro sentenza del tribunale proposto a corte d'appello diversa da quella del distretto di cui fa parte il tribunale); bb) sia per il caso in cui, pur rispettata la regola territoriale l'impugnazione venga proposta avanti a giudice di tipo diverso da quello che la legge individua (appello contro sentenza del giudice di pace proposto alla Corte d'Appello); cc) sia per il caso di impugnazione proposta a giudice diverso da quello legittimato ma con la particolarità ch'esso rientri nella stessa tipologia di ufficio giudiziario di quel giudice (es.: revocazione contro sentenza del tribunale proposta ad altro tribunale); dd) sia per il caso di impugnazione proposta a giudice che nella ripartizione verticale dell'organizzazione del processo civile 726 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI impugnazioni non sia «superiore» a quello che abbia pronunciato la sentenza (es.: appello contro sentenza del tribunale proposto ad altro tribunale) o addirittura sia collocato in posizione inferiore». Diverse pronunce hanno interessato il tema della scindibilità o inscindibilità di cause. In particolare, Sez. 2, n. 06780/2015, Falaschi, Rv. 634744, ha ribadito che, nel caso di morte di una delle parti del giudizio di primo grado, la sua legittimazione (attiva o passiva) si trasmette agli eredi, la cui posizione integra, per tutta la ulteriore durata del giudizio, litisconsorzio necessario processuale. Pertanto, ove l'appello sia stato proposto contro uno soltanto degli eredi, il giudice d'appello deve ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, a pena di nullità, salva la loro costituzione spontanea. Sez. 5, n. 15292/2015, La Torre, Rv. 636035, ha affermato che nelle cause scindibili o indipendenti, l'appello incidentale tardivo ben può investire capi diversi da quelli impugnati in via principale, ma non può determinare l'estensione soggettiva del giudizio e, quindi, non può proporsi contro parti diverse da quelle che hanno proposto l'appello principale, essendosi formato nei confronti delle prime il giudicato interno. Ancora, Sez. 2, n. 10808/2015, Matera, Rv. 635656, ha affermato che sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario processuale in sede di gravame qualora ad una pluralità di coeredi sia richiesto l'adempimento pro quota dell'unica obbligazione del de cuius, stante l'unicità genetica del rapporto obbligatorio. Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria, Sez. 3, n. 12919/2015, Rubino, Rv. 635908, ha affermato che, qualora la sentenza di primo grado abbia accolto sia la domanda di molestia che quella di garanzia, l'impugnazione da parte del garante del capo concernente la responsabilità del convenuto, nel caso di accoglimento, non può recare beneficio al convenuto stesso, che non l'abbia impugnato, giacchè nei suoi confronti s'è già formato il giudicato, a ciò non ostando neanche il disposto dell'art. 1306, comma 2, c.c., che, pur regolando l'effetto espansivo della sentenza favorevole al coobbligato solidale, presuppone tuttavia che questi non abbia preso parte al giudizio in cui detta sentenza è stata resa. Riguardo a giudizio svoltosi con pluralità di parti in cause scindibili, ex art. 332 c.p.c., Sez. 3, n. 13355/2015, Rubino, Rv. 635981, ha confermato l'orientamento per cui la notificazione dell'appello a tutte le parti, avendo la mera funzione di litis denuntiatio, non determina la qualità di parte del giudizio di impugnazione in capo al destinatario, con la conseguenza che non 727 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI sussistono i presupposti per la pronuncia a suo favore della condanna alle spese a norma dell'art. 91 c.p.c., che esige la qualità di parte, e perciò una vocatio in ius, e la soccombenza. Con riferimento all'intervento adesivo volontario, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., Sez. 2, n. 09150/2015, Nuzzo, Rv. 635243, ha affermato che, pur ricorrendo un'ipotesi di cause sostanzialmente scindibili, si configura un litisconsorzio necessario processuale e la causa deve considerarsi inscindibile nei confronti dell'interveniente, con la conseguenza che egli è legittimato a proporre impugnazione incidentale tardiva, ex art. 334 c.p.c., anche contro una parte diversa da quella che ha impugnato la sentenza e su un capo di sentenza diverso da quello oggetto dell'impugnazione principale. Sez. 3, n. 08693/2015, D'Amico, Rv. 635078, ha affermato che ove il giudice di primo grado abbia pronunciato impropriamente l'estromissione di uno dei convenuti per carenza di legittimazione passiva (ma in realtà respingendo nel merito la domanda nei suoi confronti), la parte soccombente, che abbia appellato la sentenza solo nei confronti delle altre parti, così accettando detta pronuncia, è tenuto a notificare alla parte estromessa l'appello ai sensi dell'art. 332 c.p.c.. Ne deriva che la costituzione in appello di quest'ultima dev'essere considerata inammissibile, mancando l'impugnativa sulla pronuncia di estromissione, né potendo essa qualificarsi come intervento ad adiuvandum, non ricorrendo i presupposti di cui all'art. 344 c.p.c.. Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 01915/2015, Manna, Rv. 634308, ha ribadito che nel caso in cui il ricorso in appello sia stato depositato in cancelleria entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., l'integrazione del contraddittorio eventualmente disposta ex art. 331 c.p.c. dev'essere notificata, anche dopo il decorso del suddetto termine, non alla parte personalmente, bensì al suo procuratore costituito. Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova in appello. Così, Sez. 6-2, n. 01529/2015, Bianchini, Rv. 633836, ha confermato l'orientamento per cui, in sede di appello, non è possibile introdurre la domanda avente ad oggetto l'attribuzione di interessi non richiesti in primo grado, attesa la novità della domanda stessa, salvo che si tratti di accessori che non avrebbero potuto chiedersi precedentemente. Al contrario, Sez. 3, n. 06457/2015, Pellecchia, Rv. 634943, ha affermato che la domanda di restituzione di quanto indebitamente pagato in forza di sentenza esecutiva può essere avanzata per la prima volta con l'atto d'appello e anche in sede di 728 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI precisazione delle conclusioni, non potendo tale domanda considerarsi nuova. In materia di locazione, Sez. 3, n. 16801/2015, Stalla, Rv. 636353, ha affermato che la domanda di rilascio dell'immobile locato include anche quella diretta al rilascio delle pertinenze, sicchè questa non integra domanda nuova e può essere proposta, per la prima volta, anche in appello. In tema di acquisto della proprietà a titolo originario, Sez. 2, n. 00040/2015, Giusti, Rv. 633805, ha affermato che non viola il divieto di "ius novorum" la deduzione, da parte del convenuto in rivendica, dell'acquisto per usucapione, ordinaria o abbreviata, della proprietà dell'area, qualora egli abbia eccepito in primo grado la proprietà in forza di diverso titolo, giacchè il diritto di proprietà appartiene alla categoria dei diritti cd. eterodeterminati, che si identificano in virtù del loro contenuto, e non già per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui deduzione è funzionale ai fini dell'assolvimento dell'onere probatorio. Sez. 2, n. 17322/2015, Falaschi, Rv. 636224, ha ribadito che per il principio di infrazionabilità e contestualità della prova testimoniale, ricavabile dall'art. 244 c.p.c., coordinato con le regole dell'ammissione delle nuove prove in appello, è inammissibile l'istanza istruttoria vertente non già sulle medesime circostanze già ammesse in primo grado, ma anche quella diretta ad integrare o confutare le risultanze della prova già espletata in primo grado. Sempre sul piano probatorio, Sez. 1, n. 17341/2015, Genovese, Rv. 636643, ha affermato che l'art. 345, comma 3, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), impone al giudice d'appello che ammetta la produzione di documenti non prodotti in primo grado, in quanto indispensabili ai fini della decisione, di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi. In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, risolvendo il contrasto sul punto tra diverse pronunce di legittimità, ha affermato che l'art. 345, comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti prodotti in sede monitoria e rimasti a disposizione della controparte, seppur non versati in atti in primo grado, rimangono tuttavia nella sfera di cognizione del giudice dell'opposizione, in forza del principio "di non dispersione della prova" ormai acquisita al processo; ne deriva che essi, ove prodotti in appello, non possono considerarsi nuovi, sicchè la loro produzione è pienamente ammissibile. 729 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Secondo Sez. 1, n. 12049/2015, Di Virgilio, Rv. 635619, la novità di un documento, preclusiva della produzione in appello ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., deve valutarsi alla luce della sua produzione in giudizio, irrilevante essendo la sua mera indicazione. Sullo stesso tema, ma in ambito del processo del lavoro, Sez. L, n. 14820/2015, Venuti, Rv. 636459, ha affermato che l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto di costituzione in giudizio, e l'omesso contestuale deposito, determinano la decadenza della parte, a meno che non siano successivamente formati o la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione del processo, sicchè il giudice d'appello, ai sensi dell'art. 437 c.p.c., può ammetterne la produzione con valutazione discrezionale, non sindacabile in sede di legittimità, ove ritenga tali documenti comunque ammissibili, perché indispensabili ai fini della decisione. In tema di licenziamento disciplinare, Sez. L., n. 00655/2015, Tria, Rv. 634187, ha affermato che ove il lavoratore abbia impugnato il licenziamento allegandone la natura ritorsiva, la successiva deduzione in appello di nuovi profili di illegittimità integra domanda nuova e, perciò, inammissibile. Sez. L, n. 15506/2015, Blasutto, Rv. 636234, ha ribadito che si ha domanda nuova per modificazione della causa petendi, come tale inammissibile in appello, ove i nuovi elementi dedotti in secondo grado comportino un mutamento dei fatti costitutivi della domanda, in modo tale da determinare una pretesa diversa da quella esaminata in primo grado e sulla quale non s'è svolto in quella sede il contraddittorio. Sempre riguardo al rito del lavoro, Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, ha ribadito l'orientamento per cui, in tema di prestazioni assistenziali, la produzione in appello della documentazione afferente al requisito reddituale è tardiva e, quindi, inammissibile, trattandosi di circostanze già deducibili e dimostrabili in primo grado. Né può farsi ricorso all'attivazione dei poteri officiosi ex art. 437, comma 2, c.p.c., in relazione a dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante il possesso del detto requisito, trattandosi di documento non avente valore neanche indiziario, bensì di mera allegazione, provenendo esso dalla stessa parte interessata. Infine, Sez. L, n. 08924/2015, Berrino, Rv. 635346, ha affermato che ove il convenuto si sia tardivamente costituito, al giudice d'appello non è comunque precluso l'esame dei documenti ciononostante prodotti in primo grado, in assenza di tempestiva opposizione all'irrituale produzione. 730 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI 4. Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa. Com'è noto, l'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione. Ciò sia nella medesima ottica deflattiva perseguita per l'appello, sia anche allo scopo di enfatizzare la funzione nomofilattica della Corte. La norma de qua, che dapprima (nella formulazione dettata dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) consentiva il ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, prevede ora – in relazione alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 – la proponibilità del ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Nel corso del 2015, la Corte è nuovamente tornata su alcuni aspetti della novella in discorso, dando comunque continuità all'indirizzo segnato da Sez. U, n. 08053/2014, Rv. 629830. Questa importante pronuncia (che si riporta per comodità espositiva), dopo aver evidenziato che la descritta riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ripropone pressoché testualmente l'originario testo del codice di rito del 1940, ha affermato che la norma in discorso "deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione.. In questo senso, Sez. 6-3, n. 13928/2015, Cirillo, Rv. 636030, ha ribadito che, alla luce del novellato art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non è più denunciabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, precisando anche che tale vizio non possa ritenersi sopravvivere come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) dell'art. 360 c.p.c.. Circa l'esatta portata della novella, Sez. 6-L, n. 02498/2015, Blasutto, Rv. 634531, e n. 13448/2015, Arienzo, Rv. 635853, hanno ribadito che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, qualora il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione da parte del giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie. Nello stesso senso si è pronunciata Sez. L, n. 14324/2015, Bandini, Rv. 636037, relativamente a procedimento disciplinare a carico di lavoratore subordinato, evidenziando che la censura, in sede di legittimità, di violazione del principio di immediatezza della 731 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI contestazione, alla luce del novellato art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., è inammissibile qualora il motivo di ricorso per l'omesso esame di elementi istruttori non si risolva nella prospettazione di un vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ove il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice. In tema di procedimento di separazione tra coniugi e di affidamento dei figli minori, Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636766, ha affermato che non è denunciabile in cassazione, ai sensi della predetta norma come novellata, la mera omessa o errata valutazione da parte del giudice di merito delle relazioni psicosociali e dei pareri psicodiagnostici acquisiti, poiché essa non si traduce in una anomalia o omissione motivazionale ove comunque nel provvedimento sia stato dato risalto all'esigenza di conservare un rapporto tra il minore e il genitore non affidatario. Deve adeguatemente segnalarsi, per essere – da quel che consta – la prima decisione di accoglimento sul punto, Sez. 1, n. 12314/2015, Ragonesi, Rv. 635618, che, in tema di plagio, ha ritenuto sussistere il denunciato vizio ai sensi del nuovo art. 360, comma 1), n. 5, c.p.c., nel caso in cui il primo giudice, nel quantificare il lucro cessante riconosciuto al titolare dell'opera plagiata, non abbia indicato il criterio utilizzato né abbia specificato le ragioni per cui lo abbia ritenuto come il più adeguato ad individuarne, in rapporto alla peculiarità del caso, il relativo ammontare (così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, nel determinare il danno, aveva omesso di valutare che l'opera plagiata – articoli apparsi su giornali – e quella plagiaria – romanzo – non erano in concorrenza tra loro poiché distribuite su circuiti commerciali affatto diversi e con differenti tipi di pubblico, ed esaurendo la prima, diversamente dalla seconda – peraltro edita dopo più di un anno – la propria distribuzione e vendita in tempi brevissimi). Con specifico riferimento all'arbitraggio, Sez. 6-1, n. 19677/2015, Genovese, Rv. 637123, ha affermato che l'accertamento dell'equità della prestazione dedotta in contratto ad opera del terzo, cui è stata rimessa dalle parti contraenti, è rimessa alla prudente valutazione del giudice del merito, che può essere censurata dalla Corte di cassazione nei limiti, sopra cennati, del "minimo costituzionale". Sempre in tal senso, Sez. 6-3, n. 23828/2015, De Stefano, in corso di massimazione, ha ribadito che la ricostruzione del fatto operata dal giudice di merito può essere sindacata in sede di legittimità solo ove la motivazione manchi del tutto o sia fondata su 732 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI espressioni o argomenti tra loro manifestamente inconciliabili, ovvero perplessi, ovvero ancora obiettivamente incomprensibili. Infine, riguardo a procedimento avente ad oggetto responsabilità disciplinare di magistrato, Sez. U, n. 01241/2015, Amoroso, Rv. 633756, ha precisato che la descritta novella non può avere concrete ricadute sulla denunciabilità del vizio di contraddittoria motivazione da parte del ricorrente, atteso che, in forza del disposto dell'art. 24 della legge 23 febbraio 2006, n. 109, esso può essere proposto ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p., che appunto ne prevede la denunciabilità. Altro filone di pronunce attiene ai vizi denunciabili mediante ricorso per cassazione a seguito della pronuncia di inammissibilità dell'appello per ragionevole improbabilità di accoglimento, impugnazione che, come s'è detto (v. § 2), dev'essere proposta direttamente avverso la pronuncia di primo grado, ai sensi dell'art. 348 ter, comma 3, c.p.c.. In particolare, in base al disposto del comma quarto di tale articolo, «Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360». Pertanto, nel caso di cd. "doppia conforme in facto" (ossia, di una pronuncia di merito da parte del giudice di primo grado, seguita dalla declaratoria di inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c., fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata), non è consentita la proposizione del ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.. In proposito, non constano, nell'anno in esame, pronunce su tale ultima questione. In ogni caso, mette conto qui evidenziare Sez. 6-3, n. 06140/2015, Amendola, Rv. 634886, secondo cui la peculiarità dell'impugnazione prevista dall'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., laddove ne individua l'oggetto nella sentenza di primo grado e non già nell'ordinanza emessa dal giudice d'appello, non esclude la natura ordinaria del ricorso per cassazione, sicchè esso deve contenere, a pena di inammissibilità, le prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., tra cui "l'esposizione sommaria dei fatti di causa", prevista al n. 3) dello stesso articolo. Ancora, va evidenziata Sez. 6-1, n. 20470/2015, Acierno, Rv. 637505, che ha ribadito che tale ordinanza, ove emessa nei casi in cui ne è consentita l'adozione, non è ricorribile per cassazione neanche ai sensi dell'art. 111 Cost., non avendo essa carattere di 733 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI definitività e prevedendo espressamente l'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., l'impugnabilità della sentenza di primo grado. Infine, Sez. 6-3, n. 18827/2015, Frasca, Rv. 636967, ha affermato che, ove anche volesse sostenersi l'insegnamento di Sez. 6-2, n. 07273/2014, che appunto propugna la persistente autonoma impugnabilità dell'ordinanza che dichiari l'inammissibilità dell'appello per motivi diversi, essa va impugnata con lo stesso ricorso proposto avverso la sentenza di primo grado e nei termini prescritti dall'art. 348 ter, comma 3, c.p.c., «sia perché è logicamente prioritario l'esame dell'impugnazione dell'ordinanza rispetto alla sentenza, sia perché, applicando all'ordinanza il termine lungo dalla comunicazione ex art. 327 c.p.c., il decorso di distinti termini per impugnare i due provvedimenti comporterebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, rendendo incomprensibile la ricorribilità avverso l'ordinanza». 5. (segue) In generale. Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al cap. XXXVIII sul processo del lavoro ed al cap. XLIV sul processo tributario. Numerose pronunce si sono occupate del tema della ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze rese in grado d'appello o in unico grado. Così, Sez. 1, n. 06683/2015, Cristiano, Rv. 634749, ha escluso che il decreto di rigetto del reclamo che abbia respinto l'istanza di fallimento sia soggetto al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, non potendo configurarsi un diritto del creditore ad ottenere il fallimento del proprio debitore. Sempre in ambito fallimentare, Sez. 1, n. 19790/2015, De Marzo, Rv. 636680, ha escluso la ricorribilità per cassazione dei provvedimenti emessi dal tribunale ai sensi dell'art. 15, comma 8, della legge fallimentare, perché aventi natura cautelare e privi dei caratteri di decisorietà e definitività. Ancora in ambito concorsuale, Sez. 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634685, ha del pari negato la ricorribilità ex art. 111 Cost. avverso il decreto con cui la corte d'appello abbia respinto il reclamo avverso il provvedimento sulla revoca del curatore fallimentare per giustificati motivi, in quanto la disciplina è permeata dall'interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura, incidendo solo indirettamente sull'interesse del curatore; il provvedimento che dispone la revoca, quindi, ha natura 734 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI amministrativa e ordinatoria ed è privo di valenza decisoria su posizioni di diritto soggettivo. Sez. 6-1, n. 04701/2015, Bisogni, Rv. 634635, ha ribadito che i provvedimenti emessi in sede di reclamo riguardo alla designazione o nomina di amministratore di sostegno, trattandosi di provvedimenti distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, non sono ricorribili per cassazione, il ricorso essendo ammesso esclusivamente nell'ipotesi di cui all'art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., relativamente ai decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze emesse in materia di interdizione ed inabilitazione, mentre tale facoltà non si estende ai provvedimenti a carattere gestorio. Sez. 1, n. 16227/2015, Valitutti, Rv. 636331, ha escluso la ricorribilità per cassazione del decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il decreto del tribunale dei minorenni che ha disposto, ai sensi dell'art. 333 c.c., l'affido di un minore ai servizi sociali, in quanto adottato per l'esclusiva tutela dgli interessi del minore. Ancora, Sez. 6-3, n. 03279/2015, Barreca, Rv. 634483, ha sancito l'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto della corte d'appello che abbia deciso sul reclamo ai sensi degli artt. 2888 c.c. e 113 disp. att. c.c. contro il rifiuto di cancellazione di iscrizione ipotecaria da parte del conservatore, poiché detto decreto è insuscettibile di passare in giudicato in quanto emesso in procedimento privo di carattere contenzioso, e fermo il diritto dell'istante ad una pronuncia di accertamento del diritto ad ottenere detta cancellazione. Tuttavia, secondo Sez. 1, n. 15131/2015, Campanile, Rv. 636206, ove il detto procedimento (nella specie, avente ad oggetto il rifiuto del conservatore di eseguire una trascrizione ex art. 745 c.p.c., cui rinvia l'art. 113 disp. att. c.c.) si concluda con una condanna alle spese, ad onta della sua natura di volontaria giurisdizione, il provvedimento assume valenza decisoria e può quindi essere impugnato con ricorso straordinario per cassaizone, ai sensi dell'art. 111 Cost. Del pari, Sez. L, n. 01176/2015, D'Antonio, Rv. 634301, ha escluso la ricorribilità per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avverso l'ordinanza che abbia provveduto sulla sospensione dell'esecuzione nell'ambito di opposizione proposta ai sensi degli artt. 615, 617 o 619 c.p.c., ovvero avverso l'ordinanza collegiale emessa ai sensi dell'art. 669 terdecies, c.p.c. in sede di reclamo avverso 735 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI la stessa, trattandosi nel primo caso di provvedimento soggetto a specifico rimedio, e, in entrambi i casi, di provvedimenti non definitivi, suscettibili di essere ridiscussi nel giudizio di merito. Ciò vale, secondo Sez. 6-2, n. 13637/2015, Giusti, Rv. 635681, anche se il tribunale in composizione collegiale, respingendo il reclamo avverso il diniego di tutela possessoria, abbia disposto sulle spese senza assegnare il termine per l'introduzione del giudizio di merito, giacchè il provvedimento incide su situazioni di rilevanza meramente processuale e non ha carattere decisorio né definitivo. Analogamente, secondo Sez. 6-3, n. 25064/2015, Barreca, e Sez. 6-3, n. 25111/2015, Barreca, entrambe in corso di massimazione, deve escludersi la ricorribilità per cassazione del provvedimento con cui il giudice dell'esecuzione, adito con opposizione agli atti esecutivi, abbia dichiarato il ricorso improponibile, condannando l'opponente alla rifusione delle spese, ma senza assegnare i termini per l'introduzione del giudizio di merito, trattandosi di statuizione di carattere non definitivo, giacchè lo stesso opponente può comunque iscrivere la causa a ruolo per la prosecuzione della causa con cognizione piena, ovvero instare presso il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 289 c.p.c., onde chiedere la fissazione del relativo termine. Nello stesso senso, Sez. 1, n. 00896/2015, Genovese, Rv. 634000, ha escluso la ricorribilità per cassazione del provvedimento di diniego della tutela d'urgenza ex art. 700 c.p.c., in quanto privo del carattere di definitività. Del pari, Sez. 6-3, n. 13774/2015, De Stefano, Rv. 635916, ha affermato lo stesso principio in relazione ai provvedimenti resi dalla corte d'appello sulla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado. Ancora, Sez. 1, n. 17522/2015, Valitutti, Rv. 636764, ha ribadito l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del giudice di primo grado di estinzione del giudizio, poiché il provvedimento, se adottato dal tribunale in composizione monocratica, è assimilabile alla sentenza emessa dal collegio ex art. 308, comma 2, c.p.c., e dev'essere quindi impugnato con l'appello, mentre, se emesso dal giudice istruttore in causa in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, conserva natura di ordinanza reclamabile al collegio. Sez. 1, n. 11456/2015, Campanile, Rv. 635628, ha stabilito che, dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 360, comma 3, c.p.c., come sostituito a decorrere dal 2 marzo 2006, dal d.lgs. n. 40 del 2006, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la 736 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI sentenza che abbia deciso esclusivamente una questione preliminare di merito, senza definire, neanche parzialmente, il giudizio. Ancora, Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635608, in tema di titolo esecutivo europeo, sul rilievo che questo ha solo funzione integrativa del titolo esecutivo nazionale (ossia, di renderlo idoneo alla circolazione intereuropea), ha affermato che le contestazioni del debitore seguono i mezzi di impugnativa suoi propri, con la conseguenza dell'inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il provvedimento adottato dalla corte d'appello in sede di reclamo proposto contro il diniego di revoca del certificato, ai sensi dell'art. 10 del regolamento comunitario del 21 aprile 2004, n. 805/2004/CE. In applicazione del principio dell'apparenza, Sez. 1, n. 02948/2015, Didone, Rv. 634382, ha negato la ricorribilità per cassazione avverso il decreto ex art. 21 l. fall. emesso – in fattispecie antecedente alle modifiche apportate dalla riforma della legge fallimentare del 2006 – dal giudice delegato anziché dal collegio, occorrendo far riferimento, ai fini dell'identificazione del mezzo d'impugnazione, al rito concretamente applicato a tutela dell'affidamento della parte. Sempre nel senso dell'inammissibilità del ricorso straordinario, Sez. L, n. 08878/2015, Ghinoy, Rv. 635354, ha affermato la non ricorribilità del decreto di omologazione del requisito sanitario ritenuto sussistente dal c.t.u. nell'accertamento tecnico preventivo, emesso ai sensi dell'art. 445 bis, c.p.c., poiché le conclusioni dell'accertamento divengono intangibili se non contestate dalle parti, nel termine fissato dal giudice ai sensi del comma 4 dello stesso articolo, prima dell'emissione del decreto. Allo stesso modo, evidenziandone il carattere non decisorio, Sez. L, n. 08932/2015, Ghinoy, Rv. 635347, ha escluso nella stessa tipologia di procedimento la ricorribilità avverso il decreto che dichiari l'inammissibilità della domanda per difetto dei relativi presupposti. Infine, sul tema della impugnabilità, Sez. 6-2, n. 06063/2015, Proto, Rv. 634864, ha affermato che può procedersi all'impugnazione cumulativa con unico ricorso avverso diverse sentenze allorchè queste, pur concernendo diversi procedimenti, rechino tuttavia la soluzione di identica questione di diritto, quale nella specie una ripetuta condotta di omessa comunicazione di dati personali e della patente del conducente ai sensi dell'art. 126 bis, cod. strada. 737 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Quanto alla decorrenza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 6-L, n. 06050/2015, Arienzo, Rv. 634849, ha affermato che, ove sulla sentenza siano apposte due date, una di deposito (senza specificazione che trattasi della minuta), e l'altra di pubblicazione, occorre avere riguardo – secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata alla luce di Corte cost. 22 gennaio 2015, n. 3 – alla seconda annotazione, cui consegue l'effettiva pubblicità della sentenza. Ancora sul termine per impugnare, Sez. L, n. 07624/2015, Amendola, Rv. 635227, ha ribadito che, ove il ricorrente abbia ottenuto dal giudice della revocazione, ex art. 398, comma 4, c.p.c., la sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione, questi ha l'onere, a pena d'inammissibilità, di indicare e provare, producendo idonea documentazione ex art. 372 c.p.c., l'istanza di sospensione, il provvedimento che la concede e la comunicazione della sentenza che provvede sulla revocazione stessa, al fine di consentire alla Corte di verificare la tempestività del ricorso. Quanto alla notificazione del ricorso a mezzo del servizio postale, Sez. 5, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610, ha ribadito che la prova del perfezionamento dev'essere data dal ricorrente entro l'udienza di discussione, non potendo essa rinviarsi affinchè egli provveda, a meno che non dimostri di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all'amministrazione postale un duplicato dell'avviso. Nello stesso senso, riguardo alla notifica del controricorso, Sez. 3, n. 07361/2015, Frasca, Rv. 634823, ha precisato che l'istanza di rimessione in termini non è suscettibile di esame da parte del collegio ove il difensore non sia comparso all'udienza ex art. 379 c.p.c., poiché l'esercizio di difesa della parte, rilevante per il dovere decisorio della Corte di cassazione, è solo quello dispiegato tramite la partecipazione all'udienza di discussione. Ancora sulla notifica, Sez. 6-3, n. 13919/2015, Frasca, Rv. 635979, ha ritenuto nulla, e non inesistente, la stessa notifica, ove eseguita presso il domicilio eletto ad un procuratore che abbia lo stesso cognome di quello indicato in sentenza, ma nome diverso, tenuto conto del fatto che l'identicità dello studio e del cognome valgono a determinare una relazione con l'intimato, con la conseguenza che può dispòrsene la rinnovazione. Sempre sul controricorso, Sez. 3, n. 24639/2015, Rubino, in corso di massimazione, ha confermato l'orientamento secondo cui il termine di venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, da individuare ai fini della tempestività della notifica del 738 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI controricorso stesso, ai sensi dell'art. 370 c.p.c., va individuato avuto riguardo al termine di perfezionamento della notifica del ricorso per il destinatario dell'atto. Relativamente all'interesse ad impugnare, Sez. 1, n. 03336/2015, Didone, Rv. 634411, ha ribadito che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, mentre può impugnare la sentenza di merito entro il termine di decadenza, non può tuttavia intervenire nel giudizio di legittimità, difettando una specifica disciplina al riguardo. Sez. L, n. 11919/2015, Tria, Rv. 635664, ha sancito l'inammissibilità per difetto d'interesse dell'impugnazione del decreto di omologa nel procedimento ex art. 445 bis c.p.c., relativamente alla compensazione delle spese, ove il ricorso, con cui si insta per il mero accertamento delle condizioni sanitarie, non abbia ad oggetto la richiesta di specifici benefici, ma sia solo prodromico alla proposizione di eventuali future domande amministrative. Sempre sul tema, per il caso in cui si verifichi, in pendenza del gravame, successione a titolo particolare nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c., Sez. 3, n. 08477/2015, Rossetti, Rv. 635079, ha affermato che ove la sentenza sia stata pronunciata nei confronti di un mandatario, munito anche di rappresentanza processuale, che abbia precisato le conclusioni nell'interesse del successore non costituitosi in giudizio, la parte soccombente non ha interesse a far valere tale vizio con l'impugnazione, atteso che essa è comunque tenuta ad eseguirla nei confronti di tutti i successori a titolo particolare dell'originario creditore. In materia di esecuzione forzata, e segnatamente di pignoramento presso terzi, Sez. 3, n. 06903/2015, Rubino, Rv. 635037, ha negato la sussistenza dell'interesse al ricorso per cassazione in capo al debitore opponente, rimasto soccombente nel giudizio instaurato ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c., nel caso in cui il giudice dell'esecuzione abbia dichiarato l'improcedibilità dell'esecuzione stessa per dichiarazione negativa del terzo, giacchè il debitore non può comunque conseguire (ove non sia stato instaurato il giudizio ex art. 548 c.p.c.) un risultato più favorevole. Ancora, Sez. L, n. 00658/2015, Amendola, Rv. 633855, ha ribadito l'inammissibilità del ricorso incidentale, per difetto d'interesse, ove esso sia proposto dalla parte totalmente vittoriosa e al solo fine di ottenere una modifica della motivazione della sentenza impugnata. 739 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 1, n. 17974/2015, Lamorgese, Rv. 636512, ha ribadito che essa spetta solo a chi formalmente abbia rivestito la qualità di parte nel precedente grado di giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, poiché con l'impugnazione si esercita non un potere sostanziale, bensì processuale. Ancora, Sez. 1, n. 03456/2015, Genovese, Rv. 635535, ha affermato che il trust non è ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che pur essendo l'unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, svolge tale ruolo non come legale rappresentante, bensì come colui che dispone del diritto. Ne consegue che la legittimazione a rilasciare la procura speciale per la proposizione del ricorso per cassazione nell'interesse di un'impresa costituita in trust spetta al legale rappresentante dell'impresa stessa. Quanto agli aspetti più strettamente procedimentali, Sez. 3, n. 14662/2015, Amendola, Rv. 636372, ha affermato che l'erronea indicazione delle generalità del ricorrente non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, purchè l'identità effettiva possa evincersi dall'intestazione della sentenza impugnata e dall'intestazione del ricorso, oltre che dalla procura speciale. Analogamente, Sez. 3, n. 21786/2015, D'Amico, in corso di massimazione, ha ribadito il superiore principio, precisando che l'omessa indicazione della residenza della persona fisica o della sede della persona giuridica, del codice fiscale o della partita IVA della parte, non implica l'inammissibilità del ricorso, a differenza di quanto avviene nel giudizio tributario, la cui disciplina speciale non è però applicabile nel giudizio di legittimità. Sez. 2, n. 07032/2015, Petitti, Rv. 634836, ha affermato che ove il difensore non domiciliato in Roma abbia chiesto, a norma dell'art. 135 disp. att. c.p.c., di ricevere le comunicazioni di cancelleria a mezzo lettera raccomandata, non è idonea la comunicazione effettuata con altra modalità (nella specie, a mezzo fax). Sez. 6-L, n. 03971/2015, Pagetta, Rv. 634622, ha ribadito che la rinuncia al ricorso per cassazione determina l'estinzione del processo anche in caso di mancanza di accettazione, poiché tale atto non ha natura "accettizia" (non necessita, cioè, di accettazione) e determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, con conseguente venir meno dell'interesse a contrastare l'impugnazione, salva la condanna del rinunciante alle spese del giudizio. 740 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI Ancora sulla rinuncia, Sez. 6-L, n. 00901/2015, Blasutto, Rv. 634070, ha affermato che non è sufficiente che essa provenga dal solo difensore, occorrendo anche la sottoscrizione della parte ad substantiam, a meno che il primo non sia munito di mandato speciale a questo effetto. Inoltre, ove essa intervenga dopo la fissazione dell'udienza pubblica o camerale e della relativa comunicazione alle parti, per Sez. 2, n. 14922/2015, Scalisi, Rv. 636024, l'estinzione del processo dev'essere dichiarata non già ai sensi dell'art. 391, comma 1, c.p.c., bensì con ordinanza collegiale ai sensi dell'art. 375, n. 3), dello stesso codice. Sono legittimati alla rinuncia a norma dell'art. 2495 c.c., secondo Sez. 6-3, n. 09828/2015, Frasca, Rv. 635399, i soci di società cancellata dal registro delle imprese, in quanto essi hanno legittimazione passiva rispetto ai crediti vantati verso la società estinta. Nel caso di procedimento camerale, ex art. 380 bis, c.p.c., Sez. 6-3, n. 06418/2015, Ambrosio, Rv. 634931, ha precisato che ove il ricorrente rinunci al ricorso, la Corte deve procedere alla declaratoria di estinzione, sebbene la relazione avesse prospettato una causa di inammissibilità. In tale ipotesi, il termine ultimo per rinunciare va individuato in quello in cui diventa preclusa alle parti ogni ulteriore attività processuale. Riguardo allo ius postulandi, Sez. 6-L, n. 02460/2015, Arienzo, Rv. 634543, ha affermato che nel giudizio di cassazione, la procura speciale al difensore può essere apposta, ai sensi dell'art. 83, comma 3, c.p.c., solo a margine o in calce al ricorso o al controricorso, ovvero (per i giudizi instaurati a far data dal 4 luglio 2009) alla memoria di nomina di nuovo difensore, sicchè, al di fuori di tali ipotesi, essa deve essere rilasciata con atto pubblico, o con scrittura privata autenticata, nella quale devono essere indicati gli elementi essenziali del giudizio, quali le parti e la sentenza impugnata. Tuttavia, Sez. 6-3, n. 01205/2015, Ambrosio, Rv. 634038, ha affermato, in linea con precedenti pronunce, che la specialità del mandato apposto a margine o in calce al ricorso può di per sé ricavarsi dalla sua collocazione (formando materialmente corpo con l'atto processuale cui accede), non occorrendo per la sua validità alcuno specifico riferimento al procedimento in corso o alla sentenza impugnata. Nello stesso senso, si segnala anche Sez. 2, n. 15538/2015, Lombardo, Rv. 636082. Infine sul punto, in relazione a giudizio instaurato prima del 4 luglio 2009, Sez. 3, n. 13329/2015, Rossetti, Rv. 635909, ha ribadito che la procura in discorso non può 741 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI essere rilasciata a margine o in calce della memoria di costituzione di nuovo difensore. Sez. L, n. 11551/2015, Doronzo, Rv. 635845, ha ribadito che, qualora il ricorso per cassazione sia stato proposto da difensore in assenza di procura speciale del soggetto nel cui interesse egli abbia dichiarato di agire, l'attività svolta non può riverberare alcun effetto su quest'ultimo, sicchè è ammissibile la condanna del legale al pagamento delle spese di lite, in proprio. In fattispecie peculiare, Sez. 3, n. 22979/2015, Carluccio, in corso di massimazione, ha negato il difetto della specialità della procura, originariamente rilasciata per la proposizione di ricorso avverso sentenza non definitiva, ove il numero della sentenza definitiva sia aggiunto successivamente, a penna, nel corpo della medesima procura, stesa a margine del ricorso per cassazione, con cui siano state impugnate entrambe le pronunce. Sempre sul tema, per il caso di pluralità di difensori, Sez. 3, n. 17292/2015, Pellecchia, Rv. 636210, ha ribadito che ove solo uno di essi sia iscritto nell'apposito albo e abbia sottoscritto l'atto, resta irrilevante che l'altro difensore sia parimenti dotato dell'iscrizione o abbia anch'egli sottoscritto l'atto stesso. Sempre in caso di pluralità di difensori, Sez. 3, n. 13314/2015, Scrima, Rv. 635917, ha precisato che ove il ricorso per cassazione sia stato notificato all'avversario con la sottoscrizione di uno solo dei due difensori, esso è validamente proposto se il mandato alle liti risulti, in chiusura, sottoscritto da entrambi i difensori, ciò sufficiente essendo per ritenere proveniente dai predetti la certificazione di autografia della sottoscrizione della parte e, quindi, sussistente l'attribuzione a ciascuno di essi di pieni poteri di rappresentanza processuale. Sez. 6-3, n. 03898/2015, Ambrosio, Rv. 634540, ha ribadito che, nel giudizio di cassazione, il decesso dell'unico difensore non determina l'interruzione del processo, ma solo faculta la Corte di differire l'udienza di discussione, per consentire alla parte di nominare nuovo difensore; tuttavia, ciò presuppone che detto decesso risulti dall'attestazione dell'ufficiale giudiziario nella relata di notifica dell'avviso di udienza e che sia mancato il tempo ragionevole, per la parte, di provvedere alla nomina di nuovo difensore. Del pari, secondo Sez. 1, n. 15566/2015, Genovese, Rv. 636537, nel caso di cancellazione del difensore dall'albo degli avvocati di appartenenza, la comunicazione dell'avviso d'udienza conseguentemente effettuata presso la cancelleria della Corte, ai sensi dell'art. 366, comma 2, ultima parte, c.p.c., è valida, 742 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI persistendo l'obbligo del professionista, in forza del mandato ricevuto, di adoperarsi diligentemente presso il proprio assistito affinchè questi si doti di nuovo difensore. Lo stesso principio deve applicarsi, secondo Sez. 6-L, n. 14901/2015, Marotta, Rv. 636241, nel caso di sospensione disciplinare a tempo indeterminato dell'unico difensore. Quanto all'elezione di domicilio, Sez. 2, n. 03224/2015, Falaschi, Rv. 634524, ha affermato che ove il difensore domiciliatario designato si sia trasferito in altra sede, senza comunicare la variazione alla cancelleria delle Corte, le comunicazioni della fissazione dell'udienza ex art. 377 c.p.c. si effettuano presso la stessa cancelleria, in applicazione del disposto dell'art. 366, comma 2, c.p.c., per il caso di mancata elezione di domicilio. In relazione al controricorso, Sez. 6-3, n. 14969/2015, Barreca, Rv. 636185, ha stabilito che è valida la sua notificazione in cancelleria, ove il ricorrente ivi abbia eletto il domicilio, senza che rilevi l'indicazione, nel ricorso, dell'indirizzo di posta elettronica certificata, poiché la notifica a tale indirizzo presuppone la mancata elezione di domicilio in Roma. Sez. L, n. 04249/2015, Doronzo, Rv. 634624, ha affermato che l'art. 366 c.p.c. si applica anche al controricorso in relazione ai requisiti di contenuto e forma, sicchè la notifica di un atto successivo che miri a colmarne le lacune è inammissibile. Ancora, Sez. 2, n. 04977/2015, Giusti, Rv. 634877, ha ribadito che in caso di notifica del ricorso per cassazione all'Avvocatura Distrettuale dello Stato, anzichè all'Avvocatura Generale dello Stato, la costituzione in giudizio del destinatario del ricorso sana, con effetto ex tunc, il vizio della notifica; tuttavia, poiché la sanatoria è contestuale alla costituzione del resistente, la notifica del controricorso deve ritenersi tempestiva ancorchè intervenuta oltre il termine di cui all'art. 370 c.p.c., non avendo tale termine iniziato il suo decorso a cagione dell'inefficacia della notifica del ricorso stesso. Relativamente all'impugnazione incidentale, Sez. L, n. 05695/2015, Doronzo, Rv. 634799, ha ribadito che – fermo il principio per cui una volta proposta impugnazione contro una sentenza, tutte le altre devono essere proposte in via incidentale, sicchè nel giudizio di cassazione esse devono proporsi in seno al controricorso – tale modalità non può considerarsi essenziale, sicchè ogni impugnazione autonomamente proposta (anche se di tipo adesivo) si converte comunque in impugnazione incidentale, la 743 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (breve o lungo) di impugnazione in astratto operativi. In continuità con l'insegnamento di Sez. U, n. 07381/2013, Rv. 625558, la recente Sez. 1, n. 04619/2015, De Marzo, Rv. 634674, ha ribadito che il ricorso incidentale della parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato indipendentemente da ogni espressa indicazione, e ciò in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, che sottende il fine primario di ottenere una pronuncia nel merito. Ne consegue che esso dev'essere esaminato con priorità solo ove le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state esaminate dal giudice di merito, in caso contrario dovendo invece procedersi al suo esame solo nel caso di fondatezza del ricorso principale. Nello stesso senso, v. anche Sez. 6-2, n. 07523/2015, Falaschi, Rv. 635045. Ancora, Sez. 1, n. 16548/2015, Rv. 636337, ha affermato che il ricorrente incidentale è esonerato dall'onere di produrre la sentenza impugnata solo se vi ha già provveduto il ricorrente principale, in caso contrario incorrendo anch'egli nell'improcedibilità del ricorso. Infine, sul tema dell'impugnazione incidentale, Sez. 3, n. 06077/2015, Rubino, Rv. 634913, ha ribadito che il ricorso incidentale tardivo, proposto oltre i termini di cui agli artt. 325, comma 2, ovvero 327, comma 1, c.p.c., è inefficace se il ricorso principale sia a sua volta inammissibile, senza che rilevi che esso è stato proposto nel rispetto del termine di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale, ex art. 371, comma 1, c.p.c. Quanto alla funzione della memoria ex art. 378 c.p.c., Sez. 6- 3, n. 03780/2015, Scarano, Rv. 634440, ha ribadito che con essa non possono sanarsi i vizi di genericità o indeterminatezza dei motivi di ricorso, potendosi solo illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi tempestivamente enunciati in ricorso, e non già integrare quelli originariamente inammissibili. Sempre riguardo alla memoria, Sez. 2, n. 18346/2015, Falaschi, Rv. 636427, ha ribadito che il termine di cinque giorni prima dell'udienza deve intendersi non "libero", operando il criterio generale di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c.. In relazione al deposito di atti, Sez. 2, n. 00870/2015, Proto, Rv. 634419, ha affermato che non sussiste l'improcedibilità del 744 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI ricorso ex art. 369 c.p.c. ove il ricorrente, depositatane una copia fotostatica priva della relata di notifica, provveda tuttavia a depositare l'originale notificato, separatamente, a norma dell'art. 372 c.p.c., entro venti giorni dall'ultima notifica, non potendo ritenersi ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità del ricorso mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso. Ancora sul deposito del ricorso, Sez. L, n. 01325/2015, Venuti, Rv. 634014, ha ribadito che l'avvenuta costituzione di controparte non sana l'omissione del ricorrente, che appunto non vi abbia provveduto, giacchè il principio di sanatoria delle nullità per raggiungimento dello scopo attiene alla violazione delle forme processuali in senso stretto e non si applica alla violazione dei termini perentori, per le quali vigono apposite e separate disposizioni. Ciò vale anche, secondo Sez. 6-3, n. 10784/2015, Ambrosio, Rv. 635446, nel caso in cui il ricorrente si sia limitato a depositare una copia del ricorso, peraltro priva della relata di notifica, a nulla rilevando che controparte abbia notificato il controricorso, senza formulare alcuna eccezione di improcedibilità. Sempre sul tema, ma riguardo alla documentazione probatoria della asserita qualità di procuratore speciale in senso sostanziale della parte ricorrente, Sez. 3, n. 16274/2015, Cirillo, Rv. 636620, ha ribadito che il ricorso va dichiarato inammissibile ove detta documentazione non venga prodotta al più tardi ai sensi dell'art. 372 c.p.c., giacchè la Corte non è messa in condizione di verificare l'esistenza e i limiti del potere rappresentativo. Riguardo all'onere di depositare la copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., Sez. 3, n. 01443/2015, Pellecchia, Rv. 634107, ha ribadito che ove il ricorrente abbia allegato (espressamente, o per implicito) che la sentenza stessa gli è stata notificata, la copia depositata deve contenere anche la relata di notifica, così da consentire alla Corte di verificare la tempestività dell'impugnazione, a tutela dell'esigenza pubblicistica del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale; in mancanza, il ricorso dev'essere dichiarato improcedibile, non potendosi in ciò ravvisare alcuna lesione del precetto di cui all'art. 24 Cost.. Ancora, Sez. 5, n. 01012/2015, Marulli, Rv. 634032, ha del pari sancito l'improcedibilità del ricorso, ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., ove la copia della sentenza prodotta sia incompleta, così restando precluso ogni accesso cognitivo alle ragioni del decisum. Né l'omesso deposito può essere superato, secondo Sez. 5, n. 745 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI 14207/2015, Botta, Rv. 635796, dalla conoscenza che della sentenza possa aversi in altro modo, per essere stata prodotta dalla controparte o per essere comunque presente nel fascicolo d'ufficio. Parimenti improcedibile è il motivo non intellegibile, secondo Sez. 6-3, n. 09262/2015, Frasca, Rv. 635237, ove nell'originale del ricorso depositato manchino una o più pagine, anche in tal caso irrilevante essendo che una copia completa sia stata prodotta dalla controparte. Riguardo alla correzione dell'errore materiale della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-3, n. 15238/2015, Frasca, Rv. 636181, ha affermato che l'omessa produzione di copia autentica della sentenza comporta l'improcedibilità del ricorso, poiché l'art. 391 bis c.p.c., rinviando agli artt. 365 e ss., richiede l'osservanza (anche) di quanto prescritto nell'art. 369, comma 2, n. 2, del medesimo codice. La procura rilasciata al difensore nel giudizio concluso con la sentenza da correggere, secondo Sez. 6-2, n. 00730/2015, Bianchini, Rv. 633895, è valida anche per il procedimento ex art. 391 bis, c.p.c., non introducendosi con la relativa istanza una autonoma fase processuale, ma un mero incidente dello stesso giudizio. Ancora, Sez. 6-2, n. 05727/2015, Falaschi, Rv. 634710, ha escluso l'istanza di correzione dell'errore materiale della sentenza impugnata possa essere avanzata col controricorso, occorrendo che essa sia proposta dinanzi al giudice di merito che l'ha pronunciata. In relazione al procedimento camerale ex art. 380 bis c.p.c., Sez. 6-2, n. 02726/2015, Giusti, Rv. 634230, ha affermato che ove non sia stato osservato il termine di venti giorni per la notifica del decreto di fissazione dell'adunanza e della relazione, la conseguente nullità resta sanata, per il principio di raggiungimento dello scopo, ove il difensore comunque compaia in camera di consiglio, discutendo dell'ammissibilità e del merito del ricorso, così dimostrando che la violazione non ha inficiato la possibilità di adeguatamente esplicare le proprie facoltà difensive nell'interesse della parte assistita. In relazione alle conclusioni del P.M., Sez. 3, n. 08000/2015, Barreca, Rv. 635100, ha precisato che la facoltà delle parti di presentare brevi osservazioni per iscritto, onde replicarvi, ai sensi dell'art. 379, comma 4, c.p.c., può essere esercitata solo dal difensore che abbia preso parte all'udienza di discussione ed in occasione della stessa, onde consentire alle altre parti di averne conoscenza, sicchè è inammissibile il deposito successivo, in 746 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI cancelleria, di osservazioni recanti la dizione "note scritte ex art. 379 c.p.c.". Sul tema della produzione di nuovi documenti, è significativa Sez. 5, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634957, che ne ha ritenuto l'ammissibilità in sede di legittimità, quand'anche formatisi in epoca antecedente alla proposizione del ricorso, ove la necessità della loro produzione derivi da un mutamento della giurisprudenza sovranazionale affermatosi in epoca successiva. Sempre sulla produzione documentale, Sez. L, n. 04350/2015, Lorito, Rv. 634586, ha affermato che l'onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda, imposto a pena di improcedibilità dall'art. 369, comma 2, n. 4), c.p.c., può ritenersi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, insufficiente essendo a tal fine il mero richiamo, in calce al ricorso, all'intero fascicolo di parte nel giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell'elenco degli atti. Sullo stesso tema, in ambito di regolamento preventivo di giurisdizione, Sez. U, n. 06496/2015, Giusti, Rv. 634862, ha escluso doversi dichiarare l'improcedibilità ove il ricorrente non abbia depositato un documento richiamato nel ricorso e tale atto sia irrilevante ai fini della decisione. Circa i requisiti di forma e contenuto del ricorso, Sez. 6-3, n. 01926/2015, Frasca, Rv. 634266 ha ribadito che, onde soddisfare il requisito di cui all'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., il ricorso deve contenere una esauriente e chiara esposizione, seppur non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, in modo da far risultare le pretese delle parti, con gli elementi di fatto e le ragioni di diritto su cui si fondano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte, lo svolgersi delle vicende processuali nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si chiede alla Corte una diversa valutazione. Ancora, Sez. 6-3, n. 02527/2015, Amendola, Rv. 634245, ha ribadito che la tecnica del cd. "assemblaggio", mediante la quale il ricorrente, anziché procedere all'esposizione sommaria dei fatti di causa prevista dall'art. 366, comma 1, n. 3), c.p.c., riproduca pedissequamente gli atti di causa e la sentenza impugnata, mediante "spillatura", cartacea o elettronica che sia, viola la ratio della predetta norma, costringendo la Corte ad un esame "indaginoso" per l'individuazione e la selezione delle questioni ancora controverse, sicchè essa comporta l'inammissibilità del ricorso. Nello stesso 747 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI senso, si segnala Sez. 5, n. 18363/2015, Bielli, Rv. 636551, secondo cui tale tecnica comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, a meno che l'insieme dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dal ricorso, così potendosene valutare l'autosufficienza alla luce degli ordinari criteri di valutazione relativi ai singoli motivi. Quanto al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene la fonte normativa nell'art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., vanno segnalate numerose pronunce. Così, Sez. 2, n. 04365/2015, Mazzacane, Rv. 634720, ha ribadito che ove il ricorrente si dolga del fatto che il giudice di merito non abbia erroneamente ammesso il giuramento decisorio, egli ha l'onere di indicare specificamente il contenuto della formula del giuramento stesso, onde consentire la valutazione delle questioni da risolvere e della sua decisività, non potendo sopperirsi alle lacune del ricorso mediante indagini integrative. Sez. 1, n. 16900/2015, Sambito, Rv. 636324, ha poi affermato che l'onere di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza, in ossequio al principio di autosufficienza, si assolve mediante indicazione della sede in cui essi sono rinvenibili (fascicolo d'ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, così come pervenuta alla Corte di cassazione, così da renderne possibile l'esame. Ancora, Sez. 2, n. 17049/2015, Lombardo, Rv. 636133, ha ribadito che ove il ricorrente lamenti la mancata pronuncia del giudice d'appello su uno o più motivi di gravame, il requisito dell'autosufficienza resta violato ove nel ricorso non si riportino integralmente i motivi stessi, in modo da consentire alla Corte di verificare che le questioni non siano "nuove" e di valutarne la fondatezza, senza dover procedere all'esame dei fascicoli d'ufficio o di parte. In tema di contenzioso tributario, Sez. 5, n. 02928/2015, Meloni, Rv. 634343, ha sancito l'inammissibilità del ricorso, per difetto del requisito in discorso, avverso la sentenza che abbia ritenuto correttamente motivato l'atto impositivo, ove il ricorrente non abbia riportato la motivazione di quest'ultimo, così precludendo alla Corte ogni valutazione. Analogamente, Sez. 5, n. 16010/2015, Bruschetta, Rv. 636268, ha sancito l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia ritenuto legittima una cartella di pagamento, ove sia stata omessa la 748 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI trascrizione del contenuto dell'atto impugnato, così non potendo il giudice di legittimità verificare la corrispondenza tra contenuto dello stesso e quanto asserito dal contribuente. Ancora, Sez. 5, n. 14784/2015, Marulli, Rv. 636120, ha del pari evidenziato che il ricorrente, onde rispettare il principio dell'autosufficienza, deve indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda mediante riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso, con specificazione della parte del documento cui corrisponde l'indiretta riproduzione. Quanto ai poteri della Corte di cassazione, Sez. L, n. 04676/2015, Manna, Rv. 634811, ha ribadito che lo ius superveniens (nella specie, comportante un maggior credito risarcitorio per il lavoratore) è applicabile, anche d'ufficio, in sede di legittimità, a condizione che non rechi una reformatio in peius per il ricorrente, stante il principio dispositivo (art. 112 c.p.c.) e quello dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.). Sez. 5, n. 02180/2015, Cirillo, Rv. 634724, ha affermato che la Corte, quando decide nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., può anche affrontare la questione rimasta assorbita in appello, purchè essa sia stata riproposta con un ricorso incidentale ritualmente azionato. Ancora sul tema, Sez. 2, n. 04975/2015, Matera, Rv. 635071, ha ribadito che la cassazione "sostitutiva", con pronuncia nel merito, è ammessa solo quando la controversia possa essere dcisa sulla base dei medesimi elementi di fatto che costituiscono il presupposto dell'erronea pronuncia in diritto, e non anche quando, per effetto della cassazione, si renda necessario decidere questioni non esaminate nella pregressa fase processuale con una decisione che, non valendo a sostituirne altra precedente, si configura come ulteriore rispetto a quella cassata. In tema di questioni di giurisdizione, Sez. U, n. 08074/2015, D'Ascola, Rv. 634938, ha ribadito che le Sezioni Unite sono anche giudice del fatto, sicchè devono esaminare l'atto negoziale la cui valutazione incida sulla determinazione della giurisdizione. La recente Sez. L, n. 21439/2015, Roselli, Rv. 637497, ha poi ribadito che, nel giudizio di legittimità, è precluso alla Corte il potere di accertare i fatti o anche solo la loro valutazione a fini istruttori, come anche dimostrato dall'intervento normativo più volte evidenziato circa la sindacabilità della motivazione. 749 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI In relazione agli effetti della cassazione, Sez. 3, n. 17213/2015, Frasca, Rv. 636436, ha ribadito risalente orientamento, secondo cui, in caso di cassazione della sentenza non definitiva, il giudizio di legittimità instaurato nelle more avverso la sentenza definitiva comporta, ove la prima statuizione abbia carattere pregiudiziale, l'automatica caducazione di quest'ultima, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione pendente, svuotatosi di contenuto e di interesse. Nel solco di Sez. U, n. 19980/2014, Rv. 632162, in ordine alla natura del termine per la proposizione della istanza di fissazione della udienza di cui all'art. 391, comma 3, c.p.c., la successiva Sez. 5, n. 16625/2015, Iofrida, Rv. 636311, ha ribadito che il decreto di cui all'art. 391, comma 1, c.p.c. ha la medesima funzione e il medesimo effetto (di attestazione che il processo di cassazione deve chiudersi perché si è verificato un fenomeno estintivo) che l'ordinamento processuale riconosce alla sentenza (o all'ordinanza) da adottare ove l'evento estintivo non coinvolga la controversia nella sua interezza, con la differenza che, mentre nei confronti dei detti provvedimenti è ammessa la revocazione ex art. 391 bis c.p.c., avverso il decreto presidenziale l'art. 391, comma 3, c.p.c., prevede solo un'istanza di fissazione di udienza collegiale per la trattazione del ricorso, da depositarsi nel termine, da ritenersi perentorio, salva la generale possibilità di rimessione in termini prevista dall'art. 153, comma 2, c.p.c., di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo rechi o meno una pronuncia sulle spese. Un cospicuo numero di pronunce hanno riguardato il tema dei vizi denunciabili col ricorso. Anzitutto, deve segnalarsi Sez. U, n. 09100/2015, Rordorf, Rv. 635452, che ha affermato che il fatto che con un unico motivo di ricorso si articolino più profili di doglianza, ciascuno dei quali idoneo ad essere prospettato come motivo autonomo, non implica l'inammissibilità dell'impugnazione, sufficiente essendo che la sua formulazione permetta alla parte di coglierne chiaramente il contenuto onde consentirne la confutazione analitica, alla stessa stregua di quanto avrebbe potuto fare se essi fossero stati enumerati singolarmente. Anche Sez. L, n. 25386/2015, Esposito, in corso di massimazione, in linea con l'orientamento "sostanzialista", ha affermato che, ove col ricorso sia denunciato vizio di motivazione ai sensi del art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nella specie, nel testo previgente), ma dal ricorso stesso sia chiaramente evincibile che si 750 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI lamenti un vizio di omessa pronuncia, denunciabile ai sensi del n. 4 dell'articolo citato (nella specie, per mancata considerazione di un secondo contratto a termine in essere tra le parti, come da domanda originaria), nulla osta a siffatta riqualificazione della sussunzione, e ciò anche alla luce del principio iura novit curia, recepito nell'art. 113 c.p.c., nonché di quello, di derivazione sovranazionale, della cd. "effettività" della tutela giurisdizionale (insito nel diritto al giusto processo, sancito dall'art. 111 Cost.), come anche elaborato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., Sez. 6-L, n. 02150/2015, Arienzo, Rv. 634520, ha affermato che, ove il ricorrente impugni decisione di appello emessa a seguito di pregressa cassazione con rinvio affinchè il giudice del merito valuti i i profili risarcitori, qualora il giudice di rinvio abbia ritenuto preclusivo dell'esame demandatogli la sussistenza di giudicato interno, il preteso vizio della sentenza impugnata dev'essere fatto valere come omissione di pronuncia per violazione dell'art. 112 c.p.c. ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., e non già del n. 3), sicchè il ricorso così proposto va dichiarato inammissibile. Ancora, Sez. 6-5, n. 00635/2015, Caracciolo, Rv. 634359, ha ribadito che la denuncia della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che in tesi inficia la sentenza impugnata, postula, pena l'inammissibilità, che vengano puntualmente indicate le norme asseritamente violate, ma anche che vengano rese specifiche argomentazioni tese a dimostrare in qual modo le affermazioni in diritto contenute nella sentenza stessa si pongano in contrasto con le norme che regolano la fattispecie o con l'interpretazione propugnata dalla dottrina o dalla prevalente giurisprudenza di legittimità. Così, Sez. 3, n. 06902/2015, Pellecchia, Rv. 634989, ha ribadito che è onere del ricorrente indicare con specificità e completezza quale sia il vizio da cui si assume essere affetta la sentenza impugnata, sicchè è inammissibile il motivo di ricorso col quale il ricorrente lamenti la violazione di una serie di norme sostanziali "in relazione all'art. 360, comma 1, c.p.c.", senza precisare se intenda censurare la sentenza per motivi attinenti la giurisdizione o la competenza, per violazione di norme di diritto o per nullità del procedimento. In linea con l'insegnamento di Sez. U, n. 17931/2013, la successiva Sez. 6-3, n. 19124/2015, Barreca, Rv. 636722, ha ribadito che ove col ricorso sia denunciata puramente e semplicemente 751 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI "violazione e falsa applicazione di norme di diritto" ai sensi dell'art. 112 c.p.c., il ricorso è inammissibile, poiché il ricorrente non ha fatto alcun riferimento alle conseguenze che l'errore sulla legge processuale ha comportato, ossia la nullità della sentenza e/o del procedimento, insufficiente essendo la sola argomentazione sulle pretesa violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Ancora, Sez. 6-2, n. 16644/2015, Giusti, Rv. 636168, ha ribadito che non può denunciarsi in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1), n. 3), c.p.c., la violazione di circolari della P.A., trattandosi di atti interni privi di valenza normativa. Sotto altro profilo, Sez. 1, n. 13086/2015, Nappi, Rv. 635730, ha ribadito che, quando si discuta della corretta interpretazione di norma di diritto, il giudizio del giudice di merito può risultare incensurabile anche se mal giustificato, poiché la decisione erroneamente motivata in diritto non è soggetta a cassazione, ma a correzione della motivazione, ex art. 384, comma 4, c.p.c., quando il dispositivo sia comunque corretto. Sez. 6-L, n. 07941/2015, Fernandes, Rv. 635159, ha ribadito che quando si assuma che la sentenza di secondo grado, impugnata con ricorso ordinario per cassazione per "violazione di legge", è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti del processo, il ricorso è inammissibile, essendo denunziato un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall'art. 395 c.p.c., non potendo trasformarsi un errore revocatorio in errore di diritto. In relazione all'error in procedendo, denunciabile a norma dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., Sez. 5, n. 19410/2015, Iofrida, Rv. 636606, ha ribadito che la denuncia di tale vizio faculta la Corte ad esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito, ma presuppone pur sempre che il ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti gli atti e i documenti sui quali esso si fonda, al fine di individuare esattamente in che termini si ponga il vizio processuale, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo del regolare svolgimento del processo, senza procedere a verifiche generalizzate. Ancora, sullo stesso tema, Sez. 1, n. 16164/2015, Nappi, Rv. 636503, ha precisato che in tal caso la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, sicchè può accedere direttamente agli atti sui quali il ricorso è fondato e interpretare direttamente l'atto processuale (nella specie, atto d'appello, di cui era stata denunciata l'omessa 752 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI pronuncia su un motivo), indipendentemente dalla motivazione esibita al riguardo. La già citata Sez. 3, n. 22978/2015, Frasca, in corso di massimazione, ha affermato che «una nullità per inosservanza delle forme processuali e, dunque, una violazione di norma del procedimento, qualora si sia verificata, può essere apprezzata ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c. come idoneo motivo di ricorso per cassazione solo se risulti che, qualora non si fosse verificata e la forma processuale prescritta fosse stata osservata, la decisione di merito non avrebbe potuto essere resa nel senso in cui lo è stata.». In relazione al vizio di motivazione (avuto riguardo all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nel testo ante riforma), Sez. 1, n. 03270/2015, Di Virgilio, Rv. 634408, ha ribadito che il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il decisum adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria quando, dalla lettura della sentenza, non sussista alcuna incertezza su quella che è stata la volontà del giudice. In applicazione del medesimo principio, Sez. 3, n. 13318/2015, Vivaldi, Rv. 635910, ha escluso sussistere contraddittorietà della motivazione laddove il giudice d'appello, dopo aver affermato l'infondatezza del gravame, lo abbia parzialmente accolto, giacchè la lettura della sentenza, nella specie, non lasciava alcun dubbio sull'effettiva volontà del giudicante. Sez. 6-5, n. 01414/2015, Di Blasi, Rv. 634358, ha ribadito che spetta al giudice del merito la valutazione degli elementi probatori, che non può essere sindacata in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione. Ancora, Sez. L, n. 00066/2015, Manna, Rv. 634076, ha affermato che la mancata ammissione di prova testimoniale può essere denunciata in sede di legittimità per vizio di motivazione, in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere. Con specifico riferimento al testo della norma in dicorso come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis, Sez. 3, n. 17037/2015, Frasca, Rv. 636317, ha affermato che il riferimento al «fatto controverso e decisivo per il giudizio» implicava che la motivazione della "quaestio facti" fosse affetta non da mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, bensì da vera e propria insostenibilità logica della motivazione. Ancora, Sez. 1, n. 10749/2015, Genovese, Rv. 635564, ha affermato che, ove il ricorrente abbia denunciato il travisamento della prova, la struttura del ragionamento del giudice del merito può 753 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI essere travolta solo dall'elemento probatorio che sia stato ritualmente acquisito e non valutato, poiché il travisamento implica non già un'erronea valutazione dei fatti, ma la constatazione che quell'elemento probatorio utilizzato dal giudice in sentenza è specificamente contraddetto da uno specifico atto processuale. Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), Sez. U, n. 10453/2015, Chiarini, Rv. 635453, ha precisato che, alla luce dell'indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 7607 del 2010 delle Sezioni Unite, secondo cui il termine breve per impugnare le sentenze del Tribunale regionale delle acque pubbliche decorre dalla notifica della copia integrale del dispositivo, senza dover attendere la previa registrazione della sentenza (come invece richiesto dal precedente indirizzo), deve ritenersi comunque tempestivamente proposto il ricorso, entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., allorquando la notifica sia intervenuta prima del detto mutamento di giurisprudenza. Relativamente al regime delle spese, Sez. 3, n. 00817/2015, Rossetti, Rv. 634642, in controversia introdotta in primo grado in epoca antecedente al 4 luglio 2009, ha affermato che nel giudizio di cassazione si configura un'ipotesi di colpa grave, tale da legittimare l'irrogazione dell'ulteriore somma di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis), quando la parte abbia agito o resistito con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, o comunque senza aver adoperato la normale diligenza (nella specie, i ricorrenti soccombenti pretendevano di ricondurre alla simulazione del contratto l'ipotesi di contrasto tra la sua qualificazione formale e la volontà delle parti). Nello stesso senso si pone la successiva Sez. 3, n. 04930/2015, Rossetti, Rv. 634773, che ha precisato che sostenere una tesi palesemente infondata ha il significato di non intelligere quod omnes intelligunt. Sempre sul tema delle spese, ma avuto riguardo al regime introdotto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, Sez. 6-2, n. 13636/2015, Giusti, Rv. 635682, ha affermato che la "ratio" della norma, che pone a carico del ricorrente rimasto soccombente l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, va individuata nella finalità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, sicchè tale meccanismo sanzionatorio si applica per l'inammissibilità originaria del gravame (nella specie, ricorso per cassazione) ma non per quella sopravvenuta (nella specie, per sopravvenuto difetto di interesse). 754 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI La successiva Sez. 6-3, n. 14515/2015, Carluccio, Rv. 636018, ha precisato che il predetto obbligo di versamento si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dovendosi aver riguardo al momento in cui la notifica del ricorso per cassazione si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario, sicchè, in caso di ricorso per cassazione indirizzato a due intimati, è sufficiente, ad escludere l'applicabilità del doppio contributo, che la ricezione dell'atto sia avvenuta anche per solo uno di essi, in data anteriore al 30 gennaio, posto che la notifica del ricorso ad una delle parti è condotta già sufficiente per l'instaurazione del procedimento dinanzi alla Corte. Relativamente al giudizio di rinvio, Sez. 6-2, n. 04290/2015, Manna, Rv. 634729, ha affermato che nell'ipotesi di rinvio cd. improprio (o restitutorio) da parte della Corte di cassazione, il giudice di rinvio – non essendosi dapprima pronunciato sul merito della controversia – può esaminare tutte le questioni ritualmente proposte, ove non correlate al principio di diritto enunciato e agli effetti che da questo conseguono sulla decisione impugnata. Nello stesso senso, la recentissima Sez. 3, n. 24336/2015, Pellecchia, (in corso di massimazione), nel richiamarsi ad un orientamento risalente, ha precisato che la contumacia del convenuto nel giudizio di rinvio non preclude l'esame delle eccezioni tempestivamente sollevate (e riproposte in appello), in quanto la contumacia non implica rinuncia alle eccezioni stesse, persistendo anzi il dovere del giudice del rinvio di pronunciare su di esse, ove in precedenza la relativa pronuncia sia rimasta assorbita. Con specifico riferimento al rito del lavoro, Sez. L, n. 04979/2015, Maisano, Rv. 634609, ha affermato che l'eccezione di estinzione per tardiva riassunzione dinanzi al giudice del rinvio va sollevata in sede di costituzione prima dell'udienza di discussione ex art. 416 c.p.c., così dovendo intendersi la locuzione «prima di ogni difesa», anche alla luce del principio di ragionevole durata del processo. Sotto altro profilo, sez. 6-L, n. 01995/2015, Pagetta, Rv. 634291, ha ribadito che l'efficacia vincolante della sentenza di cassazione con rinvio presuppone la permanenza della disciplina normativa in virtù della quale è stato affermato il principio di diritto, sicchè, in caso di sua successiva abrogazione o modifica per effetto di ius superveniens, detta efficacia viene meno. Sempre sull'efficacia vincolante della sentenza di cassazione, Sez. 1, n. 16171/2015, Nappi, Rv. 636345, ha ribadito che essa 755 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI preclude la rilevabilità del giudicato (sia interno che esterno) ove detta questione sia con essa incompatibile. Sotto connessa ma diversa angolazione, Sez. 6-5, n. 18600/2015, Rv. 636302, ha ribadito la natura di "processo chiuso" del giudizio di rinvio, con la conseguenza che le parti non possono avanzare richieste diverse da quelle già prese, né formulare difese che, per la loro novità, alterino il thema decidendum ovvero evidenziano un fatto ex lege ostativo all'accoglibilità dell'avversa pretesa, la cui affermazione sia in contrasto con il giudicato implicito ed interno, sì da porre nel nulla gli effetti intangibili della sentenza di cassazione ed il principio di diritto in essa affermato non in via astratta, ma ai fini della decisione del caso concreto. Ancora riguardo al rito del lavoro, Sez. 6-L, n. 02729/2015, Garri, Rv. 634287, ha affermato che anche in sede di rinvio è possibile produrre nuovi documenti, in deroga al divieto ex art. 437 c.p.c., se sussista l'indispensabilità ai fini della decisione della causa. Quanto al regime delle spese giudiziali, Sez. 3, n. 15868/2015, Cirillo, Rv. 636370, ha affermato che la parte che, dopo essere rimasta soccombente nei due gradi di giudizio, resti vittoriosa all'esito del giudizio di rinvio, ha diritto alla rifusione delle spese non solo per quest'ultimo e per quello di legittimità, ma anche per i due precedenti giudizi di merito, sempre che ne abbia fatto richiesta. Sez. 3, n. 07710/2015, Spirito, Rv. 635098, ha poi negato l'ammissibilità dell'intervento volontario nel giudizio di rinvio, ove il terzo non versi in una delle ipotesi di cui all'art. 404 c.p.c.. Nello stesso senso, riguardo a giudizio di rinvio conseguente ad annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, Sez. 3, n. 07175/2015, Travaglino, Rv. 635029, ha ribadito che deve escludersi l'ammissibilità dell'intervento del terzo che sia rimasto estraneo dal processo penale, se non nei limiti in cui egli deduca la titolarità di un diritto autonomo, tale da legittimare la proposizione di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. 6. Revocazione. Riguardo ai rapporti tra giudizio di cassazione e quello di revocazione avverso la stessa sentenza, secondo Sez. 3, n. 03362/2015, Scarano, Rv. 634644, la riattivazione del primo – sospeso in pendenza del secondo – non necessita di istanza di riassunzione ex art. 297 c.p.c., poiché il giudizio di cassazione è dominato dall'impulso d'ufficio, il cui concreto esercizio può essere sollecitato dalla parte interessata anche con una mera segnalazione informale della cessazione della causa di sospensione. 756 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI In relazione al caso di contemporanea pendenza di due ricorsi per cassazione avverso la sentenza di merito in grado d'appello e contro quella pronunciata dallo stesso giudice d'appello nel successivo giudizio di revocazione, Sez. 3, n. 10534/2015, Ambrosio, Rv. 635610, ha statuito che essi devono essere riuniti in applicazione analogica dell'art. 335 c.p.c., stante la connessione esistente tra le due pronunce. Circa la proposizione della domanda di revocazione, Sez. 5, n. 01554/2015, Greco, Rv. 634616, ha confermato pacifico orientamento secondo cui l'espressione «stesso giudice», di cui all'art. 398, comma 1, c.p.c., designa lo stesso ufficio giudiziario e non già le stesse persone fisiche autrici della sentenza revocanda, e neanche la stessa sezione. Riguardo ai singoli motivi di revocazione, la già citata Sez. 3, n. 03362/2015, Scarano, Rv. 634645, ha ribadito che l'ipotesi di cui all'art. 395, n. 3), c.p.c., presuppone la preesistenza del documento rispetto alla decisione impugnata, ossia che esso sia stato recuperato solo in epoca successiva, irrilevante essendo che il documento stesso faccia riferimento a fatti antecedenti alla sentenza, sicchè l'ipotesi di revocazione in discorso non può utilmente essere invocata nel caso in cui il documento sia di formazione ad essa successiva. Ancora, circa l'errore di fatto, Sez. 6-5, n. 00321/2015, Cosentino, Rv. 634143, ha ribadito che esso deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti, ossia in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di immediatezza e rilevabilità, dovendo escludersi ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali e, quindi, come nella specie, la denunciabilità della erronea presupposizione dell'inesistenza di un giudicato. Sez. L, n. 00156/2015, D'Antonio, Rv. 633849, ha poi escluso che il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale ex art. 409 c.p.p., per la sua natura di atto giudiziale non definitivo, possa integrare accertamento di falsità di una prova che possa dar luogo a revocazione ex art. 395, n. 2), c.p.c.. Per quanto concerne, infine, la revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-5, n. 04456/2015, Iacobellis, Rv. 634487, ha precisato che l'errore di fatto che può legittimarne la proposizione, ai sensi dell'art. 395, n. 4), c.p.c., deve presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività, e deve concernere gli atti "interni" al giudizio dinanzi alla stessa Corte svolto, ossia quelli che 757 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI essa esamina direttamente nell'ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d'ufficio. Così, Sez. 6-3, n. 12655/2015, Amendola, Rv. 635883, ha negato sussistere i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività del preteso errore nella circostanza che la Corte non abbia tenuto conto, nella decisione, di una tabella in fieri del Tribunale di Milano in tema di danno biologico, pur richiamata dalla parte, trattandosi di una tabella ancora inesistente. Ancora, Sez. 6-3, n. 10517/2015, De Stefano, Rv. 635606, ha rilevato che ove la Corte abbia dichiarato l'improcedibilità del ricorso per carenza della copia notificata della sentenza impugnata, la prova della sua presenza nel fascicolo può essere data dimostrando l'epressa menzione dell'atto nel ricorso notificato, ovvero sulla base di altri elementi, a condizione che questi non rientrino nell'esclusiva disponibilità della parte che sia onerata della relativa prova e, quindi, diversi dall'indice di deposito degli atti vistato dalla cancelleria. Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 15608/2015, De Stefano, Rv. 636653, ha precisato che la pretermissione di una doglianza di giudicato esterno, intervenuto dopo la proposizione del ricorso ma denunciato in seno alla memoria ex art. 378 c.p.c. costituisce vizio revocatorio ai sensi dell'art. 395, n. 4), c.p.c.. Del pari, per Sez. 5, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636612, costituisce errore revocatorio l'aver omesso la Corte di cassazione di esaminare un motivo con cui si denuncia la mancata valutazione di una doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa. Analogamente, per Sez. L, n. 14420/2015, Nobile, Rv. 636456, la decisione della Corte di cassazione che si fondi sull'asserita mancanza della notifica del ricorso è affetta da vizio revocatorio ove detta notifica risulti invece dagli atti. Non costituisce invece vizio denunciabile ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c., secondo Sez. 6-5, n. 06669/2015, Iacobellis, Rv. 635197, l'accertamento circa l'esistenza di overruling, trattandosi di tipica valutazione di diritto;né tantomeno è ammissibile il ricorso per cassazione per revocazione, proposto ai sensi degli artt. 395, n. 4, e 391 bis c.p.c., avverso sentenza di cassazione con rinvio, giacchè ogni errore revocatorio può essere fatto valere nel giudizio di rinvio (in tal senso, nel solco di consolidato orientamento, Sez. 6-3, n. 20393/2015, De Stefano, Rv. 637491). Sez. 6-3, n. 23832/2015, De Stefano, in corso di massimazione, ha poi ribadito che la mancata notifica dell'avviso di fissazione di udienza ai sensi dell'art. 377 c.p.c. non costituisce vizio revocatorio denunciabile ex artt. 395, n. 758 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI 4, e 391 bis c.p.c., giacchè, pur trattandosi di error in procedendo, la mancata conseguente partecipazione all'udienza da parte del difensore non può eziologicamente ricollegarsi al contenuto della sentenza. Ancora, sull'argomento, in tema di contenuto-forma del ricorso, vanno segnalate Sez. 1, n. 16224/2015, Bisogni, Rv. 636338, che ha ribadito come il ricorso per revocazione ex art. 391 bis c.p.c. debba essere sottoscritto da difensore minuto di procura speciale, inutilizzabile essendo a tal fine quella rilasciata per il prededente ricorso per cassazione, nonché Sez. U, n. 13863/2015, D'Ascola, Rv. 635785, che ha confermato precedente orientamento secondo cui detto ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo della revocazione e l'esposizione dei fatti di causa rilevanti, come rispettivamente previsto dagli artt. 398, comma 2, e 366, n. 3), c.p.c. Infine, Sez. U, n. 23833/2015, Di Iasi, in corso di massimazione, ha escluso che col ricorso per revocazione possa denunciarsi il vizio di cui all'art. 395, n. 5, c.p.c., quand'anche la sentenza sia stata resa ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., il vizio di violazione di giudicato non essendo denunciabile, relativamente alla revocazione delle sentenza della Suprema Corte, per consapevole scelta del legislatore. 7. Le altre impugnazioni. Un breve cenno, infine, meritano alcune pronunce concernenti altri mezzi di impugnazione. Anzitutto, in tema di opposizione di terzo, Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634087, ha affermato che «Il litisconsorte necessario pretermesso (come anche il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile, il falsamente rappresentato e il titolare di status incompatibile con quello accertato tra altre parti), che ai sensi dell'art. 404 c.p.c. è ammesso all'opposizione ordinaria avverso la sentenza resa in un giudizio inter alios, può anche proporre una azione di accertamento autonoma della sua posizione, ma, sino al passaggio in giudicato della sentenza che riconosca la situazione come da lui dedotta, gli è preclusa ogni tutela, anche cautelare, avverso l'efficacia esecutiva o gli affetti esecutivi o accertativi derivanti dalla sentenza inter alios non opposta». Con specifico riferimento alla opposizione di terzo cd. revocatoria, la recentissima Sez. 3, n. 24631/2015, D'Amico, in corso di massimazione, ha ribadito che «La sentenza che accoglie l'opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, secondo comma, c.p.c., proposta da un avente causa o da un creditore di una delle parti avverso la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva (ovvero il decreto ingiuntivo divenuto 759 CAP. XXXVII - LE IMPUGNAZIONI esecutivo ai sensi dell'art. 647 c. p.c.), quando sia l'effetto di dolo o collusione a suo danno (e quindi pregiudichi un suo diritto o, comunque, una sua situazione giuridica favorevole), non comporta l'inefficacia del precedente giudicato opposto, nei soli confronti del terzo opponente, mantenendolo fermo nel rapporto tra le parti originarie, bensì la totale eliminazione della sentenza (o del decreto) passata in giudicato nei confronti delle parti del processo originario, con effetto riflesso e consequenziale nei confronti del terzo opponente». Infine, Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347, ha ribadito che il principio secondo cui la sentenza che abbia statuito solo sulla competenza dev'essere impugnata col regolamento necessario di competenza si estende anche alle questioni circa l'ammissibilità e la tempestività dell'eccezione di incompetenza, o sul tempestivo rilievo d'ufficio della medesima. 760 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE CAPITOLO XXXVIII IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE (di Giovanni Fanticini e Milena d'Oriano)6 SOMMARIO: 1. Questioni di giurisdizione. – 2. Questioni di competenza. – 3. Varie questioni di rito. – 3.1. Presupposti processuali. – 3.2. Thema decidendum. – 3.3. Mezzi istruttori. – 3.4. Inattività delle parti. – 3.5. Decisione e giudicato. – 4. Il processo in primo grado. – 5. Le impugnazioni. – 6. L'impugnazione dei licenziamenti e il cd. rito Fornero. – 7. Profili specifici del processo in materia di previdenza. – 7.1. La competenza territoriale. – 7.2. La consulenza tecnica. – 7.3. I mezzi di prova. – 7.4. Il regime delle spese.- 7.5. L'accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c. 1. Questioni di giurisdizione. Le pronunce in tema di giurisdizione attengono prevalentemente al riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo o contabile su vicende riguardanti il lavoro pubblico contrattualizzato e le pensioni dei pubblici dipendenti. È stata data ulteriore conferma al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui – una volta stabilito che con la data del 30 giugno 1998 coincide il discrimine temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria (art. 45, comma 17, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi trasfuso nell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) – la giurisdizione spetta, di regola, al giudice ordinario, per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo alla predetta data o che parzialmente investa anche il periodo precedente qualora «risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio» e, in via di eccezione, al giudice amministrativo, per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta (Sez. U, n. 23459/2015, Napoletano, in corso di massimazione; in precedenza; Sez. U, n. 20726/2012, Amoroso, Rv. 624043). Pertanto, per effettuare il corretto riparto di competenza giurisdizionale occorre individuare il momento storico in cui si sono verificati i fatti materiali e/o le circostanze giuridicamente rilevanti dedotte nella controversia e accertare se gli stessi integrino una «fattispecie unitaria» (come avviene – secondo Sez. U, n. 23459/2015, Napoletano, in corso di massimazione – quando la causa ha ad oggetto la spettanza della retribuzione ex art. 2126 c.c. per un rapporto di lavoro pubblico svolto "a cavallo" del 30 giugno 1998). 6 Giovanni Fanticini ha redatto i paragrafi da 1 a 6; Milena d'Oriano il paragrafo 7 761 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE Diversamente, la domanda di condanna dell'ente pubblico al risarcimento del danno conseguente alla mancata integrazione del trattamento previdenziale liquidato all'atto della cessazione del rapporto (quest'ultima anteriore al 30 giugno 1998 e, quindi, inerente a rapporto integralmente esaurito nel periodo pregresso) – in quanto attinente all'omesso versamento nell'ambito di una forma di previdenza interna a carattere aziendale – può solo genericamente e latamente definirsi "previdenziale" (in relazione alla sua funzione), trattandosi in realtà di un «accantonamento di una parte della retribuzione a fini previdenziali»; la diversa natura della contribuzione de qua rispetto a quella dei contributi previdenziali obbligatori e la stretta relazione tra la prestazione retributiva e il rapporto di impiego determinano la devoluzione della controversia – avente ad oggetto situazioni giuridiche soggettive interamente maturate prima del 30 giugno 1998 – al giudice del rapporto e, cioè al giudice amministrativo (Sez. U, n. 10183/2015, Napoletano, Rv. 635333; del tutto analogo è il precedente di Sez. U, n. 21554/2009, Morcavallo, Rv. 609707). La pronuncia precisa altresì che solo quando la prestazione è dovuta da un ente preposto alla previdenza obbligatoria nell'ambito di un rapporto previdenziale – che trova fonte esclusiva nella legge e ha causa, soggetti e contenuto diversi rispetto al rapporto di lavoro (il quale è mero presupposto di fatto del rapporto previdenziale) – la giurisdizione spetta al giudice ordinario anche quando il lavoratore sia un pubblico impiegato, salvo il caso di giurisdizione della Corte dei conti. In base ai medesimi criteri di ripartizione – e, cioè, alla collocazione della vicenda concretamente analizzata nel «periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998» o in quello antecedente – è stata riconosciuta, invece, la giurisdizione ordinaria relativamente alla domanda giudiziale di accertamento del diritto al riscatto degli anni universitari per fini pensionistici, sebbene l'istanza amministrativa risalisse a prima del 30 giugno 1998: a tale data «la "questione" relativa alla sussistenza del diritto in questione era "aperta" ... in quanto erano state formulate istanze ma l'amministrazione non si era ancora espressa con un provvedimento di accoglimento o di rigetto, né erano scaduti termini collegati ad un possibile silenzio rigetto», dato che la richiesta della lavoratrice era stata smarrita dalla P.A. e quest'ultima l'aveva respinta soltanto nel 2001 (Sez. U, n. 08069/2015, Curzio, Rv. 635082). In conformità con altre pronunce (Sez. U, n. 10509/2010, Morcavallo, Rv. 612908; Sez. U, n. 25039/2013, Di Cerbo, Rv. 628057), la stessa sentenza ha escluso la giurisdizione della Corte dei 762 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE conti in materia pensionistica nei casi in cui si controverte della inclusione nella base di calcolo del trattamento previdenziale di elementi volti ad assicurare un trattamento integrativo delle prestazioni. Al contrario, la giurisdizione esclusiva del giudice contabile riguardo alle pensioni dei pubblici dipendenti (ai sensi dell'art. 13 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214) concerne anche l'azione di rivalsa svolta dalla P.A. per i ratei erogati in misura superiore al dovuto a causa di errate comunicazioni trasmesse dalla datrice di lavoro (ex art. 8, comma 2, del d.P.R. 8 agosto 1986, n.538); infatti, è «il contenuto pubblicistico del rapporto dedotto in giudizio l'elemento di discrimine della giurisdizione, anche se la vicenda specifica riguardi non già il pagamento del debito di pensione ma la restituzione di somme percepite allo stesso titolo» (Sez. U, n. 11769/2015, Mammone, Rv. 635485). Ai fini del riparto di giurisdizione non assume rilievo l'incidenza di una condotta sindacale sulle situazioni soggettive individuali dei pubblici impiegati, perché le controversie promosse dalle associazioni sindacali ai sensi dell'art. 28 st.lav. sono sempre assoggettate alla giurisdizione del giudice ordinario; difatti, abrogando l'art. 28, commi 6 e 7, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il legislatore ha inequivocamente attribuito al giudice ordinario le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni (ex art. 63, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001), ancorché sia richiesta la rimozione di un provvedimento incidente su posizioni individuali regolate con atti amministrativi (Sez. U, n. 02359/2015, Bandini, Rv. 634259). La sentenza sottolinea – richiamando Corte cost., 24 aprile 2003, n. 143 – che non è ipotizzabile un contrasto di giudicati in caso di coesistenza di due controversie, l'una promossa dal sindacato, innanzi al giudice ordinario, per la repressione del comportamento antisindacale e l'altra promossa, innanzi al giudice amministrativo, dal dipendente ancora in regime di lavoro pubblico per contestare la legittimità del provvedimento incidente sul suo rapporto di impiego: o si ricorre ad «una prevenzione del paventato conflitto di giudicati, attraverso il coordinamento, ex art. 295 del codice di procedura civile, dell'azione individuale con quella promossa dal sindacato», oppure si dichiara «la radicale negazione di ogni possibilità di conflitto pratico di giudicati, riconoscendo la totale autonomia delle due azioni in quanto volte a tutelare distinte situazioni sostanziali». Infine, non è riconducibile al pubblico impiego il rapporto instaurato con il commissario straordinario di un ente pubblico in quanto l'incarico – seppur con attribuzione di funzioni pubbliche – 763 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE ha natura onoraria, difettando una procedura concorsuale per la scelta del soggetto in base a elementi tecnico-amministrativi, l'inserimento nell'apparato organizzativo della P.A., la soggezione allo statuto dei pubblici dipendenti, il carattere retributivo del compenso e la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto (al contrario, nel caso del funzionario onorario, la nomina è politico-discrezionale, l'inserimento nell'amministrazione è meramente funzionale all'incarico, la disciplina del rapporto scaturisce dall'atto di designazione, il compenso è di tipo indennitario e l'incarico è solo temporaneo); conseguentemente, «la giurisdizione va determinata, in applicazione dei criteri generali, tenendo conto delle sostanziali situazioni giuridiche soggettive, di diritto o di interesse legittimo, fatte valere in giudizio» (Sez. U, n. 17591/2015, Di Cerbo, Rv. 636103; nel caso, la S.C. ha ritenuto che la domanda svolta nei confronti del commissario straordinario dell'ente per la ripetizione di quanto indebitamente versatogli per effetto di delibere nulle spettasse alla giurisdizione del giudice ordinario, essendo la situazione sostanziale dedotta inquadrabile come diritto soggettivo). Attiene in senso lato a questioni di giurisdizione – e, segnatamente, alla portata del Regolamento CE n. 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale – la decisione di Sez. L, n. 09210/2015, Manna, Rv. 635293: nel confermare l'esecutività conferita ad una sentenza di altro paese dell'Unione Europea contenente la condanna di INPS al pagamento delle prestazioni previste in caso di insolvenza del datore di lavoro, la S.C. ha statuito che le predette prestazioni ex art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, pur avendo natura previdenziale, non rientrano nella materia della «sicurezza sociale», sottratta all'operatività della disciplina dettata del Regolamento comunitario in tema di giurisdizione e circolazione delle decisioni. 2. Questioni di competenza. È pacifico che non pone una questione di competenza in senso proprio – attenendo invece alla ripartizione degli affari all'interno dello stesso ufficio e al rito prescritto per lo svolgimento del processo – l'ordinanza del giudice del lavoro che dichiara la propria incompetenza per materia in favore di una diversa sezione del medesimo tribunale. In contrasto con altre recenti decisioni (Sez. 6-3, n. 05313/2014, Armano, Rv. 631008, e, in motivazione, anche Sez. 6- L, n. 09553/2014, Marotta), la Suprema Corte ha perciò reputato inammissibile il regolamento di competenza avverso il 764 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE provvedimento declinatorio della competenza, non potendosi validamente invocare – per ammettere il gravame ex art. 42 c.p.c. – il principio dell'apparenza, il quale «è idoneo a regolare la scelta del mezzo dell'impugnazione, ma ai fini dell'impugnabilità o meno del provvedimento vale il criterio cd. "della prevalenza della sostanza sulla forma degli atti processuali", secondo cui ciò che definisce il regime da applicare all'atto processuale, anche ai fini della relativa impugnazione, è la sua sostanza e non la sua forma» (Sez. 6- 3, n. 08905/2015, Ambrosio, Rv. 635212). La ripartizione delle controversie tra le sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale ed industriale di cui al d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 ed il giudice del lavoro determina, invece, l'insorgenza di una vera e propria questione di competenza, con conseguente ammissibilità del regolamento di competenza (così Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636585; contra, Sez. 6-1, n. 11448/2014, Bernabai, Rv. 631473): nella motivazione si spiega che proprio in base alla terminologia impiegata dal legislatore i compiti assegnati alle sezioni specializzate sono a queste espressamente attribuiti sotto il profilo della "competenza", diversamente da quanto stabilito per il giudice del lavoro, al quale è riconosciuta un'autonoma funzione nell'ambito della competenza del tribunale; inoltre, diversamente opinando si realizzerebbe un'asimmetria del sistema qualora la declaratoria di competenza sia emessa da un tribunale presso il cui distretto non risulti dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero, per contro, tale sezione sia invece istituita, dato che solo nel primo caso sarebbe proponibile il rimedio del regolamento ex art. 42 c.p.c. Nello specifico caso, la S.C. ha regolato la competenza per materia attribuendola al giudice del lavoro, poiché la responsabilità del direttore generale di una società per azioni era dedotta in relazione a presunte inadempienze nello svolgimento delle sue mansioni (le scelte assunte avevano comportato l'errato investimento di titoli della società) e, cioè, nell'ambito del rapporto di lavoro, al quale esplicitamente si riferisce l'art. 2396 c.c., che fa «salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro» e, così, le distingue dalla disciplina relativa alle altre responsabilità dei vertici aziendali (Sez. 6-L, n. 15619/2015, Arienzo, Rv. 636586). I criteri per la determinazione della competenza territoriale nelle controversie disciplinate dall'art. 409 c.p.c. sono rigidamente determinati dall'art. 413 c.p.c., ma solo i commi 2, 3 e 4 della predetta disposizione – relativi ad un rapporto di lavoro (privato) già costituito – prevedono una competenza per territorio inderogabile (nel luogo dove è sorto il rapporto, nel foro 765 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE dell'azienda o della dipendenza, dove il lavoratore parasubordinato ha il proprio domicilio), mentre il penultimo comma individua – come foro sussidiario e non alternativo – quello generale delle persone fisiche ex art. art. 18 c.p.c. (cioè, il luogo di residenza, domicilio o dimora del convenuto e, in mancanza, dell'attore); nonostante l'espresso richiamo del solo art. 18 c.p.c., è invocabile, sempre sussidiariamente, anche il foro generale della persone giuridiche ex art. 19 c.p.c. Muovendo da questi presupposti e dalla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo cui non può configurarsi eccezione alla competenza territoriale inderogabile per realizzare un simultaneus processus su cause oggettivamente connesse tra parti diverse (ex art. 33 c.p.c.), Sez. 6-L, n. 11076/2015, Mancino, Rv. 635525, ha rilevato che il divieto di applicazione dell'art. 33 c.p.c. non riguarda il criterio di competenza sussidiario ex artt. 18 e 19 c.p.c.; conseguentemente, «l'attore, se promuove una causa tenendo conto, per l'individuazione della competenza per territorio, delle disposizioni contenute nei suddetti art. 413, commi 2, 3 e 4 può bene adire contemporaneamente il medesimo giudice con riferimento ad una seconda causa, che sia connessa con la prima, a prescindere dal luogo della residenza o del domicilio o della sede della parte, persona fisica o giuridica, convenuta in giudizio» (nella fattispecie, si è statuito che il lavoratore, licenziato a fronte dell'impegno di una società subentrante nell'appalto di procedere alla sua assunzione poi non effettuata, può adire il tribunale del luogo dove si trova la dipendenza aziendale cui era addetto qualora agisca contemporaneamente nei confronti della subentrante per la costituzione del rapporto di lavoro – causa altrimenti soggetta al criterio di competenza ex art. 19 c.p.c. – e, in via subordinata, nei confronti della ex datrice di lavoro per l'annullamento del licenziamento). È uniforme l'orientamento – ripreso anche nella pronuncia da ultimo citata – secondo cui i fori alternativi individuati in base ai criteri di competenza dell'art. 413, comma 2, c.p.c. operano solo con riguardo alle pretese inerenti ad un rapporto di lavoro già costituito, mentre le controversie promosse per l'adempimento di un obbligo contrattuale di assunzione attraverso la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro devono essere radicate nel foro generale di cui all'art. 18 c.p.c. (e, implicitamente, all'art. 19 c.p.c.). Tuttavia, le decisioni relative all'assunzione di lavoratori invalidi avviati obbligatoriamente e al necessario adattamento dell'art. 413 c.p.c. (Sez. U, n. 11043/2001, Evangelista, Rv. 548960) costituiscono espressione di un principio generale, in base al quale – 766 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE nel caso in cui un rapporto di lavoro si configuri come presupposto per il sorgere del diritto alla costituzione di un successivo rapporto – i criteri di identificazione della competenza territoriale vanno riferiti al rapporto in essere, stante il collegamento funzionale fra i rapporti in questione (Sez. 6-L, n. 02152/2015, Arienzo, Rv. 634521; nella fattispecie, il ricorrente, già dipendente di un istituto bancario, era stato trasferito ad altro istituto di credito a seguito di trasferimento di ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ.). L'equazione, ai fini dell'individuazione dei criteri di competenza territoriale, fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro costituendo (o virtuale) determina un'erosione della portata applicativa dell'art. 413, comma 7, c.p.c., sia nel lavoro privato (rispetto ai criteri ex art. 413, comma 2, c.p.c.), sia nel rapporto di pubblico impiego (ovviamente in riferimento all'art. 413, comma 5, c.p.c.). Perciò – sulla scorta del menzionato principio generale e in relazione a domande di docenti precari volte ad ottenere, in base al d.m. 8 aprile 2009, n. 42, l'iscrizione nelle graduatorie permanenti costituite in diverse province "a pettine", anziché "in coda" (con riferimento, quindi, al punteggio di cui gli stessi erano titolari nella graduatoria principale) – si è statuito che la competenza territoriale appartenga al foro nel quale ciascuno di essi prestava la propria attività al momento della domanda, poiché la pretesa azionata si riferisce alle modalità di inserimento nelle graduatorie con riferimento al punteggio precedentemente conseguito e ciò rende manifesto il collegamento funzionale con il rapporto in essere al momento della proposizione del ricorso e con la sede dell'ufficio in tal guisa individuata (Sez. 6-L, n. 10449/2015, Arienzo, Rv. 635398). Ancora più significativamente Sez. 6-L, n. 10697/2015, Arienzo, Rv. 635459 ha ritenuto che la domanda diretta all'accertamento del diritto di un'insegnante all'inclusione nella graduatoria dell'ufficio scolastico provinciale, con conseguente immissione in ruolo e sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato, spetti al giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio dove la ricorrente chiede di essere assunta (cioè, la struttura periferica presso la quale si pretenda la costituzione del rapporto di lavoro pubblico, conseguenza del domandato inserimento nella graduatoria provinciale), dovendosi, agli effetti dell'art. 413, quinto comma, c.p.c., «stabilire un'equazione fra rapporto di lavoro già costituito e rapporto di lavoro virtuale». In tema di applicazione dei criteri di competenza fissati dall'art. 444 c.p.c. per le cause previdenziali, la Suprema Corte ha specificato che «l'ufficio dell'ente» – al quale si riferisce il comma 3 per 767 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE determinare la competenza sulle controversie inerenti agli obblighi dei datori di lavoro e alle relative sanzioni – è quello individuato in relazione alla sede dell'impresa o ad una sua dipendenza e legittimato a ricevere e riscuotere i contributi o a restituirne l'eccedenza secondo disposizioni di legge o di statuto; ne consegue l'irrilevanza di eventuali provvedimenti derogatori attributivi dei rapporti assicurativi e previdenziali ad uffici con competenza territoriale su ambiti non comprensivi della sede dell'impresa, così come è ininfluente la previsione di centri operativi non concretamente dotati del potere di gestione esterna dei rapporti contributivi con i soggetti aventi sede nella corrispondente circoscrizione (Sez. 6-L, n. 10702/2015, Marotta, Rv. 635460). Appartiene all'ambito delle cause previdenziali la domanda del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR a carico del fondo di cui all'art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, trattandosi di prestazione che scaturisce dal rapporto assicurativo-previdenziale e non in forza del rapporto di lavoro; conseguentemente, la competenza territoriale per tali controversie si radica, ai sensi dell'art. 444, comma 1, c.p.c., presso il giudice del lavoro del luogo di residenza dell'attore e non secondo i criteri stabiliti dall'art. 413 c.p.c. per le cause di lavoro (Sez. 6-L, n. 06480/2015, Arienzo, Rv. 635090). Al contrario, quando l'oggetto della controversia è la richiesta di ripetizione di un presunto indebito fondata sulla cessazione del rapporto previdenziale con l'iscritto, non è dedotto in giudizio il rapporto assicurativo-previdenziale e la competenza territoriale appartiene, in forza del rinvio operato dagli artt. 442, comma 2, e 413, comma 7, c.p.c., al giudice del foro generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 15620/2015, Fernandes, Rv. 636583). Determina una questione di competenza la decisione riguardante l'attribuzione di una lite alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria o a quella degli arbitri rituali (Sez. U, n. 24153/2013, Segreto, Rv. 627786); tuttavia, l'art. 806 c.p.c. – nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (che escludeva la facoltà di far decidere da arbitri le controversie previste dagli artt. 409 e 442 c.p.c.) – impedisce l'operatività della clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi, rispetto alla domanda di risarcimento per danno da "mobbing" avanzata dal socio lavoratore; in tal caso la potestà decisionale spetta alla «competenza 768 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei» (Sez. 6-3, n. 18110/2015, Frasca, Rv. 636740). Quanto alle impugnazioni delle decisioni di merito che abbiano statuito solo sulla competenza, l'unico rimedio esperibile è costituito dal regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c.; tale mezzo di impugnazione deve essere impiegato per tutte le questioni afferenti la competenza, tra le quali rientra anche quella concernente la corretta applicazione dell'art. 38 c.p.c. (ammissibilità e tempestività dell'eccezione, decadenza dalla medesima, tempestivo rilievo di ufficio), la cui violazione non integra un generico errore sull'applicazione della legge processuale (Sez. L, n. 16359/2015, Amendola, Rv. 636347; in applicazione di tale principio, è stata confermata la declaratoria di inammissibilità dell'appello – avverso una sentenza dichiarativa dell'incompetenza territoriale – che aveva come unico motivo la decadenza dall'eccezione di incompetenza sollevata in primo grado per la mancata indicazione del giudice competente). 3. Varie questioni di rito. 3.1. Presupposti processuali. Ai sensi dell'art. 100 c.p.c. costituisce condizione dell'azione l'interesse della parte alla proposizione della domanda giudiziale; in proposito, si è rilevato che per la promozione di un'azione di mero accertamento occorre una situazione di oggettiva incertezza, non essendo invece necessaria una lesione attuale di un diritto dell'attore; secondo Sez. L, n. 16262/2015, Manna, Rv. 636587 non è essenziale che l'interesse preesista al processo, potendo lo stesso sorgere nel corso di giudizio a seguito della contestazione sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti (così, in un caso riguardante la cessione di contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento di ramo d'azienda, si è ritenuto sussistente l'interesse ad agire al fine di individuare il reale datore di lavoro, pur non avendo i lavoratori ceduti dedotto alcuna concreta conseguenza pregiudizievole). Ha interesse, concreto e attuale, all'impugnazione la parte che possa ritrarre utilità giuridica dall'eventuale accoglimento del gravame: ciò si verifica anche quando la decisione contiene una statuizione su un presupposto logico-giuridico della pronuncia medesima relativo a una circostanza – introdotta dal convenuto come eccezione sul fatto costitutivo – che comporta un accertamento principale nel giudizio e non un mero accertamento incidentale su questioni pregiudiziali, diverse e indipendenti dal fatto costitutivo (Sez. L, n. 25304/2015, Patti, in corso di massimazione). 769 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE L'accertamento, anche se definitivo, dell'insussistenza dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. «non regola con efficacia di giudicato sostanziale il rapporto dedotto in giudizio bensì solo una condizione per proporre la domanda e per ottenere la trattazione del merito, estranea all'indagine sulla fondatezza della pretesa e con attitudine al giudicato meramente formale», di talché esso è inidoneo a realizzare un potenziale conflitto di giudicati, trattandosi di giudicato su questione di rito, con effetti soltanto endoprocessuali (Sez. L, n. 18160/2015, Amendola F., Rv. 636421). Nella specie, su opposizione del datore di lavoro decisa con sentenza passata in giudicato, era stato negato il diritto del lavoratore di procedere ad esecuzione forzata in ragione della carenza di liquidità del credito (requisito ex art. 474 c.p.c.) portato nel titolo azionato; il lavoratore aveva quindi proposto una domanda volta ad ottenere un titolo esecutivo recante un diritto di credito liquido, domanda dichiarata inammissibile (con sentenza definitiva) in ragione della ritenuta liquidità del credito risultante dal provvedimento originario e, dunque, della carenza di interesse del ricorrente; chiamata a decidere sull'eccezione di giudicato sollevata dal datore in un'altra opposizione ex art. 615 c.p.c. avanzata per identici motivi, la S.C. ha rilevato l'inattitudine della declaratoria di inammissibilità a scalfire il giudicato formatosi sull'insussistenza del diritto di agire in executivis del lavoratore in virtù della risalente pronuncia. Il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. ratione temporis vigente costituisce condizione di proponibilità della domanda giudiziale; il datore di lavoro – che intenda evitare il (facoltativo) arbitrato sulle sanzioni disciplinari previsto dall'art. 7, commi 6 e 7, st.lav. e ricorrere al giudice ordinario – è tenuto a richiedere il predetto tentativo entro il termine di dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio provinciale del lavoro, a pena di decadenza che viene impedita con la tempestiva consegna della lettera all'ufficio postale, restando irrilevante la data di ricezione della medesima (Sez. L, n. 14352/2015, Lorito, Rv. 635905). 3.2. Thema decidendum. Costituiscono "barriere preclusive" per convenuto e appellato i termini fissati per la tempestiva costituzione, individuati dagli artt. 416 e 436 c.p.c. in «almeno dieci giorni prima della udienza» di discussione (rispettivamente, di primo e di secondo grado); la verifica del rispetto dei menzionati termini deve essere eseguita prendendo a riferimento non già l'udienza originariamente stabilita dal provvedimento del giudice, ma quella eventualmente fissata a seguito di rinvio d'ufficio (con 770 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE modifica, quindi, del precedente decreto di fissazione) ed effettivamente svoltasi in sostituzione della prima (Sez. L, n. 08684/2015, Blasutto, Rv. 635119). Nel medesimo termine fissato ex artt. 416 e 436 c.p.c. per la tempestiva costituzione deve essere sollevata l'eccezione di estinzione del processo per tardiva riassunzione davanti al giudice di rinvio; l'espressione "prima di ogni altra sua difesa" contenuta nell'art. 307, comma 4, c.p.c. (nella formulazione ratione temporis vigente, antecedente alla legge 18 giugno 2009, n. 69) deve essere così interpretata, conformemente alla ratio di garantire il tempestivo ed ordinato svolgimento del giudizio, nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. (Sez. L, n. 04979/2015, Maisano, Rv. 634609). Le preclusioni all'ampliamento del thema decidendum, fissate sia per il primo grado di giudizio sia per l'appello, riguardano le eccezioni "in senso proprio" (che richiedono, cioè, nuovi accertamenti di fatto) – come la deduzione della natura pubblica della società-datore di lavoro in una controversia avente ad oggetto la conversione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato (Sez. L, n. 08290/2015, Balestrieri, Rv. 635223) – e le domande riconvenzionali – tra le quali non può, però, annoverarsi l'allegazione del datore di lavoro, convenuto per l'accertamento della conversione del contratto per illegittima apposizione del termine, della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, dato che la stessa mira soltanto al rigetto della domanda del lavoratore (Sez. L, n. 16339/2015, Nobile, Rv. 636348). 3.3. Mezzi istruttori. La formazione del thema decidendum incide anche sul thema probandum, poiché il principio di non contestazione – il quale presuppone un comportamento concludente della controparte costituita e non trova applicazione né quando questa è rimasta contumace né quando si è costituita tardivamente in primo grado (Sez. L, n. 00461/2015, Balestrieri, Rv. 634077, dove si precisa che in entrambi i predetti casi non è preclusa la contestazione, per la prima volta, in appello) – esonera dalla dimostrazione delle circostanze non specificamente confutate. L'onere di specifica contestazione riguarda sia l'an sia il quantum: difatti, il convenuto che contesti la sussistenza del credito – negando non l'esistenza del rapporto lavorativo ma solo la propria titolarità passiva dell'obbligazione contrattuale – non afferma necessariamente l'erroneità della quantificazione della pretesa e, cioè, dei conteggi svolti dall'avversario, i quali, in assenza di censura, 771 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE si consolidano nell'importo formulato. (Sez. L, n. 10116/2015, Macioce, Rv. 635635). Nel rito del lavoro, secondo la più recente (e ormai consolidata) giurisprudenza di legittimità ciascuna delle parti è tenuta, a pena di decadenza, a indicare nell'atto di costituzione in giudizio i documenti prodotti (prove costituite) e a depositarli contestualmente a tale atto. La regola subisce eccezioni per i documenti formatisi successivamente alla costituzione in giudizio o nel caso in cui la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione della vicenda processuale, sicché il giudice ne può ammettere la produzione, ai sensi dell'art. 421 c.p.c. e, in appello, ai sensi dell'art. 437 c.p.c., secondo una valutazione discrezionale e insindacabile in sede di legittimità, ove ritenga tali mezzi di prova comunque ammissibili, perché rilevanti e indispensabili ai fini del decidere: Sez. L, n. 14820/2015, Venuti, Rv. 636459, ha ritenuto giustificata la produzione dell'istanza di fallimento, posto che la questione dell'infrannualità del credito, per il pagamento del TFR e delle ultime mensilità al Fondo di Garanzia, era sorta solo con la memoria difensiva dell'INPS; viceversa, Sez. 6- L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, ha statuito che nelle controversie assistenziali non sono ammissibili né la produzione in appello, né la sollecitazione dei poteri officiosi di acquisizione (ex art. 437 c.p.c.) della documentazione relativa al cd. requisito reddituale, perché questa concerne circostanze deducibili e dimostrabili in primo grado e ciò esclude la riferibilità della prova all'evoluzione della vicenda processuale. La deroga al divieto di deposito di nuovi documenti, se ritenuti «indispensabili ai fini della decisione» ex art. 437 c.p.c., trova applicazione anche nel giudizio di rinvio a seguito di pronuncia di cassazione, quando le produzioni documentali, in ragione della loro particolare efficacia dimostrativa e del loro grado di decisività, siano tali da condurre ad un esito necessario della controversia (Sez. 6-L, n. 02729/2015, Garri, Rv. 634287). La facoltà di dolersi di una tardiva produzione documentale – rectius, del provvedimento di ammissione – deve essere tempestivamente esercitata, poiché la mancata formulazione di opposizione o l'omessa proposizione, nel termine perentorio fissato dal giudice, di proprie istanze istruttorie implica accettazione e, conseguentemente, impossibilità di far valere il vizio procedurale nel prosieguo del giudizio (Sez. L, n. 10102/2015, Berrino, Rv. 635548). Parimenti, in assenza di tempestiva opposizione all'irrituale produzione, i documenti prodotti unitamente all'atto di tardiva 772 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE costituzione del convenuto in primo grado devono considerarsi ritualmente acquisiti e il giudice di appello può prenderli in considerazione ai fini della decisione (Sez. L, n. 08924/2015, Berrino, Rv. 635346). Non può annoverarsi tra le prove documentali la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (nel caso, riferita al "requisito reddituale" in una controversia assistenziale), priva di qualsivoglia valore probatorio o indiziario, in quanto la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni (Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096). Sempre in tema di prove, si è ritenuto che l'ampia possibilità, riconosciuta dall'art. 421 c.p.c., di disporre d'ufficio mezzi istruttori non riguarda solamente la vicenda sostanziale che è oggetto della controversia, ma si estende anche agli aspetti processuali e, segnatamente, alla validità della procura, la quale costituisce presupposto della corretta instaurazione del rapporto processuale (Sez. L, n. 12068/2015, Ghinoy, Rv. 635551; nella specie, al fine di individuare il luogo di rilascio del mandato ad litem, il giudice aveva richiesto la produzione di titoli di viaggio attestanti la presenza in Italia del mandante ed aveva proceduto ad interrogatorio formale della stessa parte). 3.4. Inattività delle parti. La mancata comparizione di entrambe le parti nel corso del giudizio comporta – per il combinato disposto degli artt. 181, 309 e 359 c.p.c. (nel regime applicabile sia prima che dopo le modifiche apportate dall'art. 50 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge, con mod., dall'art. 1, comma 1, legge 6 agosto 2008, n. 133) – l'indefettibile fissazione di una nuova udienza da comunicarsi a cura della cancelleria e, in caso di reiterazione dell'assenza, la cancellazione della causa dal ruolo, nonché – soltanto per i giudizi instaurati dopo il 25 giugno 2008 – la dichiarazione di estinzione del processo (Sez. L, n. 16358/2015, Blasutto, Rv. 636349). La fattispecie in cui il solo appellante omette di comparire all'udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. è regolata in maniera parzialmente differente dall'art. 348, comma 2, c.p.c. in ambedue le fattispecie si deve escludere la possibilità di procedere ad immediata decisione della causa, la quale deve invece essere rinviata ad una nuova udienza, da comunicare nei modi previsti; viceversa, il ripetersi del difetto di comparizione comporta – come detto con riguardo all'inerzia di entrambe le parti – la cancellazione della causa 773 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE dal ruolo (e, solo per i processi più recenti, la declaratoria di estinzione), mentre la reiterata assenza dell'appellante conduce all'improcedibilità dell'impugnazione, efficace sanzione per un comportamento determinante un'irragionevole dilatazione dei tempi del processo (Sez. 6-L, n. 02816/2015, Marotta, Rv. 634629). 3.5. Decisione e giudicato. Per il combinato disposto degli artt. 429, comma 1, secondo periodo, e 430 c.p.c., la decisione del giudice del lavoro va assunta mediante la lettura del dispositivo all'esito della discussione e in tal caso il contenuto della motivazione successivamente depositata deve fedelmente rispecchiare il contenuto del dispositivo, che è assolutamente immodificabile: è quindi radicalmente nulla la sentenza che corregge, sostituendolo, il dispositivo letto in udienza, anche se questo è affetto da un insanabile contrasto tra la prima parte, di accoglimento dell'appello e rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento del lavoratore, e la seconda, contenente declaratoria di illegittimità del licenziamento e condanna della società datrice alla reintegrazione e ai conseguenti adempimenti retributivi e contributivi (Sez. L, n. 01906/2015, Patti, Rv. 634195); del pari, l'immutabilità del dispositivo consente di ricorrere al procedimento di correzione ex artt. 287 ss. c.p.c. solo qualora sussista una parziale coerenza fra lo stesso dispositivo e la motivazione della sentenza e non già quando la correzione si risolva in un ripensamento – non consentito – del giudice, fermo restando che l'autonoma impugnazione delle parti corrette ai sensi dell'art. 288 c.p.c. riguarda la sola ipotesi in cui, attraverso il surrettizio ricorso al procedimento di correzione, venga modificato il contenuto decisorio della sentenza, affetta non da errori materiali o di calcolo, bensì da errori di diritto (Sez. L, n. 25978/2015, Di Paolantonio, in corso di massimazione; nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la parte non avesse né l'obbligo né l'interesse ad impugnare la sentenza corretta, dato che l'ordinanza della Corte territoriale si era limitata a prendere atto della non corrispondenza del dispositivo letto in udienza con quello trascritto nella sentenza pubblicata, già precedentemente impugnata, senza però modificare la motivazione della decisione). Le disposizioni che regolano l'influenza di un giudizio su un altro e prevengono il conflitto di giudicati sono diverse quando è intervenuta una decisione, anche se non definitiva: infatti, in presenza di un rapporto di pregiudizialità tra distinte controversie, l'art. 295 c.p.c. – che comporta una sospensione necessaria del processo – non può trovare applicazione quando è intervenuta in 774 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE una delle liti una pronuncia giudiziale, non passata in giudicato perché oggetto di gravame, dovendosi in tal caso applicare l'art. 337, comma 2, c.p.c. e la facoltà discrezionale di sospensione da questo prevista (così Sez. 6-L, n. 00798/2015, Mancino, Rv. 634272, la quale – richiamando Sez. U, n. 10027/2012, Vittoria, Rv. 623042 – ha dichiarato illegittimo e annullato il provvedimento del giudice di merito adottato ai sensi dell'art. 295 c.p.c., rimettendo nel contempo allo stesso giudice la valutazione delle circostanze idonee a giustificare una eventuale sospensione ex art. 337 c.p.c.). Infine, la S.C. ha ritenuto che non possa prospettarsi un rapporto di automatica consequenzialità tra la sentenza definitiva di assoluzione del lavoratore emessa nel processo penale e il giudizio riguardante il suo licenziamento disciplinare, sia perché la contestazione disciplinare non è ontologicamente assimilabile alla formulazione dell'accusa nel procedimento penale, sia perché i fatti ivi accertati, ancorché non decisivi ai fini della responsabilità penale, possono conservare rilevanza nel sindacato sul rapporto di lavoro, senza alcuna preclusione derivante dalla pronunciata assoluzione alla cognizione della domanda da parte del giudice civile (Sez. L, n. 00013/2015, Tria, Rv. 634075). 4. Il processo in primo grado. Il meccanismo processuale delineato dall'art. 415, comma 4, c.p.c. – cioè, la notifica del ricorso introduttivo precedentemente depositato e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione – è stato oggetto di significative pronunce, apparentemente contrastanti, tra loro e anche con antecedenti statuizioni della Suprema Corte Nel solco di precedenti arresti (ex multis, Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555), Sez. 6-L, n. 02005/2015, Blasutto, Rv. 634277, ha confermato la declaratoria di improcedibilità del ricorso introduttivo perché – in difetto di produzione della copia notificata dell'atto o di allegazione e prova di un legittimo impedimento idoneo a giustificare l'assegnazione di un nuovo termine per provvedere all'incombente – non può trovare applicazione la disciplina dell'art. 348 c.p.c., dettata per l'ipotesi di inattività delle parti successiva all'instaurazione del contraddittorio. In senso diametralmente opposto si è pronunciata Sez. L, n. 01483/2015, Amendola F., Rv. 634192, affermando che anche nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, deve essere concesso un nuovo termine – questo sì perentorio – per la rinnovazione della notifica. Il révirement giurisprudenziale merita un 775 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE approfondimento sia per illustrare la dettagliata motivazione che sorregge il provvedimento, sia per dar conto delle fattispecie a cui il pronunciamento è applicabile. Innanzitutto, si è osservato che il consolidato orientamento espresso da Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555 – secondo il quale la sanzione di improcedibilità per omessa notifica del ricorso si applica anche nell'opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro – è stato recentemente rivisto da Sez. U, n. 05700/2014, San Giorgio, Rv. 629676 e Sez. U, n. 09558/2014, San Giorgio, Rv. 630713, le quali, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, hanno stabilito che, in ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, può concedersi al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica; difatti, «a differenza di quelli di impugnazione o di opposizione a decreto ingiuntivo, il procedimento di cui si tratta non presuppone ... la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso» e, «rispetto al processo di appello nel rito del lavoro ed alla opposizione a decreto ingiuntivo, procedimenti di natura impugnatoria, a struttura bifasica, ... nel procedimento de quo la notifica del ricorso assolve unicamente la funzione di consentire la instaurazione del contraddittorio». Oltre a non essere prevista dalla legge una sanzione che comporti il divieto di accesso alla giurisdizione in caso di omessa notifica del ricorso (così come nei procedimenti disciplinati dalla cd. legge Pinto), si è puntualmente considerato che l'introduzione del processo del lavoro "normale" (cioè, non impugnatorio di una precedente decisione, anche monitoria) non determina frizioni con l'esigenza di tutelare legittime aspettative della controparte al consolidamento di un provvedimento giurisdizionale già emesso, situazione che invece si verifica nell'appello e nell'opposizione a decreto ingiuntivo. Peraltro, la vocatio in ius si compone del deposito del ricorso e della sua notificazione, di talché l'omissione della seconda non inficia la validità del primo (art. 159 c.p.c.) e non comporta inesistenza ma, piuttosto, nullità della vocatio, con conseguente potere (e dovere, ex art. 162, comma 1, c.p.c.) del giudice di disporre la rinnovazione degli atti nulli. Più in generale, i principi sistematici di conservazione degli atti, di economia dei giudizi e di strumentalità dei processo conducono a permettere la sanatoria dei vizi degli atti processuali 776 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE per addivenire ad una decisione nel merito, soluzione da privilegiare – qualora possibile – ad una chiusura in rito. Infine, il principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost. deve necessariamente riferirsi, più che al dato formale del decorso del tempo tra l'iscrizione a ruolo e la definizione della causa, al lasso temporale tra la proposizione della domanda e la pronuncia sul merito del diritto preteso; perciò, anche al fine di evitare la riproposizione del medesimo ricorso, il che comporterebbe un inevitabile differimento dei tempi necessari ad ottenere una decisione di merito, la fissazione di un termine per la rinnovazione corrisponde a una lettura conforme ai valori costituzionali e alle statuizioni della CEDU e della Corte di Giustizia sulle modalità di attuazione della tutela giudiziaria. In conclusione, la sentenza in esame non costituisce un vero e proprio overruling rispetto al precedente consolidato orientamento, ma – con ampia motivazione – limita la declaratoria di improcedibilità per omessa notifica del ricorso ex art. 415, comma 4, c.p.c. alle fattispecie in cui vi è un interesse della controparte alla definitività di un provvedimento già emanato (e forse a queste può ricondursi anche la menzionata pronuncia – apparentemente contrastante – di Sez. 6-L, n. 02005/2015, Blasutto, Rv. 634277, che riguardava un'opposizione a cartella di pagamento concernente contributi omessi, atto idoneo a "stabilizzarsi" con effetti assimilabili a quelli del giudicato, come stabilito da Sez. L, 04338/2014, Bandini). Anche Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, in corso di massimazione, ha ammesso la rinnovazione della notificazione dell'opposizione di cui all'art. 1, comma 52, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (cd. rito Fornero), pur rilevando l'inesistenza di qualsiasi notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nei termini prescritti dalla citata norma: la doglianza, relativa all'illegittimità della remissione in termini concessa dai giudici di merito, è stata respinta richiamando gli stessi principi espressi da Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15 (riguardante, però, il termine ex art. 435, comma 2, c.p.c.) e, cioè, stabilendo – con una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni – che il decreto di fissazione dell'udienza ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 deve essere comunicato all'opponente e che solo tale momento può costituire dies a quo del termine per la notificazione all'opposto. Esplicitamente, la S.C. ha inteso operare un «coordinamento» tra il «principio della giusta durata del processo» e «quello del giusto processo»; si deve però osservare che – in assenza di una 777 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 52, della legge n. 92 del 2012 (come quella, citata, che ha riguardato l'art. 435, comma 2, c.p.c.) – lo scostamento rispetto all'indirizzo interpretativo di Sez. U, n. 20604/2008, Vidiri, Rv. 604554 e 604555, è significativo e nel caso è pure ravvisabile una legittima aspettativa della controparte al consolidamento della già emessa ordinanza ex art. 1, comma 49, del "rito Fornero" (diversamente dalla fattispecie esaminata da Sez. L, n. 01483/2015, Amendola F, Rv. 634192). La tardiva notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione non ha, comunque, le medesime conseguenze della sua completa omissione; Sez. L, n. 09222/2015, De Marinis, Rv. 635292, applica gli stessi principi di Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 60 (espressi, però, in riferimento all'art. 435 c.p.c.) e, anche in mancanza di istanza e di concessione di proroga del termine ordinatorio ex art. 415, comma 4, c.p.c., conferma la validità della notifica eseguita dopo il suo spirare, ma entro un lasso temporale tale da garantire l'esigenza di contenimento del processo entro limiti ragionevoli e la salvaguardia del diritto di difesa della controparte tenuta a costituirsi entro un termine perentorio. Come sopra esposto, il termine per la tempestiva costituzione in giudizio del convenuto è stabilito dall'art. 416 c.p.c. in «almeno dieci giorni prima della udienza» effettivamente svoltasi a seguito di rinvio disposto d'ufficio, non dovendosi in tal caso prendere a riferimento l'udienza originariamente fissata nel decreto ex art. 415 c.p.c. (Sez. L, n. 08684/2015, Blasutto, Rv. 635119). 5. Le impugnazioni. Il termine "breve" sancito dall'art. 434, comma 2, c.p.c. per il deposito del ricorso in appello soggiace alla disciplina generale dei termini processuali e, conseguentemente, ad esso si applica anche l'art. 155, comma 4, c.p.c., che proroga di diritto, al primo giorno seguente non festivo, il termine che scade in un giorno festivo (Sez. L, n. 16303/2015, Napoletano, Rv. 636346). Il predetto termine "breve" ex art. 434, comma 2, c.p.c. – così come il termine "lungo" di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c. – ha natura decadenziale e, pertanto, è radicalmente inammissibile l'impugnazione depositata in cancelleria dopo il suo spirare; questa regola non subisce deroga nel caso in cui l'appello sia stato irritualmente proposto con citazione anziché con ricorso poiché, per aversi sanatoria dell'atto ai sensi dell'art. 156, ultimo comma, c.p.c. per «convertibilità della citazione in ricorso», occorre che lo stesso sia comunque depositato entro il termine predetto (Sez. L, n. 778 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE 14401/2015, Manna, Rv. 636063, ha cassato la sentenza di appello non ritenendo scusabile l'errore indotto dall'art. 134 del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, norma dichiarata costituzionalmente illegittima anteriormente alla pronuncia di primo grado). Sempre in tema di ammissibilità del gravame, qualora il giudice del lavoro abbia pronunciato in udienza la sentenza completa di dispositivo e motivazione (ex art. 429, comma 1, primo periodo, c.p.c.) e abbia contestualmente dato provvedimenti istruttori, la decisione deve intendersi pubblicata e conosciuta dalle parti senza obbligo di alcuna comunicazione da parte del cancelliere (con conseguente decorrenza da tale momento del termine "lungo" ex art. 327 c.p.c.); tuttavia, la riserva facoltativa d'appello non deve necessariamente essere effettuata alla medesima udienza – che non è ragionevolmente identificabile come «la prima udienza successiva alla pubblicazione, ai sensi e per gli effetti previsti dall'art. 340 I comma c.p.c.» - potendo essere ritualmente compiuta con un atto successivo, nel rispetto del termine per impugnare (Sez. L, n. 24805/2015, Ghinoy, in corso di massimazione). A seguito dell'intervento di Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15, il termine di dieci giorni per la notifica del ricorso all'appellato (ex art. 435, comma 2, c.p.c.) decorre dalla rituale comunicazione all'appellante dell'avvenuto deposito del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di discussione; se, nonostante tale comunicazione, il ricorrente omette la notificazione e non adduce, nel corso dell'udienza, alcun giustificato impedimento al fine di essere rimesso in termini, l'impugnazione deve essere dichiarata improcedibile anche d'ufficio, non ostando a tale declaratoria il compimento della notifica per un'altra successiva udienza a cui la causa sia stata rinviata al fine di acquisire il fascicolo di primo grado (Sez. L, n. 01175/2015, Lorito, Rv. 634080). Riguardo alle notificazioni nel secondo grado di giudizio, si è altresì statuito che all'integrazione del contraddittorio in appello ex art. 331 c.p.c. non si applica la disposizione dell'art. 330, ultimo comma, c.p.c., la quale riguarda il rito ordinario (in cui la pendenza dell'appello si verifica al momento della notifica della citazione) e non anche quello speciale, in cui la pendenza è data dal deposito del ricorso; pertanto, se quest'ultimo atto è stato compiuto entro l'anno dalla pubblicazione della sentenza, la notifica dell'atto di integrazione va eseguita – anche dopo il decorso del termine annuale – non alla parte personalmente, bensì al suo procuratore costituito (Sez. L, n. 01915/2015, Manna, Rv. 634308). 779 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE L'art. 434, comma 1, c.p.c. è stato riscritto dall'art. 54, comma 1, lettera c)-bis, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e la sua attuale formulazione coincide quasi integralmente con il testo dell'art. 342, comma 1, c.p.c., contestualmente introdotto. Le novellate disposizioni perseguono lo scopo di migliorare l'efficienza dell'appello rendendo esplicita l'esigenza che l'appellante, in un'ottica di leale collaborazione ed a pena di inammissibilità del gravame, rispetti precisi oneri nella formalizzazione delle ragioni dell'impugnazione, individuando in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum. Dall'esame della ratio legis si evince che non si è affatto voluto imporre irragionevoli adempimenti formali, limitativi dell'accesso alla tutela giurisdizionale e non corrispondenti ad esigenze di economia dei tempi processuali; piuttosto, deve desumersi che il legislatore abbia inteso ottenere una esaustiva definizione del thema decidendum del giudizio di gravame, richiedendo all'appellante l'espressa individuazione non solo dei punti e dei capi della sentenza che vengono impugnati, ma anche dei passaggi argomentativi che li sorreggono, i quali ultimi devono essere contestati attraverso la proposizione di un percorso logico alternativo a quello adottato dal giudice, «sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata» (Sez. L, n. 02143/2015, Ghinoy, Rv. 634309, che ha trovato successiva conferma in Sez. U, n. 10878/2015, Di Amato, la quale «perviene così ad un approdo sostanzialmente coincidente con quello cui era giunta la prevalente giurisprudenza ... in relazione alla precedente formulazione dell'art. 342 c.p.c.»). Il thema decidendum dell'appello non può, in ogni caso, essere più ampio rispetto a quello del primo grado come stabiliscono gli artt. 345, comma 1, e 437, comma 2, c.p.c.: non è ammessa, dunque, la tardiva introduzione di nuove allegazioni di fatto che, alterando uno dei presupposti della domanda iniziale, inseriscano nel processo un nuovo tema d'indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio. A fronte della rituale eccezione di novità delle allegazioni formulate in atto di gravame, il giudice di merito è tenuto a pronunciarsi, comportando altrimenti la decisione una violazione del disposto dell'art. 112 c.p.c. (Sez. L, n. 02687/2015, Lorito, Rv. 634284, ha cassato la sentenza d'appello che aveva valorizzato a fronte delle lacunose indicazioni, contenute nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado – ai fini dell'individuazione dei fatti determinativi dell'evento lesivo – nuove ed ulteriori circostanze, 780 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE introdotte in sede di impugnazione, che non si erano risolte in una mera specificazione del thema decidendum, ma in un suo sostanziale ampliamento). In forza dei medesimi principi, deve escludersi la possibilità di dedurre in sede di gravame nuovi profili di illegittimità del licenziamento, impugnato in primo grado perché avente carattere ritorsivo, allegando soltanto in appello – quale nuova causa petendi (implicante un diverso tema di indagine e di decisione) – la violazione della procedura di cui all'art. 7 st.lav. (Sez. L, n. 00655/2015, Tria, Rv. 634187). Con riguardo al ricorso per cassazione e ai provvedimenti suscettibili di tale gravame, Sez. L, n. 18162/2015, Blasutto, Rv. 636575, ha dichiarato l'inammissibilità dell'impugnazione del solo dispositivo della sentenza di appello letto in udienza (salva l'eccezionale ipotesi prevista dall'art. 433, comma 2, c.p.c.), poiché soltanto alla decisione completa di motivazione è possibile muovere censure specifiche e motivate in riferimento ai motivi denunciabili ex art. 360 c.p.c., mentre l'impugnazione non è esperibile in base alla mera soccombenza; tuttavia, la dichiarazione d'inammissibilità del ricorso proposto prima della giuridica esistenza della sentenza non determina la consunzione del diritto di impugnare la statuizione dopo il suo deposito, purché non siano decorsi i termini prescritti. La sentenza Sez. L, n. 14431/2015, Lorito, Rv. 636059, esamina la peculiare impugnazione – ex artt. 412-quater e 808-ter c.p.c. – del lodo emanato a conclusione della procedura arbitrale instaurata in una controversia di lavoro privato: in considerazione della natura irrituale dell'arbitrato de quo, alla decisione deve attribuirsi il valore di atto negoziale, che può essere annullato per errore, violenza, dolo degli arbitri (ad esempio, per alterata percezione o falsa rappresentazione dei fatti), ma anche per inosservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi. In forza di tali principi, si è considerato errore di fatto (e, quindi, ammissibile motivo di impugnazione) e non di giudizio l'errata delimitazione temporale della fattispecie materiale esaminata (nel caso, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, ritenendo che, ai fini della recidiva del licenziamento disciplinare, la disposizione contrattuale collettiva applicata facesse riferimento all'anno solare e non all'anno di calendario). 6. L'impugnazione dei licenziamenti e il cd. rito Fornero. L'esigenza di definire entro tempi certi (e rapidi) le controversie in tema di licenziamento ha indotto il legislatore a 781 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE modificare l'art. 6, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, dapprima imponendo l'avvio del giudizio entro il termine di 270 giorni dall' "impugnazione" extragiudiziale a pena di inefficacia di quest'ultima (art. 32, comma 1, legge 4 novembre 2010, n. 183) e, poi, riducendo il predetto termine a 180 giorni (art. 1, comma 38, legge n. 92 del 2012). Le stesse disposizioni si applicano anche alle cause riguardanti la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, alle quali il cd. Collegato Lavoro ha esteso il rigoroso regime delle decadenze, prevedendo l'onere di impugnazione stragiudiziale di e successiva azione giudiziaria entro tempi certi, decorrenti dalla scadenza del termine (per i contratti in corso) o dalla data di entrata in vigore della legge n. 183 del 2010; tuttavia, anche a tali controversie si applica il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore del sistema delle decadenze (come previsto dall'art. 32, comma 1-bis, della menzionata legge n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito nella legge 26 febbraio 2011, n. 10) e la proroga concerne sia i contratti i cui termini non erano ancora scaduti alla data di entrata in vigore del d.l. n. 10 del 2011, sia quelli il cui termine per l'impugnativa fosse già antecedentemente spirato (Sez. 6-L, n. 25103/2015, Mancino, in corso di massimazione; nello stesso senso, Sez. 6-L, n. 13563/2015, Arienzo, e Sez. 6-L, n. 02494/2015, Garri). Il dies a quo del termine per proporre l'azione giudiziale decorre dal compimento della contestazione extragiudiziale – da identificarsi, per esigenze di celerità e certezza, con il momento di spedizione e non di ricezione dell'atto – e non dalla scadenza dei 60 giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale (Sez. L, n. 05717/2015, Maisano, Rv. 634797) I termini di decadenza e di inefficacia dell'impugnazione del licenziamento prescritti dalla menzionata norma trovano applicazione ogniqualvolta si deduca l'invalidità del recesso datoriale prospettandone la nullità (come espressamente previsto dall'art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010: «Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento») e, quindi, anche nei confronti del dirigente (Sez. L, n. 22627/2015, Tricomi, in corso di massimazione). Non è invece ipotizzabile alcun termine di decadenza per l'impugnazione di un licenziamento intimato solo oralmente, sia perché il licenziamento orale deve ritenersi giuridicamente inesistente e inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto di 782 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE lavoro, sia perché l'art. 6, comma 1, della legge n. 604 del 1966 (come modificato dalla legge n. 183 del 2010) fissa il dies a quo del termine di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento «in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anche se in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale»; pertanto, il lavoratore può far valere in ogni tempo l'inefficacia del licenziamento, senza previa impugnativa stragiudiziale dello stesso (Sez. L, n. 22825/2015, Doronzo, in corso di massimazione). Con specifico riferimento alla struttura del cd. rito Fornero, dettato per l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi disciplinate dall'art. 18 st.lav., Sez. L, n. 03136/2015, Roselli, Rv. 634322, ha escluso che la fase dell'opposizione, ai sensi dell'art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, costituisca un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l'ordinanza, dovendosi piuttosto ravvisare una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria; conseguentemente, non può profilarsi alcuna incompatibilità ex art. 51, n. 4, c.p.c. per il giudice che, dopo aver condotto la fase sommaria, sia investito anche dell'opposizione. La pronuncia ha trovato successiva ed autorevole conferma nelle statuizioni di Corte cost., 13 maggio 2015, n. 78, che – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., degli artt. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. e 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 – ha respinto la prospettazione di un obbligo di astensione per il magistrato investito dell'opposizione che abbia pronunciato la precedente ordinanza. La Consulta ha rilevato che la prima fase – necessaria, sommaria ed informale – e la seconda successiva – eventuale e a cognizione piena – non vertono sullo stesso oggetto: mentre l'ordinanza opposta è pronunciata su un ricorso "semplificato" e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti allo stato indispensabili, l'opposizione non è limitata alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi, ma può investire anche diversi profili soggettivi (stante il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali; ciò esclude che la fase oppositoria possa configurasi come un altro grado del processo, rispetto al quale sarebbe da ritenersi sussistente l'obbligo di astensione. Anzi, il fatto che entrambe le fasi dell'unico grado di un procedimento unitario possano essere svolte dal medesimo magistrato si rivela funzionale all'attuazione del principio del giusto processo per il profilo della sua ragionevole durata e ad una miglior tutela del lavoratore (la 783 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE manifesta inammissibilità di un'analoga questione di legittimità costituzionale era stata pronunciata da Corte cost., 16 luglio 2014, n. 205). Dalla riconosciuta struttura bifasica del giudizio si evince che la fase a cognizione ordinaria iniziata con l'opposizione non costituisce un'impugnazione e, cioè, un'istanza di revisione del precedente giudizio, come tale inidonea ad introdurre nuovi temi; pertanto, l'opposizione può investire nuovi profili soggettivi ed oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto non sollevate dall'interessato durante la fase sommaria, come quella di decadenza dal potere di impugnazione, giudiziale ed extragiudiziale, del licenziamento ex art. 6 della legge n. 604 del 1966 (Sez. L, n. 25046/2015, De Marinis, in corso di massimazione). Il procedimento disciplinato dall'art. 1, commi 47 e ss., della legge n. 92 del 2012 mira ad abbreviare i tempi per addivenire alla definitiva decisione sull'impugnativa di un licenziamento ex art. 18, st.lav.; la specialità del rito, dunque, non è volta alla tutela dell'interesse del lavoratore, bensì a soddisfare esigenze di speditezza del processo. Da tali considerazioni Sez. L, n. 23073/2015, Doronzo, in corso di massimazione, trae i seguenti corollari: 1) il lavoratore non può rinunciare al rito speciale; 2) rientra nei poteri-doveri del giudice l'individuazione dei presupposti applicativi della speciale disciplina processuale; 3) il ricorrente non ha l'onere di allegare la sussistenza del "requisito dimensionale" del datore di lavoro ex art. 18 st.lav. (potendo peraltro desumersi l'allegazione proprio dalla scelta del "rito Fornero" e la sua implicita conferma dalla condotta assertiva della controparte); 4) conseguentemente, il lavoratore non ha l'onere di provare il predetto requisito dimensionale, spettando casomai al datore di lavoro fornire supporto probatorio alla propria eccezione di insussistenza del presupposto applicativo. La peculiarità del rito e le sue finalità "acceleratorie" riguardano anche il thema decidendum: non a caso l'art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 stabilisce esplicitamente che il cumulo di domande diverse è ammesso solo se siano basate su fatti costitutivi identici a quelli fondanti la richiesta di tutela reale, volendosi così evitare un ampliamento dell'ambito di applicazione del procedimento speciale o, comunque, un suo rallentamento dovuto alla trattazione di istanze eterogenee. Per tale ragione deve, quindi, reputarsi improponibile la domanda di riassunzione ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, proposta dal lavoratore in via subordinata all'applicazione dell'art. 18 st.lav., attesa la diversità (in particolare, 784 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE quanto al numero dei dipendenti e alla natura delle imprese datrici) dei rispettivi fatti costitutivi (Sez. L, n. 16662/2015, Maisano, Rv. 636735). Nel procedimento regolato dal cd. rito Fornero è ammessa, nella fase sommaria, una pronuncia sulla competenza per territorio del giudice e l'ordinanza ha, anche su tale statuizione, attitudine al giudicato (Sez. U, n. 17443/2014, Di Cerbo, Rv. 632605); al contrario, il mancato rilievo, ex officio o su eccezione di parte, dell'incompetenza del giudice nel procedimento cautelare ante causam (ex art. 700 c.p.c., per l'immediata reintegra) non determina il definitivo consolidamento della competenza dell'ufficio giudiziario adito anche per il successivo giudizio di merito, in quanto nel procedimento cautelare non trova applicazione il regime dell'art. 38 c.p.c., a norma del quale la causa si radica definitivamente innanzi al giudice incompetente se la questione non è tempestivamente rilevata o eccepita (Sez. 6-L, n. 00797/2015, Fernandes, Rv. 633997). Da ultimo, in applicazione dei principi affermati da Corte cost., 14 gennaio 1977, n. 15 con riguardo all'art. 435, comma 2, c.p.c., si è ritenuto – coordinando il «principio della giusta durata del processo» e «quello del giusto processo» – che il decreto di fissazione dell'udienza ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012 (nella fase di opposizione) debba essere comunicato all'opponente e che solo da tale momento decorra il termine per la notificazione all'opposto; perciò, in difetto della rituale comunicazione del provvedimento e anche in assenza di qualsivoglia tentativo di notifica, la parte opponente va rimessa in termini per consentire l'instaurazione del contraddittorio con la controparte (Sez. L, n. 22355/2015, Maisano, in corso di massimazione). 7. Profili specifici del processo in materia di previdenza. 7.1. La competenza territoriale. In tema di competenza territoriale per le controversie relative agli obblighi dei datori di lavoro ed all'applicazione delle relative sanzioni civili, Sez. 6-L, n. 10702/2015, Marotta, Rv. 635460, precisa che, ai sensi dell'art. 444, comma 3, c.p.c., per ufficio dell'ente, da individuare in correlazione alla sede dell'impresa o ad una sua dipendenza, deve intendersi quello che, in quanto investito del potere di gestione esterna, sia in generale legittimato, per legge o per statuto, a ricevere i contributi ed a pretenderne il pagamento o a restituirne l'eccedenza, senza che influiscano gli eventuali provvedimenti derogatori con cui si attribuiscano tutti o parte dei rapporti assicurativi e previdenziali ad 785 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE uffici con competenza territoriale su ambiti non comprensivi della sede dell'impresa, nonché la previsione di centri operativi non dotati, in concreto, del potere di gestione esterna dei rapporti contributivi con i soggetti aventi sede nella corrispondente circoscrizione territoriale. Sez. 6-L, n. 15620/2015, Fernandes, Rv. 636583, ribadisce invece che la competenza territoriale per le controversie relative agli obblighi di assistenza e previdenza derivanti dall'autonomia collettiva, appartiene al giudice del foro generale delle persone fisiche di cui all'art. 18 c.p.c., in forza del rinvio operato dagli artt. 442, comma 2, e 413, comma 7, c.p.c.; il principio viene affermato con riferimento ad un giudizio avente ad oggetto la restituzione di prestazioni indebitamente corrisposte a seguito della cessazione del rapporto previdenziale. 7.2. La consulenza tecnica. Evidenzia Sez. 6-L, n. 13631/2015, Marotta, Rv. 635848, che la rilevabilità di ufficio della nullità della consulenza tecnica in tema di procedimenti relativi a prestazioni previdenziali e assistenziali, per il mancato inoltro della comunicazione di cui all'art. 10, comma 6 bis, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, al direttore della sede provinciale INPS competente, introdotta dall'art. 38, comma 7, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111, non si applica quando la consulenza sia stata disposta in epoca antecedente all'entrata in vigore di detta ultima legge, trattandosi di norma processuale applicabile esclusivamente agli atti ad essa successivi. 7.3. I mezzi di prova. Per Sez. 6-L, n. 01704/2015, Garri, Rv. 634084, il requisito economico previsto dall'art. 12, comma, 2 della legge 30 marzo 1971 n. 118, costituisce un elemento costitutivo del diritto alla pensione di inabilità civile, sicché la relativa documentazione deve essere tempestivamente allegata sin dal giudizio di primo grado, fatto salvo il ricorso del giudice d'appello ai propri poteri istruttori d'ufficio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 421 e 437 c.p.c., anche in presenza di decadenze e preclusioni già verificate, con obbligo tuttavia di motivazione in ordine all'ammissione di documentazione reddituale non prodotta in primo grado. Più rigorosamente Sez. 6-L, n. 00547/2015, Pagetta, Rv. 634096, afferma che nelle controversie assistenziali è inammissibile la produzione in appello della documentazione relativa al cd. 786 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE requisito reddituale, che, vertendo su circostanze già deducibili e dimostrabili in primo grado, non è giustificata in relazione all'evolversi della vicenda processuale. Né può rilevare, ai fini dell'attivazione dei poteri officiosi, ex art. 437, comma 2, c.p.c., la presenza in atti (in quanto allegata al ricorso di primo grado) della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà riferita al medesimo requisito, poiché essa non ha, in difetto di diversa e specifica previsione di legge, alcun valore probatorio, neanche indiziario, nel giudizio civile, atteso che la parte non può far derivare elementi di prova favorevoli, ai fini del soddisfacimento dell'onere della prova, da proprie dichiarazioni. In tema di assegno d'invalidità, per Sez. L, n. 13973/2015, Balestrieri, Rv. 635821, il requisito socio-economico richiesto dall'art. 13, comma 2, della legge n. 118 del 1971, costituisce un fatto costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale che, ove non contestato, può ritenersi provato, purché esaustivamente dedotto in giudizio dall'attore, mentre Sez. L, n. 01606/2015, De Renzis, Rv. 634304, evidenzia che, anche a seguito della modifica della legge n. 118 del 1971, in forza dell'art. 1, comma 35, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 - che ha sostituito il requisito dello stato di inoccupazione alla cd. incollocazione al lavoro -, la prova del mancato svolgimento di attività lavorativa non può essere data in giudizio mediante una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, che è rilevante nei rapporti amministrativi ma priva di efficacia probatoria in sede giurisdizionale. Sez. L, n. 17702/2015, Doronzo, Rv. 636801, chiarisce invece che la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo non ha valore di confessione stragiudiziale, con piena efficacia probatoria nel rapporto processuale, ma costituisce prova liberamente apprezzabile dal giudice in quanto l'ispettore del lavoro, pur agendo quale organo della P.A., non la rappresenta in senso sostanziale, e, quindi, non è il destinatario degli effetti favorevoli, ed è assente l'animus confitendi, trattandosi di dichiarazione resa in funzione degli scopi dell'inchiesta. 7.4. Il regime delle spese. In parte innovativa la decisione delle Sezioni Unite, n. 10454/2015, Nobile, Rv. 635277, che, nel risolvere un contrasto presente nella Sezione Lavoro sui criteri da utilizzare ai fini della individuazione del valore della lite nelle controversie previdenziali ed assistenziali, ha affermato che nelle sole controversie relative a prestazioni assistenziali, il valore della 787 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE causa ai fini della liquidazione delle spese di giudizio si stabilisce con il criterio previsto dall'art. 13, comma 1, c.p.c. per le cause relative alle prestazioni alimentari, sicché, se il titolo è controverso, il valore si determina in base all'ammontare delle somme dovute per due anni. In effetti, secondo un indirizzo prevalente, e da ultimo consolidato, vi era una sostanziale assimilazione delle controversie previdenziali e di quelle assistenziali ai fini della liquidazione delle spese giudiziali e per entrambe il valore della causa veniva determinato in base all'art. 13, comma 2, c.p.c. ‹‹cumulando le annualità domandate fino a un massimo di dieci››, in base alla considerazione che le relative prestazioni, pur partecipando della natura delle prestazioni alimentari, si concretizzano in una somma di denaro da corrispondere periodicamente e sono assimilabili alla rendita temporanea o vitalizia; vi era poi un indirizzo molto risalente che optava per l'applicazione ad entrambe le controversie del criterio di cui al comma 1 dell'art. 13 c.p.c. La S.C., dopo aver messo in risalto le diversità tra le prestazioni di assistenza sociale, fondate e parametrate totalmente ed esclusivamente sullo stato di bisogno e sulla necessità di assicurare i mezzi necessari per vivere, e le prestazioni previdenziali che da un lato presuppongono un rapporto assicurativo, che è assente nelle prime, e dall'altro sono strutturate e finalizzate in funzione di una tutela più ampia per i lavoratori assicurati, e rilevato che tale differenza trova fondamento proprio nell'art. 38 Cost., che al comma 1 garantisce ai cittadini inabili e bisognosi il minimo esistenziale necessario per vivere, mentre al comma 2 garantisce ai lavoratori non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari di pura sussistenza materiale, bensì anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita consentito da un pregresso reddito di lavoro, ha concluso confermando l'indirizzo consolidato, dell'applicabilità del comma 2 dell'art. 13 c.p.c., con riguardo alle prestazioni previdenziali, mentre ha enunciato il principio innanzi indicato per le controversie relative alle prestazioni assistenziali. Sez. 6-L, n. 00545/2015, Pagetta, Rv. 634268, afferma poi che la parte, che ai fini dell'esenzione delle spese nelle cause per prestazioni previdenziali ha l'onere, ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c., di formulare la dichiarazione sostitutiva di certificazione del reddito, attestante il rispetto della soglia reddituale, con la quale si impegna altresì a comunicare le eventuali variazioni rilevanti dei limiti reddituali intervenute fino alla definizione del processo, nel 788 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello di condanna alle spese per l'assenza in atti della prescritta dichiarazione, non può limitarsi a richiamare quella contenuta negli atti del giudizio di primo grado, ma è tenuta a riprodurne il contenuto, onde permettere la verifica della sua conformità alle prescrizioni di legge. 7.5. L'accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c. Le prime tre sentenze dell'anno in tema di accertamento tecnico preventivo previdenziale (di seguito a.t.p.), la Sez. L. n. 08533/2015, Rv 635345, la Sez. L. n. 08878/2015, Rv. 636354 e la Sez. L. 08932/2015, Rv, 635347, unico relatore Ghinoy, oltre che per le questioni specifiche affrontate, evidenziate dai principi massimati che saranno innanzi riportati, assumono una particolare rilevanza in quanto nella parte motiva segnano una attesa inversione di tendenza rispetto alla posizione inizialmente assunta dalla S. C. in ordine alla natura dello strumento processuale e soprattutto alla posizione ed i poteri del giudice nella prima fase di questa procedura. Appare infatti definitivamente abbandonata l'interpretazione proposta da Sez. L, n. 06085/2014, La Terza, Rv. 630605 e 630606, che configurava per il giudice quasi un obbligo di procedere all'espletamento della consulenza medico-legale, senza alcun vaglio preventivo dei presupposti processuali della domanda, a favore invece di una valorizzazione, con finalità deflattiva e antiabusiva, dei poteri giurisdizionali in merito alla verifica preliminare dell'inesistenza di ostacoli al riconoscimento del diritto alla prestazione richiesta, e quindi dell'ammissibilità dell'a.t.p. in proiezione di un effettivo interesse ad agire della parte. La Suprema Corte chiarisce, infatti, che prima di dare ingresso all'accertamento medico legale il giudice è chiamato ad accertare sommariamente la propria competenza, la ricorrenza di una delle ipotesi per le quali è previsto il ricorso alla procedura prevista dall'art. 445 bis c.p.c., l'avvenuta presentazione della domanda amministrativa e del ricorso amministrativo, la tempestività del ricorso giudiziario rispetto alle possibile decadenze, la sussistenza di presupposti costitutivi della prestazione di immediata ed incontrovertibile percezione; solo qualora tale verifica abbia dato esito positivo potrà proseguire nella procedura, mentre, in mancanza di uno di tali elementi, dovrà dichiarare il ricorso inammissibile, con una pronuncia priva di incidenza con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale, che non preclude infatti l'ordinario giudizio di cognizione sul diritto vantato. 789 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE In linea con tale ricostruzione, Sez. L, n. 08932/2015, Ghinoy, Rv. 635347, statuisce che non è ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost. l'ordinanza di inammissibilità del ricorso per a.t.p. per difetto dei relativi presupposti, in quanto di tratta di un provvedimento che non incide con effetto di giudicato sulla situazione soggettiva sostanziale, data la possibilità per l'interessato di promuovere il giudizio di merito e la sua idoneità a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all'art. 445 bis, comma 2, c.p.c., perché conclusivo della fase sommaria. Sez. L, n. 08533/2015, Ghinoy, Rv. 635345, sul presupposto che l'a.t.p. ex art. 445 bis c.p.c., avente ad oggetto la verifica dei requisiti sanitari che legittimano la pretesa previdenziale o assistenziale, diviene definitivo, in assenza di contestazioni, con il decreto di omologa, vincolando poi l'ente competente all'erogazione, salvo l'accertamento dei soli requisiti giuridico- economici della prestazione invocata, riconosce all'Istituto un interesse, ex art. 100 c.p.c., a contestare le conclusioni della consulenza che accerti la sussistenza delle condizioni per una delle prestazioni cui il ricorso è preordinato. In Sez. L, n. 08878/2015, Ghinoy, Rv. 635354, si chiarisce invece che il decreto di omologa del requisito sanitario ritenuto sussistente dal c.t.u., emesso dal giudice ai sensi dell'art. 445 bis, comma 5, c.p.c., non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. in assenza di tempestive contestazioni, poiché le conclusioni dell'accertamento divengono intangibili solo se non contestate nel termine fissato dal giudice ai sensi del comma 4 dello stesso articolo, con possibilità delle parti di impedire, quindi, l'emissione stessa del decreto di omologa e ciò in ragione della necessità di contemperare le esigenze di tutela del diritto di difesa con quelle di garanzia della ragionevole durata del processo. Le ulteriori decisioni in tema contribuiscono poi a chiarire le regole processuali applicabili a questo procedimento ibrido e peculiare. Sez. L, n. 12332/2015, Manna, Rv. 635843, evidenzia che la sentenza emessa all'esito del giudizio di merito conseguente all'accertamento tecnico preventivo previdenziale è soggetta all'ordinario ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., e non al ricorso straordinario ex art 111 Cost., trattandosi di provvedimento la cui appellabilità è esclusa dall'art. 445 bis, ultimo comma, c.p.c.; nella stessa sentenza si evidenzia, con il principio di cui alla massima Rv. 635844, che la parte che intenda contestare le conclusioni del consulente tecnico di ufficio è tenuta, a pena di inammissibilità, a 790 CAP. XXXVIII - IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE specificarne i motivi non già con la presentazione della dichiarazione di dissenso ex art. 445 bis, comma 4, c.p.c., ma direttamente con il successivo ricorso introduttivo del giudizio di cui al comma 6, poiché non prevedendo la norma una fase intermedia di interlocuzione con il giudice o la controparte, è processualmente inutile anticipare la specificazione delle ragioni di contestazione al momento della dichiarazione di cui al comma 4, tanto più che a quest'ultima potrebbe anche non seguire l'introduzione del giudizio di cognizione. Secondo Sez. L, n. 13662/2015, Manna, Rv. 635957, va comunque escluso che l'ammissione della consulenza tecnica in sede di a.t.p. ex art. 445 bis c.p.c., prima che sia stata verificata l'esistenza dell'interesse ad agire e dei requisiti socio economici previsti dalla legge, comporti un error in procedendo sanzionato dalla legge a pena di nullità, sicché tale vizio non è deducibile in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Sempre in tema, Sez. 6-L, n. 13550/2015, Arienzo Rv. 635841, afferma che anche la statuizione sulle spese, contenuta nella sentenza che chiude il procedimento instaurato a seguito del dissenso della parte ricorrente, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi di provvedimento non appellabile ma per il quale non è precluso il ricorso per cassazione, mentre per Sez. L, n. 11919/2015, Tria, Rv. 635664, è inammissibile, per difetto di interesse, l'impugnazione del decreto di omologa relativamente alla declaratoria di compensazione delle spese ove il ricorso, volto ad ottenere il mero accertamento di condizioni sanitarie, non abbia ad oggetto la richiesta di specifici benefici ma sia solo prodromico alla proposizione di eventuali future domande amministrative. 791 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE CAPITOLO XXXIX IL PROCESSO DI ESECUZIONE (di Raffaele Rossi) SOMMARIO: 1. Condizioni dell'azione esecutiva. – 2. Titolo esecutivo. – 3. Espropriazione presso terzi. – 4. Espropriazione immobiliare: forma dell'atto di pignoramento e suo oggetto del pignoramento. – 4.1. La vendita forzata. – 5. Opposizioni esecutive: profili comuni. – 6. Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione. – 7. Opposizione atti esecutivi. – 8. Controversie in sede di distribuzione del ricavato. – 9. Sospensione dell'esecuzione. 1. Condizioni dell'azione esecutiva. In tutte le sue diversificate tipologie, il processo esecutivo costituisce estrinsecazione del potere di azione, teleologicamente finalizzato alla soddisfazione di un diritto di credito accertato in un titolo esecutivo, la cui esistenza è stata tradizionalmente considerata la sola condizione, ad un tempo necessaria e sufficiente, per procedere ad esecuzione forzata (nulla executio sine titulo). Ma l'esecuzione forzata è anche una forma di attività giurisdizionale, come tale permeata dai (anzi, soggiacente ai) principi di grado sovraordinato che conformano ogni controversia: le regole della correttezza e buona fede cui dev'essere improntata la condotta delle parti, il giusto processo, la durata ragionevole dei giudizi. Proprio muovendo da queste considerazioni di fondo, la giurisprudenza dell'anno in rassegna è giunta a denegare la esperibilità della tutela esecutiva se volta a soddisfare bisogni o conseguire beni giuridicamente irrilevanti, attribuendo all'interesse ad agire valenza di condizione dell'azione esecutiva esterna ed autonoma, abbisognevole cioè di verifica in concreto e non già elemento implicito nel titolo esecutivo, in re ipsa ravvisabile per il solo fatto della sussistenza di un titolo, valido ed efficace, e di un diritto di credito non ancora estinto. Così, Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, ha ritenuto, in caso di crediti a contenuto e funzione esclusivamente patrimoniali, difetti, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata quando l'entità economica del credito sia oggettivamente minima e perciò giuridicamente irrilevante, dovendo la tutela del diritto di azione ex art. 24 Cost. essere contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 792 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE CEDU (nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di circa euro 12,00 per interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento). Il principio, costituzionalmente garantito, del giusto processo e l'imprescindibile osservanza degli obblighi di buona fede e correttezza giustificano altresì una limitazione al possibile esercizio dell'azione esecutiva allorquando l'iniziativa del creditore configuri un abuso dello strumento processuale. Affermata la astratta legittimità del cumulo dei mezzi di espropriazione (cioè a dire della facoltà del creditore di promuovere nei confronti del debitore plurime procedure coattive, anche di diverso tipo, sino alla soddisfazione effettiva ed integrale del credito), Sez. 3, n. 07078/2015, Rubino, Rv. 635106, ritiene che l'emissione di un'ordinanza di assegnazione, sebbene di regola non precluda la possibilità di ottenerne altre in relazione allo stesso titolo e fino alla soddisfazione effettiva del credito, rende illegittima la scelta del creditore di intraprendere una nuova esecuzione, allorché egli sia stato integralmente soddisfatto in forza di detto provvedimento e non deduca la mancata ottemperanza all'ordine di assegnazione da parte del suo destinatario. Per converso, vanno ravvisati l'interesse e la legittimazione ad agire in via esecutiva anche se il creditore sia stato costituito in mora dal debitore. Ad avviso di Sez. 3, n. 08711/2015, Barreca, Rv. 635204, infatti, mora accipiendi e liberazione del debitore non coincidono: la prima (nel caso, con offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati dall'art. 1207 c.c.; la seconda, invece, resta subordinata, per legge, all'esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato. 2. Titolo esecutivo. Il catalogo dei titoli esecutivi descritto dall'art. 474 c.p.c. costituisce – come è noto – un numerus clausus, per essere riservata l'idoneità a giustificare la soddisfazione in forma coattiva dei crediti ad atti o provvedimenti tassativamente individuati dalla legge. Non di rado, tuttavia, la giurisprudenza si è trovata a dirimere controversie in ordine alla qualificazione come titolo esecutivo di determinati provvedimenti giudiziali per i quali, in difetto di 793 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE espressa attribuzione positiva, la efficacia in executivis derivi dalla considerazione sistematica dell'ordito normativo e si correli alla natura e funzione del provvedimento stesso. In questo filone si inseriscono: - Sez. 3, n. 13316/2015, Vivaldi, Rv. 635982, secondo cui il decreto di approvazione dell'attribuzione di quote nelle operazioni di divisione, emanato ai sensi dell'art. 195 disp. att. c.p.c., costituisce titolo esecutivo eseguibile anche nei confronti del terzo detentore del bene, il quale è legittimato a proporre opposizione all'esecuzione forzata per rilascio solo a condizione della esistenza in suo favore di un titolo autonomo; - Sez. 3, n. 20593/2015, Chiarini, Rv. 637444, secondo cui il provvedimento emesso ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c., confermativo dell'ordinanza con la quale il giudice di prime cure abbia rigettato la richiesta di reintegra nel possesso, rappresenta titolo esecutivo per il pagamento delle spese di giudizio, sostituendo integralmente, in conseguenza dell'effetto devolutivo, l'ordinanza reclamata, sicché se l'esecuzione non ha avuto inizio in base al primo titolo esecutivo, va notificato il solo provvedimento emesso sul reclamo. In presenza di dubbia riconduzione nell'ambito dei titoli esecutivi di formazione stragiudiziale, l'accertamento giudiziale concerne invece (non solo la forma ma innanzitutto) il contenuto del documento. A parere di Sez. 3, n. 17194/2015, Rubino, Rv. 636305, al fine di accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo, ai sensi dell'art. 474 c.p.c., occorre verificare, attraverso la sua esegesi integrata con quanto previsto nell'atto di erogazione e quietanza o di quietanza a saldo ove esistente, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge. Ancora in materia di titolo esecutivo, merita segnalazione Sez. 3, n. 10543/2015, De Stefano, Rv. 635608, la quale, con diffusa ed articolata motivazione, ricostruisce analiticamente la peculiare figura del titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE 21 aprile 2004, n. 805. In detta pronuncia, la S.C. chiarisce che il titolo esecutivo europeo non corrisponde ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè: - da un lato, un titolo esecutivo domestico, stragiudiziale (con alcune peculiarità) oppure reso all'esito di una 794 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE procedura giudiziale nazionale tipica nella quale però siano state osservate norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione da parte del debitore ingiunto; - dall'altro lato, un provvedimento emesso dallo Stato di formazione del titolo, ulteriore e distinto rispetto ad esso, che riscontri il rispetto di tali norme, ovvero il certificato di titolo esecutivo europeo vero e proprio, che rende il titolo idoneo alla circolazione intraeuropea e a fondare un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell'Unione. Da tale premessa sistematica, si inferisce che il certificato, avente la descritta funzione meramente servente rispetto al titolo esecutivo nazionale, non ha natura decisoria, sicché le contestazioni del debitore, relative alla regolare formazione del titolo esecutivo, debbono essere fatte valere unicamente attraverso i mezzi di impugnazione esperibili avverso di esso, mentre va escluso che il provvedimento adottato dalla Corte di appello in sede di reclamo proposto avverso il diniego di revoca del certificato possa essere impugnato con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.. Quanto all'efficacia ultra partes del titolo, ovvero nei confronti di soggetti diversi dal debitore, la peculiare previsione relativa agli eredi del debitore dettata dall'art. 477 c.p.c. è stata esaminata da Sez. 3, n. 14653/2015, Barreca, Rv. 636290, chiara nel precisare che la citata norma non impone alcun obbligo di notificare nuovamente il titolo esecutivo ed il precetto agli eredi di una persona defunta alla quale siano già stati notificati sia l'uno che l'altro, sussistendo invece tale obbligo qualora alla persona poi defunta non sia stato notificato né l'uno né l'altro, oppure sia stato notificato solo il titolo esecutivo e non anche il precetto. 3. Espropriazione presso terzi. Numericamente non cospicue nell'anno in rassegna le decisioni degne di attenzione in materia di espropriazione presso terzi. Quanto ai requisiti di forma-contenuto ed alla scansione temporale dell'atto introduttivo, si segnalano: - Sez. 3, n. 06835/2015, Barreca, Rv. 634822, per la quale è soltanto irregolare – e non già affetto da inesistenza o nullità – il pignoramento presso terzi in cui l'intimazione al terzo pignorato di non disporre, senza ordine del giudice, delle somme o delle cose da lui dovute al debitore esecutato appaia proveniente dall'ufficiale giudiziario, richiesto di effettuare il pignoramento, piuttosto che dal creditore pignorante, tenutovi ai sensi dell'art. 543, comma 2, n. 2), c.p.c.; 795 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE - Sez. 3, n. 02742/2015, Chiarini, Rv. 634370, secondo cui il pignoramento presso terzi eseguito prima del perfezionamento della notificazione del precetto nei confronti del debitore è legittimo qualora sia stata concessa l'autorizzazione all'esecuzione immediata ex art. 482 c.p.c., poiché in tal caso l'atto prodromico ha la sola funzione di informare il destinatario dell'iniziativa esecutiva del creditore e non quella di consentire l'adempimento spontaneo. Nella espropriazione presso terzi, una evenienza assai frequente (quasi paradigmatica) è la sottoposizione a pignoramento di crediti aventi scaturigine in rapporti bancari: sul tema, di estremo interesse, si veda Sez. 3, n. 06393/2015, Vivaldi, Rv. 634964, puntuale nel sottolineare che in ipotesi di contratto di conto corrente bancario affidato con saldo negativo, il creditore non può pignorare le singole rimesse che, affluite sul conto del debitore, hanno comportato la mera riduzione dello scoperto, ma eventualmente il solo saldo positivo, atteso che il contratto in questione dà luogo ad un rapporto giuridico unitario, composto da poste attive e passive, che non si risolve a seguito del pignoramento. L'esito naturale dell'espropriazione presso terzi, satisfattivo delle pretese creditorie con la stessa azionate, nonché atto conclusivo del procedimento, è rappresentato dalla ordinanza di assegnazione dei crediti staggiti emessa dal G.E., la quale, ancorché non idonea al giudicato, integra titolo esecutivo di formazione giudiziale, suscettibile a sua volta di essere azionato in via coattiva dal creditore assegnatario nei confronti del terzo pignorato. Quest'ultimo soggetto, tuttavia, non è affatto sprovvisto di tutela: ove intenda eccepire al creditore assegnatario fatti estintivi o impeditivi della sua pretesa sopravvenuti alla pronuncia della ordinanza oppure contestare la pretesa azionata con il precetto può avvalersi dell'opposizione all'esecuzione (Sez. 6-3, n. 11493/2015, Barreca, Rv. 635563); qualora invece intenda far valere avverso l'ordinanza di assegnazione vizi di regolarità formale o sostanziale riferiti a singoli atti esecutivi ovvero al provvedimento stesso, può proporre opposizione agli atti esecutivi (Sez. L, n. 19157/2015, Patti, Rv. 637191). Circa la decorrenza del termine perentorio per opporre ex art. 617 c.p.c. l'ordinanza di assegnazione, Sez. 3, n. 21081/2015, Barreca, Rv. 637447, opera una attenta distinzione. La pronuncia individua infatti il dies a quo nella data di emissione del provvedimento reso in udienza alla presenza del terzo qualora si tratti di procedure regolate dall'art. 543 c.p.c. nella formulazione anteriore alla modifica operata dalla legge 24 febbraio 2006, n. 52; 796 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE nelle espropriazioni presso terzi assoggettate al così novellato regime (in cui non è più prevista la citazione del terzo a comparire per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 c.p.c. bensì la comunicazione a mezzo lettera da parte del medesimo al creditore circa l'esistenza del credito), il termine decorre, per il terzo, dal momento in cui questi ne abbia legale conoscenza tramite comunicazione da parte del creditore o con altro strumento idoneo, non trovando applicazione l'art. 176, comma 2, c.p.c.: principio di assoluto rilievo, considerata la generalizzazione delle modalità semplificate di rendimento della dichiarazione del terzo (lettera raccomandata o posta elettronica certificata) operata dalla legge 10 novembre 2014, n. 162. Sullo stesso argomento, Sez. 6-3, n. 25110/2015, Barreca, in corso di massimazione, ribadisce la centralità della conoscenza legale: il termine per proporre l'opposizione agli atti esecutivi avverso l'ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. decorre, per il terzo pignorato, dal momento in cui ha avuto conoscenza legale di questa ordinanza, tramite notificazione da parte del creditore, e non dalla data di notificazione dell'atto di precetto, se effettuata successivamente alla notificazione dell'ordinanza di assegnazione che costituisce il titolo esecutivo per agire in executivis nei confronti del terzo. Ancora in ordine alla posizione del terzo pignorato, Sez. 3, n. 13191/2015, Rossetti, Rv. 635974, ne esclude la qualità di parte necessaria nei giudizi di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi da altri soggetti intraprese, qualora non sia interessato alle vicende processuali relative alla legittimità e alla validità del pignoramento, dalle quali dipende la liberazione dal relativo vincolo. 4. Espropriazione immobiliare: forma dell'atto di pignoramento e suo oggetto. Svariati i profili di disciplina della espropriazione immobiliare passati al vaglio del giudice della nomofilachia. Muovendosi secondo l'ordinaria serie procedimentale, vanno considerate in primis le pronunce afferenti la struttura del pignoramento, quale atto complesso avente ad oggetto un diritto reale su bene immobile, questione resa problematica dalle peculiari connotazioni giuridiche della res aggredita e dalla necessaria incidenza delle regole della pubblicità immobiliare. Nella ricostruzione ermeneutica della sequenza delle attività contemplate dall'art. 555 c.p.c. («il pignoramento immobiliare si esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione di un atto»), la 797 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE basilare Sez. 3, n. 07998/2015, Barreca, Rv. 635099, all'esito di una compiuta disamina dei differenti orientamenti espressi dai precedenti di legittimità, configura i due adempimenti della notificazione e della trascrizione come elementi strutturali di una fattispecie a formazione progressiva, differenziando le funzioni assolte da ciascuno di essi. In dettaglio, la notificazione al debitore esecutato – con la ingiunzione ai sensi dell'art. 492 c.p.c. in esso contenuta – è l'atto di inizio del processo esecutivo, necessario e sufficiente per la produzione di effetti autonomamente rilevanti (imprimere il vincolo di indisponibilità sul bene, costituire il debitore custode ex lege dello stesso); la trascrizione nei registri immobiliari ha invece la funzione di completare e perfezionare il pignoramento, determinando effetti di natura sostanziale, quale condizione di efficacia dell'atto nei confronti dei terzi (oltre che di pubblicità notizia nei riguardi dei creditori concorrenti) ma anche di natura processuale, ponendosi come presupposto imprescindibile perché l'esecuzione si svolga e raggiunga il suo esito fisiologico, talché, in caso di mancanza o di inefficacia della trascrizione, il giudice non può dare seguito ad un'istanza di vendita del bene. Nello stesso ordine di idee, dalla rilevanza della trascrizione quale atto integrativo della efficacia del pignoramento immobiliare – preordinata alla opponibilità ai terzi della vendita o dell'assegnazione ed impeditiva, se omessa o inefficace, della messa in vendita del bene – Sez. 3, n. 09572/2015, Vivaldi, Rv. 635270, desume l'applicabilità al termine per la rinnovazione della trascrizione della disposizione (di carattere generale giusta gli artt. 1187, comma 2, c.c. e 155, comma 4, c.p.c.) concernente la proroga di diritto del giorno di scadenza, se festivo, al primo giorno seguente non festivo. La considerazione in modo unitario delle due articolazioni del pignoramento immobiliare (cioè a dire della reciproca interazione, per complementarietà di destinatari e funzioni, tra l'atto di pignoramento notificato al debitore e la sua trascrizione) sorregge l'iter argomentativo di Sez. 3, n. 06833/2015, De Stefano, Rv. 635143, chiamata a delibare sulla ritualità di un atto di pignoramento immobiliare privo – a differenza della nota della sua trascrizione – dell'indicazione dell'esatta quota di proprietà, in capo al debitore, dell'immobile staggito. Elemento essenziale per la funzionalità stessa del processo esecutivo è la compiuta e certa identificazione del bene staggito sin dal pignoramento al fine di garantirne la successiva circolazione: sussiste pertanto nullità del pignoramento di beni appartenenti solo in quota all'esecutato ove, 798 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE nel relativo atto, non sia indicata la misura di quest'ultima, dovendosi tuttavia escludere qualsivoglia vizio inficiante qualora la misura della quota dell'esecutato si ricavi univocamente dalla nota di trascrizione, avuto riguardo alla reciproca integrazione tra i due atti e del generale principio di conservazione degli atti del processo. Relativa alla forma del pignoramento è pure Sez. 3, n. 02859/2015, Barreca, Rv. 634397: è valido l'atto ex art. 555 c.p.c. recante un'unica sottoscrizione dell'ufficiale giudiziario, apposta in calce alla relazione di notificazione stilata di seguito all'ingiunzione al debitore ex art. 492 c.p.c., garantendo siffatta sottoscrizione la provenienza dall'ufficiale giudiziario anche dell'ingiunzione. Come è noto, compete al giudice dell'esecuzione il potere- dovere di verificare, mediante l'esame della documentazione ipocatastale ex art. 567 c.p.c., la titolarità in capo al debitore esecutato del diritto (di proprietà o diritto reale minore) pignorato sul bene immobile, verifica di natura formale basata su indici di appartenenza del bene desumibili dalle risultanze dei registri immobiliari. Ad avviso di Sez. 3, n. 06833/2015, De Stefano, Rv. 635143, l'accertamento, a seguito di detta verifica, di una estensione del diritto nella titolarità del debitore di contenuto minore rispetto a quanto prospettato nel pignoramento (definibile, quindi, in eccesso), non inficia l'espropriazione: per il principio di conservazione degli atti processuali, il pignoramento resta valido ed efficace limitatamente al diritto nella minore estensione o quota di cui l'esecutato sia titolare, alla duplice condizione che non si dia luogo alla costituzione di nuovi diritti (in precedenza inesistenti) sul bene staggito e che il creditore, annettendo espressamente carattere di inscindibilità al diritto pignorato, insista sulla vendita del diritto sul bene come da lui erroneamente individuato e non di altro o minore. Quanto all'oggetto della espropriazione immobiliare, Sez. 1, n. 19658/2015, Nappi, Rv. 637271, ribadisce la validità della vendita forzata di immobile urbanisticamente abusivo, non applicandosi alla procedura esecutiva la nullità prevista dall'art. 40, comma 5, della legge 28 febbraio 1985, n. 47. 4.1. La vendita forzata. Fatte salve evenienze peculiari che determinano un diverso esito (ad esempio, la conversione del pignoramento), il momento centrale della espropriazione forzata immobiliare è rappresentato dalla fase liquidativa, ovvero dalla trasformazione del bene staggito in denaro liquido da distribuire poi tra i creditori. 799 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE L'intera sequenza delle operazioni di liquidazione forzata dell'immobile pignorato è retta da un provvedimento del giudice dell'esecuzione, l'ordinanza che dispone la vendita, che costituisce la lex specialis dell'intero segmento procedimentale e regola, anche mediante una eterointegrazione del dato positivo (cioè con statuizioni ulteriori rispetto alle previsioni minime normative), modalità, tempi e condizioni della vendita. La rigorosa ed incondizionata osservanza delle prescrizioni dettate con l'ordinanza di vendita, anche in ordine ad eventuali modalità straordinarie di pubblicità aggiuntive rispetto a quelle obbligatorie di cui all'art. 490 c.p.c., si impone dunque a garanzia dell'uguaglianza e parità di condizioni tra tutti i potenziali partecipanti alla gara, nonché dell'affidamento da ciascuno di loro riposto nella trasparenza e complessiva legalità della procedura: questi argomenti inducono Sez. 3, n. 09255/2015, De Stefano, Rv. 635283, a reputare che la violazione delle condizioni di vendita fissate con l'ordinanza ex art. 569 c.p.c. comporta l'illegittimità dell'aggiudicazione, che può essere fatta valere da tutti gli interessati, cioè da tutti i soggetti del processo esecutivo, compreso il debitore. Sulla validità della ordinanza di vendita – precisa Sez. 3, n. 02474/2015, Vivaldi, Rv. 634267 – non incide invece la circostanza che il prezzo base sia stato fissato con riferimento ad una stima effettuata da un esperto verosimilmente inferiore al valore effettivo di mercato, trattandosi di un dato indicativo, che non pregiudica l'esito della vendita e la realizzazione del giusto prezzo attraverso la gara tra più offerenti. Come ogni provvedimento reso dal G.E., anche l'ordinanza che dispone la vendita è suscettibile di revoca o modifica, in ossequio al dettato dell'art. 487 c.p.c.; modifica ritenuta praticabile, in un fattispecie del tutto peculiare, da Sez. 3, n. 03607/2015, Rubino, Rv. 634526, mediante un provvedimento generale innovativo delle condizioni di svolgimento di tutte le vendite forzate dell'ufficio, purché emesso prima dell'esperimento di vendita, debitamente pubblicizzato nelle forme di cui all'art. 490 c.p.c. e non impugnato con l'opposizione agli atti esecutivi (nel caso, si è ritenuta valida la vendita senza incanto in cui l'aggiudicatario del bene aveva versato il saldo prezzo nel termine – diverso e maggiore rispetto a quello originariamente fissato nell'ordinanza ex art. 569 c.p.c. – successivamente stabilito dal G.E. con un provvedimento generale modificativo di tutte le vendite forzate). 800 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE Impregiudicato l'esercizio del potere di modifica del G.E., la immutabilità delle condizioni del subprocedimento di vendita fissate con l'ordinanza ex art. 569 c.p.c. è volta a garantire, per l'intero dipanarsi della fase liquidativa, l'uguaglianza e la parità di trattamento tra tutti i partecipanti alla gara, fondamentale presidio di trasparenza della vendita e di tutela dell'affidamento della platea indifferenziata dei potenziali offerenti: così opinando, Sez. 3, n. 11171/2015, De Stefano, Rv. 634526, conclude per la natura perentoria e non prorogabile del termine (fissato dalla legge o dal giudice) per il versamento del saldo del prezzo ad opera del soggetto aggiudicatario del bene staggito. Scopo della fase liquidativa è di pervenire alla vendita dell'immobile pignorato ad un prezzo "giusto": lo si desume, con chiarezza, dal disposto dell'art. 586 c.p.c., che conferisce al giudice dell'esecuzione un potere discrezionale, alternativo rispetto all'emissione del decreto di trasferimento, di sospendere la vendita «quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto». Un'organica ricostruzione dell'istituto – da sempre foriero di incertezze ermeneutiche e difficoltà applicative – è stata operata da Sez. 3, n. 18451/2015, Frasca, Rv. 636807. In primo luogo, la pronuncia citata, a dispetto della non perspicua formulazione del dato positivo (frutto di un difetto di coordinamento), colloca l'epoca di esercitabilità del potere sin dal momento dell'aggiudicazione, e non già soltanto dopo l'avvenuto versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario. Di poi, in una lettura sistematica dei principi informanti l'espropriazione immobiliare, definisce le situazioni in cui può trovare applicazione la sospensione della vendita, qualificando come "giusto" il prezzo la cui determinazione è avvenuta secondo il modello procedimentale previsto dal legislatore ovvero sulla base di una partecipazione consapevole e accompagnata dalla possibilità di interlocuzione delle parti del processo. Enucleando una sorta di catalogo delle vicende rilevanti, la S.C. conclude nel senso che il potere di sospendere la vendita ex art. 586 c.p.c. vada esercitato allorquando: a) si verifichino fatti nuovi successivi all'aggiudicazione; b) emerga che nel procedimento di vendita si siano avvenute interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento di vendita, ivi compresa la stessa stima; c) il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo scoperto dopo l'aggiudicazione; d) vengano prospettati da una parte del processo esecutivo fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all'aggiudicazione e che non 801 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE erano conosciuti o conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché queste ultime li facciano propri esse stesse, adducendo tale soltanto tardiva acquisizione di conoscenza come ragione giustificativa per l'esercizio del potere del giudice dell'esecuzione. Limite preclusivo alla sospensione della vendita è la emissione del decreto di trasferimento, da intendersi, secondo Sez. 3, n. 10251/2015, Rubino, Rv. 635448, con riferimento alla data in cui esso viene depositato in cancelleria, in forza del principio per cui i provvedimenti del giudice civile acquistano giuridica esistenza dal momento di siffatto deposito (nella specie, è stata considerata ammissibile l'istanza di sospensione della vendita e di revoca o annullamento dell'aggiudicazione proposta quando il decreto di trasferimento, pur sottoscritto, non era ancora stato depositato). Interferenze tra esecuzioni immobiliari singolari e procedure concorsuali possono accadere quando l'azione esecutiva sia intrapresa per soddisfare un credito nascente da un finanziamento fondiario, dacché in tal caso l'art. 41, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, abilita il creditore a proseguire l'espropriazione sui beni individuali anche successivamente alla dichiarazione di fallimento del debitore, in deroga al disposto dell'art. 51 della legge fallimentare. Sull'argomento, di rilievo è Sez. 1, n. 06377/2015, Didone, Rv. 634946: la peculiare disciplina di tutela del credito fondiario non deroga alla norma imperativa dettata dall'art. 52 della legge fallimentare (per cui ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o esentato dal divieto di azioni esecutive, deve essere accertato nelle forme e con le modalità del concorso), talché l'insinuazione al passivo configura un onere per la banca mutuante al fine dell'esercizio del diritto di trattenere definitivamente, nei limiti del quantum spettante a ciascun creditore concorrente all'esito del riparto in ambito fallimentare, le somme provvisoriamente percepite a titolo di anticipazione in sede esecutiva. 5. Opposizioni esecutive: profili comuni. L'anno in rassegna traccia nella giurisprudenza di legittimità il definitivo consolidamento di indirizzi esegetici – già in passato espressi – concernenti la struttura caratterizzante le opposizioni esecutive in senso stretto (cioè a dire le opposizioni proposte dopo l'inizio della procedura esecutiva), come delineate dalla riforma praticata con la legge 24 febbraio 2006, n. 52. Al riguardo, è affermazione oramai condivisa che i giudizi di opposizione siano articolati in una duplice fase: la prima, di carattere 802 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE necessario, introdotta da un ricorso diretto al giudice dell'esecuzione e svolta nelle forme del rito camerale (richiamato dall'art. 185 disp. att. c.p.c.) si conclude con un'ordinanza – di natura e contenuto cautelare – con la quale si decide sull'istanza di sospensione della procedura (ovvero, nell'ipotesi di opposizione agli atti esecutivi, di adozione dei provvedimenti indilazionabili), statuendo altresì sulle spese della fase; la seconda, meramente eventuale, si svolge innanzi al giudice competente ai sensi dell'art. 27, comma 2, c.p.c., secondo le modalità (inerenti, innanzitutto, la forma dell'atto introduttivo) del processo ordinario di cognizione (ovvero, nei casi previsti dall'art. 618 bis c.p.c., secondo il rito speciale) ed ha ad oggetto il merito della lite, venendo definita con sentenza idonea al giudicato. L'anello di congiunzione tra i due descritti segmenti è costituito dal termine perentorio, stabilito nella ordinanza conclusiva della prima fase, per la introduzione (o per la riassunzione) della causa di merito innanzi al giudice competente; la cesura che così si configura è tuttavia unicamente funzionale all'attribuzione della cognizione sul merito dell'opposizione ad un giudice tendenzialmente diverso da quello che ha trattato la fase sommaria, ma non esclude – in ragione dello stretto ed ineludibile collegamento tra le due fasi – il carattere unitario del processo di opposizione. Dalla unitarietà delle opposizioni esecutive (ancorché distinte in una doppia fase) discendono, in linea di logica coerenza, i seguenti, specifici, postulati, tratti da vicende esaminate nell'anno dalla S.C.: - la procura alle liti conferita per la fase camerale (cioè a dire in relazione al ricorso proposto innanzi al giudice dell'esecuzione) si presume rilasciata anche per il successivo giudizio di merito, salva espressa limitazione dello ius postulandi alla prima fase (Sez. 3, n. 17307/2015, Amendola, Rv. 636430; nello stesso senso, Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635095); - l'atto di citazione per la controversia di merito è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella prima fase, in mancanza di una diversa ed esplicita volontà della parte destinataria che abbia limitato alla fase sommaria la validità del mandato difensivo (Sez. 3, n. 07997/2015, Barreca, Rv. 635096), con la precisazione che se la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di merito sia stata eseguita non personalmente alla parte destinataria, ma nel domicilio da questa eletto presso il difensore già designato per la fase sommaria del medesimo processo, è onere di chi eccepisce la nullità della 803 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE notificazione provare la espressa limitazione alla fase sommaria della procura conferita (Sez. 3, n. 07997/2015, Barreca, Rv. 635097); - l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione definisce la fase sommaria, accordando (o meno) la misura cautelare, ed omette di fissare il termine perentorio per l'iscrizione a ruolo della causa di merito non è impugnabile con il ricorso straordinario previstio dall'art. 111, comma 7, Cost., essendo priva del carattere della definitività, anche quando il giudice abbia statuito sulle spese (Sez. 6-3, n. 25111/2015, Barreca, in corso di massimazione); la fissazione del termine per l'inizio del giudizio di merito si connota infatti come un provvedimento lato sensu istruttorio, cioè sull'ordine del procedimento, sicchè la sua omissione può essere sanata con il rimedio della integrazione dell'ordinanza ex art. 289 c.p.c., potendo in ogni caso le parti procedere, anche a prescindere da un'istanza del genere, alla iscrizione delle causa di opposizione al ruolo contenzioso (Sez. 6-3, n. 25064/2015, Barreca, in corso di massimazione); - ai fini dell'applicazione del termine d'impugnazione di sei mesi, previsto dall'art. 327 c.p.c., nella formulazione novellata della legge 18 giugno 2009, n. 69, ed applicabile ai giudizi instaurati dopo l'entrata in vigore della stessa legge, rileva il momento in cui è stata introdotta la fase sommaria, con il deposito del ricorso dinanzi al giudice dell'esecuzione (Sez. 3, n. 09246/2015, Barreca, Rv. 635234). Circa il raccordo tra le due scansioni del giudizio, Sez. 3, n. 17306/2015, Amendola, Rv. 636429, chiarisce che il termine, assegnato dal giudice all'esito della trattazione camerale per l'introduzione della fase di merito, non decorre dal deposito del provvedimento sommario, ma dal momento in cui l'interessato ne abbia avuto conoscenza legale o di fatto, non assumendo rilevanza, ai fini del rispetto di detto termine, il compimento delle formalità di iscrizione della causa a ruolo, la quale, pur richiamata dalla norma, ha la sola funzione di rimarcare la diversa cognizione (sommaria nella prima fase, piena nella seconda) tipica della struttura bifasica del giudizio di opposizione. La incidenza sulle regole di svolgimento del processo dell'articolazione in due fasi delle opposizioni esecutive è ben illustrata da Sez. 3, n. 17312/2015, De Stefano, Rv. 636481: nella fase sommaria, devoluta in via esclusiva al giudice dell'esecuzione, trova operatività il rito deformalizzato dei procedimenti camerali, con la conseguenza che in tale fase non sussistono termini perentori o decadenze per la proposizione di domande riconvenzionali; nelle 804 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE opposizioni in materia locatizia – cioè ad esecuzioni fondate su titoli formati in cause aventi ad oggetto situazioni giuridiche soggettive nascenti dalla locazione o dal comodato di immobili urbani – alla fase di merito si applica il peculiare statuto del rito locatizio, giusta l'espresso richiamo al capo II del titolo IV del libro secondo operato dall'art. 618 bis c.p.c. ed in considerazione della razionale tendenziale unitarietà di disciplina processuale tra fase cognitiva ed esecutiva. Il modus ingrediendi del giudizio a cognizione piena si correla dunque alla materia oggetto della trattazione, consistendo di norma, salve le speciali ipotesi di cui all'art. 618 bis c.p.c., nell'archetipo della citazione. L'adozione di una differente forma dell'atto introduttivo, tuttavia, ancorché erronea, può non integrare vizio inficiante il processo e rivelarsi invece idonea allo scopo, allorquando il diverso atto in concreto utilizzato costituisca valido succedaneo, contenendo tutti gli elementi prescritti dall'art. 163 c.p.c.: così, valenza equipollente alla citazione è stata attribuita da Sez. 3, n. 07117/2015, Barreca, Rv. 635094, ad una comparsa di risposta integrata con il provvedimento del giudice dell'esecuzione con cui si fissava non solo il termine per notificare, ma anche la data dell'udienza di trattazione. In ordine al regime della sentenza conclusiva dei giudizi di opposizione, è nota la esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un'unica sentenza in ragione dei plurimi oggetti della stessa (appello per la parte riferibile all'opposizione all'esecuzione, ricorso per cassazione per la parte riferibile a opposizione agli atti): sulla base di questo insegnamento, Sez. 6-3, n. 19267/2015, Barreca, Rv. 636948, afferma che qualora vengano contestualmente proposte, con il medesimo atto, un'opposizione all'esecuzione e un'opposizione agli atti esecutivi ed il giudice abbia ritenuto assorbente e si sia pronunciato soltanto in merito a quest'ultima, la sentenza è unicamente ricorribile per cassazione. 6. Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione. Nella produzione giurisprudenziale sul tema un rilievo assolutamente centrale riveste Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634089. Risolvendo una questione di particolare importanza, all'esito di un'accuratissima analisi in chiave sistematica dei vari istituti interessati, la decisione compie una sorta di actio finium regundorum tra i rimedi – dal discrimine sovente incerto nella casistica applicativa – dell'opposizione di terzo ordinaria (art. 404 c.p.c.), dell'opposizione 805 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE all'esecuzione (art. 615 c.p.c.) e dell'opposizione di terzo all'esecuzione (art. 619 c.p.c.). La necessità dell'intervento dell'organo supremo della nomofilachia trae scaturigine dal problema della individuazione degli strumenti di tutela a disposizione del litisconsorte necessario pretermesso avverso un'esecuzione in suo danno intrapresa in forza di un titolo giudiziale inter alios reso, situazione cui – è bene rimarcarlo – le S.U. equiparano, ai fini predetti, fattispecie analoghe, quali il terzo titolare di diritto autonomo e incompatibile con quello accertato nella sentenza azionata, il terzo titolare di uno status incompatibile, il soggetto falsamente rappresentato in giudizio. Il nucleo centrale dell'arresto può così riassumersi: qualora venga promossa azione esecutiva nei confronti del litisconsorte pretermesso sulla base di un titolo giudiziale formatosi inter alios, quegli (al pari degli altri soggetti sopra citati, accomunati dalla qualità di terzo rispetto al titolo), al fine di incidere sul titolo (e cioè a dire al fine di neutralizzare gli effetti per sé negativi del provvedimento pronunciato in sua pretermissione) non può proporre opposizione all'esecuzione, ai sensi dell'art. 615, commi 1 e 2, c.p.c., neppure se la procedura esecutiva, esperita in forma specifica, lo coinvolga quale detentore materiale del bene, ma, allo scopo di bloccare l'esecuzione (o l'esecutività del titolo), dispone, quale rimedio necessario ed esclusivo, della opposizione di terzo ordinaria (e, in questo ambito, dell'incidentale sospensione dell'esecutività della sentenza ex art. 407 c.p.c.), siccome il presupposto del vizio della sentenza azionata va ravvisato nella violazione del diritto di difesa del terzo pretermesso. Due le situazioni – precisa la decisione – che consentono il ricorso a (peraltro differenti) incidenti endoesecutivi: - ove il terzo abilitato all'opposizione ex art. 404 c.p.c. assuma che la statuizione contenuta nel titolo inter alios sia stata già adempiuta o soddisfatta oppure sia stato modificata da vicende di rilievo sostanziale incidenti sul diritto consacrato nel titolo, egli, quale soggetto concretamente colpito dall'esecuzione, è legittimato a proporre (alla stregua del soggetto formalmente contemplato nel titolo) opposizione all'esecuzione; - allorquando invece la posizione del terzo venga minacciata o attinta dall'esecuzione in forma specifica per un errore nella individuazione dell'oggetto dell'esecuzione (se, a esempio, l'attività esecutiva si estenda al di fuori di quanto previsto dal dictum giudiziale oppure si diriga verso un bene diverso da quello contemplato nel titolo), il terzo, deducendo che l'esecuzione non è 806 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE sorretta dal titolo, può esperire opposizione di terzo all'esecuzione, quale soggetto effettivamente pregiudicato dall'esecuzione ma formalmente terzo rispetto ad essa. Tra le altre pronunce in tema di art. 615 c.p.c., degna di nota è la riaffermazione del carattere circoscritto del thema decidendum delle opposizioni avverso l'esecuzione minacciata o intentata in virtù di titolo esecutivo giudiziale: ad avviso di Sez. 6-3, n. 03277/2015, Barreca, Rv. 634447, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l'inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e le ragioni di ingiustizia della decisione vanno fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, spettando la cognizione di ogni questione di merito al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame. 7. Opposizione agli atti esecutivi. Rimedio di carattere generale e sussidiario strumentalmente funzionale alla stabilità dei risultati della esecuzione forzata, l'opposizione agli atti esecutivi concerne – quale tipico thema decidendum – la valutazione di conformità di un atto o di un segmento del procedimento esecutivo alle regole (formali e sostanziali) che lo governano, ed è esperibile da tutti i soggetti a vario titolo partecipanti all'esecuzione avverso qualsiasi atto o provvedimento reso nell'ambito della procedura e per il quale non sia previsto altro strumento di reazione. Ad avviso di Sez. 3, n. 19573/2015, Barreca, Rv. 636988, l'oggetto dell'impugnativa mediante opposizione agli atti esecutivi va circoscritto esclusivamente agli atti riferibili al giudice dell'esecuzione, unico titolare del potere di impulso e controllo del processo esecutivo, sicché ove l'atto (anche eventualmente omissivo) che si assume contrario a diritto sia riferibile solo ad un ausiliario del giudice (ivi compreso l'ufficiale giudiziario), esso è sottoponibile al controllo del giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 60 c.p.c. o nelle forme desumibili dalla disciplina del procedimento esecutivo azionato, e solamente dopo che questi si sia pronunciato sull'istanza dell'interessato diviene possibile ricorrere ex art. 617 c.p.c. avverso il relativo provvedimento giudiziale. Sono invece suscettibili di opposizione agli atti le ordinanze del giudice dell'esecuzione di correzione dell'errore materiale, se l'errore corretto sia tale da ingenerare un obiettivo dubbio sull'effettivo contenuto dell'ordinanza, oppure quando con la 807 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE correzione sia stata impropriamente riformata la portata decisoria del provvedimento, dando luogo surrettiziamente ad una revoca o ad una modifica di un provvedimento già eseguito e non più opponibile (Sez. 6-3, n. 01891/2015, Barreca, Rv. 634373). Ancora lo strumento regolato dall'art. 617 c.p.c. va adoperato avverso i provvedimenti di estinzione cosiddetta atipica o di chiusura anticipata dell'esecuzione, ancorché la censura sollevata verta unicamente sul capo di condanna alle spese, considerato che l'opposizione agli atti esecutivi è il rimedio tipico per contestare i provvedimenti del G.E. regolanti l'andamento del processo ed atteso il carattere accessorio della statuizione sulle spese, come tale impugnabile con il mezzo previsto per il capo principale che definisce, in rito o in merito, il procedimento (Sez. 6-3, n. 09837/2015, Barreca, Rv. 635267). Sulla delimitazione dell'ambito di operatività dello strumento in esame, con Sez. 3, n. 17308/2015, Amendola, Rv. 636479, trova conferma un – più volte espresso in passato – orientamento che esclude la praticabilità dell'opposizione agli atti qualora si deduca l'omessa, inesistente o nulla notificazione del titolo esecutivo (motivi abitualmente sussumibili sotto l'egida dell'art. 617 c.p.c.) avverso una esecuzione promossa (o minacciata) in virtù di un decreto ingiuntivo: in tal caso, infatti, il debitore deve proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. ove assuma l'inesistenza della notifica del provvedimento monitorio, oppure l'opposizione tardiva di cui all'art. 650 c.p.c. qualora denunci un vizio di nullità della notificazione. Va qualificata come motivo di opposizione agli esecutivi, afferendo il quomodo e non l'an dell'esecuzione forzata, la doglianza concernente la nullità del precetto, e del conseguente pignoramento, nei confronti degli eredi del debitore deceduto per mancato rispetto dell'art. 477, comma 1, c.p.c.: si tratta, infatti, di una irregolarità formale del procedimento seguito dal creditore, per avere egli disatteso un onere imposto a garanzia della legittimità dell'azione esecutiva nei confronti degli eredi del debitore, e non già di una condizione di esistenza del diritto ad agire in executivis (così, Sez. 3, n. 14653/2015, Barreca, Rv. 636289). Condizione di ammissibilità dell'opposizione agli atti è rappresentata dalla sussistenza di un interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.: qualora la contestazione riguardi l'autorizzazione all'esecuzione immediata concessa ai sensi dell'art. 482 c.p.c., secondo Sez. 3, n. 02742/2015, Chiarini, Rv. 634371, l'interesse sorge quando il provvedimento asseritamente ingiustificato o 808 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE illegittimo abbia causato danni o spese a chi lo abbia subito e venga successivamente ad ottenere definitiva ragione nel merito. Connotazione essenziale dell'opposizione de qua, strettamente connessa alla evidenziata funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell'esecuzione, è la previsione di un rigoroso limite temporale, a pena di preclusione, per la esperibilità del rimedio: secondo l'esegesi oramai affermata dal giudice della nomofilachia, ciò importa l'onere, da parte dell'opponente, di allegazione del momento di effettiva conoscenza dell'atto esecutivo che si assume viziato. Ad avviso di Sez. 3, n. 16780/2015, Frasca, Rv. 636435, la tardività dell'opposizione, ove non decisa dal giudice di merito e dunque non coperta dal giudicato interno, può e deve essere delibata in sede di legittimità (con cassazione senza rinvio della pronuncia), seppure non dedotta come motivo di ricorso, trattandosi di questione relativa ad un termine di decadenza processuale la cui inosservanza è rilevabile di ufficio. 8. Controversie in sede di distribuzione del ricavato. Contestazioni sull'esistenza o sull'ammontare di uno o più crediti azionati (con il pignoramento o in via di intervento) possono essere sollevate anche quando la procedura espropriativa sia giunta in uno stadio avanzato, ovvero nella fase della distribuzione del ricavato della vendita dei beni staggiti. La identità del thema decidendum delle controversie distributive con l'opposizione all'esecuzione (identità peraltro soltanto parziale, potendo la prima avere ad oggetto, se proposta dai creditori, anche la sussistenza di diritti di prelazione) ha fatto sorgere il problema dei rapporti tra le due parentesi cognitive, questione risolta da Sez. 3, n. 07108/2015, De Stefano, Rv. 634824, in termini di alternatività di rimedi a disposizione del debitore: l'esecutato che intenda sollevare contestazioni sull'esistenza o sull'ammontare anche solo del credito di un creditore intervenuto di cui si presuma l'ammissione alla partecipazione alla distribuzione, può, in tempo precedente a quest'ultima, proporre opposizione all'esecuzione ex art. 615, comma 2, c.p.c. (sussistendo in ogni momento dell'esecuzione il suo interesse a contestare l'an o il quantum di uno o più crediti azionati) ovvero, a sua discrezione, attendere la fase distributiva per formulare le proprie doglianze, nei modi e per gli effetti dell'art. 512 c.p.c., al fine della restituzione di quanto conseguito dalla vendita o versato a seguito di conversione del pignoramento. Ad avviso di Sez. 3, n. 07107/2015, De Stefano, Rv. 635146, integra controversia in sede distributiva, ove in precedenza non sia 809 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE insorta lite ad identico oggetto ad impulso di altri soggetti del processo esecutivo, la contestazione da parte del creditore procedente o del creditore interventore della ritualità dell'intervento di altro creditore, in quanto non fondato su titolo esecutivo né sorretto da alcuno dei altri presupposti processuali speciali che legittimano l'intervento senza titolo a mente dell'art. 499, comma 1, c.p.c. (esecuzione, al momento del pignoramento, di un sequestro sui beni pignorati; titolarità, al medesimo momento, di un diritto di pegno o di prelazione risultante da pubblici registri; titolarità, al medesimo momento, di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c.); in quanto sussumibile sotto l'egida delle controversie ex art. 512 c.p.c., essa non è soggetta al termine di cui all'art. 617 c.p.c. con decorrenza dalla data di dispiegamento o di conoscenza dell'intervento. In caso di controversia distributiva proposta nell'ambito di un'espropriazione contro il terzo proprietario, sussiste litisconsorzio necessario con il debitore originario o diretto, in quanto soggetto nei cui confronti l'accertamento dell'esistenza e dell'entità dei crediti e dei privilegi posti a base dell'azione esecutiva contro il terzo è destinato a produrre effetti immediati e diretti (così, Sez. 3, n. 08891/2015, De Stefano, Rv. 635265). 9. Sospensione dell'esecuzione. A mente dell'art. 623 c.p.c., «salvo che la sospensione sia disposta dalla legge o dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo, l'esecuzione forzata non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell'esecuzione». In virtù della trascritta norma, si distinguono (tralasciando i residuali casi di sospensione ope legis) due fattispecie di sospensione dell'esecuzione: quella cd. esterna, relativa all'esecutività intrinseca del titolo esecutivo (cioè alla sua generale idoneità a fondare azioni coattive per la soddisfazione del diritto) e disposta dal giudice del processo di cognizione in cui si controverte, in fase di gravame, del titolo stesso; quella cd. interna, afferente cioè la singola procedura esecutiva e pronunciata dal giudice designato per la trattazione di essa nell'ambito di uno degli incidenti oppositivi. Diversi gli effetti e il modo di operare delle due tipologie di sospensione: nel primo caso, su mera sollecitazione delle parti (anche nella forma semplificata della istanza ex art. 486 c.p.c.), il G.E. è tenuto all'adozione di un provvedimento dichiarativo, ricognitivo cioè della intervenuta privazione della efficacia esecutiva del titolo aliunde stabilita; nel secondo caso, al G.E. è devoluta, nella fase sommaria del giudizio oppositivo, una valutazione tipicamente 810 CAP. XXXIX - IL PROCESSO DI ESECUZIONE cautelare sulla ricorrenza di gravi motivi legittimanti la temporanea paralisi del procedimento esecutivo, apprezzamento suscettibile, qualora la relativa ordinanza si stabilizzi (per mancato reclamo o per conferma in sede di reclamo) e non sia introdotta la controversia di merito sulla opposizione, di condurre alla estinzione anticipata dell'esecuzione. Sulla complessa problematica, Sez. 3, n. 07364/2015, De Stefano, Rv. 635039, reputa non scorretto l'esercizio del potere di sospensione interna per una causa di sospensione esterna, "nulla vietando che il giudice, investito, per scelta dell'opponente, di una formale opposizione, ritenga di individuare quale giusto motivo di sospensione – c.d. interna – appunto il venir meno della stessa esecutività del titolo, rivestendolo quindi di un'efficacia ulteriore rispetto a quella ordinaria sua propria"; in detta evenienza, qualora il G.E. abbia disposto la sospensione espressamente ai sensi dell'art. 624 c.p.c. (oltremodo con la fissazione di termine perentorio per iniziare il giudizio di merito), è onere delle parti interessate dare comunque corso alla fase di merito, producendosi, in mancanza, l'effetto tipico dell'estinzione del processo di cui al comma 3 del medesimo art. 624 c.p.c.. La sospensione dell'esecuzione, comunque disposta, determina la provvisoria stasi del procedimento e ne impedisce l'ulteriore sviluppo, senza tuttavia provocare la perdita di efficacia dei vincoli apposti o delle attività già compiute: così, nell'esecuzione forzata per obblighi di fare, l'accoglimento dell'istanza di sospensione incidentale ad un'opposizione non consente al G.E. di ordinare la rimessione in pristino di quanto sia stato in precedenza eseguito ai sensi dell'art. 612 c.p.c., potendo unicamente essere inibita la prosecuzione del procedimento (Sez. 6-3, n. 19572/2015, Barreca, Rv. 636991). Circa il regime di impugnazione, ribadendo un orientamento oramai consolidato, Sez. L, n. 01176/2015, D'Antonio, Rv. 634301, dichiara inammissibile il ricorso per Cassazione proposto avverso l'ordinanza che – nell'ambito di un'opposizione proposta ai sensi degli art. 615, 617 e 619 c.p.c. – provveda sulla sospensione dell'esecuzione, nonché avverso l'ordinanza emessa in sede di reclamo che confermi, revochi o conceda la sospensione, trattandosi nel primo caso di provvedimento soggetto a reclamo ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c., ed in entrambi i casi di provvedimenti non definitivi, in quanto suscettibili di ridiscussione nell'ambito del giudizio di opposizione. 811 CAPITOLO XL I PROCEDIMENTI SPECIALI (di Francesco Federici) CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il procedimento per ingiunzione. – 3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. – 4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. – 5. Il procedimento sommario di cognizione. – 6. I procedimenti camerali. – 7. Gli altri procedimenti speciali. 1. Premessa. Nel 2015 nella produzione giurisprudenziale in materia di procedimenti speciali non si rinvengono novità di rilievo sul piano interpretativo. Resta tuttavia importante la conferma di alcuni principi e le puntualizzazioni su alcune questioni, soprattutto in tema di decreto ingiuntivo. 2. Il procedimento per ingiunzione. Anche quest'anno sono numerosi i provvedimenti intervenuti in materia di procedimento d'ingiuzione, tanto con riguardo alla fase sommaria monitoria, quanto con riferimento alla fase di opposizione a cognizione piena. Chiarificatrici sono le pronunce sulla competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento. In punto va segnalata Sez. 6-1, n. 16454/2015, Scaldaferri, Rv. 636627, la quale, in un giudizio introdotto ai sensi dell'art. 42 c.p.c., afferma che la competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento è inderogabile e immodificabile, anche rispetto a ragioni di litispendenza, continenza o connessione. Anche Sez. 6-L, n. 15618/2015, Marotta, Rv. 636582, in un caso di riunione per ragioni di continenza o connessione dell'opposizione a decreto ingiuntivo con altro processo instaurato innanzi ad un diverso ufficio a seguito di procedimento cautelare ante causam – nel caso di specie si trattava di procedimento per sequestro cautelare –, ha sostenuto che la competenza territoriale sulle cause riunite spetta al giudice del giudizio introdotto con il ricorso monitorio, trattandosi di competenza funzionale ed inderogabile. E tale criterio trova applicazione anche se non sia stata sollevata eccezione di parte nel giudizio cautelare, che in quanto tale non è soggetto alle preclusioni ex art. 38 c.p.c. La competenza funzionale è affermata, senza alcuna prospettiva di eccezioni, da Sez. 6-2, n. 10563/2015, Giusti, Rv. 635407, intervenuta per il regolamento di competenza d'ufficio in 812 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI un caso di emissione di decreto ingiuntivo da parte di giudice di pace. Nella fattispecie, eccepita la sua incompetenza in sede di opposizione, questa era stata accolta, con rimessione della causa, per ragioni di connessione, al tribunale presso il quale già pendeva la causa connessa. La pronuncia del giudice di legittimità in sede di regolamento di competenza ha affermato che l'opposizione a decreto ingiuntivo è devoluta ai sensi dell'art. 645 c.p.c. funzionalmente e inderogabilmente alla cognizione del giudice che ha emesso l'ingiunzione, il quale, anche quando ritenga che la controversia introdotta con l'opposizione esuli dalla propria competenza per materia, non può dichiararsi incompetente e rimettere la causa al giudice ritenuto competente. Tanto perché la questione di competenza non incide sulle valutazioni di merito in ordine alla legittimità del provvedimento monitorio opposto, tra le quali va anche compresa la questione relativa alla eventuale incompetenza del giudice che lo ha emesso, con la conseguente dichiarazione, se fondata, della nullità del decreto opposto. Infatti anche questa decisione costituisce pur sempre esercizio e non diniego della competenza esclusiva del giudice dell'opposizione. Ancora in ragione della competenza funzionale e inderogabile del giudice che ha emesso il provvedimento monitorio Sez. 6-3, n. 00272/2015, Cirillo, Rv. 634351, nel solco di una interpretazione consolidata, afferma che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo dinanzi al giudice di pace, in ragione della competenza spettante ai sensi dell'art. 645 c.p.c. all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ove l'opponente spieghi domanda riconvenzionale, che per valore ecceda i limiti di competenza del giudice adito, questi è tenuto a separare le cause, trattenendo quella relativa alla opposizione, con rimessione dell'altra al tribunale. Se invece il giudice di pace rimetta l'intera causa, il tribunale può richiedere, nei limiti temporali fissati dall'art. 38 c.p.c., il regolamento di competenza d'ufficio. L'ordinanza supporta la rigida costruzione della suddetta competenza "stante l'assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione, sicchè non può subire modificazioni neppure per una situazione di connessione, senza che rilevi in contrario la eliminazione della regola della rilevabilità d'ufficio delle competenze cosiddette forti in ogni stato e grado". Interesse suscitano due pronunce aventi ad oggetto la sorte del decreto ingiuntivo emesso da una sezione distaccata del tribunale prima della sua soppressione, ed il cui circondario sia stato aggregato al circondario di altro tribunale. 813 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI In Sez. 6-3, n. 06276/2015, Barreca, Rv. 634735, si afferma che ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 7 settembre 2012, n. 155, come integrato dall'art. 8 del d.lgs. 19 febbraio 2014, n. 14, l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dalla sezione distaccata di tribunale prima della sua soppressione si propone al tribunale che ne costituiva la sede principale, anche se la porzione di territorio della sede distaccata sia stata attribuita dall'entrata in vigore del d.lgs. n. 155 del 2012 (13 settembre 2013) al circondario di un diverso tribunale. Più complessa è Sez. 6-3, n. 07835/2015, Frasca, Rv. 635215, in un caso di decreto ingiuntivo emesso anteriormente alla soppressione della sezione distaccata, ma notificato successivamente alla sua efficacia (13 settembre 2013). Secondo questa pronuncia l'opposizione al provvedimento monitorio emesso da una sezione distaccata di tribunale antecedentemente alla sua soppressione, con accorpamento del territorio ad altro tribunale, e tuttavia notificato dopo la data di efficacia della soppressione stessa, pur se originariamente proponibile innanzi al tribunale accorpante, ex art. 9 del d.lgs. n. 155 del 2012, a seguito dell'intervento correttivo operato dal d.lgs. n. 14 del 2014, resta, per competenza sopravvenuta, del tribunale a cui appartenenva il territorio della sezione soppressa. In base a tale regola, se il giudizio di opposizione sia stato instaurato dinanzi al tribunale accorpante, il giudice è tenuto a declinare la competenza, senza caducare il decreto ingiuntivo, a favore del tribunale cui apparteneva la sezione soppressa, spettando a quest'ultimo la cognizione sulla validità dell'atto. Appare chiaro che in questo caso non si tratta di una eccezione alle regole più volte ribadite sulla competenza funzionale e inderogabile, trattandosi invece di una soluzione prospettata in ragione della instabile legislazione, che sul piano dell'organizzazione territoriale degli uffici, a seguito della soppressione delle articolazioni distaccate di tribunale, ha in alcuni casi comportato un accorpamento dei relativi territori ad un tribunale diverso rispetto a quello di tradizionale appartenenza. Alle conseguenze del difetto di giurisdizione del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo è invece dedicata Sez. L, n. 17062/2015, Buffa, Rv. 636380, secondo cui il difetto di giurisdizione del giudice del provvedimento monitorio determina comunque la caducazione del decreto medesimo, senza che la traslatio della causa al giudice munito invece di giurisdizione possa salvare il provvedimento. 814 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Altre pronunce sono attente a circoscrivere l'oggetto della controversia insorta a seguito della opposizione. Così Sez. 3, n. 00818/2015, Rossetti, Rv. 633961, ha circoscritto le questioni che possono essere vagliate dal giudice della opposizione al provvedimento monitorio in una fattispecie in cui era stato richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo sulla base di cambiali per un credito nascente dalla fornitura di merce, rispetto alla quale però il debitore opponente aveva dimostrato l'esecuzione dell'intero pagamento. In particolare nel caso di specie, alla difesa e alla prova allegata dal debitore, l'opposto aveva ribattuto sostenendo che le cambiali provavano come la causale del credito non fosse solo la fornitura di merce, ma anche la concessione di veri e propri finanziamenti all'opponente. A fronte delle ulteriori ragioni manifestate dall'opposto a conforto del preteso credito (peraltro accolte dal giudice di merito), la S.C. ha chiarito che nel giudizio introdotto con l'opposizione al decreto ingiuntivo, chiesto ed ottenuto sulla base di titoli cambiari e facendo riferimento ad un determinato rapporto causale, l'opposto non può invocare, a fondamento della propria pretesa, l'esistenza di un rapporto causale diverso e ulteriore rispetto a quello descritto nel ricorso monitorio. Alla perimetrazione dell'oggetto della opposizione va ascritta Sez. 3, n. 00814/2015, Travaglino, Rv. 633972, secondo cui la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in forza della provvisoria esecuzione concessa ad un decreto ingiuntivo opposto deve ritenersi consequenziale alla richiesta di revoca del provvedimento monitorio, non alterando i termini della controversia. Essa pertanto non costituisce una domanda nuova ed è dunque ammissibile fino all'udienza di precisazione delle conclusioni innanzi al giudice della opposizione, senza che in tal caso possa rilevarsene una intempestività. Nella giurisprudenza del 2015 risultano esaminate alcune conseguenze derivanti dalla mancata opposizione al decreto ingiuntivo. Riguarda l'ambito oggettivo della cosa giudicata, quando il provvedimento monitorio non venga opposto, Sez. 3, n. 13207/2015, Rossetti, Rv. 636014. In essa si afferma che la mancata opposizione al decreto ingiuntivo, ottenuto per canoni di locazione non corrisposti, il giudicato così formatosi fa stato tra le parti non solo sulla esistenza e validità del rapporto corrente inter partes, e sulla misura del canone preteso, ma anche circa l'inesistenza di fatti impeditivi o estintivi, non dedotti ma deducibili nel giudizio di opposizione. Per la portata della decisione è illuminante il caso di 815 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI specie, nel quale è stato escluso che il debitore locatario, che aveva mancato di impugnare il provvedimento monitorio concesso al locatore contro di lui, potesse invocare in un diverso giudizio la nullità della clausola di determinazione del canone in misura superiore a quella legale, ex art. 2, commi 3 e 5, della legge 9 dicembre 1998, n. 431. Sez. 2, n. 22696/2015, Picaroni, Rv. 637144, affronta invece gli effetti della mancata opposizione nella ipotesi di decreto ingiuntivo contro debitori solidali. In questo caso l'ingiunto, che non abbia proposto opposizione, non è legittimato ad intervenire neppure ad adiuvandum nel giudizio di opposizione instaurato da altro debitore, in quanto non potrebbe giovarsi della sentenza a questi favorevole, non operando l'art. 1306, comma 2, c.c. a vantaggio di chi sia vincolato da un giudicato formatosi direttamente nei suoi confronti. Quanto alle spese conseguenti l'emissione del titolo, in un caso in cui alla notifica del decreto ingiuntivo era seguito l'intero pagamento delle somme in esso portate, comprensive degli interessi e delle spese processuali liquidate nel provvedimento monitorio, Sez. L, n. 09807/2015, Bandini, Rv. 635386, afferma che il creditore non può, successivamente al pagamento medesimo, intimare precetto sulla base dello stesso decreto per il pagamento delle spese processuali sostenute dopo la sua emissione e necessarie per la notificazione. Tali spese invece possono essere fatte valere mediante azione di cognizione ordinaria, perché dopo l'avvenuto integrale pagamento degli importi riportati nel titolo, esso perde efficacia esecutiva, con il conseguente venir meno della possibilità giuridica della notifica del precetto. Con riferimento alla ipotesi di documenti posti a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, ma non allegati al giudizio di cognizione introdotto con l'opposizione, deve poi segnalarsi Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, secondo cui l'art. 345, comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo, che siano rimasti a disposizione della controparte agli effetti di quanto previsto dall'art. 638, comma 3, c.p.c., anche quando non siano nuovamente prodotti nella fase di opposizione, rimangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase. Ciò trova fondamento nel principio della "non dispersione della prova", che sia ormai acquisita al processo, e non possono pertanto essere considerati nuovi. Ne discende anche che i suddetti documenti, quando allegati all'atto d'appello contro la sentenza che 816 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI ha definito il giudizio di primo grado, devono essere ritenuti parimenti ammissibili. Merita inoltre segnalazione Sez. 2, n. 19868/2015, Matera, Rv. 636732, in relazione alle conseguenze della falsità della procura alle liti. Sul punto la pronuncia afferma che, qualora in appello sia accertata la falsità della procura ad litem apparentemente rilasciata per l'opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice deve dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, con il conseguente passaggio in giudicato del provvedimento monitorio. Il principio trova fondamento nel fatto che l'invalidità della procura priva l'opposizione di un presupposto indispensabile, ripercuotendosi sull'intera attività processuale successiva. Interessante è anche Sez. 3, n. 24629/2015, Vivaldi, in corso di massimazione, in ordine alla individuazione dell'onere di esperire il tentativo di mediazione in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 5, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. La sentenza, partendo dalla finalità deflattiva della disciplina, quale procedimento strumentale che consente di confinare il processo nell'ambito della scelta estrema, quando mancano alternative alla soluzione della controversia, sicchè sotto tale profilo è facile porre l'onere della mediazione a carico di chi ha interesse al processo, avverte però la difficoltà di identificazione dell'obbligato quando si tratti di decreto ingiutivo e di opposizione allo stesso, attesa l'inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale. E tuttavia la pronuncia, valorizzando sia il fatto che il creditore ha già scelto un procedimento sommario, di per sé meno complesso, sia l'inutilità di un onere di mediazione in capo a chi, ricorrente del procedimento monitorio, ancora ignora se il debitore vorrà proporre opposizione, conclude affermando che il suddetto onere deve gravare sull'opponente. Altrettanto rilevante è Sez. 3, n. 24223/2015, Carluccio, in corso di massimazione, in tema di nullità della notifica del decreto ingiuntivo. La pronuncia, a fronte di una eccepita inefficacia del provvedimento monitorio per nullità della notifica, afferma che l'inefficacia può solo collegarsi alla ipotesi di inesistenza della notifica, non anche alla notifica nulla o irregolare, la cui sussistenza ha solo l'effetto di consentire all'opponente la tardiva instaurazione del giudizio di opposizione. Ne discende per conseguenza che la stessa nullità o irregolarità della notifica è del tutto priva di effetti qualora il giudizio di opposizione sia stato comunque tempestivamente introdotto. 817 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Sulle conseguenze della erronea notifica dell'atto di opposizione a decreto ingiuntivo va segnalata Sez. 1, n. 22113/2015, Valitutti, Rv. 637284, secondo cui la notifica avvenuta nel domicilio reale della parte opposta, anziché presso il difensore costituito nella fase monitoria, è viziata da nullità, non da inesistenza, sicché può ordinarsene la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c., che va eseguita comunque presso quest'ultimo, nel termine perentorio appositamente concesso, anche se sia stata omessa la formale revoca della dichiarazione di contumacia della opposta, erroneamente pronunciata in precedenza ed implicitamente revocata dall'assegnazione di quel termine, perché affetta da nullità derivata o consequenziale. Per la medesima sentenza deve anche segnalarsi, Rv. 637283, in tema di chiamata di terzo da parte dell'opponente, la cui soluzione privilegia la posizione sostanziale delle parti nella fase a cognizione piena. La pronuncia infatti afferma che l'opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo non può direttamente citarlo per la prima udienza ma deve chiedere al giudice, nell'atto di opposizione, di essere autorizzato. In mancanza si determina una decadenza rilevabile d'ufficio ed insuscettibile di sanatoria per effetto della costituzione del chiamato, anche quando questi non abbia sollevato eccezioni sul punto. Ciò perché il principio della non rilevabilità d'ufficio della nullità di un atto per raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente alla inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, per i quali vigono apposite e distinte norme. Interessante infine, in tema di ingiunzione di pagamento europea, con specifico riferimento alle conseguenze in ipotesi di intempestività della opposizione, Sez. U, n. 10799/2015, Ambrosio, Rv. 635365, secondo cui l'ingiunzione di pagamento europea, quando non opposta nel termine perentorio previsto dall'art. 16 del Regolamento CE 1896/2006 del 12 dicembre 2006, ha efficacia pro iudicato, sicchè il riesame dopo la scadenza del termine ha carattere eccezionale ed i casi nei quali è consentito dall'art. 20 sono di stretta interpretazione. La pronuncia infatti, esaminando l'ipotesi della "manifesta erroneità" dell'ingiunzione, da valutarsi «tenendo conto dei requisiti previsti dal presente regolamento» (art. 20, comma 2, prima parte), afferma che essa si riferisce ai soli errori manifesti, che siano idonei a inficiare la possibilità per il debitore di contestare l'ingiunzione, mentre, quanto alla "manifesta erroneità" per "circostanze eccezionali" (art. 20, comma secondo, seconda parte), sostiene che si riferisca ai soli vizi simili a quelli che giustificano la revocazione 818 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI straordinaria prevista dall'art. 656 c.p.c., sicchè nell'ambito del riesame per "manifesta erroneità" non rientra l'eccezione del difetto di giurisdizione del giudice dell'ingiunzione. 3. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. La giurisprudenza della Corte ha sostanzialmente confermato in materia i precedenti indirizzi e poche sono le pronunce, relative ad aspetti processuali, che è utile segnalare. Sul rapporto tra licenza per finita locazione e sfratto per morosità, in cui siano coinvolti locatore, locatario e subconduttore, è intervenuta Sez. 6-3, n. 15094/2015, Cirillo, Rv. 636184. La pronuncia, ai fini della accoglibilità o meno di una richiesta di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., esclude un rapporto di pregiudizialità tra la controversia per intervenuta scadenza del contratto di locazione, che sia pendente tra locatore e locatario, e il giudizio di sfratto per morosità, promosso dal locatario nei confronti del subconduttore, e ciò sia tenendo conto della parziale diversità soggettiva delle parti coinvolte nei due giudizi, sia perché l'obbligo del subconduttore alla corresponsione dei canoni a favore del sublocatore persiste sino a quando si prolunghi lo stato d'occupazione dell'immobile da parte del subconduttore, e rispetto al quale non assume rilievo l'intervenuta risoluzione del contratto principale di locazione. Sempre in ragione della prospettata pregiudizialità tra due giudizi, Sez. 6-3, n. 13423/2015, Cirillo, Rv. 635782, afferma che quando siano contestualmente pendenti un procedimento di convalida di licenza ed un giudizio, tra soggetti parzialmente differenti, in cui si controverta della validità della scheda testamentaria utilizzata dal locatore come titolo per il rilascio dell'immobile, deve escludersi la sospensione necessaria del procedimento di licenza, sia per la diversità delle parti coinvolte nei guidizi supposti come pregiudicanti e pregiudicati, sia perché l'accertamento della proprietà dell'immobile locato non integra una questione pregiudiziale in ordine alla legittimazione a locare. Sez. 6-3, n. 17582/2015, Lanzillo, Rv. 636469, affronta invece la questione della non veritiera attestazione della persistenza della morosità. Sul punto la pronuncia afferma che ai fini della convalida dello sfratto è necessaria la presenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge. Se alcuno di essi manchi e la convalida venga ugualmente pronunciata, essa è equiparabile ad un sentenza e come tale è assoggettata all'ordinaria impugnazione con appello. È ciò che accade dunque se sia convalidato lo sfratto pur mancando del tutto 819 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI la dichiarazione del locatore che la morosità persiste. Non è invece appellabile la convalida quando l'attestazione sia stata resa, ma se ne contesti la veridicità. È da segnalare inoltre Sez. 3, n. 19525/2015, Stalla, Rv. 636992, che interviene sugli effetti della trasformazione del rito. La pronuncia afferma che nel procedimento per convalida di sfratto l'opposizione dell'intimato provoca una radicale trasformazione del rito, determinando la cessazione dell'originario rapporto processuale, fondato sulla domanda di convalida, e l'insorgere di un nuovo e diverso rapporto processuale, riconducibile ad una ordinaria domanda di accertamento e di condanna, oppure ad una domanda di risoluzione e di condanna, domande che possono ritenersi implicamente proposte dal locatore qualora, dopo l'opposizione dell'intimato, prosegua la sua attività processuale finalizzata alla realizzazione della pretesa sostanziale. Va poi fatta menzione di alcune questioni processuali afferenti a controversie locatizie ed ai relativi procedimenti speciali, in seno ai quali sia stata richiesta la risoluzione del contratto oppure il risarcimento dei danni da occupazione sine titulo dell'immobile già locato. Una questione relazionata alla causa petendi di una domanda risarcitoria per occupazione sine titulo di un immobile è affrontata da Sez. 3, n. 19528/2015, Vincenti, Rv. 636987, che esamina la denunciata novità del motivo d'appello, in violazione dell'art. 345 c.p.c., in un caso in cui si affermava che l'attore avesse fondato la richiesta di risarcimento prima sulla scadenza contrattuale del rapporto e poi in forza di una sentenza di accoglimento di uno sfratto per morosità. La Corte esclude la violazione dell'art. 345 c.p.c., sostenendo che non costituisce mutatio libelli la precisazione in sede di gravame che la domanda di risarcimento danni per l'illegittima occupazione di un immobile locato, originariamente proposta sul presupposto dell'intervenuta scadenza contrattuale, possa intendersi riferita anche alla data di introduzione di un separato giudizio di sfratto per morosità, qualora i fatti integranti l'ulteriore causa petendi risultino comunque già dedotti in primo grado ed il petitum risarcitorio sia stato solo specificato in relazione a fatti già allegati, così non determinandosi alcuna novità della domanda. Sez. 3, n. 11864/2015, Stalla, Rv. 635478, affronta invece la questione della diversa causa risolutiva posta a base della domanda. Sul punto la sentenza sostiene che la risoluzione del contratto di locazione di immobili sulla base di una clausola risolutiva espressa 820 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI non può essere pronunciata d'ufficio, postulando la corrispondente e specifica domanda giudiziale della parte nel cui interesse quella clausola è stata prevista. Pertanto, una volta proposta con l'intimazione di sfratto per morosità la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c., questa non può essere mutata in richiesta di risoluzione ope legis ai sensi dell'art. 1456 c.c., attesa la radicale diversità dei due istituti, sia con riguardo al petitum, che nella prima ipotesi richiede una sentenza costitutiva, nella seconda una pronuncia dichiarativa, sia con riferimento alla causa petendi, nella prima ipotesi fondata sull'inadempimento grave e colpevole, nella seconda riconducibile alla mera violazione della clausola risolutiva espressa. 4. I procedimenti cautelari, di istruzione preventiva, nunciatori, possessori, di urgenza. Sotto il profilo processuale si rinvengono alcune interessanti pronunce in materia cautelare e possessoria. 4.1. In tema di accertamento tecnico preventivo, si sofferma sulle conseguenze della abnormità del provvedimento emesso all'esito del procedimento, individuando quale forma di tutela abbia la parte che subisce il provvedimento abnorme, Sez. 2, n. 19498/2015, Matera, Rv. 636745. La sentenza evidenzia che l'accertamento tecnico preventivo si conclude con il deposito della relazione del consulente nominato dal giudice, il quale, esaurisce il proprio potere-dovere di verificare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge ai fini dell'ammissione del mezzo di istruzione preventiva con l'ordinanza resa agli effetti dell'art. 696, comma 3, c.p.c. Ne consegue che l'eventuale ordinanza successivamente emanata, con la quale sia rigettato il ricorso e sia pronunciata condanna dell'istante al pagamento delle spese processuali, è del tutto abnorme e come tale, non essendo altrimenti impugnabile – per l'esclusione della sua reclamabilità ex art. 669 terdecies c.p.c. – è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. Dello stesso tenore è Sez. 6-2, n. 21756/2015, Giusti, Rv. 636887, che afferma come il provvedimento di liquidazione delle spese a carico di una parte diversa dal ricorrente – tenuto ad anticiparle – non è previsto dalla legge ed ha natura decisoria e carattere definitivo, sicchè può essere impugnato con ricorso straordinario per cassazione. 821 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI 4.2. Sulla giurisdizione in tema di azioni nunciatorie nei confronti della Pubblica Amministrazione sono intervenute le Sez. U, n. 00604/2015, Mazzacane, Rv. 633647, le quali, seguendo un indirizzo già segnato da Sez. U. n. 04633/2007, Rv. 595440, hanno affermato che in tali ipotesi sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando l'attore denunci attività materiali della amministrazione, che possano recare pregiudizio a beni di cui egli si assume proprietario o possessore e il petitum sostanziale della domanda tuteli un diritto soggettivo, come nel caso in cui l'attore deduca la mancata esecuzione dell'ordinanza comunale di demolizione di un fabbricato pericolante che sovrasti la sua proprietà. Sempre in tema di azioni di nunciazione si è inoltre avuto modo di evidenziare la netta distinzione tra il procedimento sommario cautelare e il giudizio di merito, al cui mancato rispetto sono riconducibili gravi conseguenze processuali. In particolare Sez. 2, n. 07260/2015, Manna, Rv. 634830, afferma che in tema di azioni di nunciazione il procedimento cautelare termina con l'ordinanza di accoglimento o di rigetto del ricorso, emesso dal giudice monocratico oppure, in fase di reclamo, da quello collegiale. Il successivo processo di cognizione richiede una autonoma domanda di merito. Pertanto, se il processo di cognizione si avvia in difetto dell'atto propulsivo di parte, a causa dell'erronea fissazione giudiziale di una udienza posteriore all'ordinanza cautelare, è affetto da nullità assoluta per violazione del principio della domanda, rilevabile d'ufficio dal giudice e non sanata dall'instaurarsi del contraddittorio tra le parti. Sul carattere della provvisorietà e non decisorietà dell'ordinanza che chiude la fase cautelare insiste Sez. 6-2, n. 04904/2015, Falaschi, Rv. 634728. La pronuncia puntualizza che i procedimenti nunciatori si articolano in due fasi, la prima di natura cautelare, che si esaurisce con l'emissione di un'ordinanza che concede o nega la tutela interinale, la seconda di merito e a cognizione piena, destinata alla definitiva decisione sulla effettiva titolarità della situazione soggettiva azionata e sulla meritevolezza di tutela possessoria o petitoria. Dal principio ne fa discendere la non ricorribilità per cassazione della ordinanza emessa in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. avverso il provvedimento reso nella fase cautelare, avendo essa i medesimi caratteri di provvisorietà e non decisorietà, propri di quest'ultimo, ed essendo pertanto inidonea ad acquisire efficacia di giudicato dal punto di vista tanto formale quanto sostanziale. 822 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI 4.3. In materia possessoria deve innanzitutto segnalarsi Sez. U, n. 01238/2015, Frasca, Rv. 634086. La pronuncia è importante soprattutto per le innovative conseguenze che ha inteso ricondurre alla ipotesi dell'azione promossa con pretermissione di un litisconsorte necessario. Infatti, nella ipotesi di una azione di riduzione in pristino, incidente su posizioni giuridiche soggettive, appartenenti al litisconsorte necessario pretermesso nel giudizio conclusosi con la formazione del titolo messo in esecuzione, si è negato l'ormai consolidato indirizzo della inopponibilità del titolo giudiziale così formatosi nei confronti del pretermesso (perché, in sintesi, si diceva che la sentenza fosse inutiliter data), e dunque la ricorribilità allo strumento della opposizione all'esecuzione, riconoscendogli al contrario, quale strumento a tutela dei suoi diritti, l'opposizione ordinaria ex art. 404 c.p.c. o anche l'azione di accertamento autonoma della sua posizione. La pronuncia però, al di là dei principi appena accennati, oggetto di più approfondita illustrazione in altra sezione della presente rassegna, ha anche tratteggiato le ipotesi in cui, a fronte della attuazione di un intervento demolitorio, conseguente all'accoglimento di una azione di reintegrazione o di manutenzione, sia considerato litisconsorte necessario il comproprietario o il compossessore non autore dello spoglio. Sul punto essa afferma che, qualora la reintegrazione o la manutenzione del possesso richieda, per il ripristino dello stato dei luoghi, la demolizione di un'opera in proprietà o possesso di più persone, il comproprietario o compossessore non autore dello spoglio è litisconsorte necessario non solo quando egli, nella disponibilità materiale o solo in iure del bene su cui debba incidere l'attività ripristinatoria, abbia manifestato adesione alla condotta già tenuta dall'autore dello spoglio o abbia rifiutato di adoperarsi per l'eliminazione degli effetti dell'illecito, ovvero, al contrario, abbia dichiarato la disponibilità all'attività di ripristino, ma anche nella ipotesi in cui colui che agisca a tutela del suo possesso ignori la situazione di compossesso o di comproprietà, perché in tutte queste fattispecie anche il compossessore o comproprietario non autore della condotta di spoglio è destinatario del provvedimento di tutela ripristinatoria. Nel caso di specie era stata promossa azione di reintegra nel (com)possesso del muro perimetrale di un edificio condominiale, in cui le parti erano proprietarie di distinte unità abitative, lamentando il ricorrente che la parete condominiale esterna, in corrispondenza dell'appartamento del resistente, era stata abbattuta e ricostruita 823 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI inglobando, in parte, la superficie del balcone di quest'ultimo (con conseguente ampliamento della unità abitativa dello spossessatore). Il provvedimento di accoglimento della tutela manutentiva diveniva titolo esecutivo, sicché era notificato (dagli eredi dell'originario ricorrente) precetto con intimazione d'adempimento della sentenza. Sennonché un terzo, mai coinvolto nel giudizio, proponeva opposizione alla esecuzione, deducendo di essere coniuge dell'intimato, con questi comproprietaria dell'appartamento, in danno del quale doveva porsi in esecuzione il titolo dedotto con il precetto (con conseguente riduzione della superficie dell'unità abitativa), e lamentando che il titolo, a lei litisconsorte necessaria pretermessa, le era inopponibile. Si è anche posta questione relativamente alla ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione. Sulla questione Sez. U, n. 15155/2015, Ragonesi, Rv. 636070, hanno sostenuto che il regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso del procedimento possessorio sia ammissibile, quando nella fase sommaria, oppure in sede di reclamo, sia stata risolta in senso affermativo o negativo una questione attinente alla giurisdizione, trattandosi di provvedimento che mantiene carattere di provvisorietà ed essendo comunque possibile richiedere la prosecuzione del giudizio, ai sensi dell'art. 703, comma 4, c.p.c., per la rivalutazione della stessa questione. Tuttavia, in difetto di istanza di parte per la fissazione del giudizio di merito, non è proponibile il ricorso ex art. 41 c.p.c., in quanto l'interesse a promuovere l'accertamento sulla giurisdizione postula necessariamente la pendenza di un processo. 4.4. In tema di sequestro si segnala una sola pronuncia, peraltro relativa alla ammissibilità o meno del regolamento di competenza. Sul punto Sez. 6-2, n. 10435/2015, Giusti, Rv. 635644, sostiene l'inammissibilità del regolamento proposto avverso un provvedimento che non ha carattere definitivo e decisorio, qual'è il provvedimento che autorizza il sequestro conservativo. 4.5. Altrettanto numericamente esigui risultano i provvedimenti in tema di procedimento cautelare d'urgenza. Tra essi Sez. L, n. 01828/2015, Napoletano, Rv. 634193, afferma che il carattere solo eventualmente bifasico del procedimento d'urgenza, di cui all'art. 700 c.p.c., non esclude che l'elezione di domicilio effettuata per la fase cautelare e che contenga l'indicazione della sua validità oltre il detto ambito, possa valere 824 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI anche per le ulteriori fasi processuali rispetto a quella per cui è compiuta, atteso che l'art. 141 c.p.c. individua nella volontà della parte la fonte della legittimità di una elezione di domicilio. Interessante è poi il principio affermato da Sez. 6-L, n. 00797, Fernandes, Rv. 633997, in ordine alle conseguenze dell'omessa eccezione d'incompetenza del giudice adito nella fase cautelare d'urgenza. Nella pronuncia infatti, intervenuta a proposito di un provvedimento d'urgenza invocato per la reintegra nel posto di lavoro, si sostiene che il mancato rilievo della incompetenza per territorio da parte del giudice adito, così come l'omessa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam, non comportano il definitivo consolidamento, anche ai fini del giudizio di merito, della competenza dell'ufficio giudiziario adito. È escluso infatti nel procedimento cautelare il regime preclusivo delle eccezioni e del rilievo officioso dell'incompetenza, regolato dall'art. 38 c.p.c. Dal principio affermato la pronuncia ne trae come conseguenza l'altro, ossia che, in materia di impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il giudizio di merito può essere validamente instaurato con il rito di cui all'art. 1, della legge 28 giugno 2012, n. 92, commi 48 e segg., innanzi al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela. Anche con riguardo al provvedimento d'urgenza il giudice di legittimità ribadisce il principio secondo cui il difetto di definitivià e decisorietà impedisce lo strumento impugnativo del ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost. Infatti Sez. 1, n. 00896/2015, Genovese, Rv. 634000, afferma che il ricorso straordinario per cassazione non è proponibile avverso il diniego di provvedimento d'urgenza domandato ai sensi dell'art. 700 c.p.c., perché detto provvedimento difetta di definitività e decisorietà ed è destinato a perdere efficacia a seguito di pronuncia della sentenza definitiva di merito, così che non può incidere su situazioni soggettive di natura sostanziale con efficacia di giudicato. 5. Il procedimento sommario di cognizione. Pochi sono i provvedimenti che hanno riguardato il procedimento sommario di cognizione. In ordine alla forma della domanda e alle indicazioni che deve contenere il ricorso introduttivo, ai sensi dell'art. 702 bis, comma 1, Sez. 6-2, n. 19345/2015, Manna, Rv. 637166, puntualizza le conseguenze del mancato avvertimento di cui al n. 7 dell'art. 163, comma 3 c.p.c. Afferma in particolare che il mancato avvertimento 825 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI di cui all'art. 163 n. 7, espressamente richiamato nell'art. 702 bis, comporta, ove il convenuto si sia costituito lamentandone la mancanza, non la rinnovazione dell'atto, ma il semplice spostamento d'udienza ex art. 164, comma 3, c.p.c., così assicurando alla parte la disponibilità del tempo normativamente previsto per perfezionare la propria difesa senza incorrere in preclusioni e decadenze. Nella pronuncia è inoltre affermato che quando tale differimento sia attuato mediante la rinnovazione del ricorso e della sua notificazione, l'attività processuale espletata si configura come sovrabbondante, sicchè eventuali irregolarità formali non producono effetti invalidanti in base al principio utile per inutile non vitiatur. Nella fattispecie era accaduto che alla eccepita carenza dell'avvertimento era seguito non il mero rinvio ad altra udienza per assicurare gli effetti dell'avvertimento, come previsto dalla legge, ma la rinnovazione dell'atto introduttivo, rinotificato dunque, ma non presso il procuratore domiciliatario ormai già costituito, bensì alla parte personalmente. La sentenza ha dunque evidenziato che la notificazione era un rimedio sovrabbondante rispetto alla previsione normativa, e pertanto la sua irregolarità era irrilevante ai fini della integrazione del contenuto del ricorso. Sulla appellabilità dell'ordinanza di rigetto emessa all'esito del giudizio sommario è intervenuta Sez. 6-2, n. 22387/2015, Giusti, Rv. 637040, secondo la quale anche l'ordinanza di rigetto della domanda è appellabile ex art. 702 quater c.p.c. Nella sentenza si sottolinea che l'opinione contraria, che si fonda sul richiamo nell'art. 702 quater c.p.c. al solo comma 6 dell'art. 702 ter c.p.c., riferibile alla sola ipotesi dell'accoglimento della domanda, è erronea, dovendosi dare una lettura del citato comma in continuità al contenuto del comma 5 dell'art. 702 ter, quest'ultimo riferito tanto all'accoglimento quanto al rigetto del ricorso. D'altronde, sostiene sempre la pronuncia, una diversa lettura, che discriminasse l'appellabilità secundum eventum litis, sarebbe contraria ai principi di eguaglianza, ragionevolezza e difesa. In ordine alla ammissibilità della sospensione del giudizio con rito sommario di cognizione e sulle conseguenze di tale sospensione, Sez. 6-3, n. 21914/2015, Frasca, Rv. 637590, afferma che qualora nel corso del procedimento introdotto ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c. insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia, che imponga un provvedimento di sospensione necessaria, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., oppure venga invocata l'autorità di una sentenza resa in altro giudizio e tuttora impugnata, ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., si determina la necessità di una istruzione non 826 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI sommaria. Ne deriva che il giudice, a norma dell'art. 702 ter, comma 3, c.p.c., deve disporre il passaggio al rito della cognizione piena, conseguendone pertanto che, nell'ambito del rito sommario, è illegittima l'adozione di un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c. o ex art. 337, comma 2, c.p.c. Va segnalata infine anche Sez. 2, n. 10177/2015, Piccialli, Rv. 635418, che, sull'ipotesi di frazionamento della domanda giudiziale per lo stesso credito, afferma che l'attore, il quale a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito, in quanto tale comportamento non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accellerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore. 6. I procedimenti camerali. Non particolarmente copiosa è anche la giurisprudenza che si è occupata delle questioni processuali relative al rito camerale. Sui poteri del giudice nel procedimento camerale è intervenuta Sez. 6-2, n. 04412/2015, Manna, Rv. 634450, secondo cui il giudice, al fine di garantire il contraddittorio, l'esercizio del diritto di difesa e l'effettività della tutela giurisdizionale, deve esercitare poteri ufficiosi anche mediante l'applicazione estensiva ed analogica delle disposizioni del processo di cognizione, sicchè è tenuto a indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio, richiedendo i necessari chiarimenti, al pari di quanto previsto dall'art. 183, comma 4 c.p.c., e se del caso assumendo sommarie informazioni da soggetti terzi, ai sensi dell'art. 738, comma 3, c.p.c. L'unico limite che la pronuncia pone è riferito alla ipotesi in cui tale modalità di acquisizione di elementi di giudizio non sia volta a supplire all'onere probatorio, che incombe invece sulla parte, oppure abbia finalità meramene esplorative. La questione si era posta in tema di procedimento per equa riparazione, nel quale il giudice di merito aveva dichiarato l'inammissibilità del ricorso per una divergenza tra codice fiscale e nome della ricorrente, senza invece provvedere ad attivarsi anche presso l'Agenzia delle entrate al fine di superare i dubbi insorti. 827 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI Sul rispetto del contraddittorio e del principio della difesa nei procedimenti camerali di natura contenziosa è intervenuta anche Sez. 6-1, n. 26200/2015, Acierno, (in corso di massimazione). La pronuncia, in un procedimento camerale in materia di famiglia, ha ribadito la necessità di osservare i diritti di difesa e di contraddittorio, sebbene in una forma diversa dal modello ordinario di cognizione, del quale mancano le scansioni processuali. Ne discende che può rendersi necessaria una udienza per la comparizione delle parti e per il tentativo di conciliazione, non anche la concessione di termini per il deposito di atti difensivi, quando in contrasto con le esigenze di celerità della decisione. La medesima pronuncia va segnalata anche per l'affermazione di altro interessante principio in ordine alla regolarità della celebrazione dell'udienza di comparizione delle parti in sede di reclamo davanti ad un giudice delegato e non dinanzi al Collegio. Sul punto la S.C. ha ribadito che il potere di delega del Collegio ad uno dei componenti, previsto dall'art. 350, comma 1, c.p.c., trova applicazione anche ai procedimenti camerali in fase di appello, trattandosi di norma dettata per il giudizio a cognizione piena, compatibile con la disciplina dei procedimenti camerali. In materia di famiglia, e con particolare riguardo alla filiazione naturale, è poi utile segnalare Sez. 6-1, n. 18194/2015, Bernabai, Rv. 637108, che afferma come in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio la legge 8 febbraio 2006, n. 54 ha equiparato la posizione dei figli nati more uxorio a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317 bis c.c. (ratione temporis applicabile), che hanno così assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti contemplati negli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia alcun rilievo il rito camerale. Ne discende che i decreti emessi dalla corte d'appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 317 bis c.c. relativi ai figli nati fuori da matrimonio e alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., ora sostanzialmente equiparato al ricorso ordinario per il richiamo operato dall'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3. 7. Gli altri procedimenti speciali. Nella giurisprudenza del 2015 possono segnalarsi alcune pronunce intervenute in procedimenti speciali afferenti varie discipline. 828 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI In tema di divisione, Sez. 6-2, n. 09813/2015, Manna, Rv. 635404, a proposito della disciplina delle spese di giudizio, afferma che anche in caso di compensazione delle spese processuali tra le parti, il giudice può legittimamente disporre che quelle relative alla consulenza tecnica d'ufficio siano a carico di tutti i condividenti pro quota, posto che, in ragione della finalità propria della consulenza di ausilio nella valutazione degli elementi che comportino specifiche conoscenze, la prestazione dell'ausiliare deve ritenersi resa nell'interesse generale della giustizia e, per conseguenza, nell'interesse delle parti. In materia di famiglia, si rinvia alla specifica trattazione. Va peraltro specificamente segnalato che alcune pronunce hanno indirizzato l'attenzione, in tema di giurisdizione volontaria e di attività del giudice tutelare, su questioni incidenti sul rapporto processuale. Sez. 6-1, n. 20471/2015, Acierno, Rv. 637346, afferma che la competenza per l'apertura della tutela dell'interdetto legale, ove questi si trovi in stato di detenzione in esecuzione di sentenza definitiva, va attribuita al giudice tutelare del luogo della sua ultima dimora abituale prima dell'inizio dello stato detentivo, non trovando applicazione il criterio legale della sede principale degli affari e degli interessi dell'interdetto, che presuppone l'elemento soggettivo del volontario stabilimento in un determinato luogo. La irrilevanza della natura di atto riconducibile alla giurisdizione volontaria del provvedimento di nomina del curatore speciale, ex art. 78 c.p.c., è asserita da Sez. 3, n. 07362/2015, Frasca, Rv. 634825, secondo la quale, allorquando l'esigenza di nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. si manifesti nel corso del giudizio ed in relazione ad esso, la corrispondente istanza deve essere proposta al giudice, monocratico o collegiale, investito del processo pendente, a tanto non ostando la collocazione del provvedimento emesso ai sensi dell'art. 80 c.p.c. nell'alveo della giurisdizione volontaria. Sulla natura del procedimento avverso il rifiuto del Direttore dell'agenzia del territorio di eseguire una trascrizione è intervenuta Sez. 1, n. 15131/2015 Rv. 636206, che, a proposito del procedimento previsto dagli artt. 113 bis. disp. att. c.c., e dall'art. 745 c.p.c., ne afferma la natura di volontaria giurisdizione non contenziosa, avendo esso ad oggetto non la risoluzione di un conflitto di interessi, ma il regolamento, secondo la legge, dell'interesse pubblico alla pubblicità immobiliare, cosicché in esso non è ravvisabile una parte vittoriosa o soccombente, tanto che il presidente del tribunale si limita a "sentire" il Conservatore (ora 829 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI direttore della agenzia) e il relativo provvedimento non è suscettibile di passare in giudicato. La pronuncia pertanto conclude sulla questione, sostenendo che in tale procedimento non può provvedersi alla condanna alle spese, che, se invece assunta, legittima il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., avendo tale pronuncia natura decisoria. Per concludere è utile fare cenno ad alcune pronunce intervenute su procedimenti speciali, fuori da quelli contemplati nel Libro IV del codice di procedura civile. In materia di immigrazione, e con riguardo alla competenza sui provvedimenti per proroga del trattenimento in centro di identificazione ed espulsione, Sez. 6-1, n. 19336/2015, De Chiara, Rv. 637225, afferma che è competente il tribunale, in composizione monocratica, ai sensi dell'art. 21, comma 2, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e non il giudice di pace, a provvedere sulla proroga del trattenimento dello straniero in un centro di identificazione ed espulsione, ove sia ancora pendente il termine per l'impugnazione del diniego di protezione internazionale reso dalla Commissione territoriale, dovendosi riconoscere anche a quest'ultimo la qualifica di richiedente asilo, in forza delle previsioni dell'art. 2, lett. c) e d), della direttiva del Consiglio CEE 1 dicembre 2005, n. 85, relative alle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato. Sullo stesso tema, e relativamente al termine per ricorrere in cassazione avverso i provvedimenti in materia di protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 18704, Bisogni, Rv. 636868, sostiene che in tema di tempestività del ricorso per cassazione avverso i suddetti provvedimenti, a seguito della abrogazione dell'art. 35, comma 14, d.lgs. n. 25 del 2008, deve applicarsi il termine ordinario previsto dall'art. 327 c.p.c., e non già quello di trenta giorni di cui all'art. 702 quater c.p.c., relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell'art. 19, d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150. Il principio trova fondamento nella convinzione che il comma 10 di tale ultima disposizione deve essere interpretato nel suo reale significato di attribuire priorità nella trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non però anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti giudizi di merito, secondo una interpretazione peraltro palesemente in contrasto con il diritto delle parti ad un giusto processo ed all'effettività del diritto di difesa. In tema di incandidabilità ai sensi dell'art. 143, comma 11, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (testo Unico sugli Enti Locali) Sez. U, 830 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI n. 01747/2015, Giusti, Rv. 634128, affermano che il provvedimento giurisdizionale per la dichiarazione di incandidabilità degli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dei consigli comunali o provinciali per infiltrazioni di tipo mafioso, pur essendo destinato a svolgersi con il rito camerale ex art. 737 e segg., c.p.c., ha una forma speciale di instaurazione, che richiede la proposta del Ministero dell'Interno, ai sensi dell'art. 143, comma 11, del decreto n. 267 del 2000. Questo essendo l'unico schema normaivo, non incide sulla regolarità del procedimento, e non realizza pertanto alcuna nullità, l'ipotesi in cui, nell'ambito del procedimento instaurato a seguito di tale proposta, il Pubblico Ministero presenti un autonomo ricorso per la dichiarazione di incandidabilità, avendo esso natura e funzione di sollecitazione della trattazione dell'atto ministeriale di impulso. Sulla natura dell'atto proveniente dal Ministero degli Interni, poi, Sez. 1, n. 16048/2015, Bernabai, Rv. 636642, chiarisce che il procedimento giurisdizionale previsto dall'art. 143, comma 11, cit., non ha natura impugnatoria, ma è riconducibile ad un ordinario giudizio camerale contenzioso, regolamentato dagli artt. 737 e segg., c.p.c., soggetto al generale principio della domanda. Ne consegue che non può mancare un atto introduttivo che abbia tutti i requisiti della vocatio in ius e dell'editio actionis, elencati dall'art. 125 c.p.c., da identificarsi nella memoria dell'Avvocatura dello Stato, che rappresenta in giudizio il Ministero dell'Interno. Ad un tempo deve attribuirsi invece alla proposta dello stesso Ministero, prevista dalla stessa disposizione, il valore di atto introduttivo unicamente in una accezione atecnica, idonea come tale a provocare l'attivazione del potere d'impulso del tribunale, volto alla fissazione dell'udienza camerale. Nell'esaminare infine altri interventi relativi al procedimenti speciali, in materia di procedimento disciplinare nei confronti dell'iscritto nell'albo dei giornalisti, cui è applicabile il rito sommario ex art. 702 bis e segg. c.p.c., Sez. 2, n. 00592/2015, Abete, Rv. 634496, afferma che nel procedimento giurisdizionale disciplinato dall'art. 63, legge 3 febbraio 1963, n. 69, avverso le deliberazioni assunte in materia disciplinare dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti, la richiesta di un provvedimento cautelare, quale la sospensione della sanzione disciplinare, formulata in via preliminare nel reclamo alla Corte d'appello avverso la sentenza di condanna, dà vita ad un subprocedimento incidentale, come tale privo di autonomia rispetto alla causa di merito, sicché, avvenuta la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d'udienza, il contraddittorio è 831 CAP. XL - I PROCEDIMENTI SPECIALI pienamente attuato con la costituzione in giudizio del destinatario dell'atto, senza necessità di ulteriori notifiche, posto che il rito sommario previsto dagli artt. 702 bis e segg., c.p.c., applicabile alle controversie in esame, è caratterizzato dalla omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio stesso. Quanto al procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato, nel fissare i limiti dell'inappellabilità dell'ordinanza che definisce la procedura introdotta ai sensi dell'art 28, legge 13 giugno 1942, n. 794, Sez. 2, n. 19873/2015, Parziale, Rv. 636795, afferma che l'art. 14, d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, nel dichiarare inappellabile il provvedimento di liquidazione, richiama i limiti operativi della procedura speciale scelta dal professionista, sicchè quando l'ordinanza statuisca sull'an del compenso e non sul solo quantum, essa esula dalla sfera applicativa dell'art. 14 cit., ed è pertanto impugnabile con l'appello e non con il ricorso per cassazione. 832 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI CAPITOLO XLI LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI (di Paolo Di Marzio) SOMMARIO: 1. Il giudizio di separazione personale dei coniugi: termini processuali. – 2. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. – 3. L'audizione del minore nelle procedure che lo riguardano. – 4. Il collocamento dei minori – 5. I figli nati fuori dal matrimonio. – 6. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. – 7. Giurisdizione e competenza in materia di sottrazione internazionale e rientro dei minori. – 8. Riconoscimento del figlio minore da parte del genitore infrasedicenne: competenza. – 9. L'accertamento giudiziale della paternità. L'impugnazione del riconoscimento del minore per difetto di veridicità, regime probatorio. – 10. Rettificazione di sesso, competenza territoriale. – 11. Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione. – 12. Comunione legale dei coniugi, revocatoria e (insussistenza del) litisconsorzio. – 13. Procedure minorili, volontaria giurisdizione e ricorso per cassazione. – 14. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. 1. Il giudizio di separazione personale dei coniugi: termini processuali. In riferimento al giudizio di separazione personale dei coniugi, la Suprema Corte ha precisato che la proposizione dell'appello si perfeziona, ex art. 8 della l. 6 marzo 1987 n. 74, applicabile in forza dell'art. 23 della stessa legge, con il deposito, nei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., del ricorso nella cancelleria del giudice ad quem, che impedisce ogni decadenza dell'impugnazione. Pertanto, ogni eventuale vizio o inesistenza, giuridica o di fatto, della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione non si comunica all'impugnazione ormai perfezionatasi, ma impone al giudice che rilevi il vizio di indicarlo all'appellante perché provveda a rimuoverlo nel termine all'uopo assegnatogli. Nel caso di specie, il giudice di legittimità ha ritenuto l'inesistenza della notificazione del ricorso in appello, non rinvenuta nel fascicolo di parte sebbene risultasse indicata tra i documenti prodotti e la cui relata, da cui sola può evincersi l'effettiva notifica degli atti processuali, non è stata nemmeno trascritta nel controricorso nel rispetto del principio di autosufficienza, Sez. 1, n. 15137/2015, Valitutti, Rv. 636270. La Corte si è pure soffermata, con Sez. 1, n. 16909/2015, Nazzicone, Rv. 636506, a proposito dei limiti di intervento ai sensi dell'art. 710 c.p.c. per la modificazione dei provvedimenti relativi alla separazione. Sul punto la pronuncia afferma che la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale, qual è quello relativo al consenso reciproco a vivere 833 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI separati, l'affidamento dei figli, l'assegno di mantenimento quando ricorrono i presupposti, ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, che può esere costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separato. Ne consegue che questi ultimi (nel caso di specie si trattava dell'accordo relativo alla vendita della casa coniugale e della distribuzione del ricavato in ragione del denaro investito da ciascuno dei coniugi nell'immobile) non sono suscettibili di modifica in sede di azione ex art. 710 c.p.c., che può invece riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, non i patti autonomi, occasionalmente costituiti in sede di separazione, e che invece restano regolati ai sensi dell'art. 1372 c.c. 2. Accertamento dello stato di abbandono e procedimento di adozione. Ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come modificato dall'art. 3 della l. 10 dicembre 2012, n. 219, ha specificato il giudice di legittimità, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni la competenza in ordine all'accertamento dello stato di adottabilità del minore anche nell'ipotesi in cui il procedimento relativo all'accertamento delle condizioni di adottabilità tragga origine da un altro procedimento, relativo alla limitazione della responsabilità genitoriale, per il quale sia stata dichiarata l'incompetenza del tribunale per i minorenni a seguito dell'instaurazione medio tempore di un giudizio di separazione personale tra i genitori, atteso che i procedimenti di adozione sono rimasti nella esclusiva sfera di competenza del tribunale per i minorenni in quanto del tutto estranei alla novellata articolazione delle competenze, Sez. 6-1, n. 14842/2015, Acierno, Rv. 636192. In tema di adozione di minori, la Suprema Corte ha chiarito che la pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi non giustifica la sospensione del procedimento relativo alla declaratoria di adottabilità instaurato, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 3 della l. n. 219 del 2012), innanzi al tribunale per i minorenni, per carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti. L'accertamento dello stato di abbandono e di adottabilità, infatti, avendo ad oggetto le definitive ed irreversibili condizioni di esistenza del minore che versi in una condizione di grave pericolo per la propria crescita, determinato dall'abbandono dei genitori, ha una portata molto più ampia delle decisioni sull'affidamento assunte al fine di risolvere il conflitto genitoriale, anche quando possano sfociare in misure limitative o 834 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI ablative della responsabilità genitoriale o nell'affidamento a terzi, Sez. 6-1, n. 14842/2015, Acierno, Rv. 636193. In materia di adozione, ha specificato ancora il giudice di legittimità, l'art. 12 della l. 4 maggio 1983, n. 184 limita le categorie di persone che devono essere sentite nel procedimento per la dichiarazione di adottabilità ai parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore, la cui convocazione risponde essenzialmente alla finalità di consentire l'acquisizione di elementi necessari per la valutazione del suo interesse e la prospettazione di soluzioni idonee ad ovviare allo stato di abbandono, senza rescindere il legame con la famiglia di origine. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato il provvedimento impugnato che aveva ritenuto irrilevante l'audizione della sorella del minore, la quale aveva dimostrato disinteresse per il fratello e rifiutato di collaborare con la madre alla sua crescita ed alla sua educazione, Sez. 1, n. 18689/2015, Mercolino, Rv. 637107. 3. L'audizione del minore nelle procedure che lo riguardano. L'audizione dei minori, già prevista nell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino ed, in particolare, in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la l. n. 77 del 2003, nonché dell'art. 315- bis c.c. (introdotto dalla l. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337- octies c.c. (inseriti dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha altresì abrogato l'art. 155-sexies c.c.). Ne consegue che l'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse, Sez. 1, n. 06129/2015, Acierno, Rv. 634881. Pronunciando in materia di adozione, la Suprema Corte ha pure specificato che l'art. 15 della l. n. 184 del 1983, come modificato dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, laddove dispone che il inferiore, se capace di discernim della dichiarazione di adottabilità, esprime un principio che, benché inserito nella disciplina del giudizio di primo grado, deve essere esteso al giudizio di adottabilità nel suo complesso. Ne consegue 835 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI che, ove l'adottando abbia compiuto i dodici anni al tempo del giudizio di appello, il giudice del gravame è tenuto a procedere alla sua audizione, riflettendo tale obbligo una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni ed interessi che, se consapevolmente espressi, pur non vincolando il giudice, non possono essere ignorati, Sez. 1, n. 15365/2015, De Chiara, Rv. 636487. 4. Il collocamento dei minori. In tema di collocamento del figlio minore nell'ambito della procedura di separazione personale dei coniugi, non è denunciabile in cassazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come modificato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. nella l. 7 agosto 2012, n. 134, la mera omessa od errata valutazione da parte del giudice di merito delle relazioni psicosociali acquisite agli atti e dei pareri psicodiagnostici prodotti, ove nel provvedimento sia stato dato risalto all'esigenza di assicurare la conservazione di un regolare rapporto tra il minore ed il genitore non collocatario, Sez. 6-1, n. 18817/2015, Mercolino, Rv. 636766. 5. I figli nati fuori dal matrimonio. Il decreto della corte di appello contenente i provvedimenti in tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, e le disposizioni relative al loro mantenimento, ha evidenziato il giudice di legittimità, è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. poiché già nel vigore della l. 8 febbraio 2006, n. 54 - che tendeva ad assimilare la posizione dei figli di genitori non coniugati a quella dei figli nati nel matrimonio ed a maggior ragione dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del riconosciuti i requisiti della decisorietà, in quanto risolve contrapposte pretese di diritto soggettivo, e di definitività, perché ha un'efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato, Sez. 1, n. 06132/2015, Lamorgese, Rv. 634872. L'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità può essere accolta, alla luce del principio del favor veritatis, non solo quando l'attore provi che l'autore del riconoscimento, all'epoca del concepimento, era affetto da impotentia generandi o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore, così dimostrando nello stesso tempo sia la propria legittimazione che la fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634961. 836 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI Al fine del rispetto della prescrizione relativa all'intervento obbligatorio del P.M. nei procedimenti civili riguardanti lo stato delle persone, la Suprema Corte ha chiarito che non è necessaria la presenza di un rappresentante di tale ufficio nel corso delle udienze e neppure che rassegni le proprie conclusioni, ma è sufficiente che egli sia stato informato mediante l'invio degli atti del giudizio e così posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna. Il giudice di legittimità ha enunciato il principio nell'ambito di un giudizio di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634962. La Suprema Corte ha avuto poi occasione di precisare che il giudizio di impugnazione della veridicità del riconoscimento di figlio naturale è suscettibile di produrre rilevanti effetti sullo status della persona del bambino e di incidere su diritti personalissimi, sicché il giudice deve accertare rigorosamente le ragioni che facciano escludere la veridicità del riconoscimento della filiazione anche se non è applicabile il principio, proprio del giudizio penale, secondo cui la prova deve essere fornita «al di là di ogni ragionevole dubbio», Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634963. La competenza a provvedere sull'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio richiesta, ex art. 250, comma 5, c.c., dal genitore non ancora sedicenne, appartiene al tribunale ordinario (principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.), Sez. 6-1, n. 16103/2015, Cristiano, Rv. 636601. 6. Provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale. Il giudice di legittimità ha specificato che l'art. 38, comma 1, disp. att. c.c. (come modificato dall'art. 3, comma 1, della l. n. 219 del 2012, applicabile ai giudizi instaurati a decorrere dall'1 gennaio 2013), deve interpretarsi nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c., e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un'ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte d'appello in composizione ordinaria se penda il termine per l'impugnazione o sia 837 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI stato interposto appello, Sez. 6-1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988. La Suprema Corte ha quindi riaffermato che, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c. come novellato dall'art. 3 della l. n. 219 del 2012, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta innanzi al tribunale ordinario domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio iurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 CEDU e nell'art. 24 della Carta di Nizza, Sez. 6-1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420. Instaurato da parte del P.M. un giudizio ex art. 333 c.c. davanti al tribunale per i minorenni, nel corso del quale sia stata accertata l'insussistenza di comportamenti pregiudizievoli da parte dei genitori nei confronti del proprio figlio minore, il successivo procedimento ex art. 317-bis (oggi art. 337-ter) c.c., introdotto da uno dei genitori e relativo all' affidamento del figlio medesimo, è devoluto alla competenza generale del tribunale ordinario del luogo di residenza abituale del minore, non potendo subire la vis actractiva del tribunale per i minorenni, che ha competenze tassativamente individuate dalla legge, Sez. 6-1, n. 15971/2015, Dogliotti, Rv. 636357. Il decreto emesso dalla corte d'appello in sede di reclamo avverso il decreto del tribunale per i minorenni che, allo scopo di regolare l'esercizio della potestà genitoriale (ora responsabilità genitoriale), ha disposto ai sensi dell'art. 333 c.c. l'affido di un figlio minore ai servizi sociali, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c. e, in quanto adottato per l'esclusiva tutela dell'interesse del minore (e non per decidere un contrasto tra contrapposti diritti soggettivi), neppure con il ricorso straordinario ai sensi dell'art. 111 Cost., poiché privo dei caratteri della decisorietà e della definitività, Sez. 1, n. 16227/2015, Valitutti, Rv. 636331. In tema di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, la l. n. 54 del 2006 ha equiparato la posizione dei figli nati more uxorio a quella dei figli nati da genitori coniugati, estendendo la disciplina in materia di separazione e divorzio anche ai procedimenti ex art. 317- bis c.c., che hanno assunto autonomia procedimentale rispetto ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333 e 336 c.c., senza che abbia 838 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI alcun rilievo il rito camerale. Ne consegue che i decreti emessi dalla corte d'appello avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 317-bis c.c. relativi ai figli nati fuori dal matrimonio ed alle conseguenti statuizioni economiche, ivi compresa l'assegnazione della casa familiare, sono impugnabili con ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., ora equiparato sostanzialmente al ricorso ordinario in forza del richiamo operato dall'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. ai commi 1 e 3 (nel testo novellato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), Sez. 6-1, n. 18194/2015, Bernabai, Rv. 637108. 7. Giurisdizione e competenza in materia di sottrazione internazionale e rientro dei minori. Pronunciando in tema di giurisdizione, la Suprema Corte ha chiarito che il regolamento CE 27 novembre 2003, n. 2201/2003 non deroga alla Convenzione sull'istanza di rientro nel luogo di residenza del minore illecitamente ma conserva, per un periodo di tempo limitato, la competenza giurisdizionale allo Stato membro in cui il minore aveva la residenza abituale prima del trasferimento, a condizione che sia tempestivamente presentata e successivamente accolta un'istanza di rientro. Ne consegue una fase di sdoppiamento della competenza giurisdizionale sul rientro e sull' affidamento tesa a garantire, da un lato, che la decisione sul rientro sia presa dal giudice del luogo in cui il minore si trova, in base al criterio di prossimità e possibilità di ascolto, e, dall'altro, ad impedire che la sottrazione illecita del minore favorisca, con lo spostamento della giurisdizione, il suo autore, Sez. 1, n. 09632/2015, Bisogni, Rv. 635336. In tema di illecita sottrazione internazionale di minori, ha chiarito ancora la Suprema Corte, l'avvenuta proposizione dell'impugnazione del decreto del tribunale innanzi ad un giudice incompetente, qual è la corte di appello, non è idonea ad impedire, mediante la rimessione della causa al giudice competente, ossia la Corte di cassazione, la declaratoria di inammissibilità del gravame per decadenza, poiché il principio della traslatio iudicii di cui all'art. 50 c.p.c. non opera in caso di impugnazione proposta ad un giudice di grado diverso da quello avanti al quale si sarebbe dovuta proporre, Sez. 1, n. 17911/2015, Nazzicone, Rv. 637100. 8. Riconoscimento del figlio minore da parte del genitore infrasedicenne: competenza. La competenza a 839 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI provvedere sull'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio richiesta, ex art. 250, comma 5, c.c., dal genitore non ancora sedicenne, ha statuito la Suprema Corte, appartiene al tribunale ordinario (principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c.), Sez. 6-1, n. 16103/2015, Cristiano, Rv. 636601. 9. L'accertamento giudiziale della paternità. L'impugnazione del riconoscimento del minore per difetto di veridicità, regime probatorio. Nel giudizio promosso per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, ha chiarito la Suprema Corte che l'efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa per la ragione che esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche. In realtà tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno questa natura anche se espresse in termini di "leggi", e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cosiddetto errore statistico), che per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cosiddetto errore sistematico). Spetta pertanto al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione sull'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini, Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634855. Nel giudizio promosso per l'accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sotto costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter essere posto, anche da solo, a fondamento del giudizio di fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06025/2015, Bisogni, Rv. 634858. L'impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità può essere accolta, alla luce del principio del favor veritatis, non solo quando l'attore provi che l'autore del riconoscimento, all'epoca del concepimento, era affetto da impotentia generandi o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore, così dimostrando nello stesso tempo sia la propria legittimazione che la fondatezza della domanda, Sez. 1, n. 06136/2015, Genovese, Rv. 634961. 840 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI Il giudice di legittimità ha poi ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito che aveva liquidato i danni conseguenti ad un falso riconoscimento di paternità poi disconosciuto, in base ai parametri utilizzati in materia di perdita del rapporto parentale e di pregiudizi intrafamiliari. In tal senso il giudice di legittimità ha affermato il principio che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resta affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636631. In tema di accertamento giudiziale della paternità, la Suprema Corte ha avuto occasione di chiarire che le cd. linee guida di esecuzione delle indagini genetiche, dettate dalle principali associazioni internazionali di studiosi ed operatori della genetica forense, sebbene siano prive di forza cogente in quanto non tradotte in protocolli imposti da norme di legge o di regolamento, costituiscono comunque regole comportamentali autoimposte e normalmente rispettate, essendo volte ad assicurare, sulla base delle acquisizioni tecnico-scientifiche del tempo, risultati peritali attendibili e verificabili. La loro inosservanza, pertanto, può far legittimamente dubitare della correttezza delle conclusioni esposte dal consulente tecnico di ufficio, Sez. 1, n. 16229/2015, Genovese, Rv. 636498. L'azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità postula, a norma dell'art. 263 c.c., la dimostrazione dell'assoluta impossibilità che il soggetto, autore dell'originario riconoscimento sia, in realtà, il padre biologico del soggetto riconosciuto come figlio (nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che il mero rifiuto del figlio riconosciuto di sottoporsi al prelievo ematologico non potesse essere valutato come prova, adeguata e sufficiente, dell'asserita non veridicità del riconoscimento, Sez. 1, n. 17970/2015, Bisogni, Rv. 637101. Il giudice di legittimità ha pure avuto occasione di chiarire che, in caso di dichiarazione giudiziale di paternità, l'assunzione del cognome paterno da parte del figlio maggiorenne non è configurabile quale pronuncia accessoria da rendere d'ufficio ma, in quanto espressione di un diritto potestativo del figlio, richiede una apposita domanda da formularsi nell'atto di citazione o comunque nel termine ultimo di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c. (nel testo 841 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla l. n. 80 del 2005), Sez. 1, n. 19734/2015, Mercolino, Rv. 637310. Inoltre, la Suprema Corte ha statuito che, ai fini del legittimo esercizio del potere di sospensione discrezionale del processo di accertamento giudiziale di paternità ex art. 337, comma 2, c.p.c., in attesa della definizione del giudizio revocatorio sul giudicato intervenuto in un precedente procedimento di disconoscimento di paternità, è necessario che il giudice di secondo grado motivi esplicitamente sui requisiti di pregiudizialità e controvertibilità effettiva della decisione impugnata, posti a base dell'esercizio del potere di sospensione del processo richiesti dalla menzionata disposizione, Sez. 1, n. 21664/2015, Acierno, Rv. 637308. Il giudice di legittimità si è pure pronunciato in materia di consulenza tecnica d'ufficio ematologica nell'ambito dei giudizi per l'accertamento o il disconoscimento della paternità. La Suprema Corte ha evidenziato che la consulenza tecnica d'ufficio è un mezzo istruttorio ufficioso, sottratto alle preclusioni istruttorie che vincolano le parti del processo, e suscettibile di essere soltanto sollecitato da queste ultime. Ne discende che la dichiarazione della parte, la quale pure l'aveva richiesta, di voler "rinunciare" alla consulenza tecnica ematologica non assume alcun rilievo vincolante per il giudice che ritenga utile l'ccertamento. Inoltre, può attribuirsi alla consulenza tecnica la qualifica di "esplorativa", e ritenerla perciò inammissibile, sol quando la stessa sia rivolta a supplire a deficienze di allegazione ed istruttorie della parte, con la conseguenza di risultare contra legem, perché destinata ad aggirare il regime giuridico dell'onere della prova. Nel caso di specie la Corte ha affermato che solo in mancanza di qualsiasi allegazione e prova sull'accertamento richiesto la domanda di svolgere l'indagine ematologica, unanimemente ritenuta decisiva in ordine alla verità dei rapporti di filiazione, avrebbe potuto astrattamente ritenersi "esplorativa", Sez. 1, n. 23290/2015, Acierno, in corso di massimazione. 10. Rettificazione di sesso, competenza territoriale. La competenza per territorio in relazione alla domanda di rettificazione di sesso, e conseguentemente del nome, si radica con riferimento al luogo di residenza dell'attore, secondo il disposto dell'art. 2 della l. 14 aprile 1982, n. 164, nonché dell'art. 31, comma 2, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, e non con riferimento al luogo in cui si trova l'ufficio dello stato civile dove è stato registrato l'atto da rettificare, in applicazione dell'art. 96 del d.P.R. 3 novembre 2000, 842 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI n. 396, utilizzabile unicamente per i ricorsi rivolti a rettificare una precedente annotazione o a procedere alla ricostituzione, cancellazione o formazione di un atto dello stato civile, Sez. 1, n. 12638/2015, Acierno, Rv. 635652. 11. Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione. La Suprema Corte ha statuito che la cartella esattoriale, emessa per il recupero di prestazioni sanitarie indebitamente erogate in favore di un interdetto che identifichi come debitore, anziché l'incapace, il suo tutore, senza menzionarne la qualità, è illegittima per erronea individuazione del soggetto obbligato, poiché realizza un'inammissibile commistione tra soggetti i violazione dei principi della persistenza della soggettività giuridica, anche dell'incapace, e della personalità della responsabilità patrimoniale, Sez. 6-3, n. 09135/2015, De Stefano, Rv. 635211. Il curatore dell'inabilitato non ha diritto a indennità, mancando una norma che ne preveda la spettanza e non potendosi estendere a lui il combinato disposto degli artt. 379 e 424 c.c., il quale consente di riconoscere un compenso al tutore per la maggiore intensità delle funzioni di protezione dell'interdetto, Sez. 6-2, n. 09816/2015, Manna, Rv. 635244. Il giudice di legittimità ha quindi precisato che nei confronti delle persone inabilitate, le quali devono stare in giudizio con la necessaria assistenza del curatore, il procedimento di notificazione ha carattere complesso. Lo stesso, infatti, può ritenersi perfezionato soltanto quando l'atto sia stato portato a conoscenza tanto della parte quanto del curatore, al fine di porre quest'ultimo in condizione di svolgere la sua funzione di assistenza. Ne consegue che, ai sensi dell'art. 75 c.p.c., analogicamente applicabile, per identità di ratio, anche alla cartella di pagamento, la notifica al solo inabilitato, e che pertanto non sia stata effettuata pure nei confronti del curatore, è giuridicamente inesistente, non assumendo rilievo la mancata indicazione della curatela nelle dichiarazioni dei redditi, atteso che è onere dell'Amministrazione individuare la persona che ha la rappresentanza dell'incapace, Sez. T, n. 12531/2015, Federico, Rv. 635747. Nel giudizio di interdizione il giudice di merito, nel valutare se ricorrono le condizioni previste dall'art. 418 c.c. per la nomina di un amministratore di sostegno, rimettendo gli atti al giudice tutelare, deve considerare che, rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va 843 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma alle residue capacità e all'esperienza di vita dallo stesso maturate, anche attraverso gli studi scolastici e lo svolgimento dell'attività lavorativa (nella specie, si trattava di un'impiegata in ufficio con mansioni esecutive). Ne consegue che non si può impedire all'incapace, che ha dimostrato di essere in grado di provvedere in forma sufficiente alle proprie quotidiane ed ordinarie esigenze di vita, il compimento, con il supporto di un amministratore di sostegno, di atti di gestione ed amministrazione del patrimonio posseduto (anche se ingente), restando affidato al giudice tutelare il compito di conformare i poteri dell'amministratore e le limitazioni da imporre alla capacità del beneficiario in funzione delle esigenze di protezione della persona e di gestione dei suoi interessi patrimoniali, ricorrendo eventualmente all'ausilio di esperti e qualificati professionisti del settore, Sez. 1, n. 17962/2015, Mercolino, Rv. 637102. Al tutore di persona interdetta, già costituito e soccombente in primo grado, non necessita l'autorizzazione del giudice tutelare per proporre appello avverso la relativa sentenza, mancando in tale ipotesi, diversamente da quella dell'inizio ex novo del giudizio da parte sua, agli effetti dell'art. 374, n. 5, c.c., la necessità di compiere la preventiva valutazione in ordine all'interesse ed al rischio economico per l'incapace, Sez. 2, n. 19499/2015, Nuzzo, Rv. 636524. 12. Comunione legale dei coniugi, revocatoria e (insussistenza del) litisconsorzio. Nel giudizio intrapreso, ex art. 2901 c.c., nei confronti di uno solo dei coniugi in regime di comunione legale e riguardante un atto dispositivo compiuto da entrambi, non sussiste il litisconsorzio necessario dell'altro, atteso che l'eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica di quest'ultimo, ma comporterebbe esclusivamente l'inefficacia relativa dell'atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di disposizione, Sez. 3, n. 17021/2015, Rubino, Rv. 636301. 13. Procedure minorili, volontaria giurisdizione e ricorso per cassazione. In tema di autorizzazione al rilascio del passaporto al genitore con figlio minore, prevista dall'art. 3, lett. b), della l. 21 844 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI novembre 1967, n. 1185, quando difetti l'assenso dell'altro genitore, il giudice di legittimità ha statuito che il provvedimento emesso dal tribunale in esito al reclamo avverso il decreto del giudice tutelare che abbia concesso o negato l'autorizzazione richiesta non ha natura definitiva e decisoria, trattandosi di atto di volontaria giurisdizione volto non a dirimere in via definitiva un conflitto tra diritti soggettivi dei genitori del minore, ma a valutare la corrispondenza del mancato assenso di uno di loro all'interesse del figlio e, dunque, espressivo di una forma gestoria dell'interesse del minore, sicché non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., Sez. 6-1, n. 21667/2015, Mercolino, Rv. 637306. La Suprema Corte ha pure statuito che il regolamento di competenza non può essere proposto nel corso di un procedimento diretto ad ottenere la pronuncia di decadenza dalla potestà genitoriale ai sensi dell'art. 330 c.c., anche se il medesimo giudizio coinvolge, quali statuizioni meramente consequenziali, le decisioni sull'affidamento esclusivo del minore e la determinazione dell'assegno dovuto per il suo mantenimento. I provvedimenti camerali diretti a pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale e la reintegrazione in essa ai sensi degli artt. 330 e 332 c.c., ovvero a disporne la limitazione, ai sensi dell'art. 333 c.c., sono invero privi del requisito della decisorietà e definitività, non assolvono del resto alla funzione di dirimere una lite tra due soggetti in ordine all'attribuzione di un bene della vita, bensì a quella di controllare e governare gli interessi dei minori. Tali provvedimenti non sono dotati della stabilità tipica del provvedimento giurisdizionale idoneo al giudicato, essendo revocabili in ogni tempo, per motivi originari o sopravvenuti, e, pertanto, deve escludersi che possano essere impugnati mediante regolamento di competenza ad istanza di parte. Invero, in tali procedure l'affermazione o la negazione della competenza ha carattere meramente preliminare e strumentale rispetto alla decisione di merito, della quale condividono il regime impugnatorio, Sez. 6-1, n. 22568/2015, Mercolino, Rv. in corso di massimazione. Il giudice di legittimità ha quindi riaffermato che sono inammissibili i ricorsi per cassazione, proposti ai sensi dell' art. 111, comma 7, Cost., quando abbiano ad oggetto provvedimenti emessi in sede di volontaria giurisdizione, quali ad esempio le pronunce di decadenza o reintegrazione nella potestà genitoriale ex artt. 330 e 332 c.c., stante la mancanza dei caratteri della decisorietà e definitività, Sez. 6-1, n. 24477/2015, Acierno, in corso di massimazione. 845 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI 14. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. Il coniuge che abbia aderito alla domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio formulata dall'altro coniuge non ha interesse ad impugnare la conseguente sentenza dichiarativa sul presupposto dell'intervenuto annullamento del vincolo in sede ecclesiastica. Il giudizio di nullità canonica è infatti autonomo rispetto a quello ordinario, sicché nessuna interferenza può ipotizzarsi tra le due sentenze, aventi natura, presupposti e finalità diverse, nonché destinate ad avere rilievo in ordinamenti distinti, tanto più che dall'eventuale accoglimento del gravame non può derivare alcuna utilità giuridica alla parte che lo propone, che è configurabile solo in caso di soccombenza, almeno parziale, e non anche nell'ipotesi di adesione alla domanda di controparte, Sez. 1, n. 17969/2015, Bisogni, Rv. 637104. La Suprema Corte ha quindi confermato l'orientamento recentemente espresso dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16379/2014, Di Palma, Rv. 631798), affermando che la convivenza triennale "come coniugi", quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, né opponibile dal coniuge, per la prima volta, nel giudizio di legittimità, Sez. 1, n. 18695/2015, Campanile, Rv. 636704. Il giudice di legittimità, inoltre, dopo aver ribadito che l'eccezione relativa alla convivenza ultratriennale dei coniugi, proposta per opporsi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, deve intendersi come un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, come deciso dalle Sezioni Unite nella ricordata sentenza n. 16379 del 2014, ha anche specificato che quest'ultima pronuncia ha integrato in materia un vero e proprio overrulling; in conseguenza, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, l'errore della parte che abbia compiuto oppure omesso o ritardato un atto processuale, facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, non ha rilevanza preclusiva e lo strumento per consentire di rimediare all'errore consistente nella tardiva proposizione dell'eccezione della convivenza ultratriennale dei coniugi, che deve intendersi come oggettivamente scusabile, 846 CAP. XLI - LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI consiste nella rimessione in termini, Sez. 1, n. 25676/2015, Didone, in corso di massimazione. 847 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE CAPITOLO XLII I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE AD ORDINANZA INGIUNZIONE (di Luca Varrone) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Questioni di costituzionalità. 2.1. Sul market abuse in relazione al principio di specialità e al divieto del ne bis in idem. – 2.2. Sul principio di irretroattività. – 3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. – 4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. – 5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. – 6. Altre pronunce di interesse. 1. Premessa. Nel presente capitolo viene trattato, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale, l'intero tema delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento nei casi soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario. Il capitolo, pertanto, comprende oltre al tradizionale giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, anche i procedimenti di opposizione nei confronti delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob e dalla Banca d'Italia. Com'è noto, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014, tali giudizi sono ritornati alla giurisdizione ordinaria, cui spettavano prima dell'approvazione del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Dunque, la competenza a conoscere del corretto esercizio della potestà sanzionatoria da parte della Consob e della Banca d'Italia oggi spetta alla corte d'appello. Al giudice amministrativo continua ad essere attribuito, invece, il sindacato avverso le sanzioni comminate dall'Autorità Garante della Concorrenza e dall'Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni. Il d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, sulla semplificazione dei riti, ha stabilito un'applicazione generalizzata della disciplina del processo del lavoro per le controversie in tema di opposizione a sanzioni amministrative ex l. 24 novembre 1981, n. 689. Al momento della riforma, i giudizi nei confronti delle sanzioni comminate dalla Consob e dalla Banca d'Italia erano stati già devoluti al TAR Lazio per effetto dell'abrogazione operata dal d.l.gs. n. 104 del 2010 rispettivamente degli artt. 187 septies, commi 4-8, e 195, commi 4-8, TUF e dell'art. 145, commi 4-8, TUB, sicché era del tutto pacifica la loro estraneità all'ambito di operatività della nuova disciplina. Oggi, a seguito della citata declaratoria di incostituzionalità, il rito applicabile, in tali casi, ha come principale punto di riferimento quello dell'opposizione a ordinanza ingiunzione. 848 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE Di qui la trattazione nel presente capitolo. 2. Questioni di costituzionalità. 2.1. Sul market abuse in relazione al principio di specialità e al divieto del ne bis in idem. Proprio in tema di procedimenti sanzionatori in materia bancaria e finanziaria, deve segnalarsi una prima importantissima pronuncia (Sez. 5, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634956), con la quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 187 ter, comma 1, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, per contrasto con l'art. 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/Italia, nella parte in cui, in violazione del principio del ne bis in idem, prevede, per gli stessi fatti, la comminatoria congiunta della sanzione amministrativa di cui all'art. 187 ter del d.lgs. n. 58 del 1998 - ritenuta di natura "penale" dalla Corte Europea a prescindere dalla qualificazione operata dal diritto interno - e della sanzione penale prevista dall'art. 185 del medesimo d.lgs., ove la sentenza del procedimento penale, per quest'ultima contestazione, sia passata in giudicato. In particolare, la Suprema Corte era chiamata a pronunciarsi sull'impugnazione di una sentenza della Corte di Appello di Roma - in relazione ad opposizioni proposte avverso un provvedimento sanzionatorio adottato dalla Consob per l'illecito di cui al già menzionato art. 187 ter TUF - con la quale veniva confermata la delibera impugnata con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate. Nelle more del ricorso per cassazione, è intervenuta la pronuncia della CEDU sopra citata, nella quale si è affermata la violazione del principio del ne bis in idem alla luce dell'art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato. In particolare, secondo la CEDU: a) il presupposto al quale è collegata l'efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sullo stesso fatto storico è costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale; b) le sanzioni irrogate dalla Consob per la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all'art. 187 ter TUF, benché formalmente qualificate come amministrative dall'ordinamento italiano, debbono essere ricondotte alla "materia penale" agli effetti 849 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE dell'art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, e ciò in ragione sia della "natura dell'illecito" (ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione), sia della natura e del grado di severità delle sanzioni (pecuniarie ed interdittive) previste dalla legge e concretamente comminate ai ricorrenti; c) al fine di stabilire se i fatti su cui si è formato il giudicato sono da considerarsi i medesimi per i quali si procede in altro giudizio, occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta descritta dagli artt. 187 ter e 185 TUF, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dai menzionati articoli. Ciò premesso, il dubbio di costituzionalità è posto in relazione al sistema del cd. doppio binario tra il reato di manipolazione del mercato (art. 185 TUF) e la analoga fattispecie amministrativa (art. 187 ter TUF), essendo prevista una duplice sanzione penale ed amministrativa, in antitesi col principio espresso dalla CEDU del divieto del ne bis in idem. Infatti, la Corte rileva che i medesimi fatti oggetto della sanzione amministrativa sono stati oggetto di una sentenza di patteggiamento da parte dello stesso soggetto. La mancata previsione dell'allargamento del principio del ne bis in idem anche ai rapporti tra processi e, specificamente, la cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale, appare non conforme alle norme costituzionali e ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU. Nell'ordinanza si fa notare che, in base alla previsione di cui all'art. 187 duodecies TUF, «il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all'art. 187 septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione». Inoltre, l'art. 187 terdecies TUF prevede, al comma 1, che «quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187 septies, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'Autorità amministrativa». Trattasi del principio del "ne bis in idem attenuato", a cui fa da contraltare il principio del "doppio binario attenuato", principi che potrebbero trovare applicazione nella fattispecie in esame, ove la Consulta dovesse propendere per una pronuncia additiva. Potrebbe così 850 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE trovare quantomeno parziale legittimità costituzionale il regime del "doppio binario", sia pure nei limiti che eventualmente la Corte vorrà individuare, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, valutando la possibile applicazione del principio della progressione illecita tra le due fattispecie, penale e amministrativa. 2.2. Sul principio di irretroattività. La seconda sezione civile (Sez. 2, n. 18025/2015, Petitti) ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 187 sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell'art. 9, comma 6, della l. 18 aprile 2005, n. 62, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente, introdotta per gli illeciti di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, di cui alla parte V, titolo I bis, del d.lgs. n. 58 del 1998, si applichi anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della l. n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito. Prima della depenalizzazione avvenuta con la l. n. 62 del 2005, il trattamento sanzionatorio dell'illecito era previsto dal previgente art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, e consisteva nella pena della reclusione fino a due anni e nella multa da venti a seicento milioni di lire. Ai sensi del comma 5 del medesimo articolo, era previsto che: «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, è sempre ordinata la confisca dei mezzi, anche finanziari, utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che essi appartengano a persona estranea al reato». Per effetto delle modificazioni introdotte dalla l. n. 62 del 2005, la disciplina sanzionatoria della condotta di abuso di informazioni privilegiate, costituente illecito amministrativo, è ora delineata dall'art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998. Ai sensi dell'art. 187 sexies del medesimo d.lgs., l'applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell'illecito e dei beni utilizzati per commetterlo. Qualora non sia possibile eseguire tale confisca, essa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente. In nessun caso può essere disposta la confisca di beni che non appartengono ad una delle persone cui è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria. Infine, in forza di quanto disposto dall'art. 9, comma 6, della l. n. 62 del 2005, «le disposizioni previste dalla 851 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE parte V, titolo I-bis, del testo unico di cui al d.lgs. 28 febbraio 1998, n. 58 (e tra queste quella di cui all'art. 187-sexies), si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito. Per ogni altro effetto si applica l'articolo 2 del codice penale (...)». Così delineato il quadro normativo, la Corte di cassazione, sulla scorta del contenuto afflittivo della confisca per equivalente, richiama sia la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 196 del 2010), secondo cui anche in questi casi deve trovare applicazione il secondo comma dell'art. 25 Cost., che vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, anche se in quel caso la confisca aveva natura di misura di sicurezza piuttosto che di sanzione amministrativa, sia quella della Corte Europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente è in contrasto con i principi sanciti dall'art. 7 della Convenzione. Tale soluzione deve essere la medesima anche nel caso la confisca per equivalente sia prevista quale sanzione accessoria per un illecito amministrativo. A tal proposito, si cita ancora una volta la Corte europea dei diritti dell'uomo, che, nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri, ha riconosciuto il carattere dell'afflittività alle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall'art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998. D'altro canto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 196 del 2010, ha affermato il principio secondo il quale «tutte le misure di carattere punitivo afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto». Deve quindi ritenersi che qualunque misura che non operi al solo fine di prevenire la commissione di illeciti, anche amministrativi, ma abbia un contenuto punitivo-afflittivo, possa trovare applicazione solo qualora la legge che la preveda sia già entrata in vigore al tempo della commissione del fatto oggetto di sanzione, così come desumibile dall'art. 25 Cost. e, con specifico riferimento agli illeciti amministrativi, dalla disciplina generale prevista dalla l. n. 689 del 1981, la quale, all'art. 1, stabilisce il principio generale secondo cui «nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (Corte Cost. n. 104 del 2014). Sulla base di tali argomentazioni, con l'ordinanza in commento, si è ritenuta non manifestamente infondata la questione di costituzionalità sopra riportata. 3. In materia di sanzioni amministrative bancarie e finanziarie. Tra le più importanti sentenze in materia bancaria, 852 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE deve segnalarsi Sez. 2, n. 19865/2015, Parziale, Rv. 636728, e Sez. 2, n. 26131/2015 Giusti, in corso di massimazione. La prima delle pronunce citate, in tema di omessa comunicazione alla Consob, ha ripreso il principio di origine penalistica secondo cui, in assenza di una espressa e specifica previsione che, distinguendo tra omissione e ritardo, preveda una responsabilità graduata in relazione al decorso del tempo in cui avviene l'adempimento tardivo, quest'ultima ipotesi è ricompresa nella prima e l'adempimento tardivo non scrimina. Pertanto, in applicazione di tale principio, si è statuito che l'art. 193, comma 2, TUF, nella formulazione vigente all'epoca dei fatti e antecedente le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 195 del 2007, nel sanzionare l'omissione delle comunicazioni previste dall'art. 120 TUF, non prevede alcuna deroga per il ritardo, anche perché altrimenti resterebbe affidata alla discrezionalità dell'autore dell'illecito la possibilità di adempiere in ogni momento. Nella medesima occasione, si è anche affermato che l'art. 120 TUF deve essere interpretato alla luce dell'art. 9, par. 2, della Direttiva 2004/109/CE, che espressamente prevede che «i diritti di voto sono calcolati in base a tutte le azioni che conferiscono diritti di voto, anche se il loro esercizio è sospeso»; pertanto, nella nozione di capitale sociale di cui alla norma citata devono essere ricomprese anche le azioni proprie, in relazione alle quali il diritto di voto è solo temporaneamente sospeso, mentre devono essere escluse solo le azioni che non attribuiscono alcun diritto di voto ab origine; ciò in conformità anche con l'art. 2357 ter c.c., che include le azioni proprie nel capitale sociale ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell'assemblea. Infine, si è stabilito che l'obbligo di comunicazione di cui all'art. 120 TUF sussiste, oltre che in capo al soggetto che detiene la partecipazione, anche a carico dei soggetti che si trovano in posizione di controllo in una catena di partecipazioni; ne consegue che, in presenza di distinti obblighi informativi, è legittima la duplicazione della sanzione di cui all'art. 193, comma 2, TUF in capo ad unico soggetto che abbia omesso di comunicare la variazione della partecipazione facente capo a lui personalmente e quella gravante sulla società di cui era presidente e legale rappresentante. Con la seconda sentenza citata (Sez. 2, n. 26131/2015, Giusti, in corso di massimazione) si è ritenuta infondata l'istanza avanzata dalla ricorrente di dichiarare la sopravvenuta illegittimità del provvedimento sanzionatorio in applicazione del principio del favor rei, in relazione agli artt. 190, 190-bis e 194-quater TUF, come modificati dal d.lgs. n. 72 del 2015. Secondo la difesa, infatti, a 853 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE seguito della sopravvenuta modifica dell'art. 190 TUF, disposta dall'art. 5, comma 4, lettera a), del d.lgs. n. 72 del 2015, per le violazioni del testo unico (e relative norme di attuazione) addebitate alla ricorrente non è più prevista l'imputabilità delle stesse in capo all'esponente aziendale, rimanendo responsabile esclusivamente l'intermediario; e, sebbene l'art. 5, comma 5, dello stesso d.lgs. abbia introdotto il nuovo art. 190-bis TUF sulla responsabilità degli esponenti aziendali e del personale per le violazioni in tema di disciplina degli intermediari, dei mercati e della gestione accentrata di strumenti finanziari, tali sanzioni sarebbero applicabili agli esponenti solo al ricorrere di specifici presupposti, nella specie non sussistenti, sicché per la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate dall'Autorità di Vigilanza, stante il loro carattere punitivo-afflittivo (è richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia) occorre fare applicazione di tutte le garanzie proprie di questo tipo di sanzioni, tra cui la retroattività in mitius. Secondo la Suprema Corte, poiché non sono state ancora emanate le disposizioni di attuazione previste dall'art. 196-bis del TUF, allo stato non sono applicabili le modifiche apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 alla parte V del TUF, tra cui quelle che prevedono che sia l'ente, e non più l'esponente aziendale, il soggetto primariamente responsabile delle violazioni di cui all'art. 190 del TUF, e che configurano la responsabilità dell'esponente aziendale soltanto se la condotta abbia inciso in modo rilevante sulla complessiva organizzazione o sui profili di rischio aziendali, o abbia provocato un grave pregiudizio per la tutela degli investitori o per l'integrità ed il corretto funzionamento del mercato, ovvero se la condotta abbia contribuito a determinare la mancata ottemperanza della società o dell'ente a provvedimenti specifici. Pertanto, non essendo ancora applicabile il nuovo, e presunto più favorevole, quadro normativo sanzionatorio viene a mancare la premessa stessa per la valutazione circa l'applicazione retroattiva, in materia, della lex mitior. Per la stessa ragione, difetta di rilevanza la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui non prevede l'applicazione del principio del favor rei con riferimento alle sanzioni amministrative irrogate ai sensi del TUF prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, questione sollevata in via subordinata dalla difesa della ricorrente. Con riferimento al procedimento sanzionatorio amministrativo, Sez. 2, n. 09482/2015, Giusti, Rv. 635245, ha 854 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE affermato che esso sfugge all'ambito di applicazione della l. 7 agosto 1990, n. 241, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla l. 21 novembre 1981, n. 689. Per questo motivo, non assume alcuna rilevanza il termine di trecentosessanta giorni per la conclusione del procedimento di cui all'art. 4 del regolamento Consob 2 agosto 2000, n. 12697, attesa l'inidoneità di un regolamento interno emesso nell'erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ai sensi della l. n. 241 del 1990 a modificare le disposizioni della l. n. 689 del 1981. Sez. 2, n. 06778/2015, Petitti, Rv. 634747, è conforme agli insegnamenti della Corte dei diritti dell'uomo, che vuole un sindacato giurisdizionale pieno in materia di sanzioni amministrative "afflittive", per recuperare eventuali deficit di tutela che si siano realizzati nel corso del procedimento amministrativo sanzionatorio, non sempre rispettoso del diritto di difesa ed al contraddittorio. Secondo la pronuncia citata, l'opposizione all'ordinanza ingiunzione non configura un'impugnazione dell'atto, ed introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell'autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l'ulteriore conseguenza che, in virtù dell'art. 23 della l. n. 689 del 1981 (applicabile ratione temporis), il giudice ha il potere-dovere di esaminare l'intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa - nell'ambito delle deduzioni delle parti - all'esame completo nel merito della fondatezza dell'ingiunzione, compresa la determinazione dell'entità della sanzione, secondo i criteri stabiliti dall'art. 11 della legge citata, sulla base di un apprezzamento discrezionale insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato e immune da errori logici o giuridici. In perfetta armonia con il precedente ora citato si colloca Sez. 2, n. 25141/2015, Giusti, in corso di massimazione. Con tale pronuncia si è affermato che, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento sanzionatorio della Banca d'Italia che postula solo che, prima dell'adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato, non viola il principio del contraddittorio né per il fatto dell'omessa trasmissione agli interessatati del contenuto del messaggio amministrativo con il quale sono formulate osservazioni di carattere tecnico in merito alle loro controdeduzioni, ne per la circostanza che gli stessi non sono 855 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE stati coinvolti nella fase decisoria del procedimento che si svoge innanzi al Direttorio. Secondo la Corte è corretta e conforme ai precedenti, la decisione della corte territoriale, la quale ha affermato: a) che dal carattere sanzionatorio del procedimento amministrativo non può di per se discendere l'equiparazione di tale procedimento - quanto ad ampiezza ed estensione dei poteri difensivi dei soggetti ai quali sia contestata la violazione - al procedimento giurisdizionale; b) che non può essere considerata contrastante con i principi costituzionali una disciplina organizzativa che - come quella emanata dalla Banca d'Italia e qui in esame - ometta di prevedere la diretta partecipazione degli incolpati alla fase decisoria, tenuto conto che in tale fase sono comunque sottoposte alla valutazione dell'organo decidente le difese precedentemente formulate dagli stessi "incolpati"; c) che la proposta di irrogazione della sanzione non vincola l'organo decidente; d) che il contraddittorio difensivo può comunque spiegarsi con la massima ampiezza nella fase giurisdizionale innescata dalla proposizione della opposizione dinanzi alla Corte d'appello, trattandosi di fase avente ad oggetto l'accertamento della fondatezza della pretesa sanzionatoria. Non può neanche invocarsi la violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e ciò in considerazione del principio di continuità tra la fase amministrativa e quella giurisdizionale e della possibilità di recuperare in sede processuale il pieno rispetto dei principi del contraddittorio, dell'imparzialità e della parità di parti. L'art. 6, par. 1, non richiede, infatti, una trasformazione in senso paragiurisdizionale del procedimento amministrativo sanzionatorio (e la necessaria applicazione, già in esso, delle garanzie del giusto processo, prima fra tutte quella del contraddittorio orizzontale tra due parti poste in posizione di parità rispetto all'autorità decidente). Nel caso in cui il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, la Convenzione postula che l'interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell'accusa penale" contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione (sez. II della Corte europea dei diritti dell'uomo, Grande Stevens e altri c. Italia, 4 marzo 2014, n. 18640) il che avviene nella disciplina del procedimento amministrativo sanzionatorio dettata dal nostro sistema nazionale, dove è assicurato il ricorso in opposizione di piena giurisdizione, con il potere del giudice di sindacare, in fatto e in diritto, la 856 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE fondatezza, l'esattezza e la correttezza della "decisione" amministrativa e della sanzione inflitta. Merita di essere menzionata anche Sez. 1, n. 10745/2015, Nazzicone, Rv. 635484, che, in tema di sanzioni amministrative irrogate ex art. 145 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, per la violazione delle norme che disciplinano l'esercizio dell'attività bancaria, ha escluso che possa costituire una violazione del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio il provvedimento dell'autorità sanzionante emesso nei confronti di esponenti bancari nel quale vi sia un'elencazione di una serie di operazioni contestate, sebbene ivi indicate quali meramente esemplificative della situazione irregolare complessivamente riscontrata. Su un piano più strettamente processuale, si è, infine, affermato che, in tema di opposizione a sanzioni amministrative applicate per abusi di mercato, l'opponente deve notificare il ricorso alla Consob nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento opposto e deve poi depositare il ricorso notificato presso la cancelleria della corte d'appello entro i trenta giorni successivi alla notifica, atteso che l'art. 187 septies TUF intende garantire all'autorità sanzionatoria l'immediata conoscenza dell'opposizione, ancor prima che del ricorso sia investito il giudice (Sez. 2, n. 09482/2015, Giusti, Rv. 635245). 4. Sanzioni amministrative in materia di violazioni del codice della strada. In tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, deve segnalarsi Sez. 2, n. 18946/2015, Parziale, Rv. 636515, secondo cui la contestazione dell'eccesso di velocità è "immediata", agli effetti dell'art. 201 cod. strada, se avviene in circostanze di tempo (nella specie, pochi minuti dopo la rilevazione) e di luogo (nella specie, luogo prossimo a quello di rilevazione) tali da far escludere la diversità del veicolo fermato e la sostituzione del conducente. Sempre con riferimento all'immediatezza della contestazione in rapporto alle apparecchiature automatiche di rilevamento della velocità, si è argomentato che l'omissione della contestazione immediata è consentita dall'art. 4, comma 4, del d.l. 20 giugno 2002, n. 121, convertito dalla l. 1° agosto 2002 n. 168, sicché, al fine di garantire il diritto di difesa dell'autore dell'infrazione, è sufficiente che nel verbale di contestazione vengano richiamati gli estremi del decreto prefettizio (di cui non è necessaria l'allegazione) autorizzativo della contestazione differita, potendo il destinatario del verbale ottenere ogni utile informazione con l'esercizio del 857 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE diritto di accesso alla documentazione amministrativa garantito dall'art. 22 della l. 7 agosto 1990, n. 241. La contestazione immediata ai sensi dell'art. 4, comma 4, del d.l. 20 giugno 2002, n. 121, convertito dalla l. n. 168 del 2002, non è necessaria (Sez. 6-2, n. 00331/2015, Petitti, Rv. 634494). Interessante l'affermazione della responsabilità solidale del locatore nel caso di locazione del veicolo senza conducente, giacché l'art. 196 cod. strada, pur menzionando esclusivamente il locatario, intende assicurare il pagamento di un soggetto agevolmente identificabile, mentre l'identità del locatario, di regola, è nota soltanto al locatore (Sez. 6-2, n. 18988/2015, Parziale, Rv. 636528). Nell'ambito del complesso procedimento relativo all'obbligo di comunicazione dei dati relativi al conducente, Sez. 2, n. 15542/2015, Bucciante, Rv. 636027, ha ribadito che il termine entro cui il proprietario del veicolo è tenuto, ai sensi dell'art. 126 bis, comma 2, cod. strada, a comunicare il nominativo all'organo di polizia che procede non decorre dalla definizione del procedimento di opposizione avverso il verbale di accertamento dell'infrazione presupposta, ma dalla richiesta rivolta al proprietario dall'autorità, trattandosi di un'ipotesi di illecito istantaneo previsto a garanzia dell'interesse pubblicistico relativo alla tempestiva identificazione del responsabile, e quindi del tutto autonomo rispetto all'effettiva commissione di un precedente illecito. In tema di tutela delle minoranze linguistiche nel procedimento sanzionatorio, deve segnalarsi Sez. 6-2, n. 00709/2015, Proto, Rv. 633966, secondo cui è legittima la notificazione ad un cittadino appartenente alla minoranza linguistica slovena del verbale di contestazione di un'infrazione del codice della strada redatto in lingua italiana e senza traduzione, intervenuta solo successivamente e su richiesta dell'interessato, poiché la legge e le norme a tutela della suddetta minoranza (in specie, l'art. 3 dello Statuto della Regione Friuli Venezia Giulia e l'art. 6 Cost.) non contemplano alcuna nullità, limitandosi a riconoscere al cittadino di lingua slovena il diritto a proporre opposizione nella propria lingua - cui corrisponde il dovere del prefetto di esaminarla - e ad ottenere la contestuale traduzione del verbale, la cui inottemperanza è idonea ad integrare una invalidità, denunciabile con l'opposizione, ove ne derivi, e venga allegato, un pregiudizio delle facoltà difensive. 5. Pronunce in materia di sanzioni amministrative aventi ad oggetto il rito. Come si è detto, a seguito della riforma operata con il d.lgs. n. 150 del 2011, nelle controversie aventi ad 858 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE oggetto l'opposizione ad ordinanza ingiunzione si applica il rito del lavoro. Le prime applicazioni del nuovo regime si sono avute con Sez.6-3, n. 25061/2015 Barreca, in corso di massimazione, e con Sez. 6-2, n. 18820/2015, Parziale, Rv. 636530. Con la prima si è affermato che, nel caso il giudizio di primo grado sia iniziato con ricorso al giudice di pace depositato in epoca successiva al 6 ottobre 2011 data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, l'appello deve proporsi con le forme del ricorso e non dell'atto di citazione e, nel caso l'appello sia stato proposto con atto di citazione, trova applicazione il principio di ordine generale secondo cui nelle controversie in materia di locazione, alle quali è applicabile, ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c., il rito del lavoro, la proposizione dell'appello si perfeziona con il deposito dell'atto in cancelleria nel termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza ovvero, in caso di mancata notifica, nel termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.; e ciò anche se l'appello sia proposto erroneamente con la forma della citazione, assumendo rilievo in tal caso solo la data di deposito della medesima. L'altra decisione, invece, ha precisato che, nel regime introdotto dall'art. 7 del d.lgs. n. 150 del 2011, l'inammissibilità del ricorso per tardività può essere pronunciata solo con sentenza alla prima udienza. Tuttavia, la pronuncia di inammissibilità resa con ordinanza fuori udienza, prima dell'instaurazione del contraddittorio, essendo riferibile all'abrogato art. 23 della l. n. 689 del 1981, non è provvedimento abnorme, ricorribile per cassazione, ma provvedimento nullo, ordinariamente impugnabile con appello. In tema di prova del legittimo impedimento a comparire dell'opponente o del suo procuratore, si è ritenuta ammissibile la produzione della prova anche dopo che il giudice abbia pronunciato l'ordinanza di convalida del verbale di accertamento, dovendosi, tuttavia, dimostrare che l'impedimento sia stato improvviso, imprevedibile ed indipendente dalla volontà dell'opponente o del procuratore (Sez. 2, n. 15543/2015, Petitti, Rv. 636080). Sulla legittimazione passiva nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, Sez. L, n. 15169/2015, Patti, Rv. 636392, ha stabilito che essa spetta solo all'autorità che ha emesso il provvedimento opposto, ancorché si tratti di organo periferico dell'amministrazione statale, che agisca in virtù di una specifica autonomia funzionale in deroga all'art. 11, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933, come sostituito dall'art. 1 della l. n. 260 del 1958, e che tale legittimazione esclusiva deve ritenersi persistere anche nella fase di 859 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE impugnazione davanti alla Corte di cassazione, non ostandovi alcuna disposizione da cui sia desumibile il subentro del ministro. Sez. 2, n. 12954/2015, Picaroni, Rv. 635706, ha escluso che nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione introdotti nella vigenza dell'art. 23 della l. n. 689 del 1981 trovino applicazione nel giudizio di appello le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado, anche in mancanza di una espressa previsione normativa in tal senso, sicché non può trovare applicazione in sede di gravame la previsione che richiede, a pena di nullità, la lettura del dispositivo in udienza. Sempre in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione, Sez. 6-2, n. 05828/2015, Falaschi, Rv. 635054, ha confermato l'orientamento secondo il quale il termine assegnato all'amministrazione per depositare i documenti relativi all'infrazione, fissato in dieci giorni prima dell'udienza di comparizione dall'art. 23, comma 2, della l. n. 689 del 1981, applicabile ratione temporis, non ha natura perentoria e la sua violazione rappresenta una mera irregolarità, sicché la copia conforme del verbale di contestazione tardivamente prodotta è utilizzabile come prova. In tema di onere probatorio e di poteri d'ufficio del giudice, Sez. 6-2, n. 04898/2015, Falaschi, Rv. 635012, ha affermato che, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, grava sull'amministrazione opponente l'onere di provare gli elementi costitutivi dell'illecito, ma la sua inerzia processuale non determina l'automatico accertamento dell'infondatezza della trasgressione, in quanto il giudice, chiamato alla ricostruzione dell'intero rapporto sanzionatorio e non soltanto alla valutazione di legittimità del provvedimento irrogativo della sanzione, può sopperirvi sia valutando i documenti già acquisiti, sia disponendo d'ufficio, ai sensi dell'art. 23, comma 6, della l. n. 689 del 1981, ratione temporis applicabile, i mezzi di prova ritenuti necessari. Altra importante affermazione riguarda il mezzo di impugnazione delle sentenze che definiscono il giudizio di opposizione a sanzioni amministrative: a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 23 della l. 24 novembre 1981, n. 689, esso non è più il ricorso per cassazione, ma l'appello, secondo la regola generale dell'art. 339 c.p.c. (Sez. 6-L, n. 02815/2015, Marotta, Rv. 634595). 6. Altre pronunce di interesse. Si segnala una decisione circa le sanzioni amministrative in materia di collocamento e, in 860 CAP. XLII - I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE particolare, in riferimento all'art. 47, comma 2, del d.lgs. 20 luglio 1999, n. 300 (successivamente abrogato dall'art. 2 del d.lgs. 21 gennaio 2004, n. 29), che, nel trasferire al prefetto le funzioni svolte dalle direzioni provinciali del lavoro, ne ha subordinato l'effettivo passaggio all'adozione di un apposito regolamento, il quale, pur emanato con d.P.R. 17 maggio 2001, n. 287, non è stato seguito, nei successivi sessanta giorni, dai decreti di attuazione previsti dall'art. 9 del regolamento stesso. Secondo Sez. L, n. 15051/2015, Patti, Rv. 636243, in difetto di tali decreti, gli uffici periferici del Ministero del Lavoro hanno conservato, in forza dell'espressa previsione di cui all'art. 17 del d.P.R. n. 287 del 2001, le originarie funzioni ed attribuzioni, compresa la competenza ad emanare le ordinanze ingiunzioni per violazioni amministrative in materia di lavoro. La rassegna delle sentenze del 2015 nella materia delle sanzioni amministrative può chiudersi con un importante affermazione di principio circa il rapporto tra concorso nella violazione e responsabilità solidale dei contravventori. A questo proposito, infatti, Sez. 6-2, n. 13134/2015, Petitti, Rv. 635700, ha chiarito che l'art. 5 della l. n. 689 del 1981, che contempla il concorso di persone, recepisce i principi fissati in materia dal codice penale, rendendo così applicabile la pena pecuniaria non soltanto all'autore o ai coautori dell'infrazione, ma anche a coloro che abbiano comunque dato un contributo causale, pure se esclusivamente sul piano psichico. Ne discende che, mentre il pagamento della sanzione in misura ridotta da parte di uno dei concorrenti, a norma dell'art. 16 della l. n. 689 cit., produce effetto anche nei confronti degli obbligati solidali ex art. 6 della stessa legge, tale conseguenza non si estende nei confronti di coloro che hanno concorso nella commissione della violazione, in sintonia con il principio della natura afflittiva della sanzione amministrativa, la quale deve essere pagata da tutti i trasgressori. 861 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI CAPITOLO XLIII LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI (di Eduardo Campese) SOMMARIO: 1. La dichiarazione di fallimento. – 1.1. Gli organi della procedura fallimentare. – 1.2. L'impugnazione della pronuncia resa sull'istanza di fallimento. – 1.3. La formazione dello stato passivo e le correlate opposizioni. – 1.4. La chiusura del fallimento. – 2. Il concordato fallimentare. – 3. L'esdebitazione. – 4. Il concordato preventivo: modifiche legislative. – 4.1. Il concordato preventivo ed i suoi rapporti con il fallimento. – 5. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. – 6. L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. – 7. La liquidazione coatta amministrativa. 1. La dichiarazione di fallimento. Nel corso dell'anno 2015 molteplici, e di interesse, sono state le decisioni della Suprema Corte che hanno riguardato i profili processuali delle procedure concorsuali. Muovendo, allora, per intuibili ragioni di ordine sistematico, da quelle concernenti il fallimento, ed, in particolare, il procedimento che conduce alla pronuncia sulla corrispondente istanza, ne vanno certamente segnalate alcune riguardanti i requisiti per l'assoggettabilità alla suddetta procedura. Sez. 1, n. 19654/2015, Nappi, Rv. 637223, ha ribadito che, in tema di presupposti dimensionali per l'esonero dalla fallibilità dell'imprenditore commerciale, nella valutazione del capitale investito, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, trovano applicazione i principi contabili, cui si richiama il legislatore nell'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile ratione temporis, ed anche successivamente in quello sostituito dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) e di cui è espressione l'art. 2424 c.c., con la conseguenza che, con riferimento agli immobili, iscritti tra le poste attive dello stato patrimoniale, opera immobilizzazio costo storico al netto degli ammortamenti, quale risultante dal bilancio di esercizio, ai sensi dell'art. 2426, numeri 1 e 2, c.c., e non il criterio del valore di mercato al momento del giudizio; mentre Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635515, ha opportunamente chiarito che, ai fini del computo del triennio cui fa riferimento l'art. 1, comma 2, lett. a), l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), per la determinazione dell'attivo patrimoniale occorre fare riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti alla data del deposito dell'unica (ovvero della prima) istanza di fallimento. 862 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI Quanto al requisito dimensionale di cui all'art. 1, comma 2, lett. c), l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 169 del 2007, Sez. 1, n. 20877/2015, Nazzicone, in corso di massimazione, precisa che è necessario considerare, nell'esposizione debitoria rilevante, anche i crediti contestati, trattandosi di un dato oggettivo, che non può dipendere dall'atteggiamento o dall'opinione soggettiva che sulla singola posta creditoria abbia il debitore. Sez. 1, n. 17397/2015, Nappi, Rv. 636257, poi, ha statuito che una società già avente ad oggetto l'esercizio di attività agricola non può essere assoggettata a fallimento ove, dismessa l'originaria attività, non abbia svolto alcuna attività imprenditoriale, poiché la relativa dichiarazione può riguardare solo l'imprenditore commerciale; laddove, secondo Sez. 1, n. 02263/2015, Di Virgilio, Rv. 634755, in caso di scioglimento di una società di persone per recesso di uno dei due soli soci, senza che la stessa sia dichiarata estinta, il fallimento del socio superstite, che abbia continuato l'attività sociale come imprenditore individuale, implica la dichiarazione di fallimento della società, il quale, pertanto, può essere esteso, a norma dell'art. 147 l.fall., all'altro socio in precedenza receduto. Possono menzionarsi qui, per ovvie ragioni sistematiche, anche Sez. 1, n. 01046/2015, Nazzicone, Rv. 634012, secondo cui lo scioglimento del singolo rapporto sociale per alienazione della partecipazione del socio, di cui non sia stata data adeguata pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., mediante iscrizione nel registro delle imprese, è inopponibile ai terzi, producendo i suoi effetti solo in ambito societario, e, come tale, non preclude l'estensione del fallimento al socio stesso, ex art. 147 l.fall., malgrado l'essere avvenuta la vendita della quota oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento deve considerarsi ancora in essere; e, soprattutto, Sez. 6-1, n. 22594/2015, Cristiano, in corso di massimazione, che ha ritenuto che il fallimento della società di persone sia estensibile ai soci di fatto eredi del socio illimitatamente responsabile, indipendentemente da una formale istanza (che, peraltro, nella specie vi era stata da parte dell'altro socio), in ragione dell'automaticità dell'estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili, e già nell'ambito della stessa procedura prefallimentare. In particolare, appare interessante un passaggio motivazionale della relazione ex art. 380- bis c.p.c., poi fatta propria dal collegio, in cui è stato ritenuto non corretto che «(...) l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente 863 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI responsabili di una società di persone, il cui nominativo non compaia nella ragione sociale e che non risultino tali in base all'atto costitutivo o ad altro atto scritto comprovante l'acquisto della loro partecipazione, non possa che avvenire ai sensi dell'art. 147, comma 4, l.fall. e che esiga, inoltre l'indicazione della qualità di soci occulti o palesi della fallita. In realtà, ciò che unicamente rileva ai fini della dichiarazione di fallimento in estensione è che la partecipazione del socio illimitatamente responsabile sia accertata: non ricorre, per contro, alcuna preclusione a che l'accertamento sia compiuto nel corso del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento della società e che, già in tale sede, uno degli altri soci avanzi l'istanza di estensione (risultando evidente che il comma 4 dell'art. 147 l.fall. regola l'ipotesi residuale in cui l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili emerga solo in data successiva alla dichiarazione di fallimento), né è richiesta la specificazione della natura (palese o occulta) di tale partecipazione (...)». In tema, peraltro, va segnalata anche Sez. 6-1, n. 24112/2015, Ragonesi, in corso di massimazione, che ha ritenuto l'insussistenza del litisconsorzio necessario con il socio accomandatario dichiarato fallito nel caso di estensione del fallimento al socio accomandante (ritenuto) illimitatamente responsabile ed ha inoltre stabilito che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di quest'ultimo decorre dalla data in cui sia stata data pubblicità con mezzi idonei al suo recesso. Merita, altresì, menzione, per la peculiarità della corrispondente vicenda, Sez. 1, n. 02673/2015, Di Virgilio, Rv. 634328, la quale ha precisato che, nel caso in cui, revocata la dichiarazione di fallimento, non sia stato emesso il decreto di chiusura ex art. 119 l.fall., la presentazione della successiva istanza di fallimento, basata sulla prospettazione di fatti intervenuti rivelatori di insolvenza del debitore, non è di per sé preclusa, in difetto di una norma che lo impedisca, spettando al tribunale, in sede di decisione, verificare se sia stato medio tempore emesso il decreto di chiusura del primo fallimento, al fine di poter esaminare nel merito la ricorrenza degli elementi costitutivi della pronuncia di fallimento, che, infatti, devono sussistere al momento della sentenza quali condizioni dell'azione e non del procedimento. Altre decisioni hanno, invece, reso utili puntualizzazioni riguardanti l'iniziativa del P.M.: Sez. 6-1, n. 18277/2015, Scaldaferri, Rv. 636450, ad esempio, ha precisato che l'art. 7, n. 2, l.fall. riconduce il potere di iniziativa del P.M. alla segnalazione o di contenuto decisorio, neppure come l'abbia rilevata durante un procedimento civile, senza eccezioni e esito di una deli 864 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI limiti di sorta, sicché non possono escludersi da quella previsione le eventuali segnalazioni eseguite nel corso di procedure esecutive; mentre, secondo Sez. 1, n. 17903/2015, Didone, Rv. 636921, l'istanza di fallimento del P.M. che sia meramente ripetitiva della segnalazione a questi pervenuta ex art. 7, n. 2, l.fall., deve ritenersi ammissibile in ragione dell'assunzione della responsabilità dell'atto e della richiesta, cui egli è legittimato, fermo restando che spetta poi al giudice l'accertamento, in concreto, della segnalata insolvenza. Di sicuro interesse, poi, è Sez. 1, n. 19797/2015, Didone, Rv. 637328, che, in tema di notificazione del ricorso di fallimento e del decreto di convocazione, ha specificato che la loro effettuazione tramite polizia giudiziaria, ancorché avvenuta senza il provvedimento presidenziale che motivatamente l'abbia disposta, ex art. 15, comma 5, l.fall., giustificandola con ragioni di urgenza, non è inesistente, bensì nulla, in quanto non totalmente incompatibile con le regole della procedura prefallimentare, sicché quel vizio deve considerarsi sanato ove la prima sia giunta a buon fine avendo realizzato lo scopo di portare l'atto a conoscenza del destinatario, ovvero quando il debitore, informato del deposito del ricorso e della fissazione dell'udienza, si sia costituito innanzi al tribunale chiamato a pronunciarsi sulla dichiarazione di fallimento. Ancora in tema di notificazione del ricorso di fallimento, Sez. 6-1, n. 17499/2015, Acierno, Rv. 636262, ha chiarito che la notifica del ricorso introduttivo di un procedimento prefallimentare a carico di un'impresa individuale, con il pedissequo decreto di sua convocazione ex art. 15 l.fall., è ritualmente eseguita nei confronti della persona fisica dell'imprenditore, secondo le regole di cui agli artt. 138 e ss. c.p.c., attesa la totale identificazione esistente tra quest'ultimo e l'impresa. Di primaria importanza risulta, altresì, Sez. 1, n. 22352/2015, Ferro, in corso di massimazione, che, affrontando, per la prima volta, – sebbene nell'ambito di un procedimento di impugnazione a sentenza dichiarativa di fallimento – il problema della validità della notifica telematica del ricorso introduttivo del giudizio prefallimentare (ma la statuizione assume, comunque, una valenza certamente di carattere più generale), ha ritenuto che per il perfezionamento della stessa deve aversi riguardo unicamente alla sequenza procedimentale prevista dalla legge e, quindi, alla ricevuta di accettazione, che fornisce la prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata, ed alla ricevuta di avvenuta consegna, che dimostra che un messaggio leggibile è giunto all'indirizzo dichiarato dal destinatario. Nessun rilievo può, 865 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI dunque, essere riconosciuto all'annotazione con la quale il cancelliere, di propria iniziativa e sul presupposto di una asserita non certezza della notifica, abbia invitato il creditore istante ad attivare il meccanismo sostitutivo previsto dall'art. 15, comma 3, l.fall. Con riguardo, invece, al livello di certezza del credito posto a fondamento dell'istanza di fallimento, Sez. 1, n. 00576/2015, Didone, Rv. 633896, premesso che, ai sensi dell'art. 5 l.fall., lo stato d'insolvenza non presuppone il definitivo accertamento del credito in sede giudiziale né l'esecutività del titolo, ha ritenuto che, per poter chiedere il fallimento, è sufficiente un'ordinanza adottata ai sensi dell'art. 186-bis c.p.c., la quale costituisce valido titolo esecutivo per la somma per cui è emessa, conserva la sua efficacia in caso di estinzione del giudizio e definisce direttamente una parte del merito. Ed è altresì interessante considerare che Sez. 1, n. 19790/2015, De Marzo, Rv. 636679, ha ribadito che l'accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, e non già a quella di presentazione del relativo ricorso, altresì chiarendo che il giudice del reclamo ha il potere-dovere di verificarne la sussistenza anche sulla base di fatti diversi da quelli considerati al momento dell'apertura della procedura concorsuale, eventualmente ricavabili dagli atti del fascicolo fallimentare, purché riferibili ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento. La medesima sentenza, peraltro, si è pronunciata anche sulle misure cautelari adottate in sede di procedimento prefallimentare, affermando (Rv. 636680) che le stesse, prive di decisorietà e definitività, restano assorbite dalla sentenza di fallimento, con conseguente specifica carenza di interesse all'impugnazione in cassazione. A conclusione di questo paragrafo, infine, sembra utile anche ricordare Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635516, la quale ha sottolineato che, ai fini del computo del limite minimo di fallibilità previsto dall'art. 15, ultimo comma, l.fall., deve aversi riguardo al complesso dei debiti scaduti e non pagati accertati non già alla data della proposizione dell'istanza di fallimento, ma a quella in cui il tribunale decide sulla stessa, nonché Sez. 1, n. 17546/2015, Didone, Rv. 636536, a tenore della quale, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.l. 6 giugno 2012, n. 74, conv. con modif. dalla l. 1 agosto 2012, n. 122, il procedimento prefallimentare pendente alla data del 20 maggio 2012 è rinviato di ufficio a data successiva al 31 dicembre 2012, sempreché l'interessato non abbia espressamente rinunciato al 866 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI rinvio, purché una delle parti (o il suo difensore) abbia sede o residenza in uno dei comuni colpiti dagli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012, mirando la disposizione ad impedire disfunzioni organizzative nella celebrazione dei processi, con ricaduta sull'attività processuale delle parti, e dunque risultando adeguatamente giustificata sul piano della ragionevolezza e non lesiva di altri valori ed interessi costituzionalmente tutelati. 1.1. Gi organi della procedura fallimentare. Giova premettere che il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, – recante "Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria" – convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, è intervenuto, tra l'altro (cfr. capo III, artt. 5, 6 e 7), sui requisiti per la nomina a curatore, rendendoli più stringenti, a maggiore garanzia del ceto creditorio. In particolare, l'art. 5 della nuova normativa introduce alcune modifiche all'art. 28 l.fall., stabilendo, in primis, un'incompatibilità perpetua e non più soltanto biennale per «chi ha concorso al dissesto dell'impresa». Si tratta di una modifica che, seguendo l'impostazione declinata nella stessa relazione di accompagnamento, ha lo scopo di rafforzare la terzietà e la indipendenza del curatore. Dal testo ufficiale della l. n 132 del 2015, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale è, invece, scomparsa una causa di incompatibilità che era stata prevista dal d.l. n. 83 del 2015 e che aveva immediatamente dato luogo a discussioni: quella relativa all'aver svolto funzioni di commissario giudiziale nel procedimento di concordato preventivo antecedente l'apertura della procedura concorsuale maggiore. Se, in effetti, vi possono essere casi di inopportunità nella nomina, quale curatore, del medesimo professionista che abbia in precedenza svolto le funzioni di commissario giudiziale, non di meno una incompatibilità assoluta era forse eccessiva. Si può, pertanto, ritenere che l'attuale eliminazione del divieto di nomina a curatore del precedente commissario giudiziale non renda, di per sé, sempre necessaria una nomina coincidente, pur spesso dettata da ragioni di economicità, ma restituisca al tribunale l'esigenza di valutare discrezionalmente, ma con attenzione, i motivi favorevoli e contrari alla nomina dello stesso soggetto, prima come commissario giudiziale poi come curatore, nelle procedure riguardanti la medesima insolvenza. Si è poi sancito che, nella nomina del curatore, debba tenersi conto «delle risultanze dei rapporti riepilogativi di cui all'art. 33 quinto comma» l.fall., così probabilmente potendo ritenersi che il legislatore 867 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI abbia voluto far riferimento all'esigenza che il tribunale tenga conto nelle nomine dei risultati della liquidazione che i professionisti hanno già conseguito in altre procedure, in modo da alimentare un circuito virtuoso e trasparente nel procedimento di affidamento del delicato incarico di curatore, volto a consentire la nomina di soggetti che già "abbiano dato buona prova di sé". Sempre in quest'ottica di trasparenza nella distribuzione degli incarichi appare muoversi la prevista istituzione di un registro nazionale presso il Ministero della giustizia, relativo alle nomine dei liquidatori giudiziali, commissari giudiziali e curatori, in cui annotare, altresì, i provvedimenti di chiusura dei fallimenti e di omologazione dei concordati, nonché dei dati relativi all'attivo ed al passivo delle procedure chiuse. L'art. 6 del decreto, inoltre, ha previsto, al fine di contenere i tempi di gestione delle procedure concorsuali, un termine di due anni per la conclusione della liquidazione fallimentare (chiarendo, peraltro, che, ove il curatore ne ritenga necessario uno maggiore, è tenuto a motivarne specificamente le ragioni), mentre il successivo art. 7 ha anche precisato che le controversie in cui è coinvolto un fallimento o un concordato preventivo godono di una corsia preferenziale, dovendo essere trattate con priorità rispetto alle altre (onde evitare che tale disposizione abbia un valore puramente programmatico e non cogente, si è ulteriormente stabilito che il presidente del tribunale debba annualmente fornire al capo della corte d'appello i dati relativi al numero dei procedimenti in cui è parte un fallimento, la loro durata, le misure adottate per garantire la loro celerità). Tanto premesso, e passando ad esaminare le pronunce rese dalla Suprema Corte con riferimento agli organi della procedura fallimentare, sembra opportuno ricordare, in questa sede, Sez. 1, n. 05094/2015, Cristiano, Rv. 634685, secondo cui, avverso il decreto della corte d'appello che si sia pronunciata sul reclamo contro il provvedimento del tribunale di accoglimento o di rigetto dell'istanza di revoca del curatore fallimentare per giustificati motivi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 23 e 37 l.fall., nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006, non è ammissibile il ricorso straordinario per cassazione da parte dello stesso curatore, del fallito o di qualunque altro interessato, in quanto anche la disciplina riformata è dettata unicamente a tutela dell'interesse pubblicistico al regolare svolgimento e al buon esito della procedura concorsuale, incidendo solo indirettamente sull'interesse del curatore, sicché il provvedimento di revoca di quest'ultimo ha natura amministrativa 868 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI ed ordinatoria ed è privo di portata decisoria su posizioni di diritto soggettivo. Sez. 3, n. 11854/2015, Cirillo, Rv. 635477, infine, muovendo dal presupposto che la pubblica funzione svolta dal curatore fallimentare nell'ambito dell'amministrazione della giustizia esclude che possa configurarsi un contrasto di interessi tra lo stesso ed il fallito, ha affermato che quest'ultimo, una volta tornato in bonis, potrà solo sostituirsi al primo nel giudizio da lui intrapreso, nel punto e nello stato in cui esso si trova, accettandolo come tale e senza poter invalidare quanto sia stato legittimamente compiuto dal curatore medesimo allorquando questi lo rappresentava. Si sono, invece, interessate dell'impugnazione dei provvedimenti resi dagli organi della procedura Sez. 1, n. 02949/2015, Didone, Rv. 634330, statuendo che l'art. 26, comma 1, l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, non può essere interpretato nel senso che il decreto pronunciato dal tribunale in sede di reclamo avverso un provvedimento del giudice delegato è, a sua volta, impugnabile con ulteriore reclamo alla corte d'appello, altrimenti consentendosi di duplicare il mezzo di tutela e di disporre potenzialmente di quattro gradi di giudizio, con evidente abuso del processo e violazione della sua ragionevole durata; e Sez. 1, n. 20118/2015, Di Virgilio, Rv. 637419, a tenore della quale, in tema di reclamo endofallimentare avverso i decreti del giudice delegato, ex art. 26 l.fall. (nel testo vigente anteriormente al d.lgs. n. 5 del 2006), il termine iniziale di decorrenza per la relativa presentazione coincide con la comunicazione del decreto alla parte, da effettuarsi, di regola, ai sensi degli artt. 136 e ss. c.p.c., ovvero con forme equipollenti, in grado di assicurare l'effettiva ed integrale conoscenza del contenuto del provvedimento e la data in cui essa è avvenuta, operando, in assenza di tali riscontri, il solo termine lungo annuale per la proposizione del reclamo. 1.2. L'impugnazione della pronuncia resa sull'istanza di fallimento. Merita immediata segnalazione Sez. U, n. 09936/2015, Di Amato, Rv. 635327, secondo la quale, nel caso in cui, a seguito di conflitto positivo di competenza conseguente alla pronuncia dichiarativa di fallimento ed all'apertura della procedura di concordato preventivo da parte di due distinti tribunali, penda regolamento di competenza d'ufficio, la corte d'appello, davanti alla quale sia stata reclamata, anche per ragioni di competenza, la sentenza dichiarativa di fallimento, deve applicare analogicamente l'art. 48 c.p.c. e dichiarare sospeso l'intero procedimento e non solo 869 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI la questione di competenza, sicché, qualora, in sede di regolamento, venga dichiarata l'incompetenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento, è nulla la sentenza della corte d'appello che abbia pronunciato in via non definitiva sul merito prima di dichiarare sospeso il processo sulla questione di competenza. Sez. 1, n. 19797/2015, Didone, Rv. 637327, poi, ha opportunamente precisato che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento va notificato al procuratore della Repubblica presso il tribunale, al quale spetta la legittimazione all'impugnazione, in qualità di ufficio del P.M. funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, mentre l'esercizio delle funzioni di P.M. nel giudizio di reclamo spetta al P.G., ai sensi dell'art. 70 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12. Peraltro, la costituzione in sede di reclamo del procuratore della Repubblica, in luogo del P.G., non determina la nullità della sentenza di secondo grado, ma soltanto la nullità della costituzione del P.M., della quale può dolersi esclusivamente il soggetto che avrebbe dovuto presenziare al giudizio, con la conseguente carenza di interesse del reclamante a far valere il predetto vizio. Sempre in tema di legittimazione, merita menzione anche Sez. 1, n. 19727/2015, Mercolino, Rv. 636681, secondo cui l'amministratore di una società di capitali che non abbia proposto, quale "interessato" ai sensi dell'art. 18 l.fall. (nella formulazione applicabile ratione temporis), opposizione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, non è legittimato ad impugnare autonomamente la sentenza che abbia deciso sull'opposizione proposta dalla società fallita, atteso che, qualora fosse intervenuto nel giudizio, avrebbe assunto la veste di interventore meramente adesivo, ex art. 105, comma 2, c.p.c., come tale legittimato solo all'impugnazione adesiva, mentre, ove non vi avesse partecipato, non sarebbe legittimato per assenza della qualità di parte nel precedente grado di giudizio, né potendo invocare la disciplina degli artt. 110 e 111 c.p.c., nemmeno essendo successore, a titolo universale o particolare, della società. Sez. 6-1, n. 18339/2015, Scaldaferri, Rv. 636542, inoltre, ha chiarito che, in caso di revoca del fallimento che non precluda la rinnovazione della dichiarazione medesima, il giudice del reclamo, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., deve rimettere la causa al primo giudice che, rinnovati gli atti nulli, provvede nuovamente al riguardo. Ancora in tema di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, Sez. 1, n. 15146/2015, Ferro, Rv. 636106, – dopo aver opportunamente specificato di non voler contraddire Sez. U, n. 870 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI 05700/2014, San Giorgio, Rv. 629676 (secondo cui, giova ricordarlo, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla controparte non è perentorio, non essendo previsto espressamente dalla legge. Ne consegue che il giudice, nell'ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, può, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica), non ravvisandone l'eadem ratio con la fattispecie specificamente oggetto della sua attenzione – ha statuito che va disattesa l'istanza con cui l'appellante, che non abbia notificato il ricorso ed il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza nel termine ordinatorio ex art. 18, comma 4, l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006), ne chieda, successivamente al suo decorso e senza allegare alcuna causa di giustificazione, uno nuovo per provvedervi, ostando a tale concessione l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 154 c.p.c. che, in ipotesi di impugnazione e sulla scorta dei principi sottesi all'art. 111, comma 2, Cost., deve tenere conto della legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente definito e ragionevolmente breve, del provvedimento giudiziario già emesso. Infine, vanno ricordate Sez. 1, n. 10952/2015, Genovese, Rv. 635517, secondo cui nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento l'accertamento dello stato di insolvenza va compiuto con riferimento alla data della dichiarazione di fallimento, ma può fondarsi anche su fatti diversi da quelli in base ai quali il fallimento è stato dichiarato, purché si tratti di fatti anteriori alla pronuncia, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame e desunti da circostanze non contestate dello stato passivo; e Sez. 1, n. 06683/2015, Cristiano, Rv. 634749, a tenore della quale il decreto reiettivo del reclamo che, a sua volta, ha respinto l'istanza di fallimento non è ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, non essendo il creditore portatore del diritto al fallimento del proprio debitore. 1.3. La formazione dello stato passivo e le correlate opposizioni. Numerose sono state, nell'anno in rassegna, anche le decisioni della S.C. concernenti la formazione dello stato passivo e, 871 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI soprattutto, le impugnazioni (opposizione, impugnazione dei crediti ammessi e revocazione) dello stesso. Cominciando, in particolare, da quelle riguardanti l'ammissione al passivo, merita immediata menzione Sez. U, n. 06060/2015, Bernabai, Rv. 634845, che, chiamata a pronunciarsi, tra l'altro, sulla esistenza di una preclusione all'ammissione tardiva al passivo fallimentare degli interessi in ragione della già avvenuta ammissione, in via definitiva, del credito relativo al capitale e della preclusione pro iudicato che ad essa conseguirebbe, ha affermato che la proposizione tardiva della domanda di ammissione al passivo fallimentare del credito accessorio concernente gli interessi moratori, in quanto fondata sul ritardo nell'adempimento, non è impedita, stante la diversità della rispettiva causa petendi, dalla definitiva ammissione in via tempestiva del credito relativo al capitale (nella specie, a titolo di compenso per attività professionale), salvo che gli interessi costituiscano una mera componente della pretesa già azionata, come nel caso del credito risarcitorio da illecito aquiliano. Con riguardo, poi, alla richiesta di insinuazione al passivo di crediti tributari, risulta certamente meritevole di attenzione, attesa la peculiarità della fattispecie affrontata, Sez. 6-1, n. 21483/2015, Ragonesi, Rv. 637268, la quale ha evidenziato che, per l'insinuazione al passivo dell'Agente, non solo è sufficiente la copia del ruolo da questi allegata alla propria domanda, ma basta la semplice indicazione del cd. codice tributo senza altra specificazione. Ed ha poi aggiunto che il giudice delegato non può sollevare l'eccezione di prescrizione dei crediti tributari – spettando alle commissioni tributarie la cognizione anche dei fatti estintivi delle relative obbligazioni – nemmeno nel caso in cui la prescrizione sia maturata in epoca successiva alla notificazione della cartella esattoriale. Sez. 1, n. 17787/2015, Didone, Rv. 636855, invece, ha opportunamente precisato che, per far valere il credito tributario nei confronti del fallimento, l'Amministrazione finanziaria o l'esattore devono presentare l'istanza di insinuazione tardiva nel termine annuale previsto dall'art. 101, l.fall., senza che i diversi e più lunghi termini per la formazione dei ruoli e per la emissione delle cartelle, ex art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1972, n. 602, possano, di per sé, costituire ragioni di scusabilità per il ritardo. La medesima sentenza, peraltro, – ritenendo irrilevante, perché riguardante il rapporto interno tra esattore ed ente impositore, l'imputabilità del ritardo a quest'ultimo – ha altresì sottolineato che, in caso di presentazione ultra annuale dell'istanza 872 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI rispetto alla data di esecutività dello stato passivo, la scusabilità del ritardo va valutata esclusivamente in relazione ai tempi strettamente necessari all'Amministrazione per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo. Proprio in tema di domanda cd. supertardiva (proposta, cioè, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 101 l.fall.), inoltre, Sez. 6-1, n. 21316/2015, Bisogni, Rv. 637221, ha chiarito che, ai fini della sua ammissibilità, il mancato avviso al creditore, da parte del curatore, previsto dall'art. 92 l.fall., integra la causa non imputabile del ritardo da parte del creditore, ma ha aggiunto che al curatore è consentito di poter provare, ai fini dell'inammissibilità della domanda, che il creditore abbia avuto notizia del fallimento indipendentemente dalla ricezione dell'avviso predetto. In senso analogo, si è espressa anche Sez. 1, n. 23302/2015, Ferro, in corso di massimazione, che ha altresì affermato la compatibilità della relativa disciplina con la Carta costituzionale e, segnatamente, con gli artt. 76, 3 e 47 Cost., mentre Sez. 1, n. 23975/2015, De Chiara, in corso di massimazione, ha ulteriormente puntualizzato che, nel caso di tardivo invio dell'avviso ex art. 92 l.fall., il creditore non ha un tempo illimitato per presentare la propria istanza di insinuazione al passivo, ma quello necessario – in nessun modo individuabile preventivamente in un termine fisso (un anno o 90 giorni), ma da valutarsi discrezionalmente caso per caso – a prendere contezza del fallimento ed a redigere la relativa istanza. Sez. 1, n. 16218/2015, De Chiara, Rv. 636329, poi, occupandosi dell'insinuazione al passivo dei crediti sorti nel corso della procedura fallimentare, ne ha escluso l'assoggettamento al termine di decadenza previsto dall'art. 101, commi 1 e 4, l.fall., mentre la successiva Sez. 6-1, n. 19679/2015, Genovese, Rv. 636718, ha puntualizzato che qualora il diritto di credito sia sorto in epoca posteriore alla data di approvazione dello stato passivo, costituisce criterio razionale quello di valutare il tempo impiegato per la proposizione della domanda, computandolo dal momento di insorgenza del credito fino alla data dell'insinuazione; e di ritenere eccessivo, in assenza di adeguata e specifica giustificazione, un intervallo temporale di quasi due anni. Degne di menzione sono certamente Sez. 1, n. 01655/2015, Genovese, Rv. 636332, a tenore della quale, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l'automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato 873 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove; e Sez. 1, n. 19714/2015, Mercolino, Rv. 637273, in cui è stato affermato l'obbligo di interpretare la domanda di insinuazione al passivo nel suo complesso da parte del giudice delegato (e del tribunale in sede di opposizione), con la conseguenza che doveva ivi ritenersi l'ammissione in via ipotecaria di un credito, anche se non espressamente richiesta come tale nelle conclusioni. Con più generale riguardo ai giudizi di impugnazione dello stato passivo ex art. 99 l.fall., Sez. 1, n. 19653/2015, Nappi, Rv. 637292, ha poi sottolineato che l'omessa notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza al curatore ed agli eventuali creditori controinteressati, entro il termine ordinatorio assegnato dal giudice, non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, atteso che tale sanzione non è prevista dalla legge, né può essere ricavata, in via interpretativa, in base al principio della ragionevole durata del processo, dovendo evitarsi interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale. Pertanto, qualora il curatore ed i creditori controinteressati non si siano regolarmente costituiti in giudizio, così sanando, con effetto ex tunc, il vizio della notificazione, il giudice dovrà limitarsi ad assegnare al ricorrente un nuovo termine, perentorio, per la notifica, in applicazione analogica dell'art. 291 c.p.c. Anche il numero di sentenze intervenute in tema di opposizione allo stato passivo appare nutrito, oltre che di sicuro rilievo. Ad esempio, Sez. 6-1, n. 20385/2015, Scaldaferri, Rv. 637330, muovendo dall'assunto che l'individuazione del regime impugnatorio del provvedimento che ha deciso la relativa controversia dipende, in base al principio di apparenza ed affidabilità, dalla forma adottata dal giudice, purché la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è svolto in concreto il relativo procedimento, ha sancito che, ove il giudizio sia stato trattato secondo il rito vigente prima della riforma attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006, ed in coerenza con tale scelta sia stato deciso con sentenza, l'impugnazione di quest'ultima deve essere proposta con l'appello, sebbene l'opposizione riguardi un fallimento già assoggettato alla nuova disciplina. 874 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI Sez. 1, n. 15570/2015, Ferro, Rv. 636274 e 6362755, invece, ha sottolineato che, nel giudizio di opposizione allo stato passivo (nel regime cd. intermedio di cui al d.lgs. n. 5 del 2006), il fallito, per quanto destinatario della notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, non assume la qualità di parte del giudizio e non può, quindi, rendere interrogatorio formale sui fatti oggetto della domanda, né gli è deferibile il giuramento suppletorio o decisorio, ed ha altresì puntualizzato che, nel medesimo giudizio, il curatore, in quanto terzo rispetto al fallito e privo della capacità di disporre del diritto controverso, non può essere sollecitato alla confessione su interrogatorio formale con riferimento a vicende solutorie attinenti all'obbligazione dedotta in giudizio, né gli è deferibile il giuramento decisorio. Ed una menzione merita anche Sez. 1, n. 24718/2015, Didone, in corso di massimazione, la quale ha opportunamente precisato che l'incompatibilità del giudice delegato che abbia fatto parte del collegio in sede di opposizione allo stato passivo non determina la nullità della sentenza per vizio di costituzione del giudice, ma solo un obbligo di astensione, la cui violazione comporta un onere di tempestiva ricusazione. La pronuncia, peraltro, va di contrario avviso rispetto a Sez. 6-1, n. 05426/2012, Cultrera, Rv. 621839, recentemente confermata da Sez. L, 04677/2015, Patti, Rv. 634623. Interessanti appaiono, altresì, alcune decisioni che hanno riguardato il tema della produzione documentale, a pena di decadenza, di cui all'art. 99, comma 2, n. 4, l.fall. In particolare, secondo Sez. 6-1, n. 18253/2015, Cristiano, Rv. 636920, il ricorso con il quale, a norma dell'art. 93 l.fall., si propone la domanda di ammissione allo stato passivo non è un documento probatorio del credito e non può, pertanto, ritenersi compreso tra i documenti che, nell'ipotesi in cui il giudice delegato abbia respinto, in tutto o in parte, la domanda, devono essere prodotti, a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 99, comma 2, l.fall. al momento del deposito del ricorso in opposizione. Ne deriva che, qualora, in sede di opposizione allo stato passivo, una copia della domanda di ammissione non risulti allegata al fascicolo di ufficio, né a quello di una delle parti, il tribunale, che non sia in grado di ricostruire, sulla scorta degli ulteriori atti processuali, il contenuto di quella e che ne ritenga l'esame indispensabile ai fini della decisione, deve provvedere alla sua acquisizione. Con più specifico riferimento alla produzione di copia autentica del provvedimento impugnato, invece, vanno segnalate 875 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI due statuizioni quasi coeve: Sez. 1, n. 19802/2015, Didone, Rv. 636672, ha ritenuto che la stessa, sebbene non prevista a pena di inammissibilità dell'opposizione dall'art. 99 l.fall., come novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007, può nondimeno, ove omessa, determinarne il rigetto laddove il giudice, non potendo valutare, in mancanza di tale documento, le censure prospettate dall'opponente, si trovi nell'impossibilità di accertarne la fondatezza; e Sez. 6-1, n. 18253/2015, Cristiano, Rv. 636919, a tenore della quale, in tema di opposizione allo stato passivo, il deposito della copia autentica del decreto impugnato può effettuarsi in qualsiasi momento, anche nel giudizio di rinvio, fino alla chiusura del contraddittorio, trattandosi di un documento indispensabile ai fini della decisione, sicché la sua mancata produzione contestualmente all'atto oppositivo non costituisce causa di improcedibilità del relativo procedimento, il quale, benché di natura impugnatoria, non è qualificabile come appello, non trovando, quindi, applicazione la disciplina di cui agli artt. 339 e ss. c.p.c. Investono, per contro, direttamente il provvedimento con cui il tribunale, ex art. 99, comma 11, l.fall., pronuncia sul ricorso in opposizione allo stato passivo: Sez. 1, n. 19722/2015, Mercolino, Rv. 637424, secondo cui lo stesso può essere redatto in calce al verbale di udienza, ed in tal caso la mancata indicazione dei componenti del collegio giudicante costituisce un mero errore materiale, emendabile ai sensi degli artt. 287 e 288 c.p.c., dovendosi ritenere, in difetto di elementi contrari, che i magistrati indicati nel predetto verbale coincidano con quelli che, in concreto, hanno partecipato alla deliberazione, essendo l'intestazione priva di autonoma efficacia probatoria, perchè meramente riproduttiva dei dati del verbale di udienza. La stessa sentenza, peraltro, ha anche precisato che quel provvedimento è reso nella forma del decreto, per cui, sebbene abbia natura decisoria, deve essere sottoscritto, giusta l'art. 135, comma 4, c.p.c., dal solo presidente del collegio, non essendo necessaria la firma del relatore; Sez. 1. n. 23632/2015, Ferro, in corso di massimazione, la quale ha sancito che la stessa regula iuris, che impone la certezza dell'identità fra il giudice avanti al quale è stato concluso il contraddittorio tra le parti e si è svolta la relativa discussione con finale richiesta di decisione, da un lato, ed il giudice che poi decide quella stessa controversia, dall'altro, appare agevolmente suscettibile di imporsi anche allorquando non si ponga un problema di discrasia fra intestazione o epigrafe della decisione (ove si riportano i nominativi dei giudici che compongono in riunione il collegio decidente) e documentazione del verbale 876 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI d'udienza (in cui gli stessi giudici siano risultati i destinatari delle citate conclusioni e avanti ai quali si sia svolta la discussione), bensì si rinvenga una più radicale smentita che a quella epigrafe corrisponda per davvero la riconducibilità ai relativi giudici della formazione del convincimento espresso nel provvedimento, posto che questo sia – come avvenuto nel decreto ex art. 99 l.fall. nella specie impugnato – sottoscritto e reso pubblico con deposito in cancelleria ex art. 132 c.p.c. da presidente di collegio del tutto diverso. In tal caso, infatti, non ricorre alcuna possibilità di ipotizzare un diverso rimedio rettificativo, come la correzione dell'errore materiale, mancando – più radicalmente – la stessa prova (come doveva risultare) che quel collegio presso cui si era incardinata la riserva di decisione fosse quello che poi ha reso quest'ultima, facendo fede della convocazione della camera di consiglio, della deliberazione interna e del controllo della motivazione rispetto alle decisioni ivi assunte, proprio ed in primo luogo la sottoscrizione del presidente (diverso). È, infine, intervenuta in tema di impugnazione dei crediti ammessi Sez. 6-1, n. 04524/2015, Cristiano, Rv. 634509, rimarcando che il creditore che impugna lo stato passivo ex art. 98, comma 3, l.fall. è portatore non solo dei propri interessi, ma anche di quelli di tutti gli altri creditori e, pertanto, è legittimato ad esercitare tutte le azioni volte ad escludere o postergare i crediti ammessi, ivi compresa l'azione revocatoria ordinaria, non potendo l'inerzia del curatore – che abbia omesso di far valere, in via di eccezione, la revocabilità del credito o della garanzia in sede di accertamento del passivo o che non abbia impugnato il provvedimento di rigetto dell'eccezione regolarmente proposta – pregiudicare le ragioni degli altri, incolpevoli, creditori. 1.4. La chiusura del fallimento. È doveroso premettere che l'art. 7 del già citato d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132 del 2015, intervenendo sull'art. 118, comma 2, l.fall., vi ha aggiunto, in fine, i seguenti periodi: «La chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonchè le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto 877 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Qualora alla conclusione dei giudizi pendenti consegua, per effetto di riparti, il venir meno dell'impedimento all'esdebitazione di cui al comma secondo dell'articolo 142, il debitore può chiedere l'esdebitazione nell'anno successivo al riparto che lo ha determinato». Inoltre, all'articolo 120 l.fall. è stato aggiunto, in fine, il seguente comma: «Nell'ipotesi di chiusura in pendenza di giudizi ai sensi dell'articolo 118, secondo comma, terzo periodo e seguenti, il giudice delegato e il curatore restano in carica ai soli fini di quanto ivi previsto. In nessun caso i creditori possono agire su quanto è oggetto dei giudizi medesimi». Tanto premesso, e passando ad esaminare le pronunce rese dalla Suprema Corte con riferimento alla chiusura del fallimento, meritano sicuramente segnalazione, Sez. 1, n. 19318/2015, Scaldaferri, Rv. 636714, la quale ha precisato che il decreto con cui la corte di appello confermi, in sede di reclamo, il rigetto dell'istanza di chiusura del fallimento, non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, atteso che, limitandosi a non definire la procedura concorsuale, è privo di decisorietà e definitività, e Sez. 1, n. 20292/2015, Nazzicone, Rv. 637224, secondo cui la chiusura del fallimento diventa definitiva solo con l'esaurimento dei mezzi di impugnazione proponibili avverso il corrispondente decreto, e dunque, qualora contro quest'ultimo sia stato proposto il reclamo, con lo spirare del termine di impugnazione del provvedimento che lo abbia deciso ovvero con il rigetto dell'eventuale ricorso per cassazione. 2. Il concordato fallimentare. Tra le numericamente esigue pronunce rese dalla S.C., nel corso del 2015, in tema di concordato fallimentare, appare in questa sede opportuno ricordare, investendo profili squisitamente procedurali, Sez. 1, n. 17339/2015, Nappi, Rv. 636303, secondo cui, qualora il concordato fallimentare con assunzione preveda la cessione delle azioni revocatorie, la chiusura del fallimento conseguente alla definitività del provvedimento di omologazione determina una successione a titolo particolare dell'assuntore nel diritto controverso regolata dall'art. 111 c.p.c., sicché quest'ultimo, pur potendo intervenire nel giudizio pendente dinanzi alla Corte di cassazione, ma non come parte necessaria, né 878 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI in sostituzione del curatore fallimentare, non è tuttavia legittimato a rinunciare al ricorso già proposto dalla curatela. Ha, invece, riguardato il giudizio di omologazione di tale concordato Sez. 1, n. 19645/2015, Scaldaferri, Rv. 636716, ritenendo che il controllo del tribunale, in quella sede, è limitato alla verifica della regolarità formale della procedura e dell'esito della votazione – salvo che non sia prevista la suddivisione dei creditori in classi ed alcune di esse risultino dissenzienti – restando escluso ogni controllo sul merito, giacché la valutazione del contenuto della proposta concordataria, riguardando il profilo della convenienza, è devoluta ai creditori, sulla base del parere inerente ai presumibili risultati della liquidazione formulato dal curatore e dal comitato dei creditori. La stessa sentenza, peraltro, ha opportunamente chiarito (Rv. 636715) che, in tema di concordato fallimentare, al giudice delegato non è preclusa la partecipazione al collegio che ne decida l'omologazione, rivelandosi inapplicabile, nei suoi confronti, in difetto di specifica previsione normativa, il divieto di cui all'art. 25, comma 2, l.fall., atteso che il relativo giudizio non è assimilabile al reclamo contro i provvedimenti di quel giudice: invero, nell'ambito della procedura concordataria, non è previsto alcun atto dispositivo della procedura stessa da parte del giudice delegato, la cui funzione, ivi, consiste, piuttosto, nel coordinarne ed organizzarne le varie, progressive fasi. 3. L'esdebitazione. Può, in questa sede, segnalarsi unicamente Sez. 1, n. 14594/2015, Ferro, Rv. 635940, la quale ha affermato che l'istituto dell'esdebitazione, previsto dagli artt. 142 e ss. l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, e modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007, trova applicazione, secondo quanto disposto dalla disciplina transitoria, anche alle procedure di fallimento aperte prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, purché ancora pendenti a quella data (16 luglio 2006), e, tra quest'ultime, a quelle chiuse alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007 (1 gennaio 2008), sempre che, in quest'ultimo caso, la relativa domanda sia presentata entro un anno dalla medesima data. La stessa pronuncia ha altresì chiarito che la circostanza che l'esdebitazione non sia ammissibile per i fallimenti chiusi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 non giustifica alcun dubbio di legittimità costituzionale della disciplina transitoria: né per contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto, come già statuito da Corte cost. nell'ordinanza 24 febbraio 2010, n. 61, l'applicabilità ratione 879 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI temporis dell'istituto corrisponde ad una scelta non arbitraria del legislatore, costituendo il tempo un valido elemento di diversificazione tra le situazioni giuridiche; né per contrarietà alle norme antidiscriminatorie della CEDU, posto che, a seguito di Corte cost. 27 febbraio 2008, n. 39, la chiusura del fallimento, seppur dichiarata con decreto anteriore al 16 luglio 2006, determina la cessazione delle generali incapacità personali derivanti al fallito dall'apertura del fallimento. In senso analogo, si è pronunciata anche Sez. 1, n. 24727/2015, Nappi in corso di massimazione, che ha ulteriormente aggiunto che l'esdebitazione non attiene affatto alla capacità personale del fallito, bensì alla sua responsabilità patrimoniale, perché ne comporta, ove ne risulti meritevole, la liberazione dai debiti residui nei confronti dei debitori concorsuali non insoddisfatti. 4. Il concordato preventivo: modifiche legislative. Il già menzionato d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 132 del 2015, vigente dal 21 agosto scorso, ha introdotto importanti novità, oltre che nella materia fallimentare, anche in alcuni strumenti per il rilancio delle imprese in crisi, come il concordato preventivo e l'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall. (in particolare, trattasi degli articoli da 1 a 11 del d.l.). Limitandoci, in questa sede, al primo, la relativa disciplina è rimasta, nel suo impianto generale, del tutto coerente con i capisaldi delle riforme del 2005 e del 2012, con l'attribuzione in via esclusiva al debitore della legittimazione a domandare l'accesso alla procedura concordataria, la previsione della possibilità di presentare domanda di concordato con riserva del piano, l'attestazione del piano ad opera di professionista di designazione "privatistica", il favor per il concordato che assicuri la continuità aziendale, la possibilità di ottenere lo scioglimento o la sospensione dei contratti in corso, l'approvazione del concordato solo con la maggioranza dei crediti ammessi al voto e, quindi, l'assenza di maggioranze per teste, la risoluzione ad iniziativa dei soli creditori, etc. La novella, piuttosto, al di là dei singoli dettagli normativi, ha inteso porre rimedio ad un aspetto della disciplina del concordato preventivo, quale, in particolare, era emerso a seguito della riforma del 2012, che aveva suscitato forti perplessità e severe critiche da parte degli interpreti e degli operatori economici, vale a dire una tutela forte del debitore a discapito delle ragioni dei creditori: sotto questo profilo, la riforma del 2015 ha inteso assicurare, come è stato 880 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI giustamente notato, il passaggio da un assetto molto (forse, per certi aspetti, troppo) incentrato sulla tutela del debitore (non a caso corretto, cammin facendo, dalle previsioni sulla nomina del commissario nel concordato con riserva e sull'obbligo di relazioni informative periodiche) ad uno maggiormente attento alle istanze di protezione del ceto creditorio nell'ottica di incrementarne le prospettive di soddisfacimento. Passando, allora, ad un sintetico esame delle novità introdotte, le stesse possono essere raggruppate a seconda degli obiettivi perseguiti. Innanzitutto, vengono in rilievo quelle disposizioni che, limitando l'autonomia delle parti, sono rivolte a garantire ai creditori il massimo risultato satisfattivo possibile, al tempo stesso evitando un uso eccessivamente disinvolto, se non abusivo, dello strumento concordatario da parte del debitore. Si pensi, in particolare, alle norme che hanno: a) stabilito, nel concordato liquidatorio, che la proposta debba assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari (art. 160, ultimo comma, l.fall.); b) stabilito, in tutti i concordati, che la proposta indichi l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il debitore si obbliga ad assicurare a ciascun creditore (art. 161, comma 2, lett. e), in fine, l.fall.); c) introdotto la possibilità per i creditori di presentare, sia pure a determinate condizioni, proposte di concordato concorrenti con quella del debitore (art. 163, commi 4, 5, 6 e 7 l.fall.); d) imposto la ricerca di offerte d'acquisto concorrenti con quella eventualmente già contenuta nella proposta (art. 163-bis l.fall); e) anticipato il termine per la modifica della domanda (art. 172, comma 2, l.fall.); f) eliminato, dall'art. 178 l.fall., il meccanismo del silenzio-assenso ai fini dell'approvazione della proposta; g) previsto l'obbligo del commissario di illustrare le utilità che, in caso di fallimento, potrebbero ricavarsi dall'esperimento di azioni risarcitorie e revocatorie (art 172, comma 1, l.fall.); h) previsto la possibilità di attribuire al commissario giudiziale o ad un amministratore giudiziario o al liquidatore nominato i poteri necessari per il compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla proposta nel caso in cui il debitore non vi provveda (art. 185, commi 3, 4, 5 e 6 l.fall.). Vi sono, poi, quelle disposizioni che si muovono nel senso di favorire la soluzione concordataria alla crisi dell'impresa, chiarendo, peraltro, profili che, nella disciplina precedente, erano rimasti oscuri, 881 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI come le nuove norme in tema di sospensione e scioglimento dei rapporti contrattuali pendenti (art. 169-bis l.fall.). Sono state introdotte, inoltre, norme volte al contenimento, per quanto possibile, dei costi della procedura di concordato (si pensi, in particolare, all'art. 182-quinquies, l.fall., in tema di finanziamenti prededucibili), in coerenza con la Raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014, nella quale si fa espresso riferimento alla riduzione dei «costi di ristrutturazione a carico di debitori e creditori» ("Considerando" n. 11). Non mancano, infine, le norme di carattere penale, sia di ordine sostanziale, come gli innesti agli artt. 236 e 236-bis l.fall. (collegati all'introduzione dell'art. 182-septies l.fall.), che di carattere procedurale, come le disposizioni che hanno previsto la trasmissione al pubblico ministero (oltre che della domanda di ammissione al concordato, anche) degli atti e dei documenti presentati a corredo della stessa, tra i quali, in particolare, l'attestazione del professionista designato dal debitore, nonché della relazione che il commissario giudiziale deposita ai sensi dell'art. 172 (art. 161, comma 5, in fine, l.fall.), e l'obbligo del commissario giudiziale di comunicare «senza ritardo» al pubblico ministero i fatti che possono rilevare ai fini delle indagini preliminari (art. 165, ultimo comma, l.fall.). 4.1. Il concordato preventivo ed i suoi rapporti con il fallimento. Avuto riguardo all'incentivazione legislativa degli strumenti di soluzione delle crisi d'impresa alternativi al fallimento, opportune sono giunte, alcune puntualizzazioni della Corte in ordine ai rapporti tra concordato preventivo e fallimento, nonché alla natura ed all'estensione del controllo riservato al tribunale sulla proposta di concordato, nelle fasi che ne scandiscono la procedura. Sez. U, n. 09935/2015, Di Amato, Rv. 635322, – sul punto, peraltro, superando il precedente arrêt rappresentato da Sez. U, n. 01521/2013, Piccininni, Rv. 624794 – ha statuito che, in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l'ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all'esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di 882 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell'esito negativo del concordato preventivo. La medesima sentenza, inoltre, ha specificato (Rv. 635323 – 635326): a) che la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento fino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall., ma non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del P.M., né ne consente la sospensione, ben potendo lo stesso essere istruito e concludersi con un decreto di rigetto; b) che, tra la domanda di concordato preventivo e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell'art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c. in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi; c) che la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l.fall., presentata dal debitore non per regolare la crisi dell'impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti; d) che, in tema di concordato preventivo, quando, in conseguenza della ritenuta inammissibilità della domanda, il tribunale dichiara il fallimento dell'imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l'impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo. Di sicuro rilievo, poi, sono anche i principi affermati dalla coeva Sez. U, n. 09934/2015, Di Amato, Rv. 635254 - 635255, da cui si desume: a) che l'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. deve valutarsi alla stregua della prospettazione operata dalla parte, sicché non può negarsene la sussistenza nell'impugnazione proposta contro il decreto reiettivo del reclamo avverso la pronuncia 883 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI risolutiva di un concordato preventivo ex art. 186 l.fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportatagli dal d.lgs. n. 169 del 2007), di cui si censuri l'omessa, contestuale ed asseritamente automatica dichiarazione di fallimento del debitore, sul solo presupposto che le conseguenze da trarsi dai fatti allegati siano diverse da quelle sostenute dall'istante, ciò riguardando la fondatezza nel merito della domanda; b) che l'abrogazione espressa della dichiarazione di fallimento di ufficio operata dal d.lgs. n. 169 del 2007, che ha riformato l'art. 186 l.fall., ha valore meramente dichiarativo di un'abrogazione implicita indotta nel precedente testo del medesimo articolo dal d.lgs. n. 5 del 2006, che, riformulando l'art. 6 l.fall., ha reso incompatibile la sopravvivenza di quell'istituto nell'ambito della disciplina del concordato preventivo, così superandone l'ormai disarmonico vecchio testo normativo, divenuto incoerente sia con l'abrogazione della suddetta dichiarazione officiosa che con il mutamento dei presupposti della procedura di concordataria. Sempre in tema di rapporti tra concordato preventivo e fallimento, – e potendosi qui rinviare, circa la statuizione di Sez. U, n. 09936/2015, Di Amato, Rv. 635327, a quanto, in proposito riportato all'inizio del paragrafo 1.2. di questo scritto – Sez. 6-1, n. 21487/2015, Bisogni, Rv. 637422, ha osservato che, in caso di revoca del concordato preventivo e conseguente dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173 l.fall., non è necessaria la convocazione del socio accomandatario cessato (nella specie, la società aveva subito una trasformazione da s.a.s. a s.r.l. nel corso del procedimento prefallimentare) per dichiararne il suo fallimento in estensione ex art. 147 l.fall., ove questi sia stato già convocato in sede prefallimentare, con procedimento iniziato in data antecedente alla proposizione della domanda di concordato preventivo poi ammessa. Di particolare interesse, è poi – rivelandosi come la prima pronuncia adottata dalla S.C. sullo specifico argomento – Sez. 1, n. 20559/2015, Nazzicone, Rv. 637340, che ha escluso la proponibilità, innanzi al medesimo tribunale, del concordato cd. di gruppo, in assenza di una disciplina positiva che si occupi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, nonché la formazione delle classi e delle masse. Secondo questa decisione, pertanto, in base alla vigente normativa, il concordato preventivo può essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente competente per ogni singola procedura, senza 884 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI possibilità di confusione delle masse attive e passive, e, quindi, approvato da maggioranze calcolate con riferimento alle posizioni debitorie di ogni singola impresa. Sez. 1, n. 00495/2015, Didone, Rv. 633987, poi, intervenuta su una fattispecie – piuttosto frequente nella pratica – di reiterazione di proposte concordatarie, ha sancito che, in tema di concordato preventivo, l'ammissione alla procedura impedisce la proposizione di una ulteriore ed autonoma domanda di concordato rispetto a quella originaria, poiché, rispetto al medesimo imprenditore ed alla medesima insolvenza, il concordato non può che essere unico, sicché, a seguito della rinuncia alla prima domanda di concordato e della presentazione di una nuova proposta, il tribunale non è tenuto, a norma dell'art. 162 l.fall., a sentire il debitore prima di dichiarare l'inammissibilità di quest'ultima e contestualmente pronunciare, ove il P.M. ne abbia formulato la richiesta, l'eventuale fallimento del proponente. Le finalità proprie di questa rassegna, da coniugarsi con intuibili ragioni di sintesi, impongono, infine, di rimarcare, tra le numerosissime pronunce aventi ad oggetto il concordato preventivo rese dalla S.C. nell'anno 2015, quanto meno: Sez. 2, n. 17606/2015, Abete, Rv. 636286, secondo cui, in caso di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, il liquidatore ha legittimazione processuale nelle sole controversie relative a questioni liquidatorie e distributive, e non anche in quelle di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorché influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, atteso che, in queste ultime può, ove esperite nei confronti del debitore cedente, spiegare intervento senza essere litisconsorte necessario; Sez. 1, n. 17520/2015, Nappi, Rv. 636143, che ha sancito la inammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto con il quale la corte di appello abbia revocato la sospensione di contratti bancari e di leasing concessa dal tribunale nell'ambito di un concordato con riserva, atteso che i provvedimenti di cui all'art. 169-bis l.fall., investendo istanze proponibili dal debitore sia prima che dopo il decreto di ammissione alla procedura concordataria, oltre che da lui reiterabili nel corso di quest'ultima, sono inidonei a produrre effetti di diritto sostanziale con efficacia di giudicato; Sez. 1, n. 16217/2015, Scaldaferri, Rv. 636502, a tenore della quale nel concordato preventivo, il tribunale, una volta accertato il mancato raggiungimento delle maggioranze di cui all'art. 177, comma 1, l.fall., può dichiarare l'inammissibilità della proposta a norma dell'art. 179, comma 1, l.fall., senza che sia a tal fine necessario il 885 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI giudizio di omologazione; ed, infine, Sez. 1, n. 08575/2015, Mercolino, Rv. 635253, che, in tema di modifiche alla proposta di concordato preventivo, ha stabilito che l'art. 175, comma 2, l.fall. (aggiunto dall'art. 15 del d.lgs. n. 169 del 2007), nel riconoscere espressamente tale facoltà, ne ha rigorosamente limitato l'ambito temporale di esercizio alla fase anteriore all'inizio delle operazioni di voto, senza distinguere tra modifiche migliorative e peggiorative, al fine di evitare che il calcolo delle maggioranze si fondi su voti espressi in riferimento ad un piano diverso da quello destinato ad essere effettivamente eseguito. Né l'ammissibilità di modifiche successive all'approvazione può fondarsi sull'art. 179, comma 2, l.fall. (aggiunto dall'art. 33, comma 1, lett. d-ter), del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134 del 2012), il quale si rivolge ai creditori (e non al debitore) ed implica l'iniziativa del commissario giudiziale in relazione ad eventi estranei alla volontà del debitore e sopravvenuti all'approvazione del concordato, che hanno determinato un mutamento delle condizioni di fattibilità del piano, ed è quindi una norma non utilizzabile in relazione a carenze originarie della proposta. La medesima sentenza, peraltro, ha anche ritenuto (Rv. 635252) che la rinuncia da parte del debitore agli effetti favorevoli della decisione resa in sede di appello, con la quale è stato omologato il concordato preventivo da lui proposto, previa revoca del fallimento dichiarato in primo grado, non esclude la necessità che la S.C. si pronunci sui motivi di ricorso, non potendo rivivere la sentenza di primo grado, la cui efficacia è stata definitivamente assorbita dalla sentenza d'appello, e non essendovi spazio per una dichiarazione di cessazione della materia del contendere. Invero, la menzionata rinuncia si tradurrebbe, sostanzialmente, in una revoca della proposta di concordato, non più ammissibile una volta che gli effetti vincolanti del concordato preventivo, anche nei confronti dei creditori rimasti assenti o dissenzienti, siano stati tradotti in un provvedimento di omologazione. Da ultimo, può essere utile ricordare anche Sez. 1, n. 24046/2015, Nappi, in corso di massimazione, che ha affermato la compensabilità del credito per canoni di locazione maturati successivamente alla data di presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo con altro credito, purché i fatti genetici di entrambe le obbligazioni (e, per i canoni, dunque, il contratto di locazione) siano anteriori alla menzionata data. 886 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI 5. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Non rinvenendosi significative pronunce della Suprema Corte sullo specifico argomento, è comunque opportuno evidenziare che il citato d.l. n. 83 del 2015 ha, di fatto, introdotto un nuovo particolare "accordo di ristrutturazione" dei debiti (art. 182-septies l.fall.) con effetti per banche e intermediari finanziari. Qualora l'impresa in crisi abbia contratto debiti verso intermediari finanziari pari almeno al cinquanta per cento dell'indebitamento complessivo, può individuare per tali creditori finanziari categorie omogenee, all'interno delle quali l'approvazione del settantacinque per cento (del credito della categoria) rende efficace e vincolante l'accordo per tutti i membri del gruppo (fermo restando l'integrale pagamento dei creditori non-finanziari). Sostanzialmente, l'introduzione dell'art. 182-septies l.fall. ha come fine quello di togliere a banche che vantino crediti di modesta entità il potere di interdizione in relazione ad accordi di ristrutturazione che vedano l'adesione delle banche creditrici maggiormente esposte. Infatti, il debitore può ottenere dal tribunale che l'accordo raggiunto valga (cioè venga omologato) anche per i creditori finanziari non aderenti, se il giudice accerta che gli stessi sono stati informati delle trattative e che possono risultare soddisfatti in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. La portata della norma – sulle cui intenzioni il giudizio non può che essere positivo nell'ottica della soluzione della crisi d'impresa – andrà comunque valutata alla luce della sua concreta applicazione da parte dei tribunali in sede di omologa degli accordi. Analoga disciplina nei confronti dei creditori non aderenti è prevista dall'art. 9 del d.l. in tema di "accordi di moratoria" (art. 182-septies l.fall.), che il debitore può stipulare con le banche. Tale accordo, attestato da un professionista ex art. 67, comma 3, lettera d), l.fall., deve essere accettato da una maggioranza pari ad almeno il settantacinque per cento dei crediti finanziari e, a differenza di quello "di ristrutturazione", non sconta l'omologa. Pare, quindi, potersi dire che tale accordo di moratoria finisca per soppiantare il vecchio "Piano di risanamento" ex art. 67 l.fall. 6. L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Meritevole di interesse appare certamente Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635993, secondo cui, qualora, nell'ambito di una procedura di amministrazione straordinaria, sia 887 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI invocata l'ammissione al passivo, contestata con opposizione ex art. 98 l.fall., di un credito il cui accertamento è già devoluto alla giurisdizione di un arbitro straniero, permane il potere del giudice concorsuale di ammettere il credito con riserva, considerandolo come condizionale rispetto all'esito del processo pendente dinanzi al giudice competente, senza che sussista, in tal caso, una questione di giurisdizione proponibile con lo strumento del regolamento ex art. 41, comma 1, c.p.c. La medesima ordinanza, peraltro, ha anche affermato (Rv. 635994), più in generale, che in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria, giacché l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è comunque paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dal fallimento o dall'apertura della procedura di amministrazione straordinaria, dell'avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l'accertamento di un credito compreso nella procedura concorsuale, allo speciale ed inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo. Sez. U, n. 23894/2015, Ragonesi in corso di massimazione, poi, ha ritenuto: a) che, nella procedura de qua, le norme procedimentali che disciplinano la liquidazione dei beni tutelano i diritti soggettivi dei creditori accertati in sede di verifica dello stato passivo, ove successivamente non degradati ad interessi legittimi a fronte di valutazioni discrezionali delle autorità competenti circa la decisione di vendere i cespiti e la scelta degli acquirenti. Ne consegue che spettano alla cognizione del giudice ordinario le controversie riguardanti l'asserita violazione di quelle norme, giusta l'art. 65 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, altresì considerandosi che i beni da liquidarsi appartengono ad imprese private, sicché i contratti con cui se ne dispone, stipulati dai commissari per conto dell'impresa, sono regolati, a tutti gli effetti, dalla disciplina civilistica, non essendo equiparabili, né assimilabili, a quelli ad evidenza pubblica; b) la valutazione dei complessi aziendali oggetto di cessione si effettua alla stregua delle inderogabili disposizioni contenute negli artt. 62 e 63 del d.lgs. n. 270 del 1999, aventi carattere imperativo, precisandosi, inoltre, che l'art. 11, comma 3 quinquies, del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, di interpretazione autentica del menzionato art. 63, ha inteso chiarire che il prezzo di cessione dell'azienda non deriva dal suo valore di stima – rivelandosene, così, non decisiva l'eventuale sua erroneità – bensì da quello attribuito al bene dal 888 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI mercato, determinato in ragione dell'interesse manifestato dai suoi potenziali acquirenti e dalle loro offerte di prezzo. Riguardando aspetti squisitamente processuali, sono inoltre qui degne di nota almeno Sez. 6-1, n. 15796/2015, Cristiano, Rv. 636145, dalla quale si desume che la sentenza con cui, in primo grado, venga accertato (integralmente o parzialmente) ovvero rigettato un credito nei confronti di un imprenditore dichiarato insolvente e posto, successivamente alla pubblicazione della stessa, in amministrazione straordinaria, è opponibile alla procedura concorsuale, cosicché il commissario o, in caso di rigetto, il creditore che vuole ottenerne la riforma è tenuto ad appellarla nelle forme ordinarie, secondo la previsione dell'art. 96, comma 2, n. 3, l.fall. (nel testo novellato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007), applicabile all'amministrazione straordinaria in ragione del richiamo di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 270 del 1999; Sez. 1, n. 05526/2015, Lamorgese, Rv. 634643, secondo cui la domanda di estensione della procedura di amministrazione straordinaria al gruppo di imprese di cui la società già ammessa alla procedura fa parte, contrariamente alla diversa ipotesi in cui la richiesta di ammissione alla procedura sia formulata per evitare la dichiarazione di fallimento, non comporta una valutazione con efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione della procedura ed è anzi liberamente riproponibile, sicché il decreto con cui la corte di appello respinga il reclamo avverso il rigetto della relativa domanda non ha carattere decisorio e definitivo e non è impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.; ed, infine, Sez. 1, n. 04481/2015, Mercolino, Rv. 634547, che, intervenuta sul procedimento di opposizione all'esclusione dallo stato passivo nella procedura di amministrazione straordinaria, ha opportunamente chiarito che ad esso è applicabile il termine abbreviato previsto per la proposizione dell'appello dall'art. 99, comma 5, l.fall., atteso che l'art. 1, comma 6, della legge 3 aprile 1979, n. 95, richiama la disciplina della liquidazione coatta amministrativa delineata dagli art. 195 e ss. l.fall., comprensivi dell'art. 209, il quale, a sua volta, richiama tutte le norme dall'art. 98 all'art. 103 l.fall., e, quindi, anche quella contenuta nel comma 5 dell'art. 99, e che le esigenze di accelerazione della procedura, che costituiscono la ragione dell'abbreviazione del termine, non sono estranee ai principi strutturali ed alle linee direttive della liquidazione coatta amministrativa e dell'amministrazione straordinaria. 889 CAP. XLIII – LE PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI 7. La liquidazione coatta amministrativa. Numericamente esigue sono state le pronunce della S.C., nell'anno in rassegna, che hanno riguardato la procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tra esse, va certamente segnalata Sez. U, n. 06060/2015, Bernabai, Rv. 634846, la quale, muovendo dall'assunto che nella predetta procedura, la partecipazione del creditore al procedimento di formazione dello stato passivo, attraverso la formulazione di domande ai sensi dell'art. 208 l.fall. ovvero di osservazioni o istanze ex art. 207 l.fall., è solo eventuale ma, ove esperita, comporta l'obbligo del commissario liquidatore di provvedere su di esse, ha poi affermato che il silenzio mantenuto dal commissario liquidatore in ordine alle richieste formulate dal creditore ed il mancato inserimento del credito nell'elenco previsto dall'art. 209, comma 1, l.fall. assume valore implicito di rigetto, contro il quale, per evitare il formarsi di una preclusione, il creditore deve proporre opposizione allo stato passivo ai sensi dell'art. 98 l.fall., mentre, ove sia mancata ogni specifica domanda od osservazione alla comunicazione del commissario liquidatore, resta proponibile la domanda tardiva del credito che non sia stato inserito nel suddetto elenco. Interessante, infine, appare anche Sez. 1, n. 03338/2015, Didone, Rv. 634900, in cui si è precisato che l'art. 95, comma 3, l.fall. – nel testo anteriore alla sostituzione disposta dall'art. 80 del d.lgs. n. 5 del 2006 –, applicabile anche alla liquidazione coatta amministrativa, va interpretato estensivamente nel senso che la norma opera anche nell'ipotesi in cui il fallimento (o la liquidazione coatta amministrativa) sopravvenga alla sentenza di rigetto, anche solo parziale, della domanda proposta da un creditore, il quale, onde evitarne il passaggio in giudicato, è tenuto ad impugnarla, risultando tale soluzione coerente con il principio della ragionevole durata del processo. Ne consegue che la sentenza di accertamento del credito, eventualmente emessa in riforma di quella di primo grado, spiega efficacia nei confronti della procedura, allo stesso modo di quella di rigetto dell'impugnazione proposta o proseguita dal curatore in caso di accoglimento della domanda in primo grado. 890 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO CAPITOLO XLIV IL PROCESSO TRIBUTARIO (di Giuseppe Nicastro e Andrea Venegoni)7 SOMMARIO: 1. La giurisdizione tributaria. – 2. La struttura impugnatoria del processo: la cognizione incidentale del giudice tributario e l'irrilevabilità d'ufficio della nullità dell'atto tributario. – 3. Le parti e la loro rappresentanza e assistenza in giudizio. – 3.1. La legittimazione processuale. – 3.2. La rappresentanza in giudizio. – 3.3. L'assistenza tecnica. – 3.4. Il litisconsorzio. – 3.5. Le spese del giudizio. – 4. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. – 4.1. Gli atti impugnabili e l'oggetto del ricorso. – 4.2. Il ricorso. – 4.2.1. Il termine. – 4.2.2. La rimessione nel termine. – 4.3. La costituzione in giudizio del ricorrente. – 4.4. La costituzione in giudizio della parte resistente. – 4.5. Il deposito di atti e documenti. – 4.6. L'avviso di trattazione della controversia. – 4.7. L'istruzione probatoria. – 4.7.1. L'onere della prova. – 4.7.2. Il dovere dell'amministrazione finanziaria di esibire i documenti in suo possesso. – 4.7.3. I documenti redatti in lingua straniera. – 4.7.4. Le dichiarazioni extraprocessuali rese dal terzo. – 4.7.5. Il valore probatorio delle perizie di parte e, in particolare, della relazione di stima redatta dall'UTE. – 4.7.6. L'efficacia della sentenza penale irrevocabile. – 4.7.7. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. – 4.7.8. Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta. – 4.8. La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo. – 4.8.1. La sospensione del processo. – 4.8.2. L'interruzione del processo. – 4.8.3. L'estinzione del processo. – 4.9. La deliberazione della decisione. – 4.10. La decisione. - 5. Le impugnazioni. 5.1. Il giudizio di appello – 5.1.1. La proposizione – 5.1.2. La legittimazione ad appellare, la capacità a stare in giudizio e la partecipazione dell'Agenzia delle Entrate – 5.1.3. Litisconsorzio – 5.1.4. Tempestività dell'impugnazione – 5.1.5. Comunicazioni alle parti – 5.1.6. Svolgimento del giudizio – 5.1.7. Istruttoria – 5.1.8. La deliberazione e la sentenza – 5.1.9. L'estinzione - 5.2. Il giudizio di cassazione – 5.2.1. La proposizione – 5.2.2. I motivi di ricorso – 5.2.3. I requisiti del ricorso: il principio di autosufficienza – 5.2.4. La fase istruttoria – 5.2.5. La decisione – 5.2.6. L'estinzione per rinuncia – 5.2.7. Il giudizio di rinvio - 5.3. La revocazione - 6. Il giudicato - 7. La conciliazione - 8. Il giudizio di ottemperanza - 9. Il patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario. 1. La giurisdizione tributaria. Nel corso del 2015 la Corte ha continuato, come negli anni precedenti, ad affrontare questioni attinenti ai limiti della giurisdizione tributaria rispetto a quella ordinaria o a giurisdizioni specializzate. In particolare, Sez. U, n. 15201/2015, Di Iasi, Rv. 635996, si sono occupate del problema della giurisdizione sulle controversie attinenti al classamento delle unità immobiliari e all'attribuzione della rendita catastale allorché la rendita o il classamento siano impugnati dall'amministrazione comunale e non dal contribuente. La questione deriva dal fatto che la lettera dell'art. 2, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, nel riferirsi alla sussistenza della giurisdizione tributaria, menziona i soli casi in cui tali controversie 7Giuseppe Nicastro ha redatto i paragrafi 2, 3, 4 e 9, Andrea Venegoni i paragrafi 1, 5, 6, 7 e 8 891 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO siano promosse dai singoli possessori. La Corte ha, però, ritenuto che, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tale inciso non possa condizionare i limiti della giurisdizione tributaria sulla sola base del profilo soggettivo del ricorrente e, superando la mera espressione letterale, ha ritenuto che lo spirito della norma sia tale per cui rientrano nella giurisdizione tributaria anche le controversie iniziate dall'amministrazione. Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781, si sono, invece, occupate della giurisdizione sulle controversie sulle somme liquidate dalle commissioni tributarie a titolo di spese processuali, riconoscendo la giurisdizione tributaria atteso che la stessa comprende non solo le controversie relative ai tributi, di ogni genere e specie, ma anche quelle relative ad ogni accessorio degli stessi. In materia di provvedimento di iscrizione di ipoteca su immobili ai fini della riscossione delle imposte sui redditi, poi, Sez. U, n. 00641/2015, Greco, Rv. 633758, hanno stabilito che le relative controversie rientrano nella giurisdizione tributaria in ragione della natura, per l'appunto fiscale, dei crediti garantiti dall'ipoteca, senza che possa avere rilievo la destinazione dei beni a fondo patrimoniale. In un altro caso, ancora, Sez. T, n. 19609/2015, Marulli, Rv. 636547, ha ritenuto che la polizza fideiussoria per consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze IVA, la cui stipula garantisce il contribuente, cioè le società di assicurazione, dall'obbligo di versare le somme richieste dall'Ufficio IVA, ha natura di contratto autonomo di garanzia, cosicché la controversia relativa alla sola operatività della garanzia, senza riferimento al debito tributario del contribuente, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario. E' stata, invece, ritenuta appartenere alla giurisdizione tributaria la controversia relativa alla richiesta di pagamento della tariffa annua forfettaria per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali. In conformità ad un precedente delle Sezioni Unite del 2014 (Sez. U, n. 13431/2014, D'Ascola, Rv. 631300), infatti, Sez. 6- T, n. 00134/2015, Cosentino, Rv. 633912, ha rilevato la natura tributaria della prestazione, attesa la doverosità della stessa ed il diretto collegamento alla pubblica spesa. Un'altra questione affrontata riguarda la giurisdizione in tema di sovracanoni di pompaggio di acqua pubblica, per esempio da bacini fluviali per uso industriale, dovuti agli enti locali. Al riguardo, la stessa è stata rimessa al Primo Presidente per l'eventuale 892 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO assegnazione alle Sezioni Unite ai fini dell'individuazione del giudice munito di giurisdizione su tali controversie, e cioè il giudice tributario o il giudice ordinario oppure il Tribunale delle Acque Pubbliche (Sez. T, n. 18384/2015, Napolitano). Infine, Sez. U, n. 23114/2015, Virgilio, Rv. 637137, hanno ritenuto rientrare nella giurisdizione tributaria le controversie riguardanti la debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA), in quanto tale tariffa non costituisce un'entrata patrimoniale di diritto privato, ma una mera variante della TARSU, di cui conserva la qualifica di tributo. Quanto agli effetti di una pronuncia sulla giurisdizione, Sez. T, n. 10323/2015, Di Blasi, Rv. 635456, ha affermato che, in caso di sentenza declinatoria della giurisdizione emessa dal giudice tributario, opera il principio della translatio iudicii per la necessità di assicurare l'interesse superiore e costituzionalmente rilevante della continuazione del procedimento, anche se la decisione, in quanto emessa da giudice di merito, non produce effetti vincolanti nei confronti del giudice di cui è stata affermata la giurisdizione. In caso di conflitto negativo di giurisdizione, sarà comunque possibile per le parti adire la Corte di Cassazione ed ottenere così una pronuncia vincolante sul punto. Ove, proprio a seguito di translatio iudicii, la commissione tributaria decida sull'istanza di sospensione del provvedimento impugnato, ex art. 47 del d.lgs. n. 546 del 1992, prima dell'udienza (o della camera di consiglio) di trattazione della controversia, Sez. U, n. 23113/2015, Virgilio, Rv. 637138, hanno precisato che ciò non è ostativo al promovimento, da parte della stessa, del regolamento di giurisdizione di ufficio, poiché l'art. 59, comma 3, della legge n. 69 del 2009 individua quale termine invalicabile per sollevarlo quello della prima udienza fissata per la trattazione del merito, mentre l'opposta conclusione vanificherebbe la garanzia costituzionale della tutela cautelare, nella quale è insita l'urgenza di provvedere. Da notare, infine, che, secondo Sez. 6-T, n. 10520/2015, Cosentino, Rv. 635457, l'erronea indicazione da parte del ricorrente dell'organo giurisdizionale, derivante dal contenuto dello stesso atto impugnato che, in sostanza, ha fornito una informazione errata sul punto, può giustificare la rimessione in termini del contribuente, atteso che l'errore è stato generato da una condotta dell'amministrazione, ma non incide sul riparto di giurisdizione. 2. La struttura impugnatoria del processo: la cognizione incidentale del giudice tributario e l'irrilevabilità d'ufficio 893 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO della nullità dell'atto tributario. Investono gli stessi assetti di fondo del processo tributario Sez. U, n. 00643/2015, Cappabianca, Rv. 634059 e Sez. U, n. 00644, Cappabianca, Rv. 634150, le quali hanno chiarito che, a parte quella vertente su atti regolamentari o generali, la cognizione incidentale del giudice tributario è circoscritta alle sole questioni appartenenti alla giurisdizione di altro giudice. Ciò per la ragione sistematica della struttura impugnatoria del processo tributario, che trova rispondenza negli artt. 2, comma 3, 7, comma 5, e 19, comma 3, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, di tal ché non può essere disapplicato un atto a contenuto concreto che sia autonomamente impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie ma che non sia stato oggetto di diretta e autonoma impugnazione (la Corte ha affermato il principio d'ufficio, ai sensi dell'art. 363, comma 3,c.p.c.). Sempre sul fondamento della struttura impugnatoria del processo tributario, Sez. T, n. 22810/2015, Terrusi, RV 637348, ha affermato che le forme di invalidità dell'atto tributario, ove anche indicate dal legislatore sotto il nomen di nullità, si convertono in mezzi di gravame e non sono rilevabili d'ufficio dal giudice, né possono essere fatte valere per la prima volta in cassazione. Per tale ragione, la Corte ha dichiarato l'inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione con il quale il contribuente aveva dedotto la nullità dell'avviso di accertamento, per violazione dell'art. 42, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in quanto sottoscritto da un funzionario delegato da un soggetto che, in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015, era carente di potere, atteso che detta nullità non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso l'avviso di accertamento e che ogni indagine sulla stessa era, perciò, ormai preclusa. Da menzionare infine, in questa sede, Sez. 6-T, n. 23875/2015, Crucitti, non ancora massimata, secondo cui, allorché il contribuente eccepisca in primo grado la nullità dell'iscrizione di ipoteca per violazione dell'art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, tale doglianza, ancorché fondata su una norma non applicabile alla fattispecie, va comunque qualificata quale deduzione della violazione dei principi che impongono, anche in materia di iscrizione ipotecaria, il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, atteso che il giudice è tenuto a dare adeguata qualificazione giuridica alle tesi del contribuente, ciò che non costituisce rilievo d'ufficio di un'eccezione non proposta. 894 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 3. Le parti e la loro rappresentanza e assistenza in giudizio. 3.1. La legittimazione processuale. Con riguardo alla legittimazione attiva, la Corte ha affermato l'improponibilità dell'impugnazione in primo grado introdotta da un'associazione non riconosciuta già estinta al momento della proposizione del ricorso, statuendo, altresì, la rilevabilità d'ufficio della questione relativa all'inesistenza del ricorrente (Sez. T, n. 20252/2015, Bielli, Rv. 636861). Sempre in tema di legittimazione ad agire, merita menzione anche Sez. T, n. 08206/2015, Ferro, Rv. 635470, la quale, dopo avere premesso che l'autorizzazione del procuratore della Repubblica all'accesso domiciliare, prevista dall'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (richiamato, per le imposte dirette, dall'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973), legittima solo lo specifico accesso autorizzato e non quello al domicilio di una persona fisica diversa dal contribuente, ha precisato che il decreto autorizzativo del pubblico ministero è impugnabile sia da tale persona fisica che abbia subito l'accesso (davanti al giudice ordinario), sia dal contribuente nei cui confronti è in atto l'accertamento fiscale (in sede di impugnazione del provvedimento che conclude il relativo iter, se adottato, o, in caso contrario, davanti allo stesso giudice ordinario). Da segnalare, ancora, Sez. 6-T, n. 21765/2015, Caracciolo, Rv. 637011, secondo cui la perdita della capacità processuale del contribuente fallito, che abbia proposto ricorso avverso un diniego di rimborso, è rilevabile d'ufficio solo qualora l'amministrazione finanziaria abbia dimostrato l'interesse della curatela per il rapporto dedotto in giudizio, atteso che solo in tale ipotesi il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto. Infine, Sez. T, n. 23553/2015, Federico, Rv. 637429, ha riconosciuto la legittimazione della moglie codichiarante – in caso di dichiarazione congiunta dei redditi da parte dei coniugi – a impugnare autonomamente l'avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di questi, o, comunque, a contestare la pretesa tributaria su di esso fondata, proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento o l'avviso di mora a lei diretti. Con riguardo alla legittimazione passiva, vanno segnalate due pronunce concernenti la complessa questione dell'identificazione del convenuto nei casi di impugnazione di atti del concessionario della riscossione. Con la prima di tali pronunce (Sez. 6-T, n. 00097/2015, Perrino, Rv. 634119), relativa, in particolare, all'impugnazione di 895 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO un'iscrizione ipotecaria conseguente ad una cartella di pagamento, la Corte ha precisato che la contestazione della pretesa tributaria, attuata mediante la detta impugnazione, può essere effettuata direttamente nei confronti dell'ente creditore e che, in tale caso, il concessionario è vincolato alla decisione della commissione tributaria in quanto adiectus solutionis causa. Se la medesima azione è invece proposta nei confronti del concessionario, quest'ultimo, per evitare di rispondere dell'esito eventualmente sfavorevole della lite, ha l'onere di chiamare in causa l'ente creditore – non ricorrendo un'ipotesi di litisconsorzio necessario – senza che l'erronea individuazione del legittimato passivo determini l'inammissibilità del ricorso. Con la seconda pronuncia (Sez. T, n. 08370/2015, Valitutti, Rv. 635173), concernente, in specie, l'impugnazione del silenzio rifiuto su un'istanza di rimborso del contribuente, la Corte ha invece chiarito che il concessionario del servizio di riscossione è parte nel processo dinanzi alle commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, quando la controversia ha ad oggetto l'impugnazione di atti per vizi derivanti da errori ad esso direttamente imputabili (ai quali va equiparato il menzionato rifiuto tacito). In tali casi, l'amministrazione finanziaria è invece priva di legittimazione passiva, con la conseguenza che il ricorso proposto esclusivamente nei confronti della stessa è inammissibile, non essendo configurabile un'ipotesi di litisconsorzio necessario e non potendosi, perciò, disporre successivamente l'integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario. Sulla scorta di tali pronunce, sembra quindi doversi ritenere che, nel caso di impugnazione di atti del concessionario del servizio di riscossione (e, oggi dell'agente della riscossione), quando il contribuente contesti la stessa pretesa tributaria, l'errata individuazione del legittimato passivo nel concessionario non determina l'inammissibilità del ricorso, potendo comportare solo l'eventuale chiamata in causa dell'ente da parte del concessionario (in tale senso, Sez. U, n. 16412/2007, Botta, richiamata anche dalla citata Sez. 6-T, n. 00097/2015); quando il contribuente faccia invece valere vizi propri degli atti, l'errata individuazione del legittimato passivo nell'amministrazione finanziaria comporta, invece, l'inammissibilità del ricorso. Sul piano delle novità normative in materia, va segnalato che l'art. 9, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha sostituito l'art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992. Il nuovo testo di tale disposizione, eliminando dizioni ormai superate, ha individuato le 896 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO parti del processo tributario, oltre che nel contribuente, negli uffici delle agenzie fiscali, negli altri enti impositori, nell'agente della riscossione e anche nei soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi, di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni, di cui all'art. 53 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, i quali abbiano emesso l'atto impugnato o non emesso l'atto richiesto. La novella ha inoltre previsto che, qualora l'ufficio dell'Agenzia delle entrate abbia una competenza diffusa su tutto o su parte del territorio nazionale, è parte nel processo «l'ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso»; in tale ipotesi, in sostanza, la legittimazione processuale è quindi in capo non all'ufficio delle entrate che ha adottato l'atto, bensì all'ufficio competente in base al generale criterio del domicilio fiscale del contribuente. 3.2. La rappresentanza in giudizio. La Corte si è occupata dell'argomento con riguardo, anzitutto, alla rappresentanza dell'ente locale, precisando che il «dirigente dell'ufficio tributi», mediante il quale l'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio, anche in grado di appello, a norma del comma 3 dell'art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992, deve intendersi come il dirigente responsabile dell'ufficio dello specifico tributo oggetto della lite (Sez. T, n. 19445/2015, Bruschetta, Rv. 636546). Quanto alla rappresentanza dell'ufficio periferico dell'Agenzia delle entrate, Sez. T, n. 20648/2015, Federico, Rv. 636898, ha chiarito che quest'ultimo è rappresentato in giudizio dal titolare dell'organo che, qualora non intenda trasferire il potere di rappresentanza processuale a un altro funzionario, può demandare, nell'esercizio dei propri poteri di organizzazione e di gestione delle risorse umane, la sola sottoscrizione materiale dell'atto difensivo ad un delegato alla firma, mero sostituto nell'esecuzione dell'adempimento. Ne consegue che, qualora l'atto difensivo sia stato sottoscritto da tale sostituto con la chiara indicazione della propria qualità (ad esempio, con la formula «per il dirigente»), l'ufficio periferico si deve presumere costituito ritualmente in giudizio a mezzo del dirigente legittimato processualmente, senza che sia sufficiente la mera contestazione per fare sorgere l'onere dell'amministrazione finanziaria di fornire la prova dell'atto interno di organizzazione adottato dal dirigente. Deve qui inoltre farsi cenno alle modifiche apportate all'art. 11 del d.lgs. n. 546 del 1992 dall'art. 9, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 156 del 2015. Con tali modificazioni, si è anzitutto estesa la capacità 897 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO di stare in giudizio direttamente all'ufficio dell'agente della riscossione (al pari degli uffici delle agenzie fiscali). Inoltre, la legittimazione processuale e la difesa diretta delle cancellerie e delle segreterie degli uffici giudiziari, limitatamente al contenzioso in materia di contributo unificato, è stata prevista non più solo per il giudizio di primo grado ma anche per quello davanti alle commissioni tributarie regionali. 3.3. L'assistenza tecnica. In conformità con Sez. T, n. 13156/2014, Cirillo, Rv. 631168, Sez. T, n. 18377/2015, Olivieri, Rv. 636552, premesso che, secondo l'art. 72 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, le agenzie fiscali possono avvalersi, per la loro rappresentanza in giudizio, del patrocinio dell'avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'avvocatura dello Stato, approvato con il r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, ha statuito che, a tale fine, non occorre un mandato alle liti o una procura speciale, atteso che i rapporti tra Direttore dell'agenzia e Avvocatura dello Stato restano in ambito meramente interno. Deve rammentarsi in questa sede che l'art. 9, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 546 del 1992, ha sostituito l'art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1992, che disciplina, appunto, l'assistenza tecnica dinanzi alle commissioni tributarie. Le modificazioni più significative rispetto al testo precedente sono: a) l'innalzamento da euro 2.582,28 a euro 3.000,00 della soglia di valore delle controversie in relazione alle quali il contribuente può stare in giudizio anche personalmente (nuovo comma 2); b) l'inserimento, tra i soggetti abilitati all'assistenza tecnica, dei dipendenti dei centri di assistenza fiscale (CAF), limitatamente alle controversie dei propri assistiti che scaturiscono da adempimenti per i quali gli stessi CAF avevano prestato assistenza, sempreché i detti dipendenti siano in possesso dei requisiti di professionalità del diploma di laurea magistrale in giurisprudenza o in economia (od equipollenti) o del diploma di ragioneria e della relativa abilitazione professionale (nuovo comma 3, lett. h); c) l'accentramento in capo al Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia e delle finanze della gestione dell'elenco dei soggetti abilitati all'assistenza tecnica menzionati al comma 3, lett. d), e), f), g) e h), dello stesso art. 12 (competenza sinora ripartita tra il detto Ministero e l'Agenzia delle entrate) e la previsione che lo stesso elenco sia pubblicato sul sito internet del Ministero (nuovo comma 4); d) il rinvio, ai fini della disciplina delle ipotesi di difetto 898 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO di rappresentanza o di autorizzazione, all'art. 182 c.p.c.., con la previsione che l'invito alla regolarizzazione, entro un termine perentorio, degli atti e dei documenti difettosi, possa essere rivolto alle parti, indifferentemente – nel chiaro intento di anticipare quanto più possibile la regolarizzazione del vizio – dal presidente della commissione o della sezione o dal collegio (ne segue che, in conformità a quanto già più volte statuito dalla Corte – da ultimo, con riguardo al processo tributario, Sez. T, n. 15029/2014, Meloni, Rv. 631544 – l'inammissibilità del ricorso potrà essere dichiarata dal giudice solo in esito all'inottemperanza della parte all'invito a provvedere alla regolarizzazione; nuovo comma 10). Da notare, infine, che il comma 3 dell'art. 18 del d.lgs. n. 546 del 1992, come sostituito dall'art. 9, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha introdotto l'obbligo dei difensori di indicare nel ricorso la categoria di appartenenza. 3.4. Il litisconsorzio. In tema litisconsorzio necessario, di particolare rilievo sono i principi affermati da Sez. 6-T, n. 02094/2015, Perrino, Rv. 634405. Tale pronuncia ha anzitutto chiarito che l'accertamento di un maggior imponibile IVA a carico di una società di persone, se autonomamente operato, non determina, in caso di impugnazione dello stesso, l'instaurazione di un litisconsorzio necessario nei confronti dei soci, attesa l'assenza – in difetto di un meccanismo analogo a quello previsto dagli artt. 40, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, e 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – di un accertamento unitario e dell'automatica imputazione dei redditi della società ai soci in proporzione alla loro partecipazione agli utili, con connessa comunanza della base imponibile tra i tributi a carico, rispettivamente, della società e dei soci. La stessa pronuncia ha ulteriormente precisato che, tuttavia, qualora l'Agenzia delle entrate abbia proceduto, con un unico atto, anche ad accertamenti di imposte dirette ed IRAP a carico della società di persone, fondati su elementi comuni, il profilo dell'accertamento impugnato che concerne l'imponibile IVA, che non sia suscettibile di autonoma definizione in funzione di aspetti ad esso specifici, non si sottrae, data l'inscindibilità delle due situazioni, al vincolo necessario del simultaneus processus. In senso sostanzialmente analogo si è successivamente espressa Sez. T., n. 21340/2015, Greco, Rv. 636904, con riguardo ad una fattispecie in cui l'Agenzia delle entrate aveva proceduto ad accertamenti contestuali di IVA ed ILOR, fondati su elementi comuni, con distinti atti impositivi. 899 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Con riguardo al rapporto tra i giudizi instaurati, rispettivamente, da una società di persone e dai suoi soci, vanno menzionate due pronunce. Sez. T., n. 21762/2015, Caracciolo, Rv. 637062, ha chiarito che la definitività dell'autonomo avviso di accertamento emesso ai fini dell'IRPEF nei confronti del socio in conseguenza dei maggiori ricavi accertati in capo alla società, ne comporta l'intangibilità ed esclude perciò che il socio, in sede di impugnazione della conseguente cartella di pagamento, possa invocare le vicende dell'atto impositivo riferito alla società (nella specie, la definizione agevolata della pretesa tributaria scaturita dall'istanza di accertamento con adesione autonomamente proposta dalla società al fine di ottenere la rideterminazione della pretesa tributaria a proprio carico). Sez. T., n. 21960/2015, Virgilio, Rv. 637199, ha affermato che il socio di una società di persone non ha interesse a fare valere il vizio di notifica dell'atto impositivo emesso, a titolo di ILOR, nei confronti della società, nel giudizio avente a oggetto l'avviso di accertamento o la cartella di pagamento emessi nei suoi confronti, a titolo di IRPEF, per il maggior reddito da partecipazione e che il motivo di ricorso, al riguardo formulato, è inammissibile. Ciò in quanto il giudicato favorevole formatosi a favore della società di persone e fondato su un vizio di notifica (o su altra causa non rapportabile ai soci) non si estende a questi ultimi. Da segnalare, Sez. 6-T, n. 24472/2015, Caracciolo, in corso di massimazione, che ha affermato la configurabilità del litisconsorzio necessario tra la società a responsabilità limitata a ristretta base societaria e i soci che abbiano optato per la trasparenza fiscale ai sensi del combinato disposto degli artt. 115 e 116 del d.P.R. n. 917 del 1986, quando la prima impugni l'avviso di accertamento relativo al reddito sociale e/o i secondi impugnino l'avviso di accertamento del proprio reddito di partecipazione. Ciò in quanto il detto combinato disposto genera, similmente a quanto si determina per effetto dell'art. 5 dello stesso decreto, l'imputazione diretta a ciascun socio del reddito imponibile della società, indipendentemente dall'effettiva percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, di tal ché si ripropone, anche nel caso di opzione per la trasparenza fiscale, il presupposto obiettivo che è a fondamento del principio di diritto affermato da Sez. U, n. 14815/2008, Merone, Rv. 603330, a proposito della produzione dei redditi in forma associata, a norma del citato art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986. 900 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Vanno poi segnalate due pronunce che hanno fatto applicazione del generale principio in base al quale la solidarietà passiva non integra, neppure nel processo tributario, una fattispecie necessariamente litisconsortile. In conformità con tale principio, una prima pronuncia ha escluso che la solidarietà passiva tra i soggetti obbligati al pagamento delle imposte ipotecaria e catastale, prevista dall'art. 11, comma 2, del d.P.R. 31 ottobre 1990, n. 347, costituisca presupposto del litisconsorzio necessario, che non trova, pertanto, applicazione con riguardo alle posizioni del venditore e dell'acquirente di un immobile nelle controversie relative alle dette imposte, pretese dall'amministrazione finanziaria sull'atto di trasferimento di un immobile (Sez. 6-T, n. 15958/2015, Cosentino, Rv. 636111; la pronuncia richiama, nello stesso senso, Sez. T, n. 24063/2011, Botta, Rv. 620274, e Sez. T., n. 24098/2014, Chindemi, Rv. 633091, entrambe in tema di imposta di registro). La seconda pronuncia (Sez. T, n. 18361/2015, Greco, Rv. 636556) ha anzitutto chiarito che, nei giudizi promossi dai contribuenti e aventi ad oggetto la legittimità della ritenuta fiscale operata dal comune (e, in genere, dall'ente erogante) sull'indennità di esproprio o sulla somma corrisposta per la cessione bonaria di un terreno, l'ente locale è soltanto sostituto d'imposta e, quindi, obbligato in solido in un rapporto impositivo che fa capo, come ente impositore, all'amministrazione finanziaria dello Stato. Sulla base di tale premessa, la Corte, in coerenza col principio sopra menzionato, ha affermato che lo stesso ente locale, in quanto obbligato in solido, non è un litisconsorte necessario nel giudizio e che non vi è, perciò, alcun obbligo del giudice di disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti. Da notare che, con riguardo ad un'analoga controversia, era stato espresso opposto avviso da Sez. T, n. 21733/2005, Monaci, Rv. 584952, la quale aveva invece affermato la sussistenza di un litisconsorzio necessario, di carattere sostanziale e non meramente processuale, tra l'ente locale sostituto d'imposta, il contribuente sostituito e l'amministrazione finanziaria. Come si è visto al par. 3.1 a proposito della legittimazione processuale passiva nel caso di impugnazione di atti del concessionario del servizio di riscossione, la Corte ha escluso sia che, nel caso di azione proposta nei confronti del concessionario per la contestazione della pretesa tributaria, l'ente creditore sia litisconsorte necessario insieme al concessionario (Sez- 6-T, n. 00097/2015, Perrino, Rv. 634119) – sul quale grava, invece, l'onere 901 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO di chiamare in causa lo stesso ente – sia che, nel caso di azione proposta nei confronti dell'amministrazione finanziaria e diretta a fare valere vizi propri dell'atto, il concessionario sia litisconsorte necessario insieme all'amministrazione (Sez. T, n. 08370/2015, Valitutti, Rv. 635173). Con riguardo al litisconsorzio facoltativo e, in particolare, agli aspetti procedurali della chiamata in giudizio di un terzo, Sez. 6-T, n. 01112/2015, Perrino, Rv. 634031, ha statuito che, come nel processo civile, anche in quello tributario, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, la fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, tempestivamente chiesta dal convenuto, è discrezionale, con la conseguenza che il giudice, per esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo. 3.5. Le spese del giudizio. Oltre a richiamare la già citata (al par. 1) Sez. U, n. 14554/2015, Di Blasi, Rv. 635781 – che ha affermato la giurisdizione tributaria sulle controversie concernenti le spese processuali del giudizio tributario – va menzionata Sez. 6-T, n. 22793/2015, Cigna, Rv. 637203, secondo cui, in virtù del rinvio operato dall'art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel processo tributario, ai procedimenti instaurati dopo il 1° marzo 2006, si applica l'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nella versione novellata dall'art. 2, comma 2, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, di tal ché la compensazione delle spese richiede il ricorrere di «altri giusti motivi, esplicitamente indicati in motivazione», i quali non possono essere desunti dal complesso della sentenza, pena la sua cassazione sul punto. È inoltre utile dare qui sinteticamente conto delle novità introdotte nella disciplina delle spese del giudizio dal d.lgs. n. 156 del 2015. Le modifiche, apportate all'art. 15 del d.lgs. n. 546 del 1992 e tutte dichiaratamente rivolte a «rafforzare il principio in base al quale le spese del giudizio tributario seguono la soccombenza» (così la relazione illustrativa al decreto), sono consistite, principalmente, nel prevedere che: a) la spese possono essere compensate soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate (nuovo comma 2); b) si applicano, in materia, le disposizioni dei commi primo e terzo dell'art. 96 c.p.c.. in tema di responsabilità aggravata (nuovo comma 2-bis); c) le spese di giudizio 902 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO comprendono, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre al contributo previdenziale e all'imposta sul valore aggiunto, se dovuti (nuovo comma 2-ter); d) la statuizione sulle spese deve essere adottata anche nell'ordinanza con la quale il giudice tributario decide sulle istanze cautelari (quanto alle spese della relativa fase) e tale pronuncia sulle spese conserva efficacia anche dopo la sentenza che definisce il merito del giudizio, salvo diversa statuizione contenuta in quest'ultima (la disposizione, dettata all'evidente scopo di evitare l'abuso delle richieste di tutela cautelare, è contenuta nel nuovo comma 2-quater); e) la parte che abbia rifiutato, senza giustificato motivo, una proposta conciliativa formulata dall'altra parte è tenuta a sopportare le spese del processo qualora il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta che le era stata avanzata (nuovo comma 2-octies, ispirato ad un'evidente finalità deflattiva del contenzioso). 4. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. 4.1. Gli atti impugnabili e l'oggetto del ricorso. Vanno anzitutto menzionate due pronunce delle Sezioni unite. Di grande rilievo, sia sul piano teorico che per l'impatto su un ampio contenzioso, Sez. U, n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, che ha composto il contrasto insorto in seno alle sezioni tributaria e sesta-tributaria in ordine alla «autonoma impugnabilità dell'estratto di ruolo tributario» (così l'ordinanza interlocutoria, Sez. 6-T, n. 16055/2014, Caracciolo). La pronuncia in rassegna ha anzitutto escluso l'impugnabilità dell'estratto di ruolo in quanto esso, essendo «solo un documento (un elaborato informatico ... contenente gli elementi della cartella, quindi unicamente gli elementi di un atto impositivo) formato dal concessionario della riscossione» su richiesta del debitore, è inidoneo «a contenere qualsivoglia (autonoma e/o nuova) pretesa impositiva, diretta o indiretta», con conseguente assoluta mancanza di interesse ad impugnarlo. La Corte ha inoltre affrontato la diversa questione – postasi in ragione del fatto che il ricorrente si era sempre doluto dell'invalida notificazione della cartella di pagamento – dell'ammissibilità dell'impugnazione della cartella invalidamente notificata e conosciuta dal contribuente solo attraverso l'estratto di ruolo. Al riguardo, le Sezioni unite hanno affermato la possibilità, per il contribuente, di impugnare la cartella (e/o il ruolo) della quale, a causa dell'invalidità della relativa notifica, sia venuto a conoscenza solo mediante l'estratto di ruolo rilasciatogli, su sua richiesta, 903 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO dall'agente della riscossione. Il collegio ha ritenuto non costituire un ostacolo a tale soluzione il terzo periodo del comma 3 dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 (secondo cui «La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all'atto notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo»), atteso che una lettura costituzionalmente orientata di tale disposizione impone di ritenere che la prevista impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo non costituisca l'unica possibilità di fare valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di fare valere tale invalidità anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compresso, ritardato, reso più difficile o gravoso, ove ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione. Dell'altra pronuncia delle Sezioni unite (Sez. U, n. 12759/2015, Ragonesi, Rv. 635918), resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, si è già dato conto al par. 1. In questa sede, deve tuttavia sottolinearsi che la Corte, nell'affermare la giurisdizione del giudice italiano e, in particolare, del giudice tributario, in ordine agli atti di diniego di dare corso alla procedura amichevole prevista dalla Convenzione relativa all'eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/436/CEE, resa esecutiva dalla legge 22 marzo 1993, n. 99, adottati dal Ministero delle finanze, ha ritenuto tali atti impugnabili ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, interpretato in modo estensivo in ossequio ai principi costituzionali in materia di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.). Anche le sezioni semplici tributaria e sesta-tributaria hanno reso, nell'anno, numerose pronunce in materia di atti impugnabili dinanzi ai giudici tributari, a conferma dell'esistenza di un panorama assai articolato della giurisprudenza di legittimità sul tema. In una prospettiva analoga a quella fatta propria dalla pronuncia delle Sezioni unite da ultimo citata, si colloca Sez. 6-T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 63613. Con tale ordinanza, la Corte ha riconosciuto l'immediata impugnabilità del cosiddetto avviso bonario previsto dall'art. 36-ter, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, sull'assunto che, ancorché l'elencazione degli atti impugnabili contenuta nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 abbia natura tassativa, tuttavia, in ragione dei principi costituzionali di tutela del 904 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO contribuente e di buon andamento dell'amministrazione, ogni atto adottato dall'ente impositore che porti a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con l'esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è impugnabile davanti alle commissioni tributarie, senza necessità che esso si manifesti in forma autoritativa. Sez. T, n. 16006/2015, Napolitano, Rv. 636119 ha ribadito l'impugnabilità, già affermata da Sez. T, n. 28543/2014, Ferro, Rv. 629514, dell'avviso di recupero del credito d'imposta illegittimamente utilizzato in compensazione, anche se emesso anteriormente all'entrata in vigore della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (che ne ha stabilito la natura di titolo per la riscossione dello stesso credito), in quanto tale avviso costituisce manifestazione della volontà impositiva dello Stato, al pari degli avvisi di accertamento e di liquidazione. La Corte ha riconosciuto l'autonoma impugnabilità anche del provvedimento con il quale l'amministrazione finanziaria condiziona il rimborso di un credito IVA al previo pagamento, da parte dell'istante, di debiti fiscali, oppure alla loro compensazione. La statuizione si basa sul fatto che il citato provvedimento, producendo lo stesso effetto giuridico proprio dell'atto tipico di sospensione del rimborso, previsto dall'art. 23, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, deve ritenersi, al pari di questo, autonomamente impugnabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 546 del 1992, e 23, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997, atteso che la tassatività dell'elenco di cui al menzionato art. 19 deve intendersi riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente indicati, ma alle categorie a cui essi sono riconducibili, nelle quali vanno, perciò, compresi anche gli atti atipici e con un nomen iuris diverso da quelli indicati, che producano, però, gli stessi effetti giuridici (Sez. 6-T, n. 13548/2015, Caracciolo, Rv. 635738). Sono poi da segnalare due pronunce riguardanti l'impugnabilità degli atti relativi alle operazioni catastali. Con la prima, è stata affermata, tra l'altro, l'impugnabilità dinanzi al giudice tributario del diniego dell'amministrazione in ordine all'istanza di correzione dei dati dichiarati e di rettifica della rendita, proposta del contribuente in ragione della non corrispondenza al vero della situazione di fatto o di diritto denunciata, con la precisazione che, in tale caso, il giudice procederà alla valutazione dell'immobile tenendo conto delle sue mutate condizioni ed eventualmente disapplicando i criteri elaborati 905 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO dall'amministrazione (Sez. 6-T, n. 02995/2015, Caracciolo, Rv. 634383). Con una seconda pronuncia, è stata asserita l'impugnabilità del silenzio-rigetto con il quale l'amministrazione finanziaria, respingendo l'istanza di variazione presentata dal contribuente, confermi la precedente rendita catastale. Secondo la Corte, tale silenzio-rigetto deve considerarsi un atto tacito relativo alle operazioni catastali di attribuzione della rendita, impugnabile davanti al giudice tributario ai sensi dell'art. 19, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 546 del 1992, atteso che tale disposizione si riferisce a tutti gli atti catastali, in qualsiasi forma adottati, idonei a produrre effetti negativi in capo al proprietario di un bene immobile (Sez. T, n. 03001/2015, Cosentino, Rv. 634634). Riconosciuta ormai da tempo, dalle Sezioni unite, la giurisdizione tributaria in ordine alle controversie nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell'amministrazione ad esercitare il potere di autotutela (Sez. U, n. 16776/2005, Cicala, Rv. 585321), la Corte ha proseguito la propria opera volta a definire i casi in cui il detto rifiuto è impugnabile e, qualora l'impugnabilità sussista, il contenuto del sindacato del giudice tributario. Sotto il primo aspetto, Sez. T, n. 14243/2015, Chindemi, Rv. 635875, ha affermato l'impugnabilità dell'annullamento parziale, adottato nell'esercizio del potere di autotutela, di un avviso impositivo definitivo, in quanto si tratta di un atto che contiene la manifestazione di una compiuta e definitiva pretesa tributaria, rispetto al quale, ancorché riduttivo della pretesa originaria, il contribuente non può essere privato della possibilità di difesa. Da segnalare la difformità di tale pronuncia rispetto a Sez. U, n. 03698/2009, D'Alessandro, Rv. 606565, che aveva invece affermato la non impugnabilità del rifiuto di annullamento, in via di autotutela, dell'atto impositivo definitivo, sul duplice fondamento della natura discrezionale da cui è connotato in tale caso l'esercizio del potere di autotutela e dell'inammissibilità di una controversia che finirebbe con l'avere a oggetto la legittimità di un atto impositivo ormai definitivo. Sotto il secondo aspetto, Sez. T, n. 03442/2015, Sambito, Rv. 634479, ha precisato che il sindacato giurisdizionale sul diniego espresso o tacito di annullamento in autotutela non può riguardare la fondatezza della pretesa tributaria – atteso che, se ciò fosse possibile, si avrebbe un'inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo o un'indebita sostituzione del giudice nell'attività amministrativa – ma soltanto eventuali profili di 906 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO illegittimità del rifiuto dell'amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l'esercizio del potere di autotutela. Da menzionare, ancora, Sez. T, n. 08195/2015, Ferro, Rv. 635308, che ha ribadito (in precedenza, Sez. T, n. 12336/2005, Virgilio, Rv. 583757) che il provvedimento di rimborso parziale emesso, a fronte di un'istanza di rimborso d'imposta, dall'Amministrazione finanziaria, senza l'evidenziazione di alcuna riserva o indicazione di una sua natura interlocutoria, ha valore, per la parte relativa all'importo non rimborsato, di rigetto, sia pure implicito, dell'istanza. Da ciò consegue, da un canto, che esso costituisce un atto impugnabile quale rifiuto espresso, nel termine di sessanta giorni dalla sua notificazione, ai sensi degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 e, d'altro canto, che è improponibile un'ulteriore istanza di rimborso per il mancato integrale accoglimento della prima e che essa, se proposta, è inidonea alla formazione di un silenzio-rifiuto impugnabile. A proposito della possibilità, per il ricorrente, di lamentare solo «vizi propri» degli atti autonomamente impugnabili (art. 19, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992), Sez. 6-T, n. 04818/2015, Conti, Rv. 634696, nell'affermare l'impugnabilità della cartella di pagamento solo, appunto, per vizi suoi propri, ha fatto tuttavia salvo il caso in cui il contribuente sia venuto a conoscenza della pretesa impositiva solo con la notificazione della cartella. Sempre a proposito della possibilità di impugnazione degli atti autonomamente impugnabili solo per vizi propri, da segnalare il contrasto tra Sez. 6-T, n. 14847/2015, Caracciolo, Rv. 636066, e Sez. T., n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637156, in ordine, in particolare, alla possibilità per il contribuente di prospettare la questione dell'accettazione con beneficio d'inventario in sede di ricorso avverso la cartella di pagamento, una volta divenuto definitivo per omessa impugnazione l'avviso di accertamento o di liquidazione. Tale possibilità è stata affermata dalla pronuncia della sezione sesta-tributaria sulla base del principio secondo cui la responsabilità dell'erede per i debiti tributari derivante dall'accettazione con beneficio d'inventario è opponibile a qualsiasi creditore, ivi incluso l'erario, che, perciò, pur potendo procedere alla notifica dell'avviso di liquidazione nei confronti dell'erede, non può esigere l'imposta ipotecaria, catastale o di successione sino a quando non sia chiusa la procedura di liquidazione dei debiti ereditari e sempre che sussista un residuo attivo in favore dell'erede. La stessa possibilità è stata invece esclusa dalla pronuncia della sezione 907 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO tributaria, secondo cui il vizio proprio dell'atto impositivo con il quale l'amministrazione pretenda il pagamento dell'intera imposta ereditaria deve essere fatto valere dall'erede che abbia accettato con beneficio d'inventario con l'impugnazione dell'avviso di accertamento o di liquidazione e non può più essere eccepito nel giudizio avente a oggetto l'impugnazione della cartella di pagamento, attesa la preclusione connessa alla definitività dell'atto impositivo non impugnato. Con riguardo alle conseguenze dell'omessa impugnazione di atti che, ancorché impugnabili, non siano espressamente indicati dall'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, sono da menzionare due pronunce, entrambe espressive del principio secondo cui l'impugnazione di tali atti costituisce non un onere ma una facoltà del contribuente, in quanto costituisce un'estensione della sua tutela, e non comporta, perciò, la preclusione dell'impugnazione dell'atto successivamente notificato. Sulla base di tale premessa, Sez. T, n. 02616/2015, Napolitano, Rv. 634214, ha affermato che l'omessa impugnazione dell'intimazione di pagamento non comporta la cristallizzazione della pretesa tributaria né preclude la successiva impugnazione di uno degli atti tipici indicati dal citato art. 19, comma 1; Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281, ha asserito che l'omessa impugnazione dell'atto di variazione della categoria TARSU, con la cui notifica il ruolo era stato portato a conoscenza del contribuente, non preclude il ricorso avverso il successivo avviso di pagamento (cioè avverso un atto non indicato dal comma 1 dell'art. 19 ma anch'esso facoltativamente impugnabile in quanto manifestante il rapporto impositivo). Da segnalare ancora Sez. T, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637154, che ha stabilito che l'invito al pagamento di cui all'art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002 è l'unico atto liquidatorio, previsto dalla legge, dell'imposta di registro prenotata a debito, mediante il quale viene comunicata al contribuente un'ormai definita pretesa tributaria, cosicché, a prescindere dalla denominazione, esso va qualificato come avviso di accertamento o di liquidazione, la cui impugnazione non è facoltativa ma necessaria, ai sensi dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, pena la cristallizzazione dell'obbligazione, che non può più essere contestata nel successivo giudizio avente a oggetto la cartella di pagamento. A proposito della natura del processo tributario, infine, Sez. 6-T, n. 05466/2015, Iacobellis, Rv. 634868, ha statuito che esso è strutturato come un giudizio d'impugnazione del provvedimento impositivo, natura che impone la disanima della sola pretesa 908 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO tributaria avanzata con l'atto impugnato, con la conseguenza che il giudice tributario non può estendere la propria indagine alla fondatezza della pretesa avanzata con riguardo a periodi d'imposta non considerati in detto atto. 4.2. Il ricorso. 4.2.1. Il termine. Di notevole importanza, che trascende il tema del termine per la proposizione del ricorso per investire, prioritariamente, quello dell'applicabilità agli atti tributari del regime di nullità dell'atto amministrativo dettato dagli artt. 21- septies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e 31, comma 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Sez. T, n. 18448/2015, Olivieri, Rv. 636451. Sulla base della ritenuta esclusione dell'applicabilità del citato regime di diritto amministrativo alla sanzione di nullità prevista, in particolare, dall'art. 42, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 – motivata in ragione dell'incompatibilità di tale regime con la specificità degli atti tributari, relativamente ai quali il legislatore, nella sua discrezionalità, ha configurato una categoria unitaria d'invalidità-annullabilità – la Corte ha affermato il conseguente onere del contribuente della tempestiva impugnazione degli atti entro il termine decadenziale dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che alcun vizio possa poi essere invocato nel giudizio avverso l'atto consequenziale o, ove emerga dagli atti processuali, possa essere rilevato di ufficio dal giudice. Con riguardo alla decorrenza del termine di impugnazione, Sez. T, n. 07874/2015, Valitutti, Rv. 635301, sulla premessa che solo la piena conoscenza dell'atto da parte del contribuente consente il consapevole esercizio del diritto di impugnativa, ha affermato che, nel caso in cui l'atto impositivo, relativo ad imposte per il periodo anteriore al fallimento, sia stato notificato soltanto al curatore e non anche alla società fallita, il termine per proporre il ricorso non può decorrere, per quest'ultima, dalla generica comunicazione alla stessa, da parte del curatore, di un'insinuazione tardiva di un credito erariale, né dalle risultanze della verifica dello stato passivo in cui il detto credito sia stato insinuato, ma solo dalla trasmissione dell'intera documentazione relativa alla pretesa erariale (nella specie, della copia della cartella di pagamento). La Corte ha altresì asserito che l'onere di provare il momento in cui tale atto è venuto a conoscenza del contribuente, in modo da individuare la data di decorrenza del termine per la proposizione del ricorso, ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, grava sull'amministrazione finanziaria. 909 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Da menzionare, ancora, tre pronunce che investono, tra l'altro, l'istituto della sospensione del termine per l'impugnazione nel caso della presentazione, da parte del contribuente, dell'istanza di accertamento con adesione. Con riguardo all'ambito applicativo dell'istituto, Sez. T, n. 18377/2015, Olivieri, Rv. 636553, ha affermato che la presentazione dell'istanza di accertamento con adesione determina, a norma degli artt. 6 e 12 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, la sospensione del termine di decadenza per l'impugnazione non solo dell'atto impositivo, ma anche del provvedimento sanzionatorio, ancorché adottato e notificato con atto separato rispetto all'avviso di accertamento, qualora, trattandosi di una violazione sostanziale, la condotta sanzionata risulti strumentale all'inadempimento dell'obbligazione tributaria. La seconda pronuncia (Sez. T, n. 13242/2015, Greco, Rv. 635873) concerne l'ipotesi in cui l'istanza di accertamento con adesione sia stata presentata dal curatore del fallimento privo dell'autorizzazione del giudice delegato o del tribunale prevista dall'art. 35 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), nel testo vigente ratione temporis (anteriore alla sostituzione operata dall'art. 31, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). La Corte, confermando la propria risalente giurisprudenza secondo cui la mancanza della detta autorizzazione, ad integrazione dei poteri del curatore nello svolgimento di attività negoziale, non comporta la nullità dei negozi posti in essere, ma lo loro annullabilità, che può essere fatta valere soltanto dal fallimento, ai sensi dell'art. 1441 c.c.. (Sez. 1, n. 05334/1981, Cantillo, Rv. 416074), ha conseguentemente affermato che la presentazione dell'istanza di accertamento con adesione, da parte del curatore, in difetto della necessaria autorizzazione, non integrando la nullità del relativo procedimento, comporta la sospensione del termine per l'impugnazione dell'avviso per un periodo di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 218 del 1997. Sez. T, n. 23047/2015, Tricomi, Rv. 637171, infine, ha confermato quanto già affermato da Sez. T, n. 16876/2014, Scoditti, Rv. 632070, in ordine alla non cumulabilità delle sospensioni dei termini per impugnare l'avviso di accertamento previste dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 218 del 1997 (per consentire al contribuente di formulare l'istanza di accertamento con adesione) e dall'art. 15, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (al fine della definizione agevolata delle controversie), con la conseguenza che, ove il contribuente abbia formulato istanza di accertamento con 910 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO adesione relativamente ad un avviso di accertamento che rientra nel campo di applicazione di entrambe le norme, e tale accertamento non si perfezioni, il termine per l'impugnazione dell'atto resta sospeso solo fino al sessantesimo giorno successivo al 19 aprile 2004, secondo la previsione del citato art. 15, comma 8. Quanto alla sospensione dei termini nel periodo feriale (legge 7 ottobre 1969, n. 742), Sez. T, n. 15412/2015, Iofrida, Rv. 636033, ha statuito la soggezione ad essa dell'impugnazione dell'iscrizione di ipoteca prevista dall'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto, non costituendo tale provvedimento un atto dell'espropriazione forzata, ma di una procedura alternativa, la sua impugnazione non è inquadrabile nell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi. Da ricordare infine che Sez. T, n. 08195/2015, Ferro, Rv. 635308, già citata al par. 4.1, sulla premessa della ritenuta natura di atto impugnabile del provvedimento di rimborso parziale emesso, a fronte di un'istanza di rimborso d'imposta, dall'amministrazione finanziaria (senza l'evidenziazione di riserve o di una sua natura interlocutoria), ha affermato l'onere del contribuente di impugnare lo stesso entro il termine dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché la non «tempestività, e correlativa validità» dell'impugnazione interposta avverso il diniego di rimborso opposto dall'ufficio a fronte di un'ulteriore istanza del contribuente. 4.2.2. La rimessione nel termine. Quanto all'ambito operativo dell'istituto, disciplinato dall'art. 184-bis c.p.c. (abrogato dall'art. 46, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69, e sostituito dalla norma generale dell'art. 153, comma 2, c.p.c.), Sez. T, n. 12544/2015, Ferro, Rv. 636356, ha affermato l'applicabilità dello stesso al rito tributario, nel contesto del quale esso opera con riguardo sia alle decadenze relative ai poteri processuali interni al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quale l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali (la Corte ha peraltro escluso che potesse integrare una causa di non imputabilità della decadenza lo stato di malattia sopravvenuta ed il successivo decesso del difensore, incaricato, nella specie, della riassunzione del giudizio dopo la sentenza di cassazione con rinvio, dieci mesi prima della scadenza del relativo termine). Sez. 6-T, n. 10520/2015, Cosentino, Rv. 635457, già menzionata al par. 1, ha precisato che l'erronea indicazione, nell'impugnato atto dell'amministrazione finanziaria, dell'organo giurisdizionale al quale è possibile ricorrere (indicazione prevista dall'art. 7, comma 2, lett. c, della legge 27 luglio 2000, n. 212), può 911 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO giustificare la rimessione in termini del contribuente che vi abbia fatto affidamento, ma non incide sul riparto di giurisdizione. 4.3. La costituzione in giudizio del ricorrente. Confermando il precedente costituito da Sez. T, n. 14389/2010, D'Alonzo, Rv. 613713, Sez. T, n. 04078/2015, Scoditti, Rv. 634969, ha ribadito che la mancata sottoscrizione in originale, da parte del ricorrente o del suo difensore, della copia del ricorso depositata ai fini della costituzione in giudizio, non determina l'inammissibilità del ricorso, ma costituisce una mera irregolarità. Ciò in quanto l'art. 18, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel disciplinare il ricorso proposto contro più parti, prescrive la sottoscrizione in originale su tutte le copie dell'atto «destinato alle altre parti» e non anche sulla copia depositata ai fini della costituzione in giudizio, mentre l'art. 22, comma 3, dello stesso decreto, richiede soltanto che la parte o il suo difensore (quando e se nominato) attestino la conformità di tale copia all'originale notificato alla controparte, la quale può verificare l'esistenza della firma nell'originale dell'atto ad essa spedito o consegnato. A proposito della produzione, da parte del ricorrente, in sede di costituzione in giudizio, di documenti in copia fotostatica, ai sensi dell'art. 22, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. 6-T, n. 08446/2015, Caracciolo, Rv. 635468, ha affermato che essa costituisce modalità idonea a introdurre la prova nel processo, in quanto, ai sensi dell'art. 2712 c.c.., è onere dell'amministrazione finanziaria contestarne la conformità all'originale, con la precisazione che, in tale caso, il giudice tributario è tenuto a disporre l'esibizione del documento in originale, a norma del comma 5 del citato art. 22. 4.4. La costituzione in giudizio della parte resistente. Con riguardo alle conseguenze della costituzione tardiva del resistente, Sez. T, n. 06734/2015, Meloni, Rv. 635139, ha affermato il principio che la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire, a norma dell'art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, entro sessanta giorni dalla notifica del ricorso, a pena di decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio e di fare istanza, se del caso, per la chiamata di terzi in causa, con la conseguenza che, qualora tali difese non siano state in concreto esercitate, nessun altro pregiudizio può derivare al resistente, al quale deve essere riconosciuto il diritto di negare i fatti costitutivi della pretesa attorea, di contestare 912 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO l'applicabilità delle norme di diritto invocate dal ricorrente, nonché di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del d.lgs. n. 546 del 1992. 4.5. Il deposito di atti e documenti. Da segnalare Sez. 6-T, n. 12670/2015, Cicala, Rv. 635745, secondo cui, analogamente al processo civile, anche in quello tributario l'accettazione, da parte del cancelliere, degli atti e documenti depositati dalla parte che si costituisce, mediante l'apposizione del timbro di cancelleria in calce all'indice del fascicolo di parte, ai sensi dell'art. 74, comma 4, disp. att. c.p.c., senza l'annotazione di alcun rilievo formale, fa presumere la regolare produzione degli stessi. Va poi ricordato che la già citata (al par. 4.4) Sez. T, n. 06734/2015, Meloni, Rv. 635139, ha chiarito che la tardività della costituzione in giudizio della parte resistente non impedisce alla stessa di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del d.lgs. n. 546 del 1992. 4.6. L'avviso di trattazione della controversia. A proposito della nullità derivante dall'omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, previsto dall'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, Sez. T, n. 06692, Botta, Rv. 635199, ha affermato che la stessa può essere fatta valere solo impugnando tempestivamente la sentenza che conclude il giudizio, oppure proponendo l'impugnazione tardiva nei limiti e alle condizioni di cui all'art. 327 c.p.c., e che, in mancanza di tali impugnazioni, la sentenza acquista efficacia di giudicato e la sua nullità non può essere fatta valere nei giudizi di impugnazione degli ulteriori atti consequenziali adottati dall'erario sulla base della sentenza ormai passata in giudicato. 4.7. L'istruzione probatoria. 4.7.1. L'onere della prova. Sez. T, n. 13259/2015, La Torre, Rv. 635874, dopo avere chiarito che, a seguito della riforma del diritto societario operata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la cancellazione della società dal registro delle imprese, pur provocandone l'estinzione, non determina l'estinzione dei debiti della stessa nei confronti dei terzi rimasti insoddisfatti, ma un fenomeno di diritto successorio sui generis, in cui la responsabilità dei soci è limitata alla parte da ciascuno di essi conseguita nella distribuzione dell'attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione, ha affermato che, conseguentemente, l'effettiva percezione delle somme da parte dei soci in base al detto bilancio e l'entità delle 913 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO medesime devono essere provate dall'amministrazione finanziaria che agisca contro i soci per i pregressi debiti tributari della società, secondo il normale riparto dell'onere probatorio. 4.7.2. Il dovere dell'amministrazione finanziaria di esibire i documenti in suo possesso. Dando continuità a un orientamento già espresso da Sez. T, n. 21956/2010, Virgilio, Rv. 615448, Sez. T, n. 00958/2015, Virgilio, Rv. 634469, ha confermato che l'art. 6, comma 4, della legge n. 212 del 2000, secondo cui non possono essere richiesti al contribuente documenti o informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente, dovendo tali documenti essere acquisiti ai sensi dell'art. 18, commi 1 e 2, della legge n. 241 del 1990, costituisce espressione di un principio generale applicabile anche al processo tributario, e presuppone che la documentazione sia già sicuramente in possesso dell'amministrazione o che, comunque, il contribuente ne dichiari e provi l'avvenuta trasmissione alla stessa. 4.7.3. I documenti redatti in lingua straniera. Sez. T, n. 12525/2015, Cigna, Rv. 635748, ha precisato che, come nel processo civile, anche nel processo tributario l'uso della lingua italiana è obbligatorio per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti. Pertanto, nel caso di produzione di documenti redatti in lingua straniera, il giudice ha la facoltà e non l'obbligo di nominare un traduttore ai sensi dell'art. 123 c.p.c., del quale è possibile fare a meno allorquando non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata ad esso allegata dalla parte, mentre, al di fuori di tali ipotesi, è necessario nominare un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera. 4.7.4. Le dichiarazioni extraprocessuali rese dal terzo. Di rilievo la conferma del principio, già affermato da Sez. T, n. 20028/2011, Cirillo, Rv. 619627 , secondo cui, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti, di cui all'art. 111 Cost., anche al contribuente, e non solo all'amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità di introdurre nel giudizio davanti alle commissioni tributarie dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali debbono essere valutati 914 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (Sez. T, n. 21153/2015, Crucitti, Rv. 637005). Secondo Sez. T, n. 06946/2015, Cirillo, Rv. 635271, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell'avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell'ufficio. 4.7.5. Il valore probatorio delle perizie di parte e, in particolare, della relazione di stima redatta dall'UTE. Confermando la recente Sez. T, n. 14418/2014, Chindemi, Rv. 631541, Sez. T, n. 02193/2015, Terrusi, Rv. 634158, ha ribadito che nel processo tributario, nell'ambito del quale sussiste maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte del convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della propria decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente. La Corte ha, nella specie, confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto attendibili, nei limiti di quanto ulteriormente emergeva da una perizia di parte prodotta dal contribuente, le risultanze della relazione di stima di un immobile redatta dall'Ufficio tecnico erariale. 4.7.6. L'efficacia della sentenza penale irrevocabile. Due le pronunce rese dalla Corte sul tema nel corso dell'anno. La prima di esse (Sez. T, n. 02938/2015, Bruschetta, Rv. 634894) concerne l'efficacia nel processo tributario di tutte le sentenze penali irrevocabili, quale che ne sia il dispositivo, emesse con riguardo a reati relativi ai medesimi fatti posti a fondamento dell'accertamento. Secondo la Corte, tali sentenze rappresentano un semplice elemento di prova, liberamente valutabile dal giudice tributario in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva. La seconda pronuncia (Sez. T, n. 10578/2015, Greco, Rv. 635637) riguarda invece, più in particolare, l'efficacia nel processo tributario della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario con la formula «perché il fatto non sussiste». A tale proposito, la Corte ha affermato che, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, la detta 915 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sentenza non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ma può esser presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione delle prove, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui la sentenza è destinata a operare. 4.7.7. I poteri istruttori officiosi del giudice tributario. Il giudice tributario non ha l'obbligo di esercitare ex officio i poteri istruttori officiosi previsti dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, salvo che ricorra il presupposto dell'impossibilità di acquisire la prova altrimenti, come nel caso in cui una delle parti non possa conseguire documenti in possesso dell'altra (Sez. T, n. 14244/2015, Chindemi, Rv. 635973). 4.7.8. Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta. Anche nel 2015, la Corte ha proseguito la propria pluriennale opera di esame della portata delle disposizioni che prevedono limiti alla facoltà di prova in conseguenza del fatto che, nel corso dell'attività di accertamento, il contribuente ha rifiutato di esibire libri, registri, scritture o documenti. Sez. T, n. 15283/2015, Crucitti, Rv. 636041, ha riguardato, in particolare, la previsione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui: «I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto d'esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione». La Corte ha precisato che la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non possedere i citati libri, registri, documenti e scritture, inclusi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria, ne preclude la valutazione in sede amministrativa o contenziosa soltanto qualora si traduca in un sostanziale rifiuto di esibizione, connotato dal dolo, ma non qualora si fondi sull'effettiva indisponibilità del documento per caso fortuito, forza maggiore o colpa, e che, in tale secondo caso, è irrilevante, ai fini dell'utilizzabilità, anche l'omessa esibizione della documentazione una volta cessato l'impedimento. Al riguardo, va sottolineata la difformità di tale pronuncia rispetto a Sez. T, n. 21768/2009, Cicala, Rv. 610425, secondo cui il divieto di utilizzo previsto dalla disposizione citata opera non solo nell'ipotesi di rifiuto (per definizione doloso) dell'esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere i 916 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO documenti in suo possesso, o li sottragga all'ispezione, non allo scopo di impedire la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dovuto a dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, o altro). Da segnalare peraltro che, successivamente a tali due pronunce, Sez. T, n. 24503/2015, Olivieri, non ancora massimata, ha affermato il carattere «meramente apparente [della] dicotomia di indirizzi» espressi dalla Corte sul punto. Tale pronuncia, muovendo dalla premessa che «l'originario conflitto giurisprudenziale deve intendersi risolto dalle SSUU n. 45/2000, dovendo attualmente ricollegarsi esclusivamente a condotte dolose il divieto di utilizzabilità successiva della documentazione non esibita in corso di verifica», ha poi motivato il ritenuto carattere apparente del contrasto giurisprudenziale sulle circostanze che le «successive sentenze [...] hanno riportato solo tralatiziamente, senza farne applicazione al caso controverso, la massima dell'indirizzo non seguito dalle SS.UU.» e che il detto contrasto «viene, agevolmente, a ricomporsi laddove si osservi che, anche nelle sentenze [espressive di un orientamento analogo a quello, tra le altre, della sentenza n. 21768/2009], la applicazione del divieto di utilizzabilità probatoria del documento non esibito che il contribuente ha dichiarato di non possedere, viene in ogni caso ricondotta alla oggettiva non veridicità di tale dichiarazione, coincidendo in tal modo il presupposto applicativo del divieto, in entrambi gli indirizzi giurisprudenziali a confronto, in una situazione obiettiva che, stante la mancata dimostrazione della veridicità della dichiarazione attraverso le prescritte modalità, si risolve, per presunzione di legge, in un rifiuto di esibizione». La sentenza n. 24503 del 2015 si conclude pertanto ribadendo l'interpretazione dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 fornita da Sez. U, n. 00045/2000, Olla, Rv. 534393. Va infine segnalato, sul piano delle novità normative, che l'art. 6, comma 3, del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, ha stabilito che le disposizioni dell'art. 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972, e dell'art. 32, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, «non si applicano a dati, notizie, atti, registri o documenti richiesti dall'amministrazione nel corso dell'istruttoria delle istanze di interpello». 4.8. La sospensione, l'interruzione e l'estinzione del processo. 4.8.1. La sospensione del processo. In tema di sospensione in dipendenza del rapporto di pregiudizialità esistente tra processi tributari, va segnalata Sez. T, n. 16615/2015, Federico, Rv. 636825, la quale, andando in contrario avviso rispetto a Sez. T, n. 16329/2014, Olivieri, Rv. 632247, nonché a Sez. U, n. 21348/2012, Berruti, Rv. 624129, e Sez. 6-1, n. 06207/2014, Bisogni, Rv. 630017 (queste ultime riguardanti il rapporto di 917 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO pregiudizialità tra processi non tributari), ha cassato con rinvio la sentenza che aveva deciso la causa pregiudicata (avente ad oggetto, nella specie, un provvedimento d'irrogazione di sanzioni) in base alla decisione, non ancora passata in giudicato, della causa pregiudiziale (che, nella specie, aveva annullato l'accertamento di maggiori utili in capo a una società di capitali, cioè l'atto presupposto delle sanzioni irrogate), affermando che, in tale ipotesi, il processo pregiudicato doveva essere sospeso ai sensi dell'art. 295 c.p.c., atteso che i principi del giudicato esterno consentono di attribuire efficacia riflessa alle sole sentenze definitive. Il precedente della sezione tributaria sopra citato aveva invece affermato che, quando tra due giudizi tributari esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante (relativo, nella specie, all'accertamento di un credito d'imposta, evidenziato nella dichiarazione del 1998) sia stato definito con sentenza, sebbene non ancora passata in giudicato, la sospensione del processo pregiudicato (che aveva a oggetto, nella specie, la cartella di pagamento per l'annualità successiva) è possibile soltanto ai sensi dell'art. 337 c.p.c. e non dell'art. 295 dello stesso codice. Anche gli altri due ulteriori arresti citati avevano ritenuto che, nel caso in cui esista, tra due giudizi, un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato sia possibile – salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione specifica – soltanto ai sensi dell'art. 337 c.p.c.. Da segnalare, sullo specifico tema, che l'art. 9, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 156 del 2015, ha aggiunto all'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992 un nuovo comma 1 bis, il quale, riproducendo, nella sostanza, il contenuto dell'art. 295 c.p.c.., ha introdotto nel processo tributario un'ulteriore ipotesi di sospensione necessaria, che si aggiunge a quella già prevista dal comma 1 dello stesso art. 39 (secondo il nuovo comma 1 bis, «La commissione tributaria dispone la sospensione del processo in ogni altro caso in cui essa stessa o altra commissione tributaria deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa»). Inoltre, con l'aggiunta, allo stesso art. 39, di un comma 1 ter, si è stabilito che, su richiesta conforme delle parti, il processo sia sospeso nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni oppure quando sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione relativa all'eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990. 918 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 4.8.2. L'interruzione del processo. Sez. 6-T, n. 20358/2015, Caracciolo, Rv. 636909, ha affermato che, qualora in pendenza del giudizio intervenga l'estinzione della società contribuente (nella specie, di capitali), il giudice, a fronte del venir meno della capacità di stare in giudizio della stessa, deve disporre l'interruzione del processo ai sensi degli artt. 299 e seguenti c.p.c., al fine di consentire alla parte pubblica, che ne abbia interesse, di riassumerlo nei confronti dei soci subentrati alla società estinta a norma degli artt. 2495 c.c.. e 110 c.p.c., non potendo escludere la possibilità del fenomeno successorio in base al solo esame del bilancio di liquidazione. A proposito della ripresa del processo interrotto, Sez. 6-T, n. 12672/2015, Cicala, Rv. 635747, ha precisato che la riassunzione di tale processo ha luogo con la mera presentazione al presidente della sezione dell'istanza di trattazione, da effettuarsi entro sei mesi dal provvedimento che dichiara l'interruzione, spettando alla segreteria della commissione tributaria l'onere di comunicare alle parti la data della nuova udienza. 4.8.3. L'estinzione del processo. Sez. T, n. 04574/2015, Crucitti, Rv. 634673, ha precisato che, qualora la definitività dell'accertamento derivi non da una sentenza passata in giudicato ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti (art. 45, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992), alla riscossione delle imposte e delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie non si applica il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall'art. 2953 c.c. (sugli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi). 4.9. La deliberazione della decisione. Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636613, ha affermato che, nel caso di rinvio della deliberazione in camera di consiglio, il ritardo della stessa (nella specie, da parte della commissione tributaria regionale), in quanto adottata oltre trenta giorni dall'udienza pubblica di discussione o dall'esposizione del relatore (ove non vi sia stata pubblica udienza) – termine previsto dall'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 – non costituisce una violazione del diritto di difesa del contribuente, lasciando intatti il suo potere di impugnare e i relativi termini. 4.10. La decisione. Di notevole importanza, che trascende l'ambito dei provvedimenti giurisdizionali delle commissioni 919 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO tributarie, riguardando, oltre ad essi – e anzitutto – le sentenze e i provvedimenti giurisdizionali civili, Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, con la quale il massimo collegio della Corte si è pronunciato sulla questione relativa alla nullità o no della sentenza la cui motivazione sia costituita esclusivamente dalla riproduzione di un atto di parte (pronuncia che era stata invocata con l'ordinanza interlocutoria Sez. T, n. 01531/2014, Cirillo). Secondo il principio affermato – e dalla Corte espressamente riferito, come accennato, anche ai provvedimenti giurisdizionali delle commissioni tributarie «in virtù del rinvio al codice di procedura civile contenuto nell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 ed in assenza di diverse disposizioni in materia nel suddetto decreto ovvero di incompatibilità con le previsioni di esso» – la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza nulla aggiungervi, non è nulla, sempre che, in tale modo, le ragioni della decisione siano comunque attribuibili al giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo. Il collegio ha fondato la propria decisione sul rilevo che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione del provvedimento giurisdizionale non può, di per sé, ritenersi sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, considerato anche che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto a quello della valutazione professionale o disciplinare del magistrato. In senso conforme a tale pronuncia, si è successivamente espressa anche Sez. T, n. 09334/2015, Di Iasi, Rv. 635474. Sul medesimo tema della motivazione della sentenza per relationem ad un atto di parte o ad altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, vanno segnalate altre tre pronunce delle sezioni semplici sesta-tributaria e tributaria, una anteriore e due posteriori all'arresto delle Sezioni unite. Con la prima di esse, la Corte ha affermato che la motivazione della sentenza può essere redatta per relationem ad altra sentenza non ancora passata in giudicato, purché rimanga autosufficiente, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica. Qualora la sentenza si limiti invece alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, perciò, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo, 920 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO essa è nulla, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4),c.p.c. (Sez. 6-T, n. 00107, Conti, Rv. 633996). Con la seconda pronuncia, la Corte, senza menzionare il citato precedente delle Sezioni unite, ha ritenuto che la sentenza motivata per relationem mediante mera adesione acritica all'atto d'impugnazione, senza indicazione né della tesi in esso sostenuta, né delle ragioni della condivisione, è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. (così dovendosi inquadrare la censura del contribuente, nonostante l'erroneo riferimento, dallo stesso operato, al n. 5 di tale comma), essendo nulla per violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c., in quanto corredata da motivazione solo apparente (Sez. T n. 20648/2015, Federico, Rv. 636648). Con la terza pronuncia, la Corte ha affermato che nei processi civile e tributario la sentenza motivata mediante la trascrizione delle deduzioni di parte, consistenti nel rinvio a tutte la argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo, è nulla, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4)c.p.c., per violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4), e 36, comma 1, n. 4), del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto non consente d'individuare in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni, attribuibili al giudicante, su cui si fonda la decisione (Sez. 6-T, n. 22652/2015, Crucitti, Rv. 637064). Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto «non utilmente invocabili» in senso contrario i principi affermati dal precedente delle Sezioni unite. Sempre a proposito del contenuto della sentenza, Sez. 6-T, n. 00929/2015, Perrino, Rv. 634142, richiamando il principio, espresso da Sez. T, n. 22845/2010, Bertuzzi, Rv. 615819, secondo cui la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa non costituisce un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzare esclusivamente in funzione dell'intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura un motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che si riferiva, genericamente, a una cartella di pagamento per IRPEF 2007, senza precisare la natura del carico tributario e, in particolare, se si trattasse dell'imposta o delle relative sanzioni. Da segnalare anche Sez. 6-T, n. 25707/2015, Caracciolo, in corso di massimazione, che, richiamando il principio già affermato da Sez. T, n. 04442/2010, Bognanni, Rv. 611651, ha escluso che l'utilizzo, da parte del giudice tributario, dell'apprezzamento 921 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO equitativo ai fini dell'espressione di un giudizio di stima (nella specie, relativa al valore di un'unità abitativa, ai fini della determinazione della plusvalenza realizzata mediante la cessione a titolo oneroso della stessa entro il quinquennio dall'acquisto) possa costituire violazione dell'art. 113 c.p.c. Vanno infine in questa sede menzionati due arresti riguardanti il provvedimento del giudice tributario con il quale è dichiarata l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere. Quanto alle condizioni per l'adozione di tale pronuncia, Sez. 6-T, n. 05188/2015, Conti, Rv. 634695, ha affermato che nel processo tributario, come in quello civile, la cessazione della materia del contendere presuppone, da un canto, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l'interesse alla pronuncia di merito richiesta e, dall'altro, che le parti formulino conclusioni conformi. Da ciò deriva che l'allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, al quale spetterà o dichiarare l'avvenuto soddisfacimento del diritto azionato o, in caso contrario, pronunciarsi sul merito dell'azione. A proposito degli effetti della stessa pronuncia, Sez. T, n. 05641/2015, Valitutti, Rv. 634954, ha chiarito che l'estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, conseguente allo sgravio, in via di autotutela, del debito fiscale, determina la caducazione delle pronunce eventualmente emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in giudicato, ma non è idonea ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale, eccezione fatta per l'accertamento del venir meno dell'interesse alla prosecuzione del giudizio. 5. Le impugnazioni. 5.1. Il giudizio di appello. La giurisprudenza della Corte sul giudizio di appello ha investito aspetti vari dello stesso, dalle questioni sulla proposizione a quelle sulla legittimazione ad appellare, da quelle attinenti a ciò che è rilevabile di ufficio o solo su eccezione di parte a quelle sui poteri istruttori del giudice e sul litisconsorzio. 5.1.1. La proposizione. Sez. T, n. 11252/2015, Valitutti, Rv. 635675, ha affermato che l'appello notificato con deposito dell'atto presso la segreteria del giudice dell'impugnazione ai sensi dell'art. 17, comma 3, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anziché con le forme 922 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO di cui all'art. 330 c.p.c., è inammissibile, mancando il requisito del concreto collegamento con il destinatario della notifica, atteso che si tratta di luogo presso il quale il giudizio non è stato ancora instaurato. Inoltre, la notifica effettuata con tali modalità non è neppure suscettibile di sanatoria o rinnovazione. A partire dal 3 dicembre 2005 è entrata in vigore la disposizione di cui all'art. 3 bis, comma 7, d. l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito in legge 2 dicembre 2005, n. 248 (oggi abrogata dal d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175), secondo cui, ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell'atto di appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata. Sez. T, n. 05347/2015, Tricomi, Rv. 635060 ha statuito che tale norma si applica ai soli ricorsi successivi alla sua entrata in vigore. Sez. 6-T, n. 24669/2015, Caracciolo, Rv. 637593, ha specificato che per deposito della copia dell'atto di appello non si deve intendere necessariamente un deposito effettuato con consegna diretta e personale da parte del ricorrente, ma l'adempimento può essere soddisfatto anche con la spedizione per posta, tale dovendosi ritenere lo spirito dell'art. 53 del d. lgs. 546 del 1992. Quando, poi, l'impugnazione di una sentenza non sia stata notificata presso il domicilio eletto, ma presso il procuratore non domiciliatario, la notifica non è inesistente, atteso che comunque il luogo esprime un collegamento con il destinatario, ma è affetta da nullità sanabile ex tunc con il raggiungimento dello scopo dell'atto, con rinnovazione della notifica o con la costituzione dell'intimato (Sez. T, n. 09083/2015, Ferro, Rv. 635473). Per contro, la costituzione, nel caso di appello notificato a mezzo posta, mediante deposito dell'avviso di ricevimento del plico, in luogo del prescritto avviso di spedizione, non costituisce motivo di inammissibilità dell'impugnazione, atteso che anche l'avviso di ricevimento riporta la data della spedizione ed assolve, pertanto, la funzione probatoria prevista dalla norma (Sez. T, n. 05376/2015, Ferro, Rv. 634694). Se, poi, la notifica dell'atto di appello è inesistente, l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile poiché deve presumersi la mancata conoscenza del processo da parte del convenuto contumace, salva prova contraria a carico dell'appellante. In difetto di tale prova, quindi, anche la sentenza di appello deve considerarsi nulla (Sez. T, n. 20672/2015, Bruschetta, Rv. 636647). 923 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Sez. T, n. 23752/2015, Perrino, non ancora massimata, ha ritenuto ammissibile l'appello consegnato all'Amministrazione in copia fotostatica, se la copia depositata presso la segreteria della Commissione tributaria rechi la sottoscrizione autografa del contribuente ricorrente. Se, inoltre, la copia del ricorso depositata ai fini della costituzione in giudizio non reca la sottoscrizione in originale del ricorrente o del suo difensore, secondo Sez. T, n. 04078/2015, Scoditti, Rv. 634969, non si determina comunque inammissibilità del ricorso, costituendo tale fatto una mera irregolarità, atteso che l'art. 18, comma 3, d. lgs. n. 546 del 1992 richiede la sottoscrizione in originale solo sulle copie dell'atto destinate alle parti e non sulla copia depositata ai fini della costituzione in giudizio. Sez. T, n. 24770/2015, Greco, non ancora massimata, ha ritenuto che l'omessa allegazione all'atto di appello della sentenza impugnata non determina l'inammissibilità del gravame, atteso che tale adempimento non è espressamente imposto da alcuna norma e che l'art. 53 del d.lgs. 546 del 1992, nel prevedere che il fascicolo trasmesso dalla commissione di primo grado a quella di appello debba includere copia della sentenza anzidetta, costituisce sicuro elemento utile al fine di esonerare dal medesimo onere l'appellante Sez. T, n. 15432/2015, Bielli, Rv. 636040 ha, invece, ritenuto che se l'appello principale è inammissibile per mancato deposito dell'atto di impugnazione nella segreteria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, è inammissibile anche l'appello incidentale ugualmente non depositato, atteso che la normativa applicabile ratione temporis richiedeva anche all'appellante incidentale, pur se tempestivo, tale incombenza. 5.1.2. La legittimazione ad appellare, la capacità a stare in giudizio e la partecipazione dell'Agenzia delle Entrate. E' stato ritenuto ammissibile l'appello proposto da un ufficio dell'Agenzia delle Entrate diverso da quello nei cui confronti è stata emessa la sentenza, avendo la Corte ritenuto che il carattere unitario dell'Agenzia e la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte all'organo nel suo complesso e non alle singole articolazioni territoriali, consentano di giungere a tale conclusione (Sez. T, n. 04862/2015, Valitutti, Rv. 635056). Allo stesso modo, è stata ritenuta valida la notifica di un appello ad un ufficio territoriale dell'Agenzia delle Entrate diverso da quello che ha emesso l'atto impugnato, atteso che tutti gli uffici 924 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO periferici dell'Agenzia hanno la capacità di stare in giudizio. (Sez. 6- T, n. 01113/2015, Perrino, Rv. 634160). In effetti, sulle notifiche alla parte pubblica, anche Sez. T, n. 18936/2015, Olivieri, Rv. 636560, ha statuito che possono essere effettuate sia presso la sede centrale dell'Agenzia che presso l'ufficio periferico, indipendentemente dalle modalità con cui l'Agenzia si era costituita nel precedente grado di giudizio, atteso che l'alternativa tra notifica a mani proprie o nel domicilio eletto opera per tutte le parti. Nella specie, trattandosi della notifica della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione, la stessa è stata calcolata dalla notifica avvenuta presso l'ufficio periferico, pur avendo partecipato al giudizio la direzione regionale. In merito alla capacità di stare in giudizio, Sez. T, n. 19445/2015, Bruschetta, Rv. 636546, ha ritenuto che un ente locale può stare in giudizio, anche in grado di appello, mediante il Dirigente responsabile dell'Ufficio che si occupa dello specifico tributo oggetto di lite. Quanto alla questione della successione dell'Agenzia delle Entrate al Ministero delle Finanze, Sez. T, n. 06196/2015, Valitutti, Rv. 635006, ha ritenuto che se l'appello è stato proposto nei soli confronti dell'Agenzia delle Entrate, si verifica l'implicita estromissione del Ministero dal processo. Sul punto, va rilevato che la nuova disciplina del processo tributario, di cui al d. lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in vigore dall'1 gennaio 2016, chiarisce definitivamente la questione, prevedendo espressamente l'eliminazione del riferimento all' ufficio del Ministero delle Finanze, sostituito con Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane e Monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, o, comunque, enti impositori o agenti della riscossione. 5.1.3. Litisconsorzio. Quanto, poi, ai casi di litisconsorzio processuale, l'omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l'inammissibilità dell'appello, ma la necessità per il giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio, pena la nullità del giudizio di appello (Sez. T, n. 10934/2015, Scoditti, Rv. 635458). Sez. T, n. 21975/2015, Iofrida, Rv. 637009, ha, poi, ritenuto che, in caso di integrazione del contraddittorio ordinata dal giudice, nella specie nei confronti del concessionario della riscossione da parte dell'ente impositore per motivi attinenti a vizi formali della cartella rimasti assorbiti nel giudizio di primo grado, il mancato 925 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO adempimento dell'ordine comporta l'estinzione del giudizio di appello e, conseguentemente, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Sez. T, n. 18361/2015, Greco, Rv. 636556, già citata al paragrafo 3.4, in un caso relativo alla legittimità della quota di ritenuta fiscale trattenuta da un comune sull'indennità di esproprio di immobili di più proprietari, ha sancito che contraddittore degli stessi è l'Amministrazione finanziaria dello Stato, mentre l'ente locale è soltanto sostituto di imposta e non litisconsorte necessario. Non si è quindi in presenza di una causa inscindibile e non vi è obbligo di disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti neppure in secondo grado, una volta decorso il termine per l'impugnazione, per cui se il giudizio di appello si svolge senza la partecipazione dello stesso, non vi è alcuna violazione dell'art. 53 del d. lgs. n. 546 del 1992, secondo il quale l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado. La distinzione tra cause scindibili ed inscindibili in appello torna anche nella sentenza della Sez. T, n. 15292/2015, La Torre, Rv. 636035, secondo cui, nelle cause scindibili o indipendenti, l'appello incidentale tardivo non può determinare un'estensione soggettiva del giudizio e non può quindi essere proposto contro parti diverse da quelle che hanno proposto l'impugnazione in via principale. 5.1.4. Tempestività dell'impugnazione. A proposito della tempestività dell'impugnazione, Sez. T, n. 04310/2015, Valitutti, Rv. 634909, ha ritenuto che il termine di cui all'art. 327 c.p.c., applicabile in virtù del rinvio alle norme del codice contenuto nella disciplina del processo tributario, va calcolato prescindendo dal numero di giorni da cui è composto ciascun mese, ed aggiungendo quarantasei giorni corrispondente al termine di sospensione dei termini processuale durante il periodo feriale applicabile ratione temporis alla controversia in questione. In caso di erronea notifica della sentenza per errore sulla norma processuale, con conseguente tardività dell'impugnazione, invece, non è applicabile l'istituto della rimessione in termini per l'impugnazione, non trattandosi di fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte (Sez. T, n. 08151/2015, Olivieri, Rv. 635306). Secondo Sez. T, n. 20040/2015, Iofrida, Rv. 636840, le regole sull'impugnazione tardiva di cui all'art. 334 c.p.c. e 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto, cioè 926 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l'impugnazione; per il ricorso adesivo di una parte a quello principale si applica, invece, la disciplina di cui all'art. 325 c.p.c. 5.1.5. Comunicazioni alle parti. Le sentenze della Corte sul punto riguardano essenzialmente casi di omessa comunicazione alle parti di momenti essenziali del processo. Sez. T, n. 06692/2015, Botta, Rv. 635199, già citata al paragrafo 4.6, in un caso di omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di fissazione dell'udienza, oltre ad affermare la nullità, ha concluso che la stessa può essere fatta valere solo impugnando tempestivamente la sentenza conclusiva del giudizio o proponendo l'impugnazione tardiva ai sensi dell'art. 327 c.p.c. In merito allo svolgimento del giudizio di appello nelle forme della pubblica udienza, senza che però sia stato dato preventivo avviso alla parte, si verifica una nullità processuale che travolge la sentenza per violazione del diritto di difesa. Non determina però la retrocessione del processo allo stesso grado di appello (Sez. T, n. 27496/2015, Meloni, Rv. 633674). 5.1.6. Svolgimento del giudizio. In una serie di decisioni, la Corte si è occupata del problema delle questioni rilevabili d'ufficio o solo su eccezione di parte nel processo di appello. In particolare, il decorso del termine di decadenza per l'esercizio del potere impositivo da parte dell'amministrazione fiscale è stato ritenuto non rilevabile di ufficio né proponibile per la prima volta in appello dalla parte, atteso che lo spirare di tale termine non riguarda diritti indisponibili dello Stato alla percezione di tributi, ma riguarda solo il diritto del contribuente a non essere esposto alle pretese del fisco senza limiti di tempo. Si tratta, quindi, di eccezione in senso proprio spettante alla parte e, appunto, non rilevabile di ufficio (Sez. 6-T, n. 00171/2015, Cosentino, Rv. 634246). Anche la domanda di riduzione di imposta, in tema di ICI, di cui all'art. 8 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 è stata ritenuta non proponibile per la prima volta in appello e non rilevabile d'ufficio, determinando un mutamento del fatto costitutivo della pretesa (Sez. T, n. 16236/2015, Di Blasi, Rv. 636095). La censura di nullità del provvedimento impugnato per mancato espletamento del contraddittorio anticipato con il contribuente è stata ritenuta, ugualmente, eccezione in senso stretto atteso che riguarda l'invalidità dell'atto per violazione di norme 927 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO procedimentali e non la contestazione della pretesa tributaria, e, quindi, inammissibile ove proposta per la prima volta in appello (Sez. T, n. 19414/2015, Olivieri, Rv. 636603), né rilevabile di ufficio. Ed ancora, in un giudizio di impugnazione di diniego di rimborso IVA, la deduzione da parte dell'Ufficio del fatto che la somma versata a titolo di imposta dovesse essere assoggettata al meccanismo del pro rata, non è stata ritenuta ammissibile in quanto proposta per la prima volta in appello, trattandosi di eccezione in senso stretto (Sez. T, n. 14231/2015, Bielli, Rv. 635967). La decadenza del contribuente dalla possibilità di chiedere il rimborso di un tributo indebitamente versato, determinata dal mancato rispetto dei termini fissati per l'istanza, è stata considerata, invece, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto materia sottratta alla disponibilità delle parti, e quindi deducibile per la prima volta anche in appello (Sez. 6-T, n. 00317/2015, Cicala, Rv. 634139, che ha confermato un orientamento consolidato). Allo stesso modo, la mancanza di data certa della scrittura privata non autenticata, in quanto ha valore di fatto impeditivo del riconoscimento del diritto, è stata ritenuta eccezione in senso lato, e quindi rilevabile di ufficio dal giudice anche in appello (Sez. T, n. 03404/2015, Virgilio, Rv. 634734). In termini più generali, la Corte ha poi precisato che nel processo d'appello, la nuova difesa del contribuente, non riconducibile all'originaria causa petendi e fondata su fatti diversi da quelli dedotti in primo grado che ampliano la materia del contendere, non integra un'eccezione, ma una nuova domanda attraverso un motivo aggiunto, ed è quindi inammissibile (Sez. T, n. 13742/2015, Bruschetta, Rv. 635832). In tema di sanzioni, per esempio, Sez. T, n. 01570/2015, Cirillo, Rv. 634346, ha ritenuto che il contribuente che alleghi, quale esimente, il fatto di essersi conformato ad indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione, deve dedurre tempestivamente la questione nel giudizio, e non può proporla per la prima volta in appello. Negli stessi termini, in un caso in cui si discuteva dell'esimente dell'errore sulla norma tributaria per obiettiva incertezza sulla portata ed ambito delle norme cui la violazione si riferiva, anche Sez. T, n. 00440/2015, Cirillo, Rv. 634427). Diversamente, il fatto che il contribuente avesse aderito al condono ex art. 7 legge 289 del 2002, in un giudizio promosso dallo 928 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO stesso contribuente di impugnazione del silenzio rifiuto su un'istanza di rimborso, è stato ritenuta questione di ordine pubblico, e quindi rilevabile di ufficio e proponibile per la prima volta in appello (Sez. T, n. 20650/2015, La Torre, Rv. 636896). Altra questione di cui si è occupata la Corte, è, invece, quella relativa all'interpretazione del concetto di proposizione di una questione o eccezione in appello, su cui la parte sia rimasta soccombente in primo grado. Ai sensi dell'art. 56 d. lgs 546 del 1992, infatti, le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate e su di esse scende, di conseguenza, il giudicato. Sez. T, n. 23228/2015, Terrusi, Rv. 637431, si è occupata di un caso relativo ad un accertamento di maggiore imposta di registro per decadenza dai benefici fiscali. La contribuente aveva eccepito in primo grado la decadenza dell'Amministrazione dalla pretesa impositiva. Soccombente davanti alla Commissione provinciale su questo aspetto, ma vittoriosa nel merito, nel giudizio di appello la stessa si limitava a riproporre l'argomento della decadenza, ma senza proporre appello incidentale. Soccombente in appello anche nel merito, ricorreva in Cassazione deducendo nuovamente l'errata applicazione della norma sulla decadenza dalla pretesa impositiva. La Corte rilevava che, in sede di giudizio di appello, la stessa avrebbe dovuto proporre appello incidentale sul punto, atteso che con l'espressione questioni non accolte l'art. 56 intende riferirsi a quelle proposte dalla parte e sui cui il giudice di primo grado non si è pronunciato, per esempio perché le ha ritenute assorbite. Quelle su cui, invece, vi è stata una espressa pronuncia devono essere impugnate tramite appello o appello incidentale, pena il formarsi del giudicato. Negli stessi termini anche Sez. T, n. 24267/2015, Terrusi, Rv- 637561, secondo cui la riproposizione specifica delle questioni in appello, se può avvenire per relationem, non può però consistere in un mero richiamo generico alle difese ed agli atti del giudizio di primo grado. 5.1.7. Istruttoria. In altre decisioni, la Corte si è occupata dell'istruttoria nel processo di appello. Sez. T, n. 03661/2015, Chindemi, Rv. 634467 ha, in particolare, affrontato il problema della produzione dei documenti, affermando che i documenti tardivamente prodotti in primo grado, se prodotti in sede di appello entro il termine perentorio di venti giorni liberi prima dell'udienza, ed acquisiti al fascicolo processuale, 929 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sono utilizzabili dal giudice di appello per fondare la propria decisione. Sez. T, n. 25491/2015, Zoso, non ancora massimata, ha ritenuto ammissibile, ai sensi dell'art. 58 d. dgs. 546 del 1992, la produzione in appello di un documento, nei limiti in cui la stessa non riguardi l'introduzione di una domanda nuova, e non violi pertanto l'art. 57 d. lgs. 546 del 1992. Per contro, Sez. 5, n. 25464/2015, Federico, non ancora massimata, ha rilevato che, in caso di mancata produzione di un documento ad opera di una delle parti sia nel processo di primo grado che di appello, non è più consentito al giudice di appello ordinarne di ufficio la produzione ai sensi dell'art. 58 d. lgs. 546 del 1992, atteso che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 7, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il giudice non può sopperire con la propria iniziativa officiosa all'inerzia delle parti. 5.1.8. La deliberazione e la sentenza. Sulla conclusione del giudizio di appello, Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636613 ha affermato che la ritardata deliberazione in camera di consiglio oltre trenta giorni dall'udienza di discussione o dall'esposizione del relatore (se non vi è stata udienza pubblica) non costituisce violazione del diritto di difesa del contribuente, lasciando intatti il potere di impugnare ed i relativi termini. La Corte si è anche occupata dei vizi della sentenza, inclusa quella di appello, ritenendo che la stessa deve sempre avere il requisito della autosufficienza anche quando è redatta per relationem, con riferimento o ad altra sentenza non ancora definitiva o con adesione all'atto di impugnazione, nel senso che la stessa deve contenere una autonoma valutazione degli elementi da cui prende spunto ed una valutazione critica degli stessi permettendo di ricostruire l'iter logico seguito per la decisione; la mera motivazione per relationem diventa invece motivazione apparente affetta da nullità ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. (Sez. 6-T, n. 00107/2015, Conti, Rv. 633996; Sez. T, n. 20648/2015, Federico, Rv. 636648). Quanto alla motivazione della sentenza di appello, Sez. T, n. 25889/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha rilevato che, mentre un vizio motivazionale circa l'accertamento di esistenza o di inesistenza di un fatto decisivo e controverso è rilevante come vizio della sentenza impugnata, ben diverso è il vizio consistente nella errata o insufficiente motivazione giuridica. In tal caso, lo stesso è irrilevante, tant'è vero che la Corte ai sensi dell'art. 384, comma 4, 930 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO c.p.c. deve soltanto correggere o integrare la decisione, se la stessa è conforme a diritto. Secondo sez. T, n. 26066/2015, Di Blasi, non ancora massimata, ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell'art.360, comma I n.5 cpc, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. Sez. T, n. 26077/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha ritenuto che la sentenza di appello è nulla se il dispositivo non contiene una precisa determinazione del diritto che riconosce o del bene che intende far conseguire, così da lasciare assoluta incertezza sul contenuto e sulla portata della decisione e, quindi, sul concreto comando giudiziale. 5.1.9. L'estinzione. Sez. 6-T, n. 22368/2015, Caracciolo, Rv. 637058, ha ritenuto che, in caso di estinzione del processo di appello per inattività delle parti, l'effetto che si produce è quello della cristallizzazione della situazione giuridica così come determinata dalla sentenza di primo grado, che acquista autorità di cosa giudicata. 5.2. Il giudizio di cassazione. 5.2.1. La proposizione. La Corte si è occupata di alcune questioni legate agli atti prodromici ed introduttivi del giudizio di cassazione. Innanzi tutto ha premesso che al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie regionali si applicano le norme del codice di procedura civile, e quindi, con riferimento al luogo della notificazione, l'art. 330 c.p.c. (Sez. T, n. 01972/2015, Terrusi, Rv. 634666). Ha poi affermato che quando nel giudizio di appello l'Agenzia delle Entrate ha partecipato senza l'assistenza dell'Avvocatura dello Stato, la sentenza di appello può essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per il ricorso in cassazione, sia presso la sede centrale dell'agenzia che presso l'ufficio periferico che, in quanto organo del primo, ha pari capacità di stare in giudizio (Sez. T, n. 00441/2015, Cirillo, Rv. 634432). Il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell'Economia e Finanze anziché dell'Agenzia delle Entrate è stato considerato inammissibile poiché tutti i rapporti 931 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO giuridici del primo sono stati trasferiti alla seconda a partire dall'1 gennaio 2001 (Sez. T, n. 01550/2015, Scoditti, Rv. 634617). Sez. T, n. 25478/2015, Terrusi, non ancora massimata, ha ritenuto che il ricorso per cassazione instaurato nei confronti di un soggetto ritenuto erroneamente avere soggettività giuridica (nella specie, un trust nella disciplina anteriore al 2006), raggiunge tuttavia lo scopo e non è, quindi, inammissibile, se la controparte dotata di soggettività giuridica (nella specie, il trustee persona fisica) si costituisce in giudizio, sicché può essere esaminato nel merito. Quanto al requisito della "indicazione delle parti" previsto a pena di inammissibilità del ricorso in cassazione dall'art. 366 n. 1 c.p.c., Sez. 6-T, n. 25399/2015, Cosentino, non ancora massimata, ha ritenuto, in conformità ad orientamento costante, che la sola indicazione del nome e cognome è sufficiente a soddisfare quanto richiesto dalla norma, non essendo necessaria l'indicazione di altri elementi quali la residenza della persona fisica (o la sede della società) e, tanto meno, del codice fiscale. In materia di tempestività della notifica, Sez. T, n. 19060/2015, Cigna, Rv. 636563 ha affermato, in un caso di ricorso proposto con il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., che se il primo tentativo di notifica non vada a buon fine per cause non imputabili al notificante, questi ha la facoltà e l'onere di richiedere una nuova notifica e di provare che il mancato perfezionamento della prima non gli sia addebitabile. Tale prova, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere data tramite la produzione dell'avviso di ricevimento entro l'udienza di discussione, senza che la stessa possa essere rinviata per tale motivo, salvo che il ricorrente abbia ottenuto la rimessione in termini se ne ricorrono i presupposti (Sez. T, n. 19623/2015, Cirillo, Rv. 636610). Sez. T, n. 03755/2015, Federico, Rv. 634563, ha rilevato il momento di perfezionamento della notifica per il notificante, ai fini della valutazione sulla tempestività, nella consegna all'ufficiale giudiziario dell'atto da notificare, la cui prova può essere ricavata dal timbro da questi apposto sull'atto recante il numero cronologico e la data, anche se privo di sottoscrizione. A pena di improcedibilità, poi, con il ricorso deve essere depositata anche copia autentica della sentenza impugnata, incombente che non può essere sostituito dal fatto che la sentenza sia già nel fascicolo di ufficio o sia stata depositata da controparte (Sez. T, n. 14207/2015, Botta, Rv. 635796). 932 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Se la copia autentica della sentenza impugnata, depositata dal ricorrente, è incompleta, il ricorso è improcedibile (Sez. T, n. 01012/2015, Marulli, Rv. 634032). Sez. T, n. 03425/2015, Sambito, Rv. 634476 ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione la cui copia trasmessa per telefax dall'Avvocatura dello Stato era priva della firma del titolare dell'ufficio ricevente o suo sostituto, avendo ritenuto che la trasmissione tramite mezzi di telecomunicazione di atti giudiziari da parte dell'Avvocatura è sottoposta, a pena di inammissibilità, al doppio requisito che l'atto sia firmato dall'avvocato dello Stato che lo ha redatto e che la copia fotoriprodotta sia sottoscritta dal funzionario titolare dell'ufficio ricevente. Infine, va ricordato che Sez. T, n. 16032/2015, Cirillo, Rv. 636342 ha affermato che un ricorso per cassazione tardivo, ancorché basato sulla compatibilità della decisione impugnata con la disciplina comunitaria, resta inammissibile, atteso che il diritto comunitario non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata. 5.2.2. I motivi di ricorso. Quanto ai motivi di ricorso, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi su quello di omessa pronuncia da parte del giudice di appello, integrante violazione dell'art. 112 c.p.c., che ricorre quando l'esame di una censura mossa alla sentenza di primo grado è del tutto assente nella sentenza di appello, ma non quando il giudice di appello fonda la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda (Sez. T, n. 00452/2015, Crucitti, Rv. 634428). Invece, il ricorso con cui sia stato denunciato l'errore del giudice di merito sulla percezione di documenti agli atti, è stato ritenuto inammissibile, non corrispondendo tale vizio ad alcuno dei motivi di ricorso di cui all'art. 360 c.p.c., ed integrando, piuttosto, un possibile motivo di revocazione (Sez. T, n. 20240/2015, Olivieri, Rv. 636661). Sez. T, n. 26110/2015, Olivieri, non ancora massimata, ha marcato la differenza tra errore di fatto ed errore di diritto, esplicitando che il primo consiste nella errata valutazione delle risultanze probatorie, mentre il secondo consiste nella errata o inesatta individuazione della norma di riferimento alla fattispecie, o nella errata interpretazione della stessa, ed ha ribadito l'orientamento secondo cui il primo vizio è deducibile solo come vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. 933 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO In ossequio al dettato di cui all'art. 360-bis c.p.c., poi, Sez. T, n. 23586/2015, Terrusi, Rv. 637474, ha ritenuto inammissibile – e non infondato nel merito, difformemente dal precedente Sez. U, n. 19051/2010, Vittoria, Rv. 614183 - il ricorso che non conteneva alcun elemento tale a superare il costante orientamento giurisprudenziale formatosi ed applicato nei gradi di merito (nella specie, in materia di impugnazione di attribuzione di categoria catastale di immobile rurale ai fini dell'ICI). Da rimarcare, al riguardo, l'intervento della novella del processo tributario di cui al d.lgs 24 settembre 2015, n. 156, sul ricorso in cassazione, applicabile a partire dall'1 gennaio 2016, la quale prevede, in primo luogo, la possibilità del ricorso per saltum, per cui su accordo delle parti anche le sentenze di primo grado possono essere impugnate direttamente in cassazione; in secondo luogo, però, ciò potrà avvenire solo per il motivo di cui all'art. 360 comma 1, n. 3 c.p.c., e quindi per falsa applicazione di legge. 5.2.3. I requisiti del ricorso: il principio di autosufficienza. In merito ai requisiti del ricorso per cassazione, in varie sentenze la Corte si è occupata del requisito dell'autosufficienza: Sez. T, n. 02928/2015, Meloni, Rv. 634343, e Sez. T, n. 16010/2015, Bruschetta, Rv. 636268 hanno rilevato che sono inammissibili, per difetto di tale requisito, ricorsi contro sentenze che hanno ritenuto correttamente motivati o comunque legittimi degli atti impositivi, se è omessa la trascrizione del contenuto di questi ultimi. Sez. T, n. 02617/2015, Bruschetta, Rv. 634157 ha affermato che, se nel ricorso si rileva la avvenuta formazione di un giudicato esterno, il ricorrente ha l'onere, a pena di inammissibilità, di riprodurre il testo della sentenza che si assume essere divenuta definitiva, senza che sia sufficiente un riassunto sintetico della stessa. Sez. T, n. 14784/2015, Marulli, Rv. 636120 ha dato una definizione generale del principio di autosufficienza nel ricorso in cassazione, affermando che lo stesso significa che il ricorso «deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di fare rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso». In base a tale principio, il ricorrente ha l'onere di dare il quadro completo dei motivi e degli elementi che li sorreggono, anche sotto il profilo della produzione dei necessari documenti. 934 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Sez. T, n. 23575/2015, Napolitano, Rv. 637488, ha precisato che il requisito di cui all'art. 366 n. 6 c.p.c., secondo cui il ricorso deve contenere la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda non è soddisfatto con il mero deposito della sentenza impugnata ed il richiamo al fatto che la documentazione è depositata nel fascicolo di appello, ma richiede un riferimento ai documenti specifici su cui si fonda il ricorso. Secondo Sez. T, n. 18363/2015, Bielli, Rv. 636551, anche l'integrale riproduzione nel ricorso di una serie di documenti può ugualmente violare il principio di autosufficienza, e renderlo, quindi, inammissibile, non permettendo di riconoscere i dati effettivamente rilevanti, salvo situazioni particolari da valutare in relazione ai singoli motivi. Se il vizio denunciato nel ricorso in cassazione è un error in procedendo, Sez. T, n. 19410/2015, Iofrida, Rv. 636606 afferma che, per il principio di autosufficienza, la parte dovrebbe riportare nel ricorso tutti gli elementi che consentano di individuare nei suoi termini esatti e non genericamente il vizio dedotto, così da permettere alla Corte di compiere il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale ed esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito. 5.2.4. La fase istruttoria. Quanto alla fase istruttoria, Sez. T, n. 00950/2015, Chindemi, Rv. 634957 si è occupata del problema dell'ammissibilità della produzione di documenti, anche preesistenti alla proposizione del ricorso, ma necessari per far valere eccezioni basate su principi nuovi affermati dalla giurisprudenza sovranazionale dopo la proposizione dell'impugnazione. Così, nella specie, per permettere alla parte di eccepire il principio del ne bis in idem a seguito dell'affermazione dello stesso da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, avvenuta dopo la proposizione del ricorso ma prima dell'udienza, è stata ammessa la produzione di documenti esistenti già anteriormente alla proposizione del ricorso in cassazione. 5.2.5. La decisione. Sez. 6-T, n. 23875/2015, Crucitti, Rv. 637511, ribadisce l'orientamento consolidato secondo cui, anche nel giudizio di cassazione, il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica della questione data dalla parte; se, pertanto, la parte invoca un principio, ma sulla base di norme inconferenti, il giudice può ugualmente accogliere il ricorso dando la adeguata veste 935 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO giuridica alla questione, ed individuando la normativa correttamente applicabile. In fase di decisione, non è escluso per la Corte di Cassazione la possibilità di decidere nel merito, purchè la questione, rimasta assorbita in appello, sia stata riproposta con un ricorso incidentale ritualmente azionato (Sez. T, n. 02180/2015, Cirillo, Rv. 634724). Quanto alla condanna del soccombente al pagamento di una somma a favore della controparte in caso di colpa grave, Sez. T, n. 15030/2015, Terrusi, Rv. 636051, ha affermato che, nonostante l'abrogazione di tale istituto a partire dal 4 luglio 2009, lo stesso si applica ancora alle sentenze dei giudizi di legittimità pubblicate dopo tale data, purché il giudizio di primo grado fosse stato instaurato anteriormente. La nuova normativa, infatti, opera solo per i procedimenti in cui il giudizio di primo grado sia stato instaurato dopo la data suddetta. In caso di decisione di annullamento con rinvio e successiva mancata riassunzione, si determina l'estinzione del procedimento che comporta la definitività dell'avviso di accertamento originariamente impugnato (Sez. 6-T, n. 21143/2015, Crucitti, Rv. 637007). 5.2.6. L'estinzione per rinuncia. L'estinzione del giudizio di cassazione per rinuncia può essere pronunciata, secondo l'art. 391 c.p.c., per decreto oppure con sentenza, in quest'ultimo caso quando la Corte deve decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento. Sez. T, n. 16625/2015, Iofrida, Rv. 636311, riconosce lo stesso effetto al decreto ed alla sentenza, con la differenza che, mentre nei confronti della sentenza è ammessa la revocazione ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c., contro il decreto – che contenga o meno anche una pronuncia sulle spese – è prevista solo la possibilità di fissazione di una udienza collegiale per discutere l'eventuale ricorso da proporsi entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento. Sez. T, n. 23751/2015, Olivieri, non ancora massimata, ha specificato che quando il decreto si riferisce solo ad alcune delle parti in causa, lo stesso spiega i suoi effetti solo in relazione ad esse e non estingue l'intero giudizio, cosicché l'istanza, nella specie da parte dell'Amministrazione, di fissazione dell'udienza per la prosecuzione del giudizio - nei confronti della parte rispetto alla quale esso non si è estinto - non è soggetta al termine di cui al comma 3, e quindi non è inammissibile se proposta oltre tale termine. 936 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO 5.2.7. Il giudizio di rinvio. La Corte si è anche occupata del giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione, affermando che, anche nel contenzioso tributario, così come in quello ordinario, lo stesso è un processo chiuso che deve attenersi alle decisioni, agli effetti ed ai principi di diritto della sentenza della Corte, cosicché le parti non possono, con le loro domande od eccezioni, allargarne l'ambito al di fuori degli originari confini (Sez. 6-T, n. 18600/2015, Iacobellis, Rv. 636302). In esso è anche preclusa l'acquisizione di nuove prove, quali la produzione di nuovi documenti anche se consistenti in una perizia d'ufficio disposta in altro giudizio, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti, però, la controversia in decisione, oppure da esigenze determinate dalla sentenza di annullamento della Cassazione o, infine, che la loro produzione sia stata impossibile in precedenza per cause di forza maggiore (Sez. T, n. 19424/2015, Marulli, Rv. 636813). Sul giudizio di rinvio non influisce neppure il giudicato formatosi in separato giudizio in data anteriore a quella del giudizio di legittimità (Sez. T, n. 25468/2015, Iofrida, non ancora massimata). Da segnalare che la citata novella del processo tributario, di cui al d.lgs. 156 del 2015, in vigore dall'1 gennaio 2016, ha ridotto il termine di riassunzione del giudizio di rinvio da un anno a sei mesi. 5.3. La revocazione. Sez. T, n. 17163/2015, Bielli, Rv. 636612 ha ravvisato un errore revocatorio nell'omesso esame del motivo di ricorso con cui si denunciava la mancata valutazione di una doglianza relativa alla lesione del diritto di difesa derivante dalla ritardata delibera oltre trenta giorni di una decisione di commissione tributaria. Sez. T, n. 01554/2015, Greco, Rv. 634616 si è invece occupata del significato dell'espressione stesso giudice con cui l'art. 398 c.p.c. individua l'organo giudiziario davanti al quale si svolge il giudizio di revocazione, affermando che con essa non si devono intendere le stesse persone fisiche autrici della sentenza oggetto di revocazione, ma lo stesso ufficio giudiziario, cosicché il giudizio di revocazione si può svolgere, all'interno dello stesso ufficio, anche davanti ad una sezione diversa da quella che ha emesso la sentenza impugnata. La novella processuale è intervenuta anche su tale istituto, tra l'altro semplificando la norma sui presupposti per l'impugnazione tramite revocazione, sostituendo l'espressione 937 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO sentenze che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili, con il più lineare le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado dalle commissioni tributarie. 6. Il giudicato. Una prima questione che la Corte ha affrontato nel 2015 in materia di giudicato attiene alla certificazione della definitività di una sentenza. Al riguardo, Sez. T, n. 21366/2015, Bruschetta, Rv. 636957, ha ritenuto che in mancanza di una previsione specifica sulla certificazione del passaggio in giudicato della sentenza, va applicato per "analogia legis", secondo la previsione dell'art.1,comma 2,del d.lgs. 546 del 1992, l'art. 124 d.a.c.p.c., sicché è necessario che il segretario della Commissione tributaria, provinciale o regionale, certifichi, in calce alla copia della sentenza contenente la relazione della notificazione alla controparte o alla copia della sentenza non notificata, che nei termini di legge non e' stata proposta impugnazione, mentre non puo' ritenersi equipollente l'attestazione della Commissione tributaria provinciale secondo cui, ad una data posteriore alla scadenza del termine per la proposizione dell'appello di una sua sentenza, non e' stata chiesta dalla Commissione tributaria regionale la trasmissione del fascicolo di primo grado prevista dall'art. 53, comma 3, del d.lgs n.546 del 1992. Altre sentenze della Corte nel 2015 sono tese, invece, a specificare i limiti del giudicato. Così, la Corte ha ribadito che le preclusioni derivanti dallo stesso operano solo quando tra i due giudizi vi sia identità di parti, e quindi, nella specie, non ha ritenuto violato il principio del ne bis in idem in un caso in cui il contribuente aveva instaurato due giudizi avverso lo stesso provvedimento di diniego di rimborso, ma uno contro l'Ufficio distrettuale delle imposte e l'altro contro l'Intendenza di Finanza (Sez. T, 03187/2015, Iofrida, Rv. 634517). Sez. T, n. 25468/2015, Iofrida, non ancora massimata, già citata al paragrafo 5.2, ha precisato che il giudicato formatosi in separato giudizio in data anteriore a quella del giudizio di legittimità non influisce sul successivo giudizio di rinvio, attesa la natura di giudizio "chiuso" dello stesso. In un'altra decisione, la Corte ha specificato che il giudicato esterno preclude nuovi accertamenti tra le stesse parti quando si tratti degli stessi accertamenti di fatto posti in essere nello stesso quadro normativo (Sez. T, n. 20257/2015, Napolitano, Rv. 636593). In questo senso, gli effetti del giudicato possono estendersi anche a parti diverse da quelle interessate dal giudizio in cui il 938 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO giudicato stesso si è formato. Questo, in particolare, quando le posizioni ed i diritti di cui si discute nel nuovo procedimento siano direttamente collegati e dipendenti dagli accertamenti nel processo, tra parti diverse, in cui si è formato il giudicato. Si tratta del c.d. effetto riflesso del giudicato su cui si è soffermata Sez. 6-T, n. 23899/2015, Cosentino, Rv. 637506, che ha affermato che il giudicato formatosi nel giudizio sul presunto maggior reddito a carico di una società a ristretta base partecipativa, nel senso di escludere l'esistenza dello stesso, produce effetti nel separato giudizio sull'avviso di accertamento nei confronti del singolo socio, in quanto l'accertamento del maggior reddito in capo alla società costituisce il presupposto dell'accertamento del maggior reddito in capo al socio, cosicché l'annullamento del primo giustifica l'annullamento del secondo. Sez. T, n. 16615/2015, Federico, Rv. 636825 ha ulteriormente ribadito che l'efficacia riflessa del giudicato esterno opera solo per le sentenze definitive. Non è possibile, quindi, decidere la causa pregiudicata, in materia di sanzioni, in base alla decisione, non ancora passata in giudicato, della causa pregiudiziale di impugnazione dell'atto di accertamento; in tal caso, invece, il processo pregiudicato deve essere sospeso ex art. 295 c.p.c. Non ha, invece, effetto di giudicato esterno nel giudizio di impugnazione dell'atto di accertamento la sentenza resa nel giudizio di impugnazione della cartella che abbia dichiarato la cessazione della materia del contendere a seguito di sgravio, e non sia stata impugnata (Sez. T, n. 21590/2015, Bruschetta, Rv. 636905). In caso di erronea redazione della sentenza, nel senso che la stessa, emessa tra determinate parti ma con motivazione e dispositivo relativi ad una diversa controversia concernente altri soggetti, la Corte ha ritenuto che non vi siano gli estremi per la formazione del giudicato sul rapporto controverso, essendo la sentenza affetta da nullità insanabile rilevabile anche d'ufficio (Sez. T, n. 15002/2015, Ferro, Rv. 636162). Questione spesso ricorrente in materia tributaria, dove non è raro che gli accertamenti coprano più annualità, è se il giudicato formatosi su una annualità si estenda anche alle altre, oggetto di separato giudizio. Sez. T, n. 06953/2015, Cirillo, Rv. 635195 si è occupata del problema, giungendo alla conclusione che la sentenza sul contenuto e obblighi del contribuente per un determinato anno di imposta fa stato nei procedimenti tra le stesse parti e sulla stessa imposta per gli anni successivi solo per quanto attiene a quegli aspetti costitutivi della fattispecie che possono considerarsi di 939 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO carattere permanente, mentre non ha alcuna efficacia se l'accertamento si fonda su presupposti diversi. Il principio, conforme a SS.UU. n. 13916/2006, Rv. 589696, è stato ribadito anche da Sez. T, n. 25281/2015, Iannello, non ancora massimata. A conclusioni non dissimili è giunta anche Sez. T, n. 04832/2015, Virgilio, Rv. 635058. Così, è stato ritenuto elemento strutturale, per cui il giudicato sullo stesso si estende ad annualità diverse da quella in contestazione in materia di ICI, il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo (Sez. T, n. 23032/2015, Di Blasi, Rv. 637168). Sulla base dello stesso principio, non è stata, invece, riconosciuta efficacia vincolante al giudicato in un caso di accertamento basato sugli studi di settore, atteso che gli elementi che rivelano la capacità contributiva possono variare di periodo in periodo (Sez. T, n. 13498/2015, Cigna, Rv. 635809). In materia di accertamenti su dichiarazioni congiunte dei coniugi, poi, Sez. T, n. 23553/2015, Federico, RV. 637429 (già citata al par. 3.1.), ha stabilito che «la moglie codichiarante è legittimata ad impugnare autonomamente l'avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di quest'ultimo (proprio a seguito del giudicato negativo formatosi nei suoi confronti), o, comunque, a contestare la pretesa tributaria su di esso fondata, proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento o l'avviso di mora a lei diretti, atteso che, pur non essendo necessario, affinché insorga la sua responsabilità solidale, che le sia notificato l'avviso di accertamento, il suo diritto di difesa non può essere pregiudicato». In materia di condebitori solidali e limiti soggettivi del giudicato, poi, Sez. T, n. 12766/2015, Meloni, Rv. 635750 ha statuito che il passaggio in giudicato della decisione costituisce uno dei requisiti per l'opponibilità, ai sensi dell'art. 1306, comma 2, c.c., da parte degli altri condebitori solidali, della sentenza pronunciata tra l'amministrazione finanziaria ed uno dei condebitori in solido. Sez. 6-T, n. 25401/2015, Caracciolo, non ancora massimata, peraltro, ha precisato che, in caso di coobbligati solidali che abbiano impugnato separatamente l'avviso di accertamento, il giudicato formatosi in una controversia, risoltasi in maniera favorevole al contribuente, non spiega i suoi effetti favorevoli anche nei confronti degli altri coobbligati allorchè il motivo dell'accoglimento dell'impugnazione preventivamente proposta da uno dei coobbligati sia relativo a questioni personali, cioè riferite soltanto al condebitore più diligente che ha ottenuto il preventivo provvedimento favorevole. 940 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO In applicazione dello stesso principio, Sez. T, n. 25890/2015, Bruschetta, non ancora massimata, ha ritenuto che l'eccezione di decadenza dell'amministrazione dall'accertamento rientra tra le eccezioni personali ex art. 1297 c.c. e che, pertanto, l'art. 1306, comma 2, c.c. non consente di opporre un giudicato favorevole al coobbligato fondato sulla decadenza. 7. La conciliazione. Nel corso del 2015, la Corte ha avuto modo di occuparsi anche dell'istituto della conciliazione di cui all'art. 48 del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ed, in particolare, del momento del suo perfezionamento come causa di cessazione della materia del contendere. Sez. 6-T, n. 14547/2015, Conti, Rv. 635867, ha chiarito che il momento in cui si perfeziona la conciliazione e si determina la cessazione della materia del contendere è solo quello del versamento della somma concordata. Se la proposta di conciliazione è depositata dopo la fissazione dell'udienza ma prima della trattazione in camera di consiglio, pertanto, la commissione tributaria deve rinviare l'udienza di trattazione ad una data successiva alla scadenza del termine per il versamento. Partendo dallo stesso presupposto secondo il quale la conciliazione si perfeziona solo con il versamento, Sez. 6-T, n. 09019/2015, Conti, Rv. 635493, ha affermato che, in caso di conciliazione giudiziale rateale, la stessa si perfeziona con il versamento almeno della prima rata concordata, entro venti giorni dalla data di redazione del processo verbale, e con la prestazione di garanzie per l'importo delle rate successive, ma il mancato adempimento degli obblighi indicati non permette l'estinzione del processo tributario per cessazione della materia del contendere. Va rilevato, sul punto, che l'istituto della conciliazione subirà profonde modifiche dal 1 gennaio 2016, a seguito della entrata in vigore della novella del processo tributario di cui al d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, cosicché alcuni principi enunciati nelle decisioni sopra citate dovranno essere oggetto di riconsiderazione. In particolare, la conciliazione viene estesa anche alle liti pendenti in fase di appello, mentre resta sempre esclusa per i giudizi pendenti in cassazione. A differenza del passato, poi, potranno essere oggetto di conciliazione anche le controversie rientranti tra quelle suscettibili di reclamo/mediazione, non esistendo più il principio di alternatività tra questi istituti e la conciliazione. La novella prevede due modalità di conciliazione: in udienza e 941 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO fuori udienza. In entrambi i casi, il perfezionamento della conciliazione è rappresentato dalla stesura del processo verbale con cui le parti raggiungono l'accordo, e non più dal pagamento (a differenza, appunto, di quanto si affermava fino ad ora in giurisprudenza, come attestato dalle decisioni sopra riportate). Tuttavia, il processo verbale ha effetto novativo del precedente rapporto e costituisce titolo per la riscossione, in caso di mancato versamento di quanto previsto nell'accordo consacrato al suo interno. Per favorire tale forma di deflazione processuale, poi, è prevista la possibilità di una riduzione delle sanzioni in misura maggiore rispetto ad oggi. 8. Il giudizio di ottemperanza. In una sentenza emessa nel corso del 2015, la Suprema Corte si è occupata del giudizio di ottemperanza sotto il profilo dell'individuazione dei mezzi di gravame applicabili contro le relative sentenze. In particolare, Sez. T, n. 20639/2015, Virgilio, Rv. 636649, ha affermato che contro le sentenze emesse in tale sede, sia dalle commissioni provinciali che regionali, è ammesso solo il ricorso per cassazione, poiché la previsione dell'appello come mezzo di gravame anche per le sentenze delle commissioni regionali creerebbe una disarmonia nel sistema processuale, per cui l'unica possibile conclusione è che le decisioni delle commissioni provinciali siano impugnabili con ricorso in cassazione. Da rilevare che anche sul punto la novella processuale di cui al d. lgs 156 del 2015 è intervenuta; prima di tutto ha eliminato dal testo vigente di cui all'art. 70 del d. lgs. 546 del 1992 l'inciso salvo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l'esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo, chiarendo così che solo il giudizio di ottemperanza è lo strumento per l'esecuzione delle sentenze tributarie. In secondo luogo, il giudizio di ottemperanza sarà possibile anche nei confronti dell'agente della riscossione, in quanto lo stesso svolge un'attività oggettivamente di natura pubblica, e viene così equiparato all'ente impositore. Va, infatti, evidenziato che la novella del processo tributario ha previsto l'immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze emesse dalle commissioni tributarie. L'immediata esecutività, in particolare, riguarda, tra le altre, anche quelle di condanna dell'Amministrazione al pagamento di somme in favore del contribuente, mentre fino ad oggi perché le stesse avessero tale requisito era necessario attendere il passaggio in giudicato. 942 CAP. XLIV - IL PROCESSO TRIBUTARIO Ora, sebbene tale norma, a differenza della maggior parte delle altre previsioni del testo legislativo, entrerà in vigore solo dall'1 giugno 2016, e sebbene la normativa preveda anche che il pagamento da parte dell'Amministrazione possa essere subordinato alla prestazione di una garanzia da parte del contribuente in attesa della definitività della sentenza, resta il fatto che la prospettata esecutività delle sentenze prima del giudicato potrebbe avere riflessi sull'utilizzo del giudizio di ottemperanza, unico mezzo per consentire l'esecuzione delle stesse. Il giudizio di ottemperanza dovrebbe quindi acquistare in futuro un rilievo notevole nel campo del contenzioso tributario. 9. Il patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario. La Corte si è occupata della materia con riguardo al caso in cui nel processo tributario sia parte un fallimento, precisando che, in tale ipotesi, l'ammissione al patrocinio statale segue la procedura dell'art. 144 del d.P.R. n. 115 del 2002 (secondo cui «Nel processo in cui è parte un fallimento, se il decreto del giudice delegato attesta che non è disponibile il denaro necessario per le spese, il fallimento si considera ammesso al patrocinio ai sensi e per gli effetti delle norme previste dalla presente parte del testo unico, eccetto quelle incompatibili con l'ammissione di ufficio»), e non quella di cui agli artt. 138 e 139 dello stesso decreto, in quanto le funzioni di vigilanza del giudice delegato prevalgono rispetto a quelle delle commissioni del patrocinio a spese dello Stato operanti, presso ogni commissione tributaria, a norma di tali ultimi articoli (Sez. T, n. 07842/2015, Vella, Rv. 635174). 943 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI CAP. XLV I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI (di Gianluca Grasso) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La responsabilità disciplinare dei magistrati. – 2.1. Gli illeciti disciplinari. – 2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. – 2.1.2. L'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità. – 2.1.3. La violazione del dovere di correttezza. – 2.1.4. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. – 2.1.5. L'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti. – 2.1.6. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. – 2.1.7. La condotta disciplinare irrilevante. – 2.2. Il procedimento disciplinare. – 2.2.1. Profili generali. – 2.2.2. Termini dell'azione disciplinare. – 2.2.3. Rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale. – 2.2.4. Impugnazioni delle decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M.. – 2.3. Le misure cautelari. – 2.3.1. Trasferimento cautelare ad altra sede. – 2.3.2. Sospensione cautelare obbligatoria. – 2.3.3. Cessazione degli effetti della sospensione cautelare. – 3. La responsabilità disciplinare degli avvocati. – 3.1. Gli illeciti disciplinari. – 3.2. Il procedimento disciplinare. – 3.2.1. Sospensione per pregiudizialità penale e decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c. – 3.2.2. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei e regime della prescrizione. – 4. La responsabilità disciplinare dei notai. 1. Premessa. La rassegna sulla responsabilità disciplinare contempla le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai. 2. La responsabilità disciplinare dei magistrati. Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, le pronunce delle Sezioni Unite hanno riguardato talune fattispecie di illecito, con particolare riguardo all'ipotesi dei ritardi nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali, le misure cautelari, nonché le norme procedurali che regolano il giudizio sia dinanzi alla sezione del C.S.M., sia in sede di legittimità. Si segnala, inoltre, Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, limitatamente alle parole da «quando ricorre» a «nonché», censurando la norma che disponeva l'obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorreva una delle violazioni stabilite dall'art. 2, comma 1, lett. a). 944 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 2.1. Gli illeciti disciplinari. Sugli illeciti disciplinari, la Corte è intervenuta su diverse fattispecie che discendono dall'esercizio delle funzioni, con particolare riguardo alla violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, all'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità, alla violazione del dovere di correttezza, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, all'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. 2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. Riguardo al ritardo nella scarcerazione, riconducibile all'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 04954/2015, Curzio, Rv. 634508, ha chiarito che il "danno ingiusto" arrecato a una delle parti dall'incolpato in violazione del dovere di diligenza di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, necessario per la sussistenza dell'illecito, non viene meno allorquando l'imputato, illegittimamente privato della libertà personale a seguito di una permanenza in custodia cautelare oltre i limiti temporali previsti dalla legge, sia successivamente condannato a una pena detentiva di durata superiore alla misura preventiva sofferta. Le Sezioni Unite, nel rigettare l'impugnazione, hanno avuto modo di precisare che l'attuale assetto dei valori costituzionali implica che la condanna successiva non compensa il danno alla libertà personale subito dall'indagato, tenuto conto della non identità dei beni giuridici tutelati, mentre il danno si determina nel momento (e per tutto il tempo) in cui vengono superati i limiti massimi di custodia cautelare fissati dalla legge e non può poi estinguersi, a distanza di tempo, per il solo fatto - comunque incerto sia nel "se" che nel "quando" - del passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Sugli elementi costitutivi dell'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, con particolare riguardo all'elemento psicologico, Sez. U, n. 04953/2015, Curzio, Rv. 634503, ha evidenziato che la fattispecie sussiste anche nel caso in cui la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio sia stata colposa e l'evento del danno ingiusto o dell'indebito vantaggio per una delle parti non sia stato previsto o voluto, atteso che la limitazione della sanzione 945 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI disciplinare al solo illecito doloso la identificherebbe con la sanzione penale, mentre esse hanno finalità, intensità e ambiti diversi. Con riferimento alle violazioni stabilite dall'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, Corte cost., 16 luglio 2015, n. 170, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006, limitatamente alla parte che prevede l'obbligatoria e automatica irrogazione dell'ulteriore sanzione del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio. La questione era stata sollevata da Sez. U, n. 11228/2014, Bucciante, Rv. 630887, e da C.S.M., Sezione disciplinare, ord. 14 luglio 2014. La Consulta, nel ritenere fondati i rilievi formulati dalle Sezioni Unite, ma respingendo come manifestamente inammissibile la questione posta dal C.S.M. per ragioni di rito, avendo adottato la Sezione disciplinare una motivazione per relationem, ha affermato che la norma censurata, disponendo l'obbligatorietà del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una delle violazioni stabilite dall'art. 2, comma 1, lett. a), delinea una sanzione rigida, la cui applicazione, essendo basata su una presunzione assoluta, non è conseguenza del necessario rapporto di adeguatezza col caso concreto, e rispetto alla quale l'indispensabile gradualità applicativa non forma oggetto di specifica valutazione. È stata ritenuta altresì sussistente la lesione del principio di uguaglianza, derivante dal diverso e più grave trattamento sanzionatorio riservato - senza alcun riferimento alla gravità dell'elemento materiale o psicologico - al solo illecito de quo, sia l'irragionevolezza dell'automatismo sanzionatorio, la cui ratio non poteva rinvenirsi neppure in una particolare gravità dell'illecito, desumibile dalla peculiarità della condotta, dalla misura della pena o dal rango dell'interesse protetto. 2.1.2. L'omissione della comunicazione delle situazioni di incompatibilità. In relazione all'illecito disciplinare per omessa comunicazione al C.S.M. delle situazioni di incompatibilità, Sez. U, n. 05682/2015, Amendola, Rv. 634504, ha ricompreso nelle fattispecie rilevanti, ai sensi dell'art. 42 della circolare del C.S.M. n. P-12940 del 25 maggio 2007 e successive modificazioni, la convivenza tra il P.M. e l'ufficiale di polizia giudiziaria stabilmente assegnato alla sezione, a prescindere dalle forme burocratiche di tale assegnazione. Secondo la S.C., la previsione dell'incompatibilità è diretta a tutelare la correttezza e l'imparzialità dell'attività giudiziaria, il cui esercizio, anche solo a livello di immagine, potrebbe essere 946 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI leso dall'esistenza di legami affettivi e di convivenza tra il magistrato investito del compito di dirigere le indagini e il personale di polizia giudiziaria chiamato a eseguirle, sì da dare luogo a sodalizi percepibili dall'esterno come centri di potere, anziché come strutture operative a fini di giustizia. Si trattava, nella specie, di un brigadiere "aggregato" e non "addetto" alla sezione, considerato che di fatto lo stesso vi aveva svolto in via continuativa e per ben nove anni la sua attività, di talché il magistrato si era trovato a esercitare il singolare ruolo di direzione e di controllo del convivente. La mancata segnalazione al C.S.M. del rapporto con l'ufficiale di polizia giudiziaria assegnato alla sezione è stata ritenuta idonea a integrare l'illecito di cui all'art. 2, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 109 del 2006. 2.1.3. La violazione del dovere di correttezza. Sulla rilevanza disciplinare di comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti di altri magistrati, Sez. U, n. 07957/2015, Frasca, Rv. 634940, in una vicenda riguardante la magistratura militare, parimenti sottoposta alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, ha ritenuto integrare l'illecito previsto dall'art. 2, comma 1, lett. d), la condotta del sostituto procuratore militare della Repubblica che, assegnatario col procuratore di un fascicolo d'indagine, ne abbia disposto la trasmissione all'autorità giudiziaria ordinaria senza informare il dirigente coassegnatario. Secondo le Sezioni Unite, la condotta costituisce un comportamento gravemente scorretto a prescindere dalla fondatezza della valutazione sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria. Il ricorrente aveva infatti eccepito che la condotta potesse essere scriminata dall'art. 2, comma 2, del d.lgs. n 109 del 2006, in quanto riconducibile all'attività di interpretazione di norme di diritto e a quella di valutazione del fatto e delle prove. Tuttavia, la S.C. ha escluso la rilevanza della censura, ritenendo che l'oggetto dell'incolpazione fosse un'attività compiuta unilateralmente da chi, essendo coassegnatario, avrebbe dovuto procedere di concerto, e non dunque un'attività di esegesi o di valutazione, dovendo l'una e l'altra essere compiute unitamente all'altro magistrato o con il suo accordo. Sulla violazione del dovere di correttezza, Sez. U, n. 10796/2015, Bernabai, Rv. 635366, ha evidenziato che l'offesa recata dal magistrato all'onore e al decoro altrui ha rilevanza disciplinare perché idonea a incidere sulla credibilità e sull'immagine dell'autore, anche qualora la diffamazione non sia penalmente perseguibile per il difetto della querela o per l'esimente della 947 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI provocazione, dovendosi esigere da un rappresentante dell'ordine giudiziario un livello di correttezza più alto rispetto al comune cittadino. Nella specie, la condotta riguardava l'invio di messaggi telematici nel dominio informatico dell'Associazione nazionale magistrati e le Sezioni Unite hanno ritenuto la condotta rilevante sul piano disciplinare, in quanto l'offesa era destinata a essere percepita da una pluralità indefinita di utenti della rete. 2.1.4. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. In tema di violazioni dei doveri di diligenza, è stata affermata la responsabilità disciplinare del P.M. che abbia omesso di chiedere la revoca della misura cautelare per scadenza dei termini anche se egli aveva già presentato la richiesta di rinvio a giudizio. Sez. U, n. 14688/2015, Bandini, Rv. 635778, ha ritenuto che tale richiesta, ai sensi dell'art. 299, comma 3, c.p.p., investa il giudice del potere-dovere di provvedere alla revoca "anche di ufficio", senza tuttavia escludere il concorrente potere-dovere di istanza del P.M. È stata esclusa, invece, la responsabilità disciplinare nel caso del P.M. che, conferita una delega investigativa alla polizia giudiziaria, non solleciti il deposito della relazione, né faccia istanza di proroga delle indagini, ma presenti richiesta di archiviazione, trattandosi di condotta che rientra nell'ambito della valutazione discrezionale riservata al magistrato inquirente (Sez. U, n. 12311/2015, Di Cerbo, Rv. 635543). 2.1.5. L'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti. Nel novero delle violazioni dei doveri di laboriosità, Sez. U, n. 06495/2015, Giusti, Rv. 634785, con particolare riferimento all'indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei compiti del magistrato, ha ritenuto che integri l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 109 del 2006 il comportamento del P.M. che conferisca al consulente tecnico un incarico con quesito indeterminato volto alla qualificazione giuridica di fatti penalmente rilevanti. In questo caso, infatti, il magistrato, ancorché riservi a sé la valutazione finale degli esiti della consulenza, affida ad altri funzioni giudiziarie indeclinabili. 2.1.6. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni. 948 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI Diverse pronunce della S.C. attengono al ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali. Si segnalano i profili sulla giustificabilità della condotta e sul relativo onere probatorio, in linea con la giurisprudenza delle Sezioni Unite, che hanno ripetutamente ritenuto che il grave e reiterato ritardo possa esser giustificato dalla ricorrenza di evenienze eccezionali e/o straordinarie, che escludano la punibilità della condotta dell'incolpato, in conformità all'interpretazione della giurisprudenza della Cedu sull'art. 6 del paragrafo 1 della Convenzione. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, l'imposizione di un limite temporale di durata del processo non può prescindere dal considerare che l'obbligo di rispettarlo incombe in primo luogo sugli Stati, su cui è posto il dovere di dotare la magistratura di strutture e personale efficiente, adeguati al rispetto di quell'obbligo. Sez. U, n. 14268/2015, Di Iasi, Rv. 635987, ha specificato sul punto che la durata ultrannuale dei ritardi nel deposito dei provvedimenti non comporta l'ingiustificabilità assoluta della condotta dell'incolpato. Tuttavia, trattandosi di inosservanza protrattasi oltre l'anno e per un tempo considerevole rispetto alla soglia di illiceità considerata dal legislatore, la condotta è giustificabile solo in presenza di circostanze proporzionate all'ampiezza del ritardo, sicché quanto più esso è grave tanto più seria, specifica, rigorosa e pregnante deve essere la relativa giustificazione, necessariamente comprensiva della prova che, in tutto il lasso di tempo interessato, non sarebbero stati possibili diversi comportamenti di organizzazione e impostazione del lavoro, o che, comunque, essi non avrebbero potuto in alcun modo evitare il grave ritardo o almeno ridurne l'abnorme dilatazione. La pronuncia, inoltre, ha evidenziato che il ritardo nel deposito di provvedimenti può essere giustificato sia in relazione al complessivo carico di lavoro del magistrato, da valutarsi sulla base del numero di cause sul ruolo, indipendentemente da quelle effettivamente trattate e decise, sia in relazione alla sussistenza e all'entità di impegni aggiuntivi di tipo amministrativo o organizzativo, tenendo conto del momento in cui tali impegni siano sopravvenuti e della loro durata rispetto al verificarsi dei ritardi, al fine di valutare la sussistenza di eventuali significative ingerenze sulla programmazione del lavoro dell'incolpato (Sez. U, n. 14268/2015, Di Iasi, Rv. 635988). Sul medesimo tema della rilevanza delle esimenti, Sez. U, n. 00470/2015, Chiarini, Rv. 633598, ha affermato che l'illecito non sussiste quando i ritardi dipendano per causalità proporzionale dalla complessiva situazione di lavoro dell'incolpato. In tal senso, ai fini 949 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI dell'accertamento della causa di esclusione della punibilità per inesigibilità della condotta, occorre verificare se le funzioni qualitative e quantitative espletate dal magistrato, le attività e gli incarichi d'ufficio svolti, le condizioni e modalità di lavoro dal medesimo non autonomamente scelte abbiano inciso causalmente, proporzionalmente e specificamente sui tempi a disposizione per il compimento degli atti, in modo da qualificare i ritardi come ragionevoli. L'antigiuridicità del ritardo nel deposito di provvedimenti, d'altronde, non è eliminata dall'esigenza di smaltire ritardi oggetto di pregresse sanzioni disciplinari (Sez. U, n. 11291/2015, Cappabianca, Rv. 635367), né è ostativa, ai fini della sussistenza dell'illecito, la mancata percezione della gravità dei fatti nella ristretta cerchia giudiziaria, la quale può riflettere una desensibilizzazione circa la gravità della condotta, ma non la rende legittima, né elide la sua rilevanza (Sez. U, n. 04629/2015, D'Ascola, Rv. 634422). In quest'ultimo caso, le Sezioni Unite hanno evidenziato che, se in astratto la considerazione in ambito giudiziario locale della figura professionale del magistrato, che non sia intaccata dalla condotta fondatamente rimproveratagli, può incidere sulla valutazione complessiva ex art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, da ciò non si può inferire che sia determinante sulla sussistenza dell'illecito disciplinare la percezione locale del fenomeno e quindi l'opinione dei dirigenti del magistrato - presidente del tribunale e presidente di sezione - circa "l'immutato prestigio" di cui l'incolpato godrebbe nell'ambiente giudiziario presso cui presta servizio. La lesione del bene giuridico, l'immagine del singolo magistrato e dell'ordine di appartenenza nel suo complesso, tutelata dal sistema degli illeciti disciplinari, va desunta dalla ricaduta che la condotta assume, secondo criteri oggettivi e generalizzabili, nella comunità e nell'ambito su cui la condotta ripercuote i suoi effetti. Nel caso di specie, la rilevante massa delle parti coinvolte nelle centinaia di giudizi cui si riferiscono i gravi ritardi contestati al magistrato e la ripercussione nociva, in questo ambito, dei ritardi nei depositi è stata considerata come fonte di disvalore. 2.1.7. La condotta disciplinare irrilevante. Sull'esimente della scarsa rilevanza del fatto, è stato confermato che l'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va, comunque, riscontrata alla luce della lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, 950 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI con accertamento in concreto, effettuato ex post. Nel caso degli illeciti disciplinari dei magistrati, la condotta irrilevante, ai sensi del predetto art. 3 bis, quindi, va identificata, una volta accertata la realizzazione della fattispecie tipica, in quella che non compromette l'immagine del magistrato, bene giuridico tutelato dal sistema definito dal d.lgs. n. 109 del 2006. In applicazione di tali principi, Sez. U, n. 06468/2015, Bandini, Rv. 634767, ha ritenuto che la scarsa rilevanza del fatto debba essere accertata con giudizio globale diretto a riscontrare se l'immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall'illecito, sicché l'impugnazione della sentenza che abbia riconosciuto tale esimente non può limitarsi alla critica atomistica dei singoli elementi di giudizio, ma deve individuare la contraddittorietà e illogicità delle conseguenze tratte dall'esame complessivo degli elementi. 2.2. Il procedimento disciplinare. Le pronunce sui profili processuali hanno interessato diversi aspetti del rito, sia dinanzi alla Sezione disciplinare, sia presso le Sezioni Unite. 2.2.1. Profili generali. Sul tema dell'estensibilità della disciplina del processo penale, Sez. U, n. 17585/2015, Virgilio, Rv. 636141, in linea con la precedente giurisprudenza, ha ribadito che i richiami al codice di procedura penale contenuti nell'art. 16, comma 2 - in relazione all'attività di indagine - e nell'art. 18, comma 4 - per il dibattimento - del d.lgs. n. 109 del 2006 si devono interpretare restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità, dovendo applicarsi, per il resto, le regole del codice di procedura civile. Le Sezioni Unite hanno così escluso l'applicabilità delle norme del codice di procedura penale sull'assunzione e valutazione delle dichiarazioni rese da persone imputate in procedimenti connessi o di reati collegati, trattandosi di disposizioni riferibili esclusivamente ai rapporti tra procedimenti penali, le cui specifiche finalità giustificano limitazioni all'acquisizione della prova in deroga al principio fondamentale di ricerca della verità materiale. 2.2.2. Termini dell'azione disciplinare. Riguardo al termine annuale per l'esercizio dell'azione disciplinare nel caso di illecito del magistrato emergente da ispezione ministeriale, in fattispecie soggetta ratione temporis all'art. 59 del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, modificato dall'art. 12 della l. 3 gennaio 1981, n. 1, Sez. U, n. 19450/2015, Travaglino, Rv. 636600, ha ritenuto che il 951 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI termine non decorra dalla conclusione dell'ispezione stessa, ma dal deposito della relazione ispettiva, che pone il Ministro a conoscenza dei fatti rilevanti per l'iniziativa disciplinare. 2.2.3. Rapporti tra il procedimento disciplinare e il giudizio penale. Sul rilievo dei fatti contenuto in una sentenza penale passata in giudicato, ha trovato conferma il principio secondo cui il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità operato nel giudizio penale e, dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione. In applicazione di tale principio, Sez. U, n. 14344/2015, Greco, Rv. 635922, ha confermato la decisione impugnata, relativa a una condotta di abusivo uso personale del telefono cellulare di servizio per numerose chiamate a servizi di astrologia e cartomanzia, evidenziando che la definizione del procedimento penale con la formula "perché il fatto non sussiste", per difetto di danno economico tale da configurare l'elemento materiale del delitto di peculato, non precludeva la valutazione ai fini disciplinari delle condotte effettivamente accertate, attesa la diversità del bene giuridico tutelato. Nel caso della norma penale, infatti, la tutela è rivolta al principio di buona amministrazione, mentre la norma disciplinare tende a preservare l'immagine e il prestigio della magistratura. 2.2.4. Impugnazioni delle decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M. Ha trovato conferma anche il principio dell'ammissibilità della diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, per cui la Sezione disciplinare del C.S.M. può dare al fatto contestato una diversa definizione giuridica, purché il fatto concretamente accertato sia stato descritto in tutti i suoi elementi costitutivi nel capo di incolpazione (Sez. U, n. 04954/2015, Curzio, Rv. 634507). La riqualificazione operata dal giudice disciplinare, in particolare, non viola il diritto al contraddittorio, richiamato anche dalla Cedu (in particolare, sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), essendo tale garanzia assicurata dalla possibilità di contestare la diversa definizione giuridica del fatto mediante ricorso per cassazione. Le Sezioni Unite, nel caso di specie, hanno confermato la sentenza disciplinare, ritenendo il magistrato responsabile 952 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI dell'incolpazione di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, contestata dal P.G. già all'udienza di discussione, previa modifica dell'incolpazione originaria, definita facendo riferimento all'art. 2, comma 1, lett. g), del medesimo decreto.. Sui profili del rito applicabile, l'art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede tuttora che il ricorso per cassazione contro le sentenze della Sezione disciplinare del C.S.M. si propone nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale, anche se - a seguito della modifica apportata dalla l. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3, lett. o) - esso è deciso dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite civili. Di conseguenza, come rilevato da Sez. U, n. 01241/2015, Amoroso, Rv. 633756, il vizio di motivazione della condanna è denunciabile per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p., non già ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sicché non rileva la modifica a quest'ultimo apportata dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha escluso la denuncia per insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Nella pronuncia in questione, la S.C. ha affermato che la condanna disciplinare per ritardo nel deposito dei provvedimenti può essere impugnata e cassata per carenza e genericità della motivazione in ordine alle specifiche deduzioni del magistrato, dirette a giustificare il ritardo stesso e a evidenziarne la soluzione di continuità. 2.3. Le misure cautelari. La revoca della misura cautelare disciplinare inflitta al magistrato, in forza del generale richiamo alle norme del codice di procedura penale contenuto negli artt. 16, comma 2, e 18, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, è ammissibile solo in presenza di fatti "nuovi" che, pur congiuntamente apprezzati a quelli originariamente esaminati, evidenzino un mutamento in melius del quadro cautelare (Sez. U, n. 15152/2015, Cappabianca, Rv. 636367). 2.3.1. Trasferimento cautelare ad altra sede. Sul trasferimento cautelare ad altro ufficio del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare in presenza di gravi elementi di fondatezza dell'azione e di motivi di particolare urgenza, Sez. U, n. 15152/2015, Cappabianca, Rv. 636368, ha specificato che l'art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 non pone limiti territoriali con riguardo all'individuazione della sede di destinazione. Sempre sui profili territoriali, in caso di richiesta del P.G. di trasferimento cautelare ad altra sede di un magistrato già trasferito e in servizio presso un ufficio diverso da quello in cui aveva 953 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI commesso i fatti disciplinarmente rilevanti, Sez. U, n. 15478/2015, Rv. 636565, ha evidenziato la necessità di operare comunque la valutazione delle esigenze cautelari, con riferimento alla nuova sede ricoperta, non escludendo, di per sé, l'avvenuto allontanamento dalla sede di consumazione dei pretesi illeciti l'esigenza cautelare della preservazione del buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Riguardo al profilo delle funzioni di destinazione, l'esistenza di esigenze cautelari che giustifichino il trasferimento provvisorio di un magistrato con funzioni direttive o semidirettive esige che nella nuova sede egli non eserciti le medesime funzioni, le quali, imponendo lo svolgimento di attività organizzatoria e di direzione da parte del destinatario della misura cautelare, per di più in via provvisoria, coinvolgerebbero l'immagine del nuovo ufficio ben più che nella sola veste di magistrato singolo (Sez. U, n. 15478/2015, Frasca, Rv. 636566). Rilevante, altresì, è Sez. U, n. 06917/2015, Vivaldi, Rv. 634917, che ha affrontato il tema dell'applicabilità al trasferimento cautelare dell'art. 33, comma 5, della l. 5 febbraio 1992, n. 104, in tema di assistenza ai portatori di handicap. Nella specie, il magistrato aveva richiesto di essere destinato a sede più vicina a quella di provenienza sulla base delle condizioni d'invalidità proprie e della madre. Le Sezioni Unite hanno escluso che il trasferimento cautelare, essendo diretto a tutelare i principi fondamentali della funzione giurisdizionale e il prestigio dell'istituzione giudiziaria, sia soggetto all'applicazione della l. n. 104 del 1992, in quanto le agevolazioni circa la vicinanza tra la sede di lavoro e il domicilio della persona handicappata da assistere sono concesse da tale norma "ove possibile" e non in termini assoluti. Diversamente, verrebbe contraddetto proprio il presupposto sul quale si fonda il trasferimento cautelare, vale a dire l'irrilevanza del consenso del destinatario del provvedimento, laddove la l. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5, esclude testualmente che il dipendente che si trovi nelle condizioni di cui al comma 3 possa essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso. La ratio legis del trasferimento cautelare, invece, è quella di evitare che la permanenza nel luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto della contestazione in sede disciplinare possa ulteriormente aggravare la posizione dell'interessato e, soprattutto, compromettere i principi fondamentali ai quali è improntata la funzione giudiziaria, nonché il prestigio dell'istituzione giudiziaria. È invece intervenuta sui confini tra il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni in sede cautelare del 954 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI magistrato incolpato (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006) e la sanzione accessoria del trasferimento ad altra sede o ad altro ufficio (art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006), irrogabile nei casi di procedimento disciplinare per addebiti punibili con una sanzione diversa dall'ammonimento Sez. U, n. 24825/2015, Cappabianca, in corso di massimazione, secondo la quale il trasferimento, in via cautelare e provvisoria, del magistrato incolpato può determinarne la destinazione a funzioni diverse rispetto a quelle in atto ricoperte, mentre l'irrogazione della definitiva sanzione accessoria consente soltanto il trasferimento ad altra sede e ad altro ufficio ma non anche la perdita delle funzioni esercitate in precedenza. Nella specie, in via cautelare, il magistrato era stato da funzioni requirenti semidirettive a funzioni giudicanti di primo grado. Diversamente argomentando, secondo le Sezioni Unite, non risulta garantito, anche in rapporto al criterio di tipicità e tassatività delle sanzioni, il razionale coordinamento con la previsione di cui all'art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 in ordine a sanzione principale di analogo contenuto oggettivo. 2.3.2. Sospensione cautelare obbligatoria. In tema di sospensione obbligatoria dalle funzioni e dallo stipendio per adozione di misura cautelare penale, a norma dell'art. 21 del d.lgs. n. 109 del 2006, Sez. U, n. 01239/2015, Di Palma, Rv. 633764, ha affermato che tale sospensione è soggetta a revoca facoltativa, e non obbligatoria, quando la detta misura sia cessata per motivi diversi dalla carenza dei gravi indizi di colpevolezza. Sul punto la Corte ha specificato che il criterio di esercizio del potere di revoca è identico a quello concernente la sospensione facoltativa, a norma del successivo art. 22, la revoca della quale è sempre discrezionale. 2.3.3. Cessazione degli effetti della sospensione cautelare. La sospensione cautelare del magistrato dalle funzioni e dallo stipendio cessa di diritto quando diviene definitiva la pronuncia che conclude il procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006. Sez. U, n. 01239/2015, Di Palma, Rv. 633765, al riguardo, ha escluso l'applicabilità dell'art. 9 della l. 7 febbraio 1990, n. 19, che, per la generalità dei pubblici dipendenti, prevede la revoca di diritto della sospensione cautelare dopo cinque anni dall'adozione. La disposizione era stata invocata dal ricorrente in combinato disposto con il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 276, comma 3, secondo cui ai magistrati dell'ordine giudiziario sono applicabili le disposizioni 955 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI generali relative agli impiegati civili dello Stato, solo in quanto non sono contrarie all'ordinamento e ai relativi regolamenti. La Corte ha tuttavia respinto tale prospettazione sia perché la specificità dello status di magistrato e delle funzioni dallo stesso esercitate giustificano una disciplina speciale rispetto a quella degli altri pubblici impiegati (art. 98 Cost., comma 1), sia perché il d.lgs. n. 109 del 2006, art. 23, comma 2, prevede - con norma speciale di chiusura, avente finalità analoga a quella di cui alla l. n. 19 del 1990, art. 9, comma 2 - l'ipotesi di cessazione di diritto degli effetti della sospensione cautelare, collegandola alla "definitività" della pronuncia della Sezione disciplinare che conclude il procedimento. Le previsioni della revoca di diritto della sospensione cautelare obbligatoria nell'ipotesi di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, art. 21, comma 3, primo periodo, e della revoca facoltativa della sospensione cautelare obbligatoria nonché di quella facoltativa nelle ipotesi di cui all'art. 21, comma 3, secondo periodo, e art. 22, comma 3, del relativo necessario intervento della Sezione disciplinare del C.S.M. (art. 105 Cost.), della facoltà di impugnazione di tutte le decisioni della Sezione disciplinare dinanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, di cui al successivo art. 24, assicurano adeguatamente sia il regolare e corretto svolgimento dell'attività giudiziaria, sia il rispetto dei diritti costituzionalmente rilevanti del singolo magistrato. 3. La responsabilità disciplinare degli avvocati. Riguardo alla responsabilità disciplinare dell'avvocato, diversi sono stati gli interventi delle Sezioni Unite sui profili procedurali, con particolare menzione delle questioni riguardanti l'applicabilità del regime più favorevole della nuova legge professionale in tema di prescrizione e della decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c., in caso di sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale. 3.1. Gli illeciti disciplinari. Sulle fattispecie di illecito disciplinare, si segnala Sez. U, n. 10090/2015, Amendola, Rv. 635274, che ha respinto il ricorso avverso la condanna inflitta a un avvocato che aveva notificato atti di precetto per somme già incassate dall'assistito. La Corte ha affermato che il dovere di probità, dignità e decoro, sancito dall'art. 6 del codice deontologico forense, ha riscontro nell'art. 88 c.p.c., che non solo sancisce il dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ma impone al giudice, ove il patrocinatore lo 956 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI infranga, di riferirne all'autorità disciplinare. In aggiunta si è osservato che l'art. 92, comma 1, c.p.c. prevede la trasgressione del dovere di cui all'art. 88 c.p.c. - sovrapponile all'art. 6 del codice deontologico - come autonoma ragione di rimborso delle spese, anche non ripetibili. Si tratta, secondo la S.C., di indici normativi che inequivocabilmente danno tono e rilevanza disciplinare alla violazione del dovere deontologico sancito dall'art. 6. 3.2. Il procedimento disciplinare. Riguardo ai profili procedurali, Sez. U, n. 23540/2015, Rv. 637295, Ambrosio ha confermato la natura amministrativa del procedimento dinanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati e delle relative funzioni esercitate in materia disciplinare, evidenziando che la regolamentazione di tale procedimento non è mutuabile, nelle sue forme, dal codice di rito penale, sicché il rinvio al codice di procedura penale, contenuto nell'art. 51 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, «opera limitatamente alle norme sulla deliberazione collegiale, senza estendersi alla pubblicazione, mediante necessaria lettura del dispositivo in udienza, della decisione, in quanto le adunanze del Consiglio non sono pubbliche e le relative statuizioni sono pubblicate tramite deposito negli uffici di segreteria, a cui fa seguito, anche ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, la relativa notifica all'interessato». Nella fase amministrativa del procedimento, costituiscono valido atto di interruzione della prescrizione l'atto di apertura del procedimento e tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva o probatoria (consulenza tecnica d'ufficio, interrogatorio del professionista sottoposto a procedimento) e dal momento dell'interruzione, ai sensi dell'art. 2945, comma 1, c.c. inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione. Nella fase giurisdizionale davanti al Consiglio Nazionale Forense, invece, opera il principio dell'effetto interruttivo permanente (artt. 2945, comma 2, e 2943 c.c.), che si protrae durante il corso del giudizio e nelle eventuali fasi di impugnazione dinanzi alle Sezioni Unite e del giudizio di rinvio fino al passaggio in giudicato della sentenza (Sez. U, n. 23364/2015, Rv. 637249, Mammone). Sull'impedimento dell'incolpato a comparire alla seduta disciplinare del Consiglio dell'ordine, Sez. U, n. 03670/2015, Di Iasi, Rv. 634257, ha stabilito che l'avvocato non ha diritto al rinvio della seduta, né alla rimessione in termini da parte del Consiglio nazionale forense, qualora non provi di aver tempestivamente comunicato l'impedimento o di esservi stato impossibilitato per un caso di forza maggiore. 957 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI In ordine ai requisiti della contestazione disciplinare, ha trovato conferma il principio secondo cui la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l'illecito, essendo, invece, sufficiente che l'incolpato, con la lettura dell'imputazione, sia stato posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli. Nella fattispecie, Sez. U, n. 21948/2015, Giusti, Rv. 637140, ha ritenuto che la contestazione mossa all'incolpato - l'aver egli aggravato la posizione debitoria di una A.S.L. effettuando, per conto di uno stesso cliente, plurimi interventi in procedure esecutive presso terzi pendenti a carico della prima, e utilizzando decreti ingiuntivi resi contestualmente o in un breve arco temporale, così ottenendo, per ciascuno di essi, la liquidazione delle spese consequenziali - non necessitasse anche dell'indicazione del numero di iscrizione a ruolo dei procedimenti espropriativi in cui le condotte erano state riscontrate. Sulle conseguenze scaturenti dalla mancata comunicazione all'interessato e al P.M. dell'apertura del procedimento, secondo quanto prescritto dall'art. 47, comma 1, del r.d. n. 37 del 1934, Sez. U, n. 00737/2015, Di Amato, Rv. 633718, ha precisato che tale omissione non determina la nullità della conseguente delibera del Consiglio dell'ordine degli avvocati, ma solo quella degli atti di istruzione eventualmente compiuti prima della predetta comunicazione. Con riferimento ai poteri istruttori, Sez. U, n. 21948/2015, Giusti, Rv. 637141, ha affermato che il Consiglio dell'ordine ha il potere di valutare la convenienza a procedere all'esame di tutti o di parte dei testimoni ammessi, e, quindi, di revocare l'ordinanza ammissiva e di dichiarare chiusa la prova, quando ritenga superflua la loro ulteriore assunzione perché in possesso, attraverso la valutazione delle risultanze acquisite, di elementi sufficienti a determinare l'accertamento completo dei fatti da giudicare. Sulla sospensione cautelare dell'avvocato, Sez. U, n. 03184/2015, Di Iasi, Rv. 634085, nel confermare che lo strepitus fori, quale presupposto della sospensione cautelare dall'attività, ai sensi dell'art. 43 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, legittima la sospensione anche nell'ipotesi di un lungo lasso di tempo trascorso tra la commissione dei fatti penalmente rilevanti e l'adozione della misura cautelare in sede disciplinare, ovvero nell'ipotesi di procedimento disciplinare avviato da tempo, ha tuttavia precisato che lo strepitus fori deve essere effetto concreto e attuale 958 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI dell'imputazione penale del professionista. Il Consiglio dell'ordine, pertanto, non può adottare la misura sospensiva per evitare un clamore soltanto prevedibile o solo astrattamente collegato al processo penale. Ha trovato conferma, inoltre, il divieto di provvedere alla cancellazione dall'albo degli avvocati, anche nel caso di richiesta di cancellazione volontaria, quando sia in corso, a carico dell'avvocato, un procedimento penale o disciplinare, sicché l'istanza dell'interessato non ha effetti sospensivi del giudizio in corso (Sez. U, n. 15574/2015, Petitti, Rv. 636564). Tale divieto ha portata generale e opera anche quando sia l'iscritto a rinunciare all'iscrizione. 3.2.1. Sospensione per pregiudizialità penale e decorrenza del termine per la riassunzione ex art. 297 c.p.c. Particolare rilievo, in tema di pregiudizialità penale, assume la decisione Sez. U, n. 08572/2015, Rordorf, Rv. 635081, con riferimento alla questione se l'art. 297 c.p.c. debba trovare applicazione nel procedimento disciplinare che si svolge dinanzi al Consiglio dell'ordine oppure risulti incompatibile con le caratteristiche di tale procedimento. La fattispecie riguardava un procedimento svoltosi in epoca anteriore all'entrata in vigore della nuova disciplina dell'ordinamento forense di cui alla l. 31 dicembre 2012, n. 247. In presenza di precedenti giurisprudenziali non univoci della S.C., le Sezioni Unite hanno evidenziato come il contrasto non verta sui presupposti che di volta in volta impongono, o eventualmente giustificano, la sospensione del procedimento disciplinare in presenza di un processo penale per i medesimi fatti, bensì unicamente sui termini della riassunzione del procedimento quando sia venuta meno la causa di sospensione (il primo orientamento prevede che il termine semestrale di cui all'art. 297, comma 1, c.p.c. per la riassunzione del procedimento sospeso per pregiudizialità penale decorre dalla conoscenza effettiva, da parte del Consiglio dell'ordine, della definizione del processo penale, al quale l'organo titolare dell'azione disciplinare è estraneo; tale conoscenza va fissata in epoca non anteriore al deposito in cancelleria della relativa decisione, non bastando a tale effetto la pubblicazione in udienza mediante lettura del dispositivo ai sensi dell'art. 615, comma 3, c.p.p. In senso contrario, si è osservato che per effetto della modifica dell'art. 653 c.p.p., disposta dalla l. 27 marzo 2001, n. 97, art. 1, qualora l'addebito disciplinare abbia a oggetto gli stessi fatti 959 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI contestati in sede penale e quindi s'imponga la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., tale sospensione si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell'ordine degli avvocati sia soggetta a termine di decadenza). Secondo quanto statuito da Sez. U, n. 08572/2015, Rordorf, Rv. 635081, la natura amministrativa del procedimento disciplinare di competenza del locale Consiglio dell'ordine non esclude, sulla base della consolidata giurisprudenza della S.C., ove facciano difetto specifiche disposizioni a esso relative, l'applicabilità delle disposizioni del codice di procedura civile, in via generale, e di quelle del codice di rito penale quando si tratta di istituti che solo in quel codice sono disciplinati. L'applicazione dei principi generali dettati in materia dal codice di procedura civile, non contraddetti nella specifica materia da disposizioni di diverso tenore, impone, secondo le Sezioni Unite, di dare continuità a quel più risalente orientamento che ravvisava la necessità di riassunzione del procedimento sospeso per pregiudizialità penale entro il termine semestrale indicato dall'art. 297 c.p.c., comma 1. Infatti, una volta che si ritenga operante la sospensione del procedimento per pregiudizialità penale, in applicazione diretta o analogica del meccanismo stabilito dall'art. 295 c.p.c., un'esigenza di coerenza del sistema impone di rendere del pari operanti, sia pure con gli adattamenti del caso, anche le regole dettate dal successivo art. 297 per la ripresa del medesimo procedimento dopo la cessazione della causa di sospensione, pena l'inammissibile conseguenza di un procedimento che potrebbe restare sospeso a tempo indeterminato e potrebbe essere riassunto dal titolare del potere disciplinare in qualsiasi momento senza limiti di tempo. Quanto all'individuazione del momento iniziale da cui detto termine dev'essere computato, la Corte ha stabilito che il procedimento disciplinare a carico di avvocati, che sia stato sospeso per pregiudizialità penale, deve essere riassunto nel termine perentorio di sei mesi stabilito dall'art. 297, comma 1, c.p.c., decorrente dal momento in cui il Consiglio dell'ordine abbia avuto conoscenza della definitiva conclusione del processo pregiudiziale. Spetta all'incolpato, inoltre, il quale eccepisca la decadenza per tardiva riassunzione, allegare e provare gli elementi di fatto dai quali sia possibile desumere che il Consiglio dell'ordine era venuto a conoscenza della conclusione del processo penale oltre sei mesi prima del momento in cui ha provveduto a riattivare il procedimento disciplinare sospeso per pregiudizialità. 960 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI 3.2.2. Il nuovo codice deontologico e i procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore: favor rei e regime della prescrizione. Sull'applicazione del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato il 16 ottobre 2014 ed entrato in vigore il 15 dicembre 2014, Sez. U, n. 03023/2015, Cappabianca, Rv. 634061, ha evidenziato che le norme del nuovo codice si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato, avendo l'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012 recepito il criterio del favor rei in luogo del criterio del tempus regit actum. Applicazione del regime di maggior favore si riscontra in Sez. U, n. 21829/2015, Petitti, Rv. 637127, in relazione all'art. 22 del nuovo codice deontologico, che non prevede più la sanzione disciplinare della cancellazione dall'albo. Di conseguenza, secondo le Sezioni Unite, la decisione del Consiglio nazionale forense che abbia confermato tale sanzione, respingendo la richiesta di applicazione di tale normativa di maggior favore, può essere sospesa ex art. 36, comma 7, della l. n. 247 del 2012. Sulla successione delle discipline,in tema di prescrizione e applicabilità del regime più favorevole della nuova legge professionale, la giurisprudenza prevalente esclude l'applicabilità della novella ai procedimenti pendenti. Al riguardo, Sez. U, n. 14905/2015, Spirito, Rv. 636365 - che ha dato continuità a un precedente specifico della S.C. -, ha stabilito che il nuovo e più mite regime della prescrizione di cui alla l. n. 247 del 2012 non si applica ai procedimenti in corso, giacché il principio di retroattività della lex mitior non riguarda il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la pena. A sostegno della motivazione è stata richiamata Corte cost., 22 luglio 2011, n. 236, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost. e in relazione all'art. 7 Cedu, dell'art. 10, comma 3, della l. 5 dicembre 2005, n. 251, Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione, nella parte in cui ha escluso l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione. In senso conforme, Sez. U, n. 23836/2015, D'Ascola, Rv. 637285 e Sez. U, n. 23364/2015, Mammone, Rv. 637250. Minoritaria, Sez. U, n. 21829/2015, Petitti, Rv. 637128, in sede di 961 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI domanda di sospensione cautelare della sanzione disciplinare ai sensi dell'art. 36, comma 7, della l. n. 247 del 2012, secondo cui l'art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, laddove sancisce che le norme del nuovo codice deontologico forense si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli, spiega i propri effetti anche con riguardo al regime della prescrizione. Riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione disciplinare, in caso di illecito permanente, Sez. U, n. 01822/2015, Di Amato, Rv. 634060, in conformità alla giurisprudenza precedente, ha ritenuto che la prescrizione decorra solo dalla cessazione della permanenza, sicché, in caso di omissione del rendiconto di un deposito fiduciario, non rileva il momento della revoca del mandato, che fa sorgere l'obbligo di rendiconto, ma il momento in cui il professionista nega il diritto del cliente sulla somma depositata, affermando il proprio diritto di trattenerla. 4. La responsabilità disciplinare dei notai. In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnalano alcune pronunce della S.C. su talune fattispecie di illecito. La prima decisione ha riguardato il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione. Sez. 2, n. 09868/2015, Migliucci, Rv. 635464 ha stabilito che l'obbligo di curare l'aggiornamento della preparazione professionale, attualmente previsto dall'art. 30 del d.lgs. 1 agosto 2006, n. 249, che ha sostituito l'art. 174, lett. b), della l. 16 febbraio 1913, n. 89, costituisce un precetto preesistente, già previsto nel codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale notarile ai sensi dell'art. 2, lett. f), della l. 3 agosto 1949, n. 577, come sostituito dall'art. 16 della l. 27 giugno 1991, n. 220, e nel Regolamento sulla formazione professionale permanente di notai, secondo il testo inizialmente approvato dal Consiglio nazionale del Notariato nella seduta del 9 settembre 2005. La S.C., nel confermare la legittimità della sanzione applicata per il mancato assolvimento dell'obbligo di formazione con riguardo al biennio 2008-2009, poiché tanto il precetto, al quale avrebbe dovuto conformarsi la condotta del notaio, quanto la pena derivante erano anteriori alla violazione contestata, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 30 d.lgs. n. 249 del 2006 per violazione della delega di cui all'art. 7 della l. 28 novembre 2005, n. 246, avente a oggetto l'aggiornamento, il coordinamento e il riordino delle sanzioni. La seconda pronuncia, in tema di uso di repertorio privo delle forme stabilite dall'art. 64 della l. n. 89 del 1913, ha qualificato 962 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI come repertorio, in base a tale disciplina, soltanto il registro che, prima di essere posto in uso, sia stato numerato e vidimato in ciascun foglio dal capo dell'archivio notarile. Nella specie, Sez. 2, n. 12740/2015, Mazzacane, Rv. 635708 ha ritenuto che agli effetti dell'art. 138, comma 1, lett. d), della l. n. 89 del 1913, sono parificate le condotte dell'omessa tenuta del repertorio e dell'uso di un repertorio privo delle forme prescritte.In diversa fattispecie, Sez. 2, n. 11624/2015, Giusti, è intervenuta sull'obbligo di assistenza del notaio alla sede ex art. 26 l. n. 89 del 1913 dopo la modifica di cui all'art. 12 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, che prescrive per il notaio l'obbligo di tenere lo studio aperto nel Comune o nella frazione di Comune assegnatagli almeno tre giorni a settimana. La S.C. ha escluso che il notaio sia libero di scegliere di settimana in settimana e senza obbligo di preventiva segnalazione all'utenza e al Consiglio notarile quali sarebbero i tre giorni della settimana dedicati all'assistenza alla sede. Tale evenienza si porrebbe in contrasto con la ratio della norma, protesa ad assicurare il funzionamento regolare e continuo dell'ufficio. La Corte ha ritenuto, quindi, integrata la figura di illecito disciplinare ascritta all'incolpato, non avendo nella specie il notaio modificato l'originaria indicazione dei tre giorni della sua assistenza, risalente al tempo della sua iscrizione nel ruolo, ed essendo egli tenuto a presenziare allo studio in tali giorni. Altra decisione, Sez. 2, n. 11665/2015, Migliucci, Rv. 635599 ha riguardato il "dovere di consiglio", di cui al combinato disposto dell'art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 del 1913, e dell'art. 42, comma 1, lett. a), del codice deontologico notarile. Il caso atteneva al comportamento del notaio che, in occasione della stipulazione di diversi contratti di mutuo fondiario funzionalmente collegati a contratti di compravendita immobiliare, aveva omesso di informare l'istituto di credito mutuante della circostanza che il prezzo degli immobili risultava inferiore alla somma mutuata. Secondo la S.C., nella fattispecie non risulta integrata l'ipotesi di illecito poiché il "dovere di consiglio", imposto dal codice di deontologia, investe solo le conseguenze giuridiche della prestazione richiesta al professionista e non le circostanze di fatto dell'affare concluso, tra le quali rientrano i rischi economici dello stesso, la cui valutazione è rimessa in via esclusiva al prudente apprezzamento delle parti. Sez. 2, n. 17266/2015, Petitti, Rv. 636221, infine, confermando la precedente giurisprudenza, ha evidenziato che l'art. 147, lett. a), della l. n. 89 del 1913, configura come illecito condotte che, seppur non tipizzate, siano comunque idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio, nonché il decoro e il prestigio della 963 CAP. XLV - I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI classe notarile. L'individuazione in concreto delle condotte è rimessa agli organi di disciplina. La S.C. ha così confermato la decisione che aveva ritenuto integrato l'illecito per effetto di mancanze del notaio nella redazione del verbale d'inventario ex art. 775 c.p.c., quanto all'effettiva consistenza del patrimonio del de cuius e all'indicazione dell'orario di inizio delle operazioni. 964 CAP. XLVI - L'ARBITRATO CAPITOLO XLVI L'ARBITRATO (di Fabio Antezza) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Compromesso: interpretazione e distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale. – 3. Patto compromissorio: validità e vessatorietà. – 4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. – 5. Arbitrato, anche estero, e procedure concorsuali. – 6. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. – 7. Procedimento arbitrale e principio del contraddittorio. – 8. Anticipazione delle spese e prosecuzione del procedimento. – 9. Nullità del lodo e sua impugnazione. – 10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di compromesso e questioni di competenza e di giurisdizione. – 11. Riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri. 1. Premessa. Nel corso del 2015, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio, alla conseguente distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, alla validità della convenzione di arbitrato ed all'applicabilità ad esso della disciplina delle clausole vessatorie. Sono stati altresì diversi i principi sanciti in merito ai rapporti con le, con l'appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro e con l'autorità giudiziaria, nonché in tema di procedimento arbitrale, di impugnazione del lodo e di riconoscimento ed esecuzione in Italia del lodo straniero. 2. Compromesso: interpretazione e distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale. L'arbitrato rituale e quello irrituale sono riconducibili all'autonomia negoziale ed alla legittimazione delle parti a derogare alla giurisdizione per ottenere una decisione privata della lite. La loro differenza va invece ravvisata nel fatto che le parti, nel primo, vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., mentre nell'arbitrato irrituale intendono affidare all'arbitro la soluzione di controversie soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, che si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà. Così argomentando, Sez. 1, n. 23629/2015, Di Virgilio, in corso di massimazione, ha precisato che proprio alla stregua di tali 965 CAP. XLVI - L'ARBITRATO principi deve essere interpretata la clausola compromissoria, dovendosi comunque tenere conto, quale criterio sussidiario di valutazione ex art. 1362 c.c., della condotta complessiva tenuta dalle parti nelle trattative, nella formazione dei quesiti, nello stesso corso del procedimento arbitrale e successivamente alla pronuncia del lodo. Incidendo la natura rituale o irrituale dell'arbitrato sul problema processuale dell'ammissibilità dell'impugnazione del lodo per nullità, atteso che il lodo irrituale non è soggetto al regime di impugnazione previsto dall'articolo 827 c.p.c., la S.C., come ha precisato Sez. 1, n. 23629/2015, Di Virgilio, deve esaminare direttamente il patto compromissorio integrante la fonte dell'arbitrato e non limitarsi alla verifica della "tenuta", sotto il profilo motivazionale, dell'opzione ermeneutica adottata al riguardo dal giudice di merito. Qualora, all'esito del procedimento ermeneutico avente ad oggetto la portata del patto compromissorio, residuassero dubbi in ordine all'effettiva scelta dei contraenti, per Sez. 1, n. 06909/2015, Genovese, Rv. 634958, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell'art. 808-ter c.p.c. ad opera del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essi andrebbero risolti nel senso della ritualità dell'arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza. Sempre in tema di interpretazione del patto compromissorio – con particolare riferimento all'interpretazione della sua portata – è intervenuta Sez. 2, n. 03464/2015, Scalisi, Rv. 634557, per la quale esso è riferibile a tutte le controversie civili o commerciali attinenti a diritti disponibili nascenti dal contratto cui accede. Da quanto innanzi argomentato discende, come ha precisato la predetta sentenza, che la rinuncia ad avvalersi di una clausola compromissoria in occasione di una controversia insorta tra i contraenti non implica, di per sé, una definitiva e complessiva abdicazione alla stessa in relazione ad ogni altra controversia, salvo che le parti non abbiano rinunziato definitivamente alla clausola compromissoria nel suo complesso, con accordo la cui validità presuppone il rispetto delle condizioni di forma e di sostanza propria di un patto risolutivo degli effetti del patto compromissorio. 3. Patto compromissorio: validità e vessatorietà. In tema di validità del patto compromissorio e di applicabilità ad esso della disciplina delle clausole vessatorie ha statuito Sez. 3, n. 13312/2015, Pellecchia, Rv. 635911. Per la S.C., in particolare, come emerge dalla 966 CAP. XLVI - L'ARBITRATO massima ufficiale, «in materia di contratto di assicurazione, la clausola compromissoria inserita nelle condizioni generali di contratto, che preveda un meccanismo di corresponsione dell'onorario degli arbitri collegato al valore della causa, ma non in misura proporzionale, e indipendente dall'esito della controversia (nella specie, concretizzato nell'obbligo di pagare il compenso dell'arbitro rispettivamente nominato e di metà di quello dovuto al terzo), ha natura vessatoria se limiti il diritto dell'assicurato ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli del sinistro esponendolo (soprattutto nelle controversie di modesto valore) all'esborso di rilevanti somme per gli onorari degli arbitri, non proporzionate a quelle riconoscibili a titolo risarcitorio, con valenza dissuasiva dal ricorso all'arbitrato, sì da favorire comportamenti dilatori dell'assicuratore in pregiudizio del diritto di difesa dell'assicurato». Con riferimento alla validità della clausola compromissoria, ancorché per arbitrato irrituale, si è pronunciata anche Sez. 6-2, n. 10679/2015, D'Ascola, Rv. 635416, per la quale la clausola del patto compromissorio che attribuisca soltanto ad una delle parti la facoltà di declinare la competenza arbitrale e di chiedere che la controversia sia decisa dal giudice ordinario è in linea con i limiti di esercizio dell'autonomia privata ed è coerente con la tendenza del sistema favorevole al riconoscimento della giustizia pubblica quale forma primaria di soluzione dei conflitti. 4. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. Il capitolato generale per le opere pubbliche ha valore normativo e vincolante e si applica, quindi, in modo diretto, solo per gli appalti stipulati dallo Stato mentre per quelli stipulati dagli altri enti pubblici, dotati di distinta personalità giuridica e di propria autonomia, le previsioni del capitolato costituiscono clausole negoziali, comprensive anche di quella compromissoria per la soluzione delle controversie con il ricorso all'arbitrato, che assumono efficacia obbligatoria solo se e nei limiti in cui siano richiamate dalle parti per regolare il singolo rapporto contrattuale. Sez. 1, n. 00747/2015, Campanile, Rv. 634379, argomentando dall'assunto di cui innanzi, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ha precisato che, affinché si produca l'efficacia obbligatoria della clausola compromissoria contenuta nel capitolato generale con riferimento ad enti pubblici diversi dallo Stato, la volontà di recepire il contenuto dell'intero capitolato e, dunque, anche della detta clausola, deve risultare espressa in maniera esplicita ed univoca. La citata sentenza, ha affermato il principio di cui innanzi con riferimento al capitolato generale per le opere pubbliche di cui al 967 CAP. XLVI - L'ARBITRATO d.p.r. 16 luglio 1962, n. 1063 (oggi abrogato) ma esso è applicabile anche con riferimento alla successiva legge quadro 11 febbraio 1994, n. 109 (modificata dal d.l. 3 aprile 1995, n. 101, convertito nella l. 2 giugno 1995, n. 216) ed in generale a norme di legge richiamate dai contraenti. In particolare, per Sez. 1, n. 16544/2015, Salvago, Rv. 636501, il richiamo a norme di legge nell'ambito di un contratto di appalto di opere pubbliche non è "formale", salva diversa volontà delle parti; il contenuto delle stesse viene recepito nella dichiarazione negoziale formandone elemento integrante,cosicché, l'estensione e i limiti del contratto vanno individuati esclusivamente con riferimento al contenuto della disposizione richiamata al momento della stipula, mentre le successive vicende della norma possono spiegare influenza sul rapporto solo se e quando le parti manifestino, anche tacitamente, la volontà di tenerne conto a modificazione dei pregressi rapporti. 5. Arbitrato, anche estero, e procedure concorsuali. In tema di rapporti tra arbitrato e fallimento sono intervenute diverse decisioni della S.C., anche a Sezioni unite. Sez. U, n. 15200/2015, Travaglino, Rv. 635994, hanno confermato che in sede arbitrale non possono essere fatte valere ragioni di credito vantate verso una parte sottoposta a fallimento o ad amministrazione straordinaria in quanto l'effetto attributivo della cognizione agli arbitri, proprio del compromesso o della clausola compromissoria, è paralizzato dal prevalente effetto, prodotto dalle dette procedure concorsuali, dell'avocazione dei giudizi, aventi ad oggetto l'accertamento di un credito compreso nella procedura concorsuale, allo speciale ed inderogabile procedimento di verificazione dello stato passivo. Nel caso di specie si trattava di amministrazione straordinaria nella quale, invocata l'ammissione al passivo, a sua volta contestata con l'opposizione ex art. 98 l.fall. di un credito il cui accertamento era già stato devoluto alla giurisdizione di un arbitro internazionale, il credito stesso era stato ammesso con riserva. La S.C., nel sancire il principio di diritto, ha negato, con riferimento alla illustrata fattispecie concreta, la sussistenza di una questione di giurisdizione rilevante ex art. 41 c.p.c., in quanto si controverteva nel merito dell'ammissione al passivo. Il principio di cui innanzi, particolarmente pregnante anche in quanto sancito con riferimento ad arbitrato estero, ha carattere assoluto e non cedevole di fronte a convenzione arbitrale, come 968 CAP. XLVI - L'ARBITRATO precisato da Sez. 1, n. 13089/2015, Didone, Rv. 635933. Tale sentenza ha difatti statuito che: «la regola secondo la quale il curatore, che subentri in un contratto stipulato dal fallito contenente una clausola compromissoria, non può disconoscere tale clausola, ancorché configuri un patto autonomo, e, se il fallimento sia stato dichiarato dopo che gli arbitri siano stati già nominati ed abbiano accettato l'incarico, non può disconoscere gli effetti del rapporto già perfezionato e che ha avuto esecuzione, non si applica in relazione ai crediti vantati nei confronti di un soggetto sottoposto a procedura concorsuale». L'inderogabilità del procedimento di verifica del passivo ad opera della clausola arbitrale è argomentata dalla S.C., nella decisione in oggetto, in ragione dell'assunto per il quale tutte le azioni dirette a far valere diritti di credito sul patrimonio del debitore insolvente devono essere accertate nelle forme previste dall'art. 52, comma 2, l.fall., al fine di assicurare il rispetto della par condicio creditorum. Con riferimento agli effetti della dichiarazione di fallimento sui rapporti preesistenti, Sez. U, n. 10800/2015, Ambrosio, Rv. 635360, hanno chiarito che nel caso di clausola compromissoria stipulata prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti, il mandato conferito agli arbitri non è soggetto alla sanzione dello scioglimento prevista dall'art. 78 l.fall., configurandosi come atto negoziale riconducibile all'istituto del mandato collettivo e di quello conferito anche nell'interesse di terzi. Nel caso di specie si trattava di clausola di arbitrato internazionale e la S.C. ha ritenuto che il principio di cui innanzi tragga conferma, ancorché indiretta, dall'articolo 83 l.fall.. Se il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito nel caso di scioglimento del contratto contenente la clausola compromissoria, deve, di contro, ritenersi, come statuito dalla S.C., che detta clausola conservi la sua efficacia ove il curatore subentri nel rapporto, non essendo consentito a quest'ultimo recedere da singole clausole del contratto di cui chiede adempimento. 6. Arbitrato, "arbitrato societario" e diritto del lavoro. In materia di lavoro, il combinato disposto dell'art. 5, comma 2, della l. 3 aprile 2001, n. 142 (come modificato dalla l. 14 febbraio 2003, n. 30) e dell'art. 2533, comma 5, c.c., non consente una esegesi per la quale ogni controversia tra il socio e la società cooperativa di lavoro possa essere sottratta alla competenza del giudice del lavoro ma ne impone una in senso del tutto restrittivo tale da leggere le previsioni di competenza espresse a favore del giudice ordinario come eccezionali e comunque riferite al solo rapporto sociale stricto sensu e 969 CAP. XLVI - L'ARBITRATO non alle vicende relative ai rapporti di lavoro che il socio abbia stipulato con la società. Così argomentando, Sez. 6-3, n. 18110/2015, Frasca, Rv. 636740, ha statuito che la domanda di risarcimento per danno da mobbing avanzata dal socio lavoratore di una società cooperativa nei confronti della compagine sociale, in relazione a prestazioni lavorative ricomprese nell'oggetto sociale, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei, permanendo la distinzione con il rapporto sociale. Sicché, proprio in forza del principio di cui innanzi, la S.C. ha concluso nel senso che la clausola compromissoria contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi non è idonea ad impedire il valido ricorso all'autorità giudiziaria, in forza dell'applicabilità al caso di specie dell'art. 806 c.p.c. nel vigore del testo anteriore alle modifiche apportate con d.lgs. n. 40 del 2006 ma anche in quello successivo alle dette modifiche, come chiarito in motivazione. In ordine ai rapporti tra compromettibilità in arbitri, nella particolare forma del cosiddetto "arbitrato societario", e previsioni dello statuto societario, Sez. 1, n. 15841/2015, Nazzicone, Rv. 636117, affrontando questioni di diritto intertemporale, ha precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale non preveda, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla dalla data di entrata in vigore del citato decreto e, nel caso di arbitrato irrituale, anche nell'ipotesi di procedimento arbitrale avviato prima di tale momento. La previsione di inapplicabilità della nuova disciplina ai "giudizi pendenti", stabilita dall'art. 41 d.lgs. n. 5 del 2003, infatti, chiarisce la S.C., è intesa a far salvi gli eventuali giudizi arbitrali in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ma non già gli effetti della clausola arbitrale preesistente, che costituisce negozio e non atto processuale. «Le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, tipicamente riguardanti i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, sono compromettibili in arbitri ai sensi dell'articolo 34, comma 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili». In tema di "arbitrato societario" Sez. 6-1, n. 17283/2015, Cristiano, Rv. 636505, in applicazione dell'enunciato principio, ha riconosciuto la competenza arbitrale in relazione ad una controversia avente ad oggetto l'impugnativa di una delibera assembleare di aumento di 970 CAP. XLVI - L'ARBITRATO capitale e la conseguente domanda di risarcimento del danno, precisando che il detto art. 34 oltre che gli artt. 35 e 36 del medesimo decreto non dettano alcuna regola di interpretazione della clausola compromissoria societaria, non costituendo lex specialis rispetto alla norma di cui all'articolo 808-quater c.p.c. in tema di interpretazione della convenzione di arbitrato. 7. Procedimento e principio del contraddittorio. In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio, Sez. 2, n. 10809/2015, Matera, Rv. 635441, ha confermato l'orientamento per il quale qualora le parti con il compromesso o con la clausola compromissoria non abbiano determinato le regole processuali da adottare, gli arbitri sono liberi di regolare l'articolazione del procedimento nel modo che ritengono più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito. Tale libertà, però, ha precisato la sentenza citata, è limitata dal rispetto del principio del contraddittorio, posto dall'art. 101 c.p.c., che, comunque, necessita di essere opportunamente adattato alle peculiarità del giudizio arbitrale. Deve essere difatti offerta alle parti, al fine di consentire loro un'adeguata attività difensiva, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, anche dopo il compimento dell'istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avversarie. In applicazione del principio di cui innanzi, la S.C. ha ritenuto esente da censure la decisione arbitrale assunta all'esito di consulenza tecnica di ufficio la cui relazione tecnica era stata svolta anche alla stregua di nuovi documenti prodotti da una parte al consulente tecnico di ufficio ma comunque resi conoscibili da quest'ultimo al consulente tecnico nominato dall'altra parte, con conseguente rispetto del principio del contraddittorio per essere stato il tecnico di parte messo in grado di svolgere le opportune difese. Nel risolvere la questione di diritto di cui si è detto la S.C. ha chiarito anche i limiti del sindacato di legittimità nel caso di impugnazione di una sentenza che abbia deciso sull'impugnazione per nullità del lodo arbitrale, precisando che nel giudizio di legittimità non può essere esaminato direttamente il provvedimento degli arbitri ma solo la pronuncia emessa nel giudizio di impugnazione, allo scopo di verificare se essa sia adeguatamente e 971 CAP. XLVI - L'ARBITRATO correttamente motivata in relazione ai profili di censura del lodo; con la conseguenza che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità dei motivi della sentenza resa sul gravame. 8. Anticipazione delle spese e prosecuzione del procedimento. Sez. 1, n. 17956/2015, Campanile, Rv. 636772, si è pronunciata per la prima volta in merito all'interpretazione della previsione di cui all'art. 816-septies c.p.c., introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 40 del 2006, per la quale gli arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili. La disposizione di cui innanzi, «pur dettata a tutela degli arbitri e fondata sui doveri di collaborazione scaturenti dal rapporto di mandato, non è ricollegabile ad una mera richiesta degli arbitri stessi, essendo necessaria – come ben evidenzia il termine "subordinare" usato dal legislatore – una specifica manifestazione della volontà di condizionare la prosecuzione del procedimento al versamento delle somme dovute a titolo di anticipazione delle spese». Con la decisione in oggetto la S.C. ha chiarito che il riferimento alle "spese prevedibili", di cui all'art. 816-septies c.p.c., comunque non riguarda anche gli onorari, non essendo consentito agli arbitri procedere alla liquidazione del proprio compenso, come emerge dall'art. 814 c.p.c. che evidenzia la distinzione fra spese e onorari e dall'omessa indicazione, di tale distinzione, nel citato art. 816-septies. 9. Nullità del lodo e sua impugnazione. In tema di nullità del lodo, in particolare di integrazione del dispositivo ad opera della motivazione al fine dell'esclusione del vizio di omessa pronuncia, è intervenuta Sez. 1, n. 19074/2015, Mercolino, Rv. 636683. Con la detta decisione la S.C. ha applicato all'arbitrato il principio di diritto per il quale la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non solo del dispositivo ma anche della motivazione, quando il primo contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda. Nella specie, ha trovato conferma la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la ricorrenza del vizio in esame relativamente ad un lodo che, in motivazione, affrontava, ritenendola non meritevole di accoglimento, una domanda risarcitoria ed il cui dispositivo, tuttavia, non conteneva alcuna espressa statuizione di rigetto al riguardo. 972 CAP. XLVI - L'ARBITRATO Sempre in tema di impugnazione per nullità del lodo, con particolare riferimento ai limiti di deducibilità con il detto mezzo di gravame delle situazioni di incompatibilità degli arbitri, è intervenuta Sez. 1, n. 20558/2015, Mercolino, Rv. 637352. La S.C. ha ricordato che l'esistenza dell'incompatibilità deve essere fatta valere mediante istanza di ricusazione da proporsi, a norma dell'art. 815 c.p.c., entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina dell'arbitro o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione. È stato altresì precisato che, ai fini della validità del lodo, sono invece irrilevanti le situazioni di incompatibilità delle quali la parte sia venuta a conoscenza dopo la decisione; le quali, ove non si traducano in una incapacità assoluta all'esercizio della funzione arbitrale e, in genere, della funzione giudiziaria, non possono essere fatte valere mediante l'impugnazione per nullità. Ciò in ragione dell'efficacia vincolante acquisita dal lodo e della lettera dell'art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c., che circoscrive l'incapacità ad essere arbitro alle ipotesi tassativamente previste dall'art. 812 c.p.c., le quali fanno esclusivo riferimento all'incapacità legale di agire. L'impugnazione del lodo per vizi attinenti al procedimento di nomina degli arbitri è ammessa dall'art. 829, comma 2, c.p.c., sempre che la relativa nullità sia stata dedotta nel giudizio arbitrale. Nel riaffermare il principio di diritto di cui innanzi anche con riferimento all'arbitrato in materia di contratti pubblici, Sez. 1, 25525/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha precisato che esso opera anche successivamente alla dichiarazione di illegittimità dell'art. 150, comma 3, d.p.r. 21 dicembre 1999, n. 554, nella parte in cui sottrae ai contraenti la facoltà di nomina del terzo arbitro (nel caso di specie con sentenza del G.A. successiva alla nomina del terzo arbitro ed antecedente alla discussione in sede arbitrale). La sentenza in oggetto ha chiarito altresì che in senso contrario rispetto a quanto statuito non può invocarsi l'art. 5 c.p.c., in considerazione del completamento della nomina del terzo arbitro anteriormente alla detta dichiarazione di illegittimità, in quanto non viene in esame una questione di spostamento della competenza (dagli arbitri al giudice ordinario). La competenza arbitrale non è difatti esclusa in conseguenza della declaratoria di illegittimità della previsione regolamentare, permanendo essa pienamente, sia pure con una diversa regola relativa alla composizione dell'organo collegiale decidente, avendo l'art. 5 c.p.c. solo rilievo esterno e non con riferimento al procedimento di nomina dei giudici di un collegio. 973 CAP. XLVI - L'ARBITRATO Gli effetti della nomina dell'arbitro nel caso di cui innanzi, come ha precisato la citata Sez. 1, 25525/2015, Genovese, non possono comunque dirsi sanati dall'art. 253, comma 34, lett. b), D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (cd. "Codice degli appalti"). La norma transitoria da ultimo citata, che salvaguardia i pronunciati arbitrali già resi, esige difatti che siano state rispettate le disposizioni relative all'arbitrato contenute nel c.p.c., vale a dire anche quelle che hanno consentito alla volontà concorde delle parti la scelta del terzo arbitro. Con particolare riferimento ai rapporti tra la decisione secondo diritto, laddove le parti non abbiano espressamente attribuito agli arbitri il potere di decidere secondo equità, e la possibilità di far valere errores in iudicando con l'impugnazione del lodo per nullità è intervenuta Sez. 1, n. 19075/2015, Mercolino, Rv. 636684. La S.C., muovendo dal disposto di cui all'articolo 829, comma 3, c.p.c., ha evidenziato che la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia può essere fatta valere, quale causa di nullità del lodo, solo laddove tale possibilità sia espressamente disposta dalla legge ovvero contemplata dalle parti, in maniera chiara ed inequivocabile, nella clausola compromissoria o in altri atti anteriori all'instaurazione del procedimento arbitrale. A tali fini non è sufficiente la mera previsione, contenuta nel citato articolo 829, di una decisione secondo diritto sostanzialmente riproduttiva dell'art. 822 c.p.c. ed astrattamente riconducibile, pertanto, alla volontà di escludere il potere degli arbitri di decidere secondo equità. Circa il rispetto del termine annuale per l'impugnazione per nullità del lodo collegiale, nel caso di mancanza di notificazione ed ai sensi dell'art. 828, comma 2, c.p.c., Sez. 1, n. 19163/2015, Mercolino, Rv. 637183, ha precisato che esso decorre dalla data della sottoscrizione apposta sul lodo dall'arbitro dissenziente. Nel caso di specie, in applicazione dell'enunciato principio di diritto, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva fatto decorrere il termine di impugnazione dalla data della sottoscrizione degli arbitri di maggioranza, considerando irrilevante la circostanza che lo spazio riservato alla sottoscrizione dell'ultimo arbitro fosse stato riempito con un rinvio ad una relazione ed accompagnato dalla sigla del suo autore. In tema di impugnazione del lodo per nullità parziale o totale, Sez. 1, n. 20557/2015, Campanile, Rv. 637416, ha chiarito i rapporti tra fase rescindente e fase rescissoria, con riferimento al disposto di cui all'articolo 830, comma 1, c.p.c., nel testo introdotto dalla l. 1 974 CAP. XLVI - L'ARBITRATO maggio 1994, n. 25, il cui ultimo inciso è sostanzialmente immutato a seguito della modifica del detto articolo ad opera del d.lgs. n. 40 del 2006. L'art. 830, comma 1, c.p.c. impone alla corte di appello, nel caso di accoglimento dell'impugnazione per nullità del lodo per un vizio che incida soltanto su una parte di esso, di accertare se detta parte sia scindibile dalle altre, evidenziando i rapporti di logica e giuridica connessione, dipendenza e pregiudizialità tra le varie parti della pronuncia arbitrale; all'esito di tale accertamento, di dichiarare la nullità parziale del lodo, così limitando la cognizione del giudizio rescissorio al capo o ai capi ritenuti viziati ed a quelli ad essi inscindibilmente legati, con la conferma del lodo nel resto, ovvero di pronunciarne la nullità totale. Ciò premesso, la menzionata sentenza, ha chiarito che oggetto dell'indagine del giudice dell'impugnazione del lodo (indifferentemente proposta in via principale o incidentale) non è il collegamento astratto tra i rapporti sostanziali delle parti, né tra i vari negozi che da questi sono derivati, bensì quello esistente in concreto tra le varie statuizioni in cui il lodo è articolato; collegamento da accertare valutando se la parte o le parti da dichiarare nulle siano caratterizzate da petitum autonomo e indipendente da quello di una o di alcune delle altre, ovvero se fra esse sussista un vincolo di subordinazione o di connessione logica o giuridica (nel senso che la decisione relativa ad un rapporto giuridico sia virtualmente influente sulla decisione avente ad oggetto altro rapporto giuridico). 10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di compromesso e questioni di competenza e di giurisdizione. Sez. 6-1, n. 22748/2015, Mercolino, in corso di massimazione, muovendo dalla natura giurisdizionale e sostitutiva del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, ha ribadito che l'eccezione di compromesso ha natura processuale, precisando che essa inerisce a questione di competenza non rilevabile d'ufficio, in quanto di natura non funzionale e non attinente a diritti indisponibili. Quanto al termine ed alle modalità per sollevare la questione di cui innanzi, argomentando dall'articolo 38 c.p.c., che fa riferimento alla comparsa di risposta tempestivamente depositata, il menzionato provvedimento ha poi statuito che l'eccezione di incompetenza deve essere fatta valere nella comparsa di risposta e nel termine fissato ex articolo 166 c.p.c., a pena di decadenza e 975 CAP. XLVI - L'ARBITRATO conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta. Sempre in tema di competenza e rapporti tra arbitri rituali e giudici ordinari, Sez. 6-1, n. 23176/2015, Genovese, in corso di massimazione, ha precisato che la mancata impugnazione della declinatoria della competenza del giudice ordinario, dando luogo al giudicato sulla competenza degli arbitri, preclude questioni inerenti la clausola compromissoria, sia in sede di giudizio arbitrale sia in sede di impugnazione del relativo lodo. La S.C. ha sancito il principio di cui innanzi con riferimento a fattispecie per la quale non era applicabile l'art. 819-ter c.p.c., in quanto inerente procedimento arbitrale nel quale la domanda era stata proposta antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 e, quindi, non in ragione dell'attuale disciplina dei rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, dettata dal citato articolo, bensì in considerazione della natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali. Quanto innanzi evidenziato deve però fare i conti con la disciplina transitoria dettata dal d.lgs. n. 40 del 2006 e, pertanto, come ha precisato Sez. 6-3, n. 10506/2015, Frasca, Rv. 635607, «nei giudizi ordinari radicati anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 819 ter c.p.c., la decisione con cui il giudice d'appello – in riforma della sentenza di prime cure – ritenga la controversia sottoposta al suo esame devoluta alla potestas iudicandi di un collegio arbitrale non integra una pronuncia sulla competenza ma sulla proponibilità dell'azione giudiziaria, risultando pertanto impugnabile con ricorso per cassazione e non con regolamento di competenza». «L'indagine sulla portata di una clausola compromissoria, ai fini della risoluzione di una questione di competenza, rientra nei poteri del supremo collegio ed in tale materia la Corte suprema è anche giudice di fatto», Sez. 6-1, n. 19546/2015, Ragonesi, Rv. 637119. In tema di declinatoria di giurisdizione la S.C. ha invero precisato che, a seguito di pronuncia declinatoria di giurisdizione in un giudizio di impugnazione di lodo arbitrale, l'arbitrato, degli effetti sostanziali e processuali della translatio iudicii. Sez. 1, n. 20105/2015, Campanile, Rv. 637585 e 637584, ha in particolare precisato che in tema di impugnazione del lodo arbitrale, a seguito di pronuncia declinatoria di giurisdizione, il termine per adire il giudice munito di giurisdizione, ove non indicato, è quello di cui all'art. 50 c.p.c. e che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si conservano nel processo proseguito dinanzi al giudice munito di giurisdizione. Nel caso di specie il lodo era stato impugnato innanzi al Consiglio di Stato e, successivamente 976 CAP. XLVI - L'ARBITRATO a declinatoria di giurisdizione, innanzi alla corte di appello nel rispetto dei termini di cui all'articolo 50 c.p.c., in ragione della mancata indicazione del termine per la riassunzione da parte del giudice amministrativo. 11. Riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri. Sez. 1, n. 17712/2015, Bisogni, Rv. 636778, infine, è intervenuta in materia di riconoscimento ed esecuzione in Italia di lodi stranieri interpretando il combinato disposto degli articoli 839 e 840 c.p.c. e precisando che il procedimento da essi previsto si riferisce ai soli lodi stranieri e non anche alle pronunce giurisdizionali che abbiano avuto ad oggetto i lodi per effetto della loro impugnazione. È esclusa l'operatività del detto procedimento anche nel caso di annullamento parziale del lodo da parte dell'autorità straniera, non essendo contemplata la possibilità di riconoscimento dell'efficacia esecutiva per le sole parti del lodo non annullate ed, anzi, ostando a ciò il disposto di cui all'articolo 840, comma 3, n. 5, c.p.c. ,che non distingue tra nullità, annullamento (totale o parziale), riforma o correzione. La citata sentenza, dopo aver statuito il principio di si è detto, ha indicato anche la strada percorribile per ottenere l'esecuzione delle sentenze straniere di annullamento (totale o parziale) del lodo, individuandola nella messa in esecuzione o nella richiesta di riconoscimento del provvedimento straniero che ha annullato il lodo, per poter poi far valere, nel caso di non ottemperanza della parte soccombente, l'efficacia esecutiva anche delle statuizioni del lodo che non sono state oggetto di annullamento. 977 978 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE UF F I C I O D E L MA S S I M A R I O _______ Rassegna della giurisprudenza di legittimità ____________ Gli orientamenti delle Sezioni Civili ____________ III Anno 2015 La giurisprudenza delle Sezioni Civili Anno 2015 DIRETTORE: Giuseppe Maria Berruti VICE-DIRETTORE: Giovanni Amoroso hanno collaborato alla redazione: AUTORI: : Irene Ambrosi, Fabio Antezza, Stefania Billi, Eduardo Campese, Enrico Carbone, Dario Cavallari, Aldo Ceniccola, Gian Andrea Chiesi, Marina Cirese, Francesco Cortesi, Milena d'Oriano, Paola D'Ovidio, Lorenzo Delli Priscoli, Paolo Di Marzio, Luigi Di Paola, Giuseppe Dongiacomo, Giovanni Fanticini, Annamaria Fasano, Francesco Federici, Ileana Fedele, Giuseppe Fichera, Rosaria Giordano, Gianluca Grasso, Stefano Giaime Guizzi, Salvatore Leuzzi, Francesca Miglio, Marzia Minutillo Turtur, Roberto Mucci, Giuseppe Nicastro, Andrea Nocera, Giacomo Maria Nonno, Andrea Penta, Francesca Picardi, Paolo Porreca, Raffaele Rossi, Salvatore Saija, Donatella Salari, Paolo Spaziani, Cesare Trapuzzano, Cristiano Valle, Luca Varrone, Andrea Venegoni. A CURA DI: Giuseppe Fuochi Tinarelli. VOLUME TERZO APPROFONDIMENTI TEMATICI CAPITOLO I LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI (di Marina Cirese)......................................................................................................... 1 1. Premessa ..................................................................................................................................................... 1 2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario...........................................................2 3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno ........................................................................................................................................................ 7 4. Il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori ................................................................................... 9 CAPITOLO II DIRITTI DELLE PERSONE TRANSESSUALI: LA RETTIFICAZIONE DI SESSO NON NECESSITA LA MODIFICAZIONE CHIRURGICA DEI CARATTERI SESSUALI PRIMARI E NON COMPORTA LO SCIOGLIMENTO AUTOMATICO DEL MATRIMONIO DELLA COPPIA DIVENUTA OMOSESSUALE (di Giuseppe Nicastro) ..........................................................................................................................................14 1. Premessa...................................................................................................................................................14 2. Il principio affermato dalla sentenza n. 8097 del 2015.......................................................................14 2.1. La vicenda, le norme applicabili e le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte .............................................................................................................................................................. 15 2.2. La sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014 e la problematicità del suo seguito ........................................................................................................................................................... 16 2.3. L'originale seguito della Cassazione: il matrimonio risolutivamente condizionato della coppia divenuta del medesimo sesso ........................................................................................................20 3. Il principio affermato dalla sentenza n. 15138 del 2015.....................................................................24 3.1. La vicenda, le norme applicabili e le trasformazioni del transessualismo...............................24 3.2. La soluzione della Cassazione: la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso .................... 26 CAPITOLO III GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO (di Francesco Federici) .......................................................... 33 1. Premessa...................................................................................................................................................33 2. Le questioni..............................................................................................................................................34 3. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla sufficienza del disconoscimento.....35 4. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla necessità della querela di falso ........36 5. Il contrasto nella giurisprudenza: la teoria dell'accertamento negativo............................................39 6. Il contributo della dottrina alla formazione degli indirizzi giurisprudenziali: la teoria favorevole alla sufficienza del disconoscimento......................................................................................40 7. Segue: le principali obiezioni..................................................................................................................42 8. Segue: la teoria favorevole alla necessità della querela di falso ..........................................................44 9. La composizione del contrasto: la scelta della terza via .....................................................................46 10. Brevi considerazioni conclusive ..........................................................................................................50 CAPITOLO IV QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE (di Cesare Trapuzzano) .................................................53 1. Premessa ...................................................................................................................................................53 2. Usucapione dell'azienda..........................................................................................................................54 3. Trasferimento del possesso....................................................................................................................59 3.1. Trasferimento di proprietà fondato sull'attestazione dell'usucapione a cura del disponente.....62 4. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale ............................................................................67 5. Interruzione del termine per usucapire.................................................................................................70 CAPITOLO V LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 (di Dario Cavallari). .........................76 1. La responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni arrecati ai terzi nell'esercizio della sua attività: cenni generali..................................................................................................................76 2. La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione..................................................78 3. La vicenda processuale............................................................................................................................82 4. La decisione: i punti fondamentali ........................................................................................................83 5. Considerazioni finali................................................................................................................................90 CAPITOLO VI LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE (di Annamaria Fasano) ............................................94 1. Il contratto preliminare di preliminare..................................................................................................94 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e di merito ........................................................ 95 3. Il recente arresto della Suprema Corte sulla validità del contratto preliminare di preliminare: Sez. U, n. 4826 del 2015..............................................................................................................................98 3.1. Riflessioni sulla causa...................................................................................................................100 3.2. La tesi negativa .............................................................................................................................102 3.3. La tesi positiva..............................................................................................................................104 3.4. L'orientamento delle Sezioni Unite e le condizioni di ammissibilità del preliminare di preliminare ..................................................................................................................................................105 CAPITOLO VII LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO (di Luca Varrone) .......................................................................................................................................................109 1. Premessa .................................................................................................................................................109 2. Brevi cenni sull'evoluzione normativa in materia di locazioni ad uso abitativo............................110 3. L'art. 13 e l'obbligo di registrazione del contratto di locazione ad uso abitativo (Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227).....................................................................................................112 4. L'art. 1, comma 4, e la forma del contratto di locazione di immobili ad uso abitativo (Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227) ................................................................................................116 4.1 La forma nella teoria generale del contratto alla luce dell'evoluzione cd. neoformalista ...116 4.2. La forma nel contratto di locazione ad uso abitativo..............................................................117 4.3. L'interpretazione dell'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 della giurisprudenza di merito......................................................................................................................................................118 4.4. L'interpretazione delle Sezioni Unite ........................................................................................119 CAPITOLO VIII PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' (di Fabio Antezza e Lorenzo Delli Priscoli)................124 IV 1. Premessa: la questione di diritto..........................................................................................................124 2. Ricostruzione dei diversi percorsi logico-giuridici seguiti dalla S.C................................................125 3. Interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., beni giuridici tutelati e rilevanza a fini risarcitori........................................................................................................................127 4. Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà...................................................134 5. Considerazioni di sintesi.......................................................................................................................139 CAPITOLO IX IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE (di Andrea Penta)...............................................................................................................................................142 1. Il danno tanatologico. Il panorama giurisprudenziale che ha preceduto la "sentenza Scarano" 142 1.1. Gli orientamenti contrario e favorevole al danno tanatologico e la posizione delle Sezioni Unite ..............................................................................................................................................145 1.2. Le sanzioni penali: sovrapposizione di tutele...........................................................................147 1.3. E' preferibile uccidere o ferire?..................................................................................................149 1.4. I rapporti con il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale.......................150 1.5. Il danno da perdita del rapporto parentale...............................................................................152 2. Il danno alla salute: criteri di liquidazione..........................................................................................155 2.1. Il danno morale e quello esistenziale.........................................................................................157 2.2. Altri parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale............................................160 3. I diritti inviolabili.............................................................................................................................161 CAPITOLO X LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO (di Irene Ambrosi) ..........................................165 1. Premessa.................................................................................................................................................165 2. Natura della responsabilità della struttura e del medico in essa operante......................................167 2.1. Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nei confronti del paziente e conseguenti corollari, in parte consolidati, in parte problematici........................................................168 2.2. Natura della responsabilità "da contatto" del medico operante nella struttura sanitaria nei confronti del paziente ricondotta al tipo contrattuale ..........................................................................172 3. Criteri di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità............................................177 3.1. La misura dell'obbligo ovvero il criterio della diligenza qualificata.......................................177 3.2. La regola "del più probabile che non" nell'accertamento del nesso causale........................182 3.3. I criteri di ripartizione dell'onere probatorio in tema di nesso causale.................................186 4. La responsabilità medico-chirurgica come "Nave ... in gran tempesta" verso un nuovo orizzonte normativo..................................................................................................................................189 CAPITOLO XI IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE (di Donatella Salari)...................................192 1. Inquadramento ......................................................................................................................................192 2. Le modifiche di cui alla l. n. 238 del 1997........................................................................................1924 2.1. Le infezioni contratte e conosciute ante l.. n. 238 del 1997 e l'estensione del termine decadenziale alle patologie non espressamente soggette al termine di decadenza............................194 3. La conoscenza dell'evento dannoso....................................................................................................196 4. Il contrasto di giurisprudenza..............................................................................................................197 4.1. La composizione del contrasto da parte delle Sezioni Unite .................................................198 5. Indennizzo e risarcimento....................................................................................................................201 6. Decorrenza del termine di decadenza.................................................................................................202 CAPITOLO XII I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO (di Milena d'Oriano)...............................207 1. Le controversie previdenziali in materia di amianto.........................................................................207 2. La natura del beneficio contributivo...................................................................................................208 3. La domanda amministrativa.................................................................................................................209 V 4. La decadenza..........................................................................................................................................212 4.1. La decadenza generale-triennale.................................................................................................212 4.2. La decadenza speciale-semestrale ..............................................................................................217 5. La prescrizione.......................................................................................................................................219 CAPITOLO XIII IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO (di Giuseppe Dongiacomo) ..................................................................................................................................................222 1. I dati normativi ......................................................................................................................................222 2. Il potere del curatore di scelta tra il subingresso e lo scioglimento del contratto preliminare ....223 3. Il potere del curatore di sciogliere il contratto preliminare e la domanda di esecuzione in forma specifica: il contrasto giurisprudenziale.......................................................................................225 4. La soluzione delle Sezioni Unite..........................................................................................................232 CAPITOLO XIV IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO (di Andrea Nocera)..........................................................................................................................................................235 1. Il contraddittorio endoprocedimentale nella sentenza Sez. U, 24823/2015..................................235 2. Il dato positivo di riferimento. L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 nella applicazione giurisprudenziale .................................................................................................................236 3. Il principio del contraddittorio endoprocedimentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. La composizione di un'apparente distonia.............................................................................................242 4. La ricerca di un autonomo fondamento del principio nell'ordinamento interno .........................244 5. Il principio del contraddittorio nel diritto comunitario....................................................................250 6. La divaricazione applicativa del principio. L'obbligo del contraddittorio procedimentale nei tributi cd. "non armonizzati" ed in quelli "armonizzati" .....................................................................253 7. La sanzione dell'invalidità dell'atto impositivo per la violazione del principio del contraddittorio negli accertamenti concernenti tributi cd. "armonizzati" .........................................255 CAPITOLO XV GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE (di Andrea Venegoni) ......................................................................................................................................................262 1. Introduzione...........................................................................................................................................262 2. La clausola anti-elusione nell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale ........................................263 3. Gli aspetti penali dell'abuso di diritto .................................................................................................263 4. Conclusioni.............................................................................................................................................263 CAPITOLO XVI IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE (di Francesca Picardi) ..........................................................................................................................................274 1. I trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio............................................................274 1.1. I trasferimenti immobiliari integranti condizioni di separazione o divorzio ........................275 1.2. I trasferimenti immobiliari integranti meri patti accessori......................................................277 2. L'art. 19 della legge n. 74 del 1987 e la sua evoluzione ....................................................................279 3. La persistente vigenza dell'esenzione riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio...............................................................................................................................281 4. Il prelievo fiscale oggetto di esenzione...............................................................................................282 5. I trasferimenti immobiliari esenti ........................................................................................................282 6. La decadenza dall'agevolazione prima casa........................................................................................286 CAPITOLO XVII RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO (di Paolo Porreca) .........................................................................................................................................................293 1. L'arresto delle Sezioni Unite sul cd. estratto di ruolo tributario e il contrasto nella precedente giurisprudenza della Corte di cassazione ................................................................................................293 1.1. Analisi dell'orientamento affermativo .......................................................................................294 VI 1.2. Analisi dell'orientamento negativo ............................................................................................295 2. La ricostruzione risolutiva....................................................................................................................297 3. La discussione nella dottrina: analisi della tesi espansiva .................................................................300 3.1. Analisi della tesi restrittiva ..........................................................................................................301 4. Implicazioni dell'arresto del 2015: atti impugnabili davanti al giudice tributario e natura del processo. Premessa....................................................................................................................................303 4.1. La riforma del 2001 .....................................................................................................................304 4.2. Dilatazione del catalogo ..............................................................................................................305 4.3. L'impugnazione facoltativa anticipata.......................................................................................308 CAPITOLO XVIII La mutatio libelli ed i suoi limiti di ammissibilità (di Eduardo Campese)..................................................313 1. Premessa.................................................................................................................................................313 2. Domanda nuova ed emendatio libelli nel significato tradizionale.......................................................313 3. L'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato.................................................318 4. L'ammissibilità della mutatio libelli: le condizioni condizioni oggi poste dalle Sezioni Unite........320 CAPITOLO XIX IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. (di Rosaria Giordano)...........................................................328 1. Il sistema precedente.............................................................................................................................328 2. La nuova formulazione dell'art. 38 disp. att c.c.................................................................................330 3. Ambito d'applicazione ratione temporis.................................................................................................331 4. Competenza sui procedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c. ................................................................................................................................................................ 332 5. Pendenza del giudizio sulla crisi coniugale e del procedimento de potestate tra le "stesse parti"..333 6. Giudizio di separazione o divorzio "in corso" al momento della proposizione del ricorso dinanzi al tribunale minorile.....................................................................................................................335 7. Individuazione del giudice ordinario competente se il procedimento sulla crisi coniugale pende in grado d'appello...........................................................................................................................335 8. Proposizione della domanda dinanzi al tribunale ordinario successivamente all'inizio del procedimento de potestate di fronte al tribunale per i minorenni ..........................................................337 9. Autorizzazione al riconoscimento dei figli da parte dei minori infrasedicenni.............................338 CAPITOLO XX DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE (di Gian Andrea Chiesi)...................................................................................................................341 1. Premessa.................................................................................................................................................341 2. L'orientamento tradizionale .................................................................................................................341 3. La fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c......................................................................342 4. Conseguenze derivanti dalla natura di mera difesa ...........................................................................343 5. Il comportamento dello pseudo-rappresentato.................................................................................344 6. Conclusioni.............................................................................................................................................345 CAPITOLO XXI IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE (di Antonio Scarpa)...................347 1. Sez. U, n. 14475/2015 ..........................................................................................................................347 2. Unitarietà dei procedimenti bifasici ai fini dell'acquisizione probatoria.........................................348 3. Disponibilità ed immanenza della prova documentale.....................................................................349 4. Irreversibilità dell'acquisizione documentale .....................................................................................350 5. Produzione documentale e processo civile telematico.....................................................................352 CAPITOLO XXII L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 (di Salvatore Saija)..............................................................................................................356 1. Introduzione...........................................................................................................................................356 VII 2. La vicenda processuale..........................................................................................................................356 3. La motivazione di Sez. 3, n. 04228/2015...........................................................................................358 4. I primi commenti...................................................................................................................................359 5. Il consolidarsi dell'orientamento .........................................................................................................362 6. Considerazioni di sintesi. L'interesse ad agire in executivis ................................................................363 7. Conclusioni.............................................................................................................................................366 CAPITOLO XXIII I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI (di Paolo Spaziani) ..................................................370 1. Posizione del problema.........................................................................................................................370 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito................................................................................372 2.1. Le tesi "processualiste": tempus regit actum e tempus regit processum............................................373 2.2. La tesi "sostanzialista".................................................................................................................379 3. I principi affermati dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015 .............................................383 CAPITOLO XXIV IL SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DELLE DELIBERE DEL C.S.M. IN TEMA DI CONFERIMENTO DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI: ECCESSO DI POTERE GIURISDIZIONALE E LIMITI ESTERNI DELLA GIURISDIZIONE (di Gianluca Grasso) ............................................................................................390 1. Premessa .................................................................................................................................................390 1.1. Rilievo costituzionale del C.S.M. e conferimento degli incarichi dirigenziali.......................390 1.2. Provvedimenti consiliari e sindacato giurisdizionale ...............................................................391 2. I fatti........................................................................................................................................................393 3. I principi di diritto .................................................................................................................................394 3.1. Ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario avverso il medesimo atto amministrativo: insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale nella pronuncia di appello successiva all'ottemperanza .........................................................................................................................................395 3.2. Impugnazione della delibera del C.S.M. nel caso di magistrato ricorrente collocato successivamente in quiescenza: ammissibilità del sindacato di legittimità ma superamento dei limiti esterni della giurisdizione in caso di ricorso in ottemperanza per ottenere l'ordine rivolto al C.S.M. di assegnare il posto "ora per allora"......................................................................................395 3.3. limiti del sindacato di legittimità e valutazione di merito del contenuto della delibera e della sua ragionevolezza............................................................................................................................399 VIII CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI CAPITOLO I LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI (di Marina Cirese) SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario - 3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno – 4. Il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori. 1. Premessa. Il trattamento giuridico dello straniero extracomunitario nell'attuale assetto normativo è il risultato di una duplice ed opposta tensione, che opera, nel contempo, in direzione del livello sovranazionale e di quello infranazionale. Lo status dello straniero, invero, non si definisce solo nel binomio Costituzione-legislazione, ma risente dell'interazione con fonti sovranazionali (obblighi di diritto internazionale generale e convenzionale), con la progressiva attenuazione della tradizionale differenza tra diritti riconosciuti a tutti gli uomini e diritti riservati ai soli cittadini. Tale indirizzo interpretativo può farsi risalire alla sentenza n. 120 del 1967 della Corte costituzionale ove la Corte ebbe a riconoscere l'estensione agli stranieri «quando trattisi di rispettare quei diritti fondamentali» del principio di uguaglianza, garantito dall'art. 3 Cost., non "isolatamente considerato", ma "letto" in connessione con l'art. 2 Cost. e appunto con le norme di diritto internazionale, richiamate dall'art. 10, comma 2, della Costituzione. In tempi più recenti, attraverso la chiave offerta dal principio di non discriminazione, viene esteso agli stranieri il godimento di diritti ritenuti fondamentali, quale il diritto alla salute e ad un alloggio, mentre il riconoscimento della titolarità delle diverse posizioni soggettive è il risultato di un'operazione di bilanciamento effettuata caso per caso, in relazione agli interessi in gioco. Oggetto di specifica tutela è il trattamento giuridico dello straniero minore, tanto che lo stesso diritto all'unità familiare rileva in quanto funzionale alla garanzia del preminente interesse dello stesso a ricevere la massima espressione della funzione genitoriale. Deve, quindi, rilevarsi che lo "straniero migrante" non costituisce una categoria omogenea, potendosi in essa riscontrare diversità significative di status, sia in ragione del titolo in base al quale lo stesso si muove dal proprio paese, sia in relazione all'area 1 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI geografica interessata dalla migrazione, partecipando altresì detta condizione del processo di progressiva disarticolazione della contrapposizione tra cittadino e straniero. Di seguito si affronteranno alcuni dei temi maggiormente toccati dalle pronunce della Suprema Corte nel corso del 2015. 2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario. La Convenzione di Ginevra del 1951 predispone la tutela del "rifugiato", ovvero di colui che, avendo il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, si trovi fuori dal paese di cui è cittadino o nel quale abbia la propria residenza abituale e non possa o non voglia a causa di questo timore, avvalersi della protezione di quel paese. La disciplina stabilita da tale convenzione, nonché dal Protocollo di New York del 1987, che hanno impresso al rifugio ed all'asilo un'evoluzione significativa, si è poi rivelata inadeguata a fronte del mutamento intervenuto nella realtà internazionale che presenta oggi più che situazioni di persecuzione individuale, situazioni di diffusa violenza e sistematica violazione dei diritti di interi gruppi di persone. Di qui l'adozione con il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 di un "pacchetto" di direttive in materia di protezione del richiedente asilo o di persona altrimenti bisognosa di protezione, assimilandosi in un unico status giuridico persone bisognose di protezione internazionale tecnicamente qualificati come rifugiati e coloro che invece necessitano di una tutela temporanea o sussidiaria. A livello europeo la Direttiva 2004/83 introduce la "protezione sussidiaria" quale nuova forma complementare a quella riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra. Ulteriore risposta alle esigenze di tutela è la Direttiva 2011/95/UE, nota come direttiva qualifiche, che si indirizza verso il riconoscimento di uno status "unico" in grado di garantire gli stessi diritti ai rifugiati ed a coloro che beneficiano di protezione sussidiaria (attuata in Italia con il d.lgs. 21 febbraio 2014 n. 18). In Italia il diritto di asilo è garantito dall'art. 10 comma 3 della Costituzione secondo cui «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.» In assenza di una legge organica sull'asilo politico che, in 2 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 30 dicembre 1989, n. 416, conv. con modif. nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (in tal senso tra le altre Sez.1, n. 18940/2006, Cultrera, Rv. 591592). In relazione poi alla particolare condizione, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o può essere accordata la misura di tutela di protezione sussidiaria. Segnatamente, il rifugiato è colui che abbia un timore fondato di essere perseguitato, nel proprio Paese di origine, per motivi costituzionalmente rilevanti. A riguardo va detto che per "persecuzione" si intendono le minacce alla vita, la tortura, le ingiuste privazioni della libertà personale, le violazioni gravi dei diritti umani. Per essere riconosciuto rifugiato, non è indispensabile essere già stato effettivamente vittima di persecuzione, bensì è sufficiente il fondato motivo di temere l'esposizione, in caso di rimpatrio, ad un serio rischio di persecuzione. Tra gli effetti del riconoscimento dello status di rifugiato vi è il diritto al ricongiungimento familiare, il permesso di soggiorno o titolo di viaggio, la parificazione sanitaria e scolastica con il cittadino italiano. Viceversa non può essere concesso lo status di rifugiato allo straniero che: a) abbia commesso un crimine contro la pace, di guerra o contro l'umanità; b) abbia commesso, al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere classificati quali reati gravi; c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi O.N.U. La protezione sussidiaria è, invece, la protezione che viene accordata allo straniero privo dei requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che possa essere esposto, in caso di rientro nel Paese di origine o nel Paese in cui aveva la propria dimora abituale, ad un rischio effettivo di subire un grave danno, ed il quale non possa o non voglia, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di detto Stato. Tale protezione sussidiaria viene, generalmente, riconosciuta in caso di pericolo oggettivo derivante da violenza indiscriminata e 3 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI non necessariamente individuale. Infine, la protezione umanitaria può essere concessa mediante il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi ad hoc, ovvero, quando, pur non essendo ravvisabili gli estremi per la protezione internazionale, sussistano gravi motivi di carattere umanitario per il richiedente asilo. Lo status di rifugiato e le forme di protezione sussidiaria sono riconosciute all'esito dell'istruttoria effettuata dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Premesse le linee generali degli istituti previsti a tutela dello straniero extracomunitario, le pronunce della Suprema Corte appaiono ispirate dall'esigenza di garantirne l'effettività. Con riferimento al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 05926/2015, De Chiara, Rv. 634730, ha stabilito che, qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l'accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, il giudice statuire, altresì, sulla dedotta illegittimità del primo, a causa della omessa informazione. Si precisa, inoltre, che tale dovere di informazione è fondato su di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale. La domanda di protezione internazionale, di cui all'art. 3, comma 5, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, deve essere adeguatamente circostanziata. Il procedimento, secondo Sez. 6-1, n. 19197/2015, De Chiara, Rv. 637125, non si sottrae al principio dispositivo, sicché il richiedente ha l'onere di indicare i fatti costituitivi del diritto azionato, pena l'impossibilità per il giudice di introdurli d'ufficio nel giudizio. La Corte in Sez. 6-1, n. 16201/2015, De Chiara, Rv. 636625, ha altresì chiarito che, se viene presentata una domanda di protezione internazionale, il giudice non deve prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma è tenuto a valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell'eventuale 4 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI mancanza di altri elementi significativi. Il fatto da dimostrare va identificato nella grave violazione dei diritti umani alla quale il richiedente asilo sarebbe esposto rientrando in patria, di cui costituisce indizio, secondo Sez. 6-1, n. 16201/2015, De Chiara, Rv. 636626, anche la minaccia ricevuta in passato, che fa presumere la violazione futura in caso di rientro. Con riguardo all'onere della prova, la Suprema Corte ha puntualizzato che, in un procedimento finalizzato al conseguimento della protezione internazionale sussidiaria, il richiedente ha obblighi specifici. Per Sez. 6-1, n. 07333/2015, Acierno, Rv. 634949, lo straniero ha un dovere di cooperazione consistente nell'allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, mentre l'autorità decidente ha l'obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente con riferimento alle condizioni generali del Paese di origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti. In particolare, è necessario l'approfondimento istruttorio officioso, allorquando il richiedente descriva una situazione di rischio per la vita o l'incolumità fisica che derivi da sistemi di regole non scritte sub- statuali, imposte con violenza e sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali. E ciò proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statali. In linea con tale orientamento, Sez. 6-1, n. 14998/2015, Acierno, Rv. 636559, ha osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell'art. 14, lett. b) e c), del d.lgs. n. 251 del 2007, non è onere del richiedente fornire una precisa qualificazione giuridica della tipologia di misura di protezione invocata, ma è onere del giudice, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione, di cui all'art. 8, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l'incolumità fisica indicata dal ricorrente è astrattamente sussumibile in entrambe le tipologie tipizzate di rischio e sia effettivamente sussistente nel paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione. È stato, altresì, puntualizzato, con Sez. 6-1, n. 16202/2015, De Chiara, Rv. 636614, che il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona di cui all'art. 14, lett. c), del 5 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI d.lgs. n. 251 del 2007 non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico con riferimento alla sua situazione personale, in quanto la sua esistenza può desumersi anche dal grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, da cui dedurre che il rientro nel Paese d'origine determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente. Molto significativa è la pronuncia, Sez. 6-1, n. 02830/2015, Ragonesi, Rv. 634163, secondo cui il cittadino straniero che è imputato di un delitto comune (nella specie omicidio durante una rissa), punito nel paese di origine con la pena di morte, non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, poiché gli atti previsti dall'art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007, non sono collegati a motivi di persecuzione inerenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, al particolare gruppo sociale o all'opinione politica, ma unicamente alla protezione sussidiaria riconosciuta dall'art. 2, lett. g), dello stesso decreto, qualora il giudice di merito abbia fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel Paese d'origine, correrebbe un effettivo rischio di subire un grave danno. Con riferimento all'impugnazione dei provvedimenti in materia di protezione internazionale, Sez. 6-1, n. 18704/2015, Bisogni, Rv. 636868, ha puntualizzato che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 35, comma 14, del d.lgs. n. 25 del 2008, in materia di ricorso per cassazione, deve applicarsi il termine ordinario di cui all'art. 327 c.p.c. e non già il termine di trenta giorni di cui all'art. 702-quater c.p.c., relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell'art. 19 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150. Secondo la Corte, tale interpretazione scaturisce dalla necessità di attribuire priorità nella trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti i giudizi di merito, posto che ciò sarebbe in contrasto con il diritto delle parti al giusto processo e con la necessità di assicurare l'effettività del diritto di difesa. Ed inoltre, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Sez. 1, n. 24415/2015, De Chiara, in corso di massimazione, ha chiarito che la semplice proposizione del ricorso del richiedente asilo avverso il provvedimento negativo della commissione per la protezione internazionale sospende l'efficacia esecutiva di tale provvedimento (tranne in alcune ipotesi, peraltro non dichiarate sussistenti dal giudice del provvedimento impugnato) 6 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI di talché non scatta l'obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, previsto dall'art. 32, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 2008, permanendo per converso la situazione di inespellibilità prevista dall'art. 7, comma 1, fino alla decisione della commissione territoriale. Inoltre, come si evince da Sez. 6-1, n. 17668/2015, Acierno, Rv. 636699, l'insorgenza di cause appartenenti all'ambito della protezione internazionale, integranti il divieto di espulsione di cui all'art. 19, comma 2, lett. b), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non possono essere valutate ove si siano verificate dopo il rimpatrio coattivo, ma solo quando siano coeve all'applicazione della misura espulsiva. 3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno. Le condizioni dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri extracomunitari in Italia sono delineate dagli articoli da 4 a 9 bis del d.lgs. n. 286 del 1998. Il quadro normativo emergente dagli articoli appena menzionati delinea un complesso di titoli abilitativi all'ingresso e al soggiorno nel territorio italiano che si pongono tra loro in un rapporto di progressiva «gradualità». Dai cd. visti per l'ingresso, disciplinati dall'art. 4, alle ipotesi di permanenza prolungata, al permesso di soggiorno di cui all'art. 5, che può essere rilasciato per diversi motivi (di lavoro, studio, formazione ecc.) fino ad una situazione di permanenza più consolidata e cristallizzata con il permesso di soggiorno. Non è invece consentito l'ingresso allo straniero che rappresenti una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e per le relazioni internazionali, così come non è ammesso in caso di commissione di reati che destano particolare allarme sociale. I decreti di espulsione (artt. 13 e 14) emessi dalle autorità amministrative rappresentano invece, il principale strumento di contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina. L'espulsione amministrativa ha il preciso scopo di assicurare «una razionale gestione dei flussi di immigrazione nel nostro Paese». In via generale, il sistema normativo nazionale che regola l'accesso e l'immigrazione dei soggetti non appartenenti all'Unione Europea si incentra sulla previsione di obblighi di richiesta del permesso di soggiorno secondo precise modalità e sotto comminatoria di espulsione per colui che a tali obblighi ed oneri si sottragga. 7 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI L'art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 distingue tra l'espulsione disposta dal Ministro dell'interno «per motivi di ordine pubblico e sicurezza», cui si aggiunge una seconda ipotesi di espulsione disposta dalla medesima autorità amministrativa «per motivi di prevenzione del terrorismo», e l' espulsione disposta dal Prefetto (art. 13, comma 2). Essa può avvenire quando lo straniero è entrato nel territorio dello stato sottraendosi ai controlli alla frontiera e non è stato respinto, quando si è trattenuto nel territorio dello Stato senza permesso di soggiorno, quando debba essere considerato persona socialmente pericolosa o indiziata di far parte di associazioni di tipo mafioso. In ambedue i casi, l'espulsione è eseguita dal Questore (art. 13, comma 4). Con riguardo al riparto di giurisdizione, il legislatore ha demandato al giudice amministrativo la giurisdizione in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno e degli altri titoli equipollenti (art. 6, comma 10) mentre il sindacato sui decreti prefettizi di espulsione (con le eccezioni di cui all'art. 13, comma 11) è devoluto alla giurisdizione ordinaria (art. 13, comma 8). Con riguardo alle ipotesi di giurisdizione del giudice ordinario, la Suprema Corte è intervenuta su specifiche questioni relative al diritto di soggiorno dello straniero. Tra le decisioni più significative, si segnala Sez. 6-1, n. 18254/2015, Acierno, Rv. 636509, secondo cui il divieto di reingresso in Italia dello straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, non può superare il termine di cinque anni previsto dall'art. 13, comma 14, del d.lgs. n. 286 del 1998, come novellato dal d.l. 23 giugno 2011, n. 89, conv. con modif. nella legge 2 agosto 2011, n. 189, di recepimento della direttiva n. 115/2008/CE. Si é precisato, inoltre, che non è necessaria la speciale autorizzazione del Ministero dell'interno, prevista dal medesimo art. 13, comma 13, nelle ipotesi in cui lo straniero, per particolari ragioni, intenda fare rientro nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto. Con specifico riferimento al sindacato del giudice ordinario sulla legittimità dell'atto amministrativo emesso dal Questore, quale presupposto del decreto di espulsione, la Suprema Corte, con Sez. 6-1, n. 14610/2015, De Chiara, Rv. 635964, ha affermato che al giudice non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico 8 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza di tale ultimo giudizio non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l'impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti. Nello stesso ambito, merita menzione la pronuncia, Sez. 6-1, n. 17408/2015, Ragonesi, Rv. 636696, secondo cui il giudice di pace, investito dell'impugnazione del decreto di espulsione emesso dal prefetto, può sindacare solo la legittimità del provvedimento e, se non conforme a legge, disporne l'annullamento, ma non anche sostituire od integrare la motivazione dell'atto, trattandosi di una attività preclusa alla giurisdizione ordinaria. Il controllo giurisdizionale sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione disposto ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 286 del 1998 deve tuttavia avere ad oggetto, secondo Sez. 6-1, n. 24084/2015, De Chiara, in corso di massimazione, il riscontro dell'esistenza dei presupposti di appartenenza ad una delle categorie di persone pericolose indicate nell'art. 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, così come sostituito dall'art. 2 della legge 3 agosto 1988 n. 327, ovvero nell'art. 1 della legge del 31 maggio 1965 n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982 n. 646 (riferimenti oggi da intendersi alle corrispondenti disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione approvato con d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159). Il giudice di pace, quindi, ha poteri di accertamento pieni e non limitati da una insussistente discrezionalità della P.A., ritenendosi che non si attenga a tali principi il giudice che, al fine di verificare l'appartenenza dello straniero ad una delle categorie prima indicate, si limiti a prendere atto di una condanna penale omettendo ogni verifica in ordine alla valutazione di pericolosità sociale formulata dal Prefetto. 4. Il diritto all'unità familiare e la tutela dei minori. La giurisprudenza costituzionale asserisce che l'esigenza della convivenza del nucleo familiare si radica negli artt. 29, 30, 31 Cost. che assicurano protezione alla famiglia ed in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.) e perciò di tenerli con sé, ed il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia sono valori fondamentali della persona, che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri. 9 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI Detti principi, peraltro, sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall'Italia, in particolare gli artt. 8-12 della CEDU, l'art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, e infine gli artt. 9 e 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. Oggi la protezione dell'unità familiare è prevista anche dalle norme delle direttive comunitarie sul soggiorno dei comunitari e dei loro familiari (anche extracomunitari) e sul diritto al ricongiungimento familiare degli extracomunitari. In particolare il d.lgs. 8 gennaio 2007 n. 5, in attuazione della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al ricongiungimento familiare, ha introdotto nel d.lgs. n. 286 del 1998 disposizioni di favore. In particolare nell'art. 5 comma 5, si prevede che, per il rifiuto del rilascio, ovvero per la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o di familiare ricongiunto, «si tiene conto anche della natura e dell'effettività dei vincoli familiari dell'interessato, dell'esistenza di legami familiari e sociali con il Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del soggiorno nel medesimo territorio nazionale» (e analoga modifica è stata apportata, per quel che riguarda il provvedimento amministrativo di espulsione, all'art. 13, con l'inserimento del comma 2-bis). Particolare tutela ricevono i diritti fondamentali del minore straniero. Infatti sulla base della Convenzione sui diritti del fanciullo, siglata a New York dall'Assemblea generale dell'ONU il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge del 27 maggio 1991, n. 176, lo Stato è impegnato a garantire una sempre più completa ed effettiva protezione del minore, prevedendo, tra l'altro, particolari forme di assistenza del bambino privo di una famiglia ed adottabile o del bambino rifugiato e riconoscendo che il bambino non può essere separato dai genitori contro la sua volontà salvo che lo dispongano le autorità competenti nel suo interesse. La convenzione impegna ogni Stato a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nucleo familiare. Una interpretazione delle norme sugli stranieri favorevole al minore e alla famiglia si impone ed è espressamente prevista dallo stesso testo unico delle norme in materia di immigrazione. Ed invero l'art. 28, comma 3 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che in tutti i procedimenti giurisdizionali e in tutti i procedimenti amministrativi finalizzati ad attuare il diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con 10 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3, comma 1, della citata Convenzione sui diritti del fanciullo. Il vincolo familiare giustifica la sottrazione del trattamento del migrante al regime generale sugli stranieri, emergendo l'intenzione del legislatore di conservare i legami affettivi, nel rispetto delle indicazioni imposte dal bilanciamento con le esigenze di tutela dello Stato. Secondo la Suprema Corte, Sez. 6-1, n. 17942/2015, Bernabai, Rv. 637103, il "diritto all'unità familiare", infatti, non ha carattere assoluto, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni bilanciando l'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri. Con detta pronuncia la Corte interviene fornendo un importante chiarimento attorno ai presupposti richiesti dall'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 per la concessione di un provvedimento che autorizzi il familiare del minore all'ingresso o alla permanenza nel territorio nazionale. In particolare la Corte ha ritenuto che le situazioni a tal fine rilevanti devono essere di non lunga o indeterminata durata e non caratterizzate dalla tendenziale stabilità e che, pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si devono comunque concretare in eventi traumatici e non prevedibili che trascendono il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare. Alla stregua di detta interpretazione, la Corte rigettava il ricorso, atteso che nel caso di specie la situazione dedotta dalla ricorrente non era destinata a durare per un tempo determinato e temporaneo, con ciò risultando incompatibile con la natura dell'autorizzazione richiesta, dovendosi peraltro considerare che il danno che sarebbe derivato al minore non sembrava caratterizzato dai requisiti di effettività, concretezza e gravità. La tematica affrontata nella pronuncia in esame risulta caratterizzata da una particolare problematicità, atteso che a fronte dell'interesse del minore si rileva un contrastante interesse dello Stato alla regolamentazione e limitazione del soggiorno da parte degli stranieri ove la soluzione si incentra sull'interpretazione dei "gravi motivi" che legittimano il familiare all'ingresso o alla 11 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI permanenza in Italia. Attorno al concetto di gravi motivi di cui all'art. 31, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 si sono tradizionalmente registrate contrastanti interpretazioni nell'ambito della stessa giurisprudenza di legittimità. L'orientamento risalente, nella prospettiva di salvaguardare il territorio nazionale da una immigrazione non regolamentata a sostanziale svantaggio del "superiore interesse del fanciullo", ha interpretato restrittivamente il concetto di gravi motivi, ritenendo che questo richiedesse l'accertamento di situazioni di emergenza di natura eccezionale e contingente, di situazioni, cioè, che non siano normali e stabilmente ricorrenti nella crescita del minore. In seguito alla pronuncia Sez. U, n. 22216/2006, Vitrone, Rv. 592144 ha tuttavia cominciato a farsi strada una interpretazione estensiva dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore, non limitati dai requisiti dell'eccezionalità e contingenza, ma strettamente connessi allo sviluppo del fanciullo in modo da prendere in considerazione il preminente interesse del minore stesso in relazione alle varie circostanze del caso concreto, quali l'età, le condizioni di salute (anche psichiche) nonché il pregiudizio che potrebbe a questi derivare dall'allontanamento dei familiari. Nel solco di una interpretazione estensiva dell'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 si pone, invece, Sez. 1, n. 24476/2015, Acierno, in corso di massimazione, ove si afferma che la ratio dell'istituto è la tutela del minore globalmente considerato, comprensiva tanto della salute fisica quanto di quella psichica e che sussistono i "gravi motivi" legittimanti la temporanea autorizzazione della madre al soggiorno allorché l'allontanamento del minore dalla madre o lo sradicamento della situazione attuale di vita determinino un pregiudizio ed un grave rischio per l'equilibrio psico-fisico del minore. Nella fattispecie la Corte ha fondato l'accoglimento del ricorso sulla prognosi del grave pregiudizio che sarebbe derivato alla minore di anni due, che peraltro aveva già subito l'abbandono del padre, dall'allontanamento dalla figura materna e dallo sradicamento dalla situazione di vita attuale. In linea con la tutela specifica assicurata ai minori e nell'ottica del loro "superiore interesse" si esprime anche Sez. 6-1, n. 17819/2015, Ragonesi, Rv. 637099, che ha statuito che il padre straniero di un minore di sei mesi, che abbia provveduto al riconoscimento del figlio, ha diritto ad ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ai sensi dell'art. 19, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, 12 CAP. I – LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI trattandosi di una disposizione finalizzata alla tutela del rapporto genitoriale nell'ottica di una crescita armoniosa del bambino nei mesi immediatamente successivi alla sua nascita. Sui beneficiari di questo diritto di mobilità "derivato", si è pronunciata Sez. 1, n. 15362/2015, Acierno, Rv. 637091, secondo cui, in tema di espulsione del cittadino straniero, l'art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, impone di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della durata del soggiorno, nonché dell'esistenza di legami con il Paese di origine, dovendo il giudice effettuare una valutazione caso per caso, senza distinguere tra vita privata e vita familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall'art. 8 CEDU, che non prevede gradazioni o gerarchie. Il principio della tutela privilegiata garantita alla famiglia ed in particolare al minore si desume a contrario da Sez. 6-1, n. 14610/2015, De Chiara, Rv. 635963, ove si afferma che l'espulsione dello straniero che convive in Italia con un parente, non implica la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la cui tutela, sancita anche dall'art. 8 della CEDU, non è incondizionata, essendo consentita quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell'ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui. 13 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE CAPITOLO II DIRITTI DELLE PERSONE TRANSESSUALI: LA RETTIFICAZIONE DI SESSO NON NECESSITA LA MODIFICAZIONE CHIRURGICA DEI CARATTERI SESSUALI PRIMARI E NON COMPORTA LO SCIOGLIMENTO AUTOMATICO DEL MATRIMONIO DELLA COPPIA DIVENUTA OMOSESSUALE (di Giuseppe Nicastro) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il principio affermato dalla sentenza n. 8097 del 2015. – 2.1. La vicenda, le norme applicabili e le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte. – 2.2. La sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014 e la problematicità del suo seguito. – 2.3. L'originale seguito della Cassazione: il matrimonio risolutivamente condizionato della coppia divenuta del medesimo sesso. – 3. Il principio affermato dalla sentenza n. 15138 del 2015. – 3.1. La vicenda, le norme applicabili e le trasformazioni del transessualismo. – 3.2. La soluzione della Cassazione: la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso. 1. Premessa. Con due importanti sentenze, la prima sezione civile della Corte ha affrontato il tema, divenuto, negli anni più recenti, di costante attualità, dei diritti delle persone transessuali, sotto gli aspetti – in precedenza mai sottoposti alla sua attenzione – della necessità, ai fini della rettificazione di attribuzione di sesso, della previa modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari (Sez. 1, n. 15138/2015, Acierno, Rv. 635040) e delle conseguenze di tale rettificazione sul matrimonio della persona coniugata (Sez. 1, n. 08097/2015, Acierno, Rv. 636001). Le due pronunce segnano un indubbio e significativo innalzamento del livello di tutela dei diritti delle persone transessuali e offrono lo spunto per una più generale riflessione sui problemi giuridici del transessualismo. 2. Il principio affermato dalla sentenza n. 8097 del 2015. Con la sentenza n. 08097/2015, prima in ordine cronologico, la Corte ha affermato il principio secondo cui, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, operata dalla Corte costituzionale con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014, la rettificazione di attribuzione di sesso della persona coniugata non può comportare l'automatico venir meno dello «statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale», che deve, invece, essere conservato fino a quando il legislatore non detti una disciplina che consenta alla 14 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE coppia di mantenere in vita il proprio rapporto con un'altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti e obblighi. 2.1. La vicenda, le norme applicabili e le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte. La sentenza segna la conclusione del lungo iter processuale relativo alla non comune vicenda di una coppia sposata che, ancorché fosse intervenuta la rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi (nella specie, del marito, da maschile a femminile), intendeva, di comune accordo, proseguire il rapporto matrimoniale. Ai sensi degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, applicabili ratione temporis alla controversia – e, successivamente, dell'art. 31, comma 6, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che ha ripetuto, con un'ininfluente variante lessicale (la sostituzione del verbo «provoca» con il verbo «determina»), il contenuto del secondo periodo dell'unico comma dell'art. 4 della legge n. 164 del 1982 – la sentenza con la quale è disposta la rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi «provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con il rito religioso». La Corte, investita del ricorso avverso il decreto della Corte d'appello di Bologna che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda dei due coniugi di cancellazione dell'annotazione di intervenuta cessazione degli effetti civili del matrimonio, apposta dall'ufficiale di stato civile a margine dell'atto di matrimonio a seguito della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso del marito, aveva ritenuto – in sintonia con la prevalente dottrina – che i citati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 prevedessero un'ipotesi di divorzio "automatico" o "imposto" ex lege (la sola contemplata dal nostro ordinamento). La stessa Corte aveva tuttavia dubitato della legittimità costituzionale di tale disciplina in quanto essa, facendo conseguire alla sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi l'automatica caducazione del vincolo matrimoniale, avrebbe comportato il sacrificio «del diritto ad autodeterminarsi nelle scelte relative all'identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; del diritto dell'altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale». La Corte aveva quindi sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 15 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE 4 della legge n. 164 del 1982, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione e con gli artt. 8 e 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848 – questi ultimi quali norme interposte agli effetti dell'ulteriore denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost. – nonché degli artt. 2 e 4 della stessa legge n. 164 del 1982, per lesione dell'art. 24 Cost. (ordinanza interlocutoria, Sez. 1, n. 14439/2013, Acierno). Le questioni sono state decise dalla Corte costituzionale con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014. La sentenza n. 8097 del 2015 qui si commenta costituisce il seguito di tale pronuncia del Giudice delle leggi, che è quindi necessario, preliminarmente, esaminare. 2.2. La sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2014 e la problematicità del suo seguito. La Corte costituzionale ha anzitutto escluso il contrasto della disciplina censurata con alcuni dei parametri invocati dalla Cassazione, in particolare: con l'art. 29 Cost., perché «la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che "stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso" (sentenza n. 138 del 2010)», affermazione che conferma l'indefettibilità del requisito dell'eterosessualità del matrimonio secondo l'art. 29 Cost., letto, dalla Consulta, in chiave originalista; con gli artt. 8 e 12 della CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU), in quanto «in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso»; con l'art. 24 Cost., perché, «non essendo [...] configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa»; con l'art. 3 Cost., in quanto «la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina». Secondo il Giudice delle leggi, il parametro «pertinente» è, invece, l'art. 2 Cost. Al riguardo, la Corte costituzionale ha preso le mosse da quanto da essa già affermato con la sentenza n. 138 del 2010 – relativa alla questione di legittimità costituzionale delle 16 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE disposizioni del codice civile in materia di matrimonio (artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis), nella parte in cui non consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso – ribadendo la necessità di un «riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» dell'unione omosessuale, nonché l'esclusione, tuttavia, che «l'aspirazione a tale riconoscimento [...] possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». Sempre in continuità con il citato precedente, la sentenza n. 170 del 2014 ha riaffermato la spettanza al Parlamento dell'individuazione delle «forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», confermando altresì che resta comunque «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni». Tale deve ritenersi, sempre secondo la sentenza n. 170 del 2014, quella dei coniugi che intendano proseguire la vita di coppia anche dopo la rettificazione dell'attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi. In tale specifica situazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che il contrasto, in essa sussistente, tra «l'interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio» e «l'interesse della coppia [...] a che l'esercizio della libertà di scelta compiuta dall'un coniuge con il consenso dell'altro, relativamente [alla] identità [di genere], non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto» sia stato risolto dai censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 «in termini di tutela esclusiva di quello statale», restando tale normativa «chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata». Da ciò la lesione dell'art. 2 Cost. Quanto alla decisione da prendere al fine della reductio ad legitimitatem della normativa denunciata, la Corte ha escluso di potere adottare una sentenza manipolativa che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, «poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l'art. 29 Cost.», affermando che «Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza». La Corte costituzionale ha quindi dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 – dichiarazione estesa, negli stessi termini, in via consequenziale, all'art. 31, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 – «nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei 17 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore». Come si è visto, la sentenza n. 170 del 2014 si pone in continuità con il precedente del 2010 (sentenza n. 138). Tuttavia, mentre in quest'ultimo caso la Corte costituzionale aveva adottato, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all'art. 2 Cost., una decisione di inammissibilità, indirizzando, al contempo, un monito al legislatore affinché provvedesse ad adottare una disciplina che consentisse alle coppie omosessuali «il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», nella presente fattispecie la Consulta, nel sollecitare, parimenti, il legislatore a intervenire «con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell'attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti», ha invece optato per una sentenza additiva di principio. Con tale locuzione, ci si riferisce a quelle sentenze di accoglimento con le quali la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità di una disposizione perché omette di prevedere qualcosa ma, a fronte della pruralità delle scelte idonee ad eliminare l'incostituzionalità, nel rispetto del ruolo del legislatore – e a differenza di quanto avviene con le comuni sentenze "additive di regola" – non introduce una regola specifica, bensì, appunto, un principio, che il legislatore è chiamato a svolgere adottando una disciplina di carattere generale e che, nelle more, anche i giudici comuni sono tenuti ad attuare, reperendo in esso, quando ciò sia possibile, mediante l'utilizzo degli strumenti ermeneutici di cui dispongono, la regola del caso concreto. Le sentenze additive di principio, dunque, da un lato dichiarano l'illegittimità costituzionale delle norme impugnate, con quanto da ciò consegue in ordine all'efficacia della pronuncia nel giudizio a quo e in generale (art. 136, comma 1, Cost., e art. 30, comma 3, della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui «Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»); dall'altro introducono un principio che, in alcuni, più frequenti, casi, può essere immediatamente attuato dal giudice al fine della soluzione della causa, in altri dovrà invece attendere lo svolgimento che ne sarà dato dal legislatore. Rispetto a tale paradigma, la sentenza n. 170 del 2014 sembra però presentare una singolarità. Essa risulta dallo scarto che pare 18 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE esistere tra il dispositivo – di incostituzionalità delle disposizioni che prevedono lo scioglimento automatico del matrimonio nel caso di rettificazione del sesso di uno dei coniugi – e la motivazione della sentenza, dove le stesse disposizioni sono ritenute non solo non incostituzionali ma, addirittura, costituzionalmente necessarie, come emerge dall'affermazione della Corte secondo cui l'introduzione, nel caso in considerazione, di un divorzio a domanda «equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l'art. 29 Cost.». È proprio alla luce di tale motivazione che in dottrina è stato da alcuni ritenuto che nella sentenza n. 170 del 2014 difetterebbe quell'effetto demolitorio della norma impugnata che, viceversa, dovrebbe immancabilmente seguire qualsiasi dichiarazione di incostituzionalità (inclusa quella adottata con una sentenza additiva di principio) [ROMBOLI, 2014, 2683] e che, con tale pronuncia, la Corte costituzionale avrebbe dichiarato l'illegittimità costituzionale «di un'omissione legislativa "pura e semplice", ossia non collegata con l'incostituzionalità di una norma scritta» [ibidem; in senso analogo, RUGGERI, 2015, 306]. La medesima dottrina ha altresì rimarcato come una siffatta dichiarazione di illegittimità costituzionale non sembri del tutto in linea con il nostro sistema di giustizia costituzionale e come, in casi simili, la Corte costituzionale avesse, piuttosto, adottato pronunce di inammissibilità o di rigetto con monito al legislatore perché provvedesse all'adozione di un'idonea disciplina. La ragione della scelta, nella specie, della diversa tipologia decisoria dell'additiva di principio potrebbe risiedere nel fatto che, come s'è detto, la sentenza n. 138 del 2010 – in un passaggio ripreso dalla sentenza n. 170 del 2014 – nel rivolgere al Parlamento un monito a introdurre il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali, si era «riservata [...] la possibilità d'intervenire a tutela di specifiche situazioni». Considerato che tale monito era rimasto inascoltato (nonostante il richiamo di esso da parte del Presidente Franco Gallo nel corso della riunione straordinaria della Corte tenutasi il 12 aprile 2013) e ritenuta la specificità della situazione sottopostale, la Corte si è indotta ad adottare una pronuncia di incostituzionalità. Tuttavia, qualora si dovesse convenire che la sentenza n. 170 del 2014 ha dichiarato l'illegittimità non dei censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, ma di una mera omissione del legislatore, non collegata con l'incostituzionalità di tali disposizioni, i suoi effetti, nonostante la diversità del dispositivo, finirebbero col coincidere con quelli di una pronuncia di 19 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE inammissibilità o di rigetto accompagnata da un monito al Parlamento, risolvendosi, in realtà, la decisione in un nuovo rinvio alle scelte di questo [RUGGERI, 2015, 310, secondo cui, peraltro, solo l'additiva di principio esprimerebbe un obbligo giuridico a carico del legislatore]. Quali dunque, alla luce di quanto detto, le strade percorribili dalla Cassazione giudice a quo alla riassunzione del processo (e, eventualmente, da altri giudici investiti di analoghe domande) ? Escluso, evidentemente, il non liquet, esse parevano ridotte a due. La prima era quella di ritenere, alla luce della parte motiva della sentenza n. 170 del 2014 (e in sintonia con la dottrina citata), che la Corte costituzionale avesse dichiarato l'illegittimità costituzionale non dei censurati artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, ma di una mera omissione del legislatore, non collegata con l'incostituzionalità di questi, e, pertanto, di applicare questi ultimi, dichiarando legittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Soluzione che, tuttavia, nelle more dell'intervento del legislatore, avrebbe lasciato le posizioni soggettive delle ricorrenti prive di ogni effettiva tutela. La seconda era quella di ritenere, sulla scorta del dispositivo della sentenza n. 170 del 2014, che la Corte costituzionale avesse invece dichiarato l'illegittimità degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982, e che questi, quindi, non potessero più essere applicati ai sensi dell'art. 136, primo comma, Cost., e dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, e, pertanto, dichiarare illegittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Soluzione che, dal canto suo, avrebbe però legittimato un matrimonio tra persone dello stesso sesso, cioè un risultato ritenuto dalla Corte costituzionale in contrasto con l'art. 29 Cost. Questa l'alternativa – certo non facile da sciogliere – davanti alla quale pareva trovarsi la Cassazione. 2.3. L'originale seguito della Cassazione: il matrimonio risolutivamente condizionato della coppia divenuta del medesimo sesso. La soluzione offerta dalla sentenza n. 8097 del 2015 è stata, peraltro, almeno in parte, originale. La Corte, dopo avere ripercorso le argomentazioni della sentenza n. 170 del 2014, ha anzitutto negato che esistesse uno scarto tra la motivazione e il dispositivo della stessa. Ciò sulla base dell'assunto secondo cui la motivazione della sentenza n. 170 avrebbe escluso la compatibilità con la Costituzione del perdurare 20 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE del vincolo matrimoniale tra soggetti (divenuti) dello stesso sesso solo con riguardo a una prosecuzione del vincolo «in via definitiva e senza alcun limite temporale». Dall'esame, definito, perciò, «del tutto coerente», della motivazione e del dispositivo della sentenza n. 170 del 2014, la Cassazione ha ritenuto dunque emergere che la dichiarazione di illegittimità costituzionale operata «non ha ad oggetto un principio estraneo agli artt. 2 e 4 della l. n. 182 del 1984» – cioè, per dirla con Romboli, «un'omissione legislativa "pura e semplice"» – «ma una delle conseguenze del cd. divorzio automatico che la Corte mira ad eliminare, ovvero quella che determina il passaggio da una "condizione di massima protezione giuridica ad una condizione di massima indeterminatezza" nella coppia che anche dopo la rettificazione di sesso voglia conservare la propria unione». È tale effetto degli artt. 2 e 4 della legge n. 182 del 1982 che la Corte costituzionale, ritenendolo «produttivo di un deficit di tutela incompatibile con la conservazione del grado di protezione costituzionale dell'unione [omoaffettiva]», avrebbe, quindi, dichiarato illegittimo ed espunto dall'ordinamento. Ne consegue, sempre secondo la sentenza n. 8097 del 2015 – che valorizza qui il dispositivo di incostituzionalità della sentenza n. 170 del 2014 e i menzionati effetti che ne derivano – che «La regola relativa all'eliminazione degli effetti giuridici di protezione dei componenti dell'unione conseguente alla caducazione automatica del vincolo ha cessato di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale (art. 136 primo comma, Cost.)». A conferma del fatto che la dichiarazione di illegittimità costituzionale «non ha colpito la norma mancante del riconoscimento di uno statuto costituzionalmente adeguato alle unioni tra persone dello stesso sesso», la Cassazione osserva ancora che «Se l'intento della Corte [costituzionale] fosse stato limitato a questo profilo sarebbe stata sufficiente una sentenza monito, conforme alla pronuncia n. 138 del 2010, con un dispositivo di rigetto». Ritenuta dunque sussistente – e così ricostruita – la parte demolitoria della sentenza n. 170 del 2014, quanto al principio da essa affermato, la Corte lo ha individuato nella «necessità immediata e senza soluzione di continuità di uno statuto sostanzialmente equiparabile, sul piano dei diritti e doveri di assistenza economico patrimoniale e morale reciproci, a quello derivante dal vincolo matrimoniale per le coppie già coniugate che si vengano a trovare nella peculiare condizione delle ricorrenti». La Corte attribuisce anche a tale principio «natura imperativa e [...] l'efficacia stabilita dall'art. 136 Cost.», affermando che, in attesa dell'intervento del legislatore, «il giudice a quo è tenuto ad individuare sul piano ermeneutico la regola per il caso concreto» che lo inveri. 21 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE È sul terreno di tale «adeguamento necessario» all'individuato principio che la Corte adotta una soluzione inedita. Essa è ravvisata nella «rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell'unione fino a che il legislatore non intervenga a rimpire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile» o, in altri termini, e conclusivamente, nel «conservare alle parti ricorrenti il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad esse di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi». Con la precisazione finale che «La conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale è, pertanto, sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione indicata dalla sentenza». Va rimarcato ancora come la Corte – evidentemente consapevole della singolarità della soluzione ermeneutica seguita – si preoccupi di puntualizzare che essa «non determina l'estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omoaffettive, svolgendo esclusivamente la funzione temporalmente definita e non eludibile di non creare quella condizione di massima indeterminatezza stigmatizzata dalla Corte costituzionale». La Cassazione ha quindi accolto il ricorso «nei sensi di cui in motivazione», ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha dichiarato illegittima l'annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio e ne ha disposto la cancellazione. La regola individuata dalla Corte per risolvere il caso è dunque quella della conservazione dello «statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale», sia pure sotto la «condizione temporale risolutiva» costituita dall'adozione, da parte del legislatore, di una disciplina idonea a tutelare in modo adeguato le esigenze della coppia divenuta dello stesso sesso. Condizione (legale), in effetti, e non termine, atteso che il menzionato intervento regolatore appare incerto non solo nel quando ma anche nell'an, tenuto conto che esso, ancorché doveroso, è, di fatto, incoercibile. La sentenza è, senza dubbio, coraggiosa. Essa si è assunta la responsabilità di dare effettiva tutela ai diritti fondamentali della coppia attraversata dalla vicenda di rettificazione di sesso, i quali, già maturati nel contesto della precedente vita matrimoniale, qualora fossero cessati gli effetti civili del matrimonio, in assenza di una disciplina legislativa della peculiare formazione sociale, sarebbero rimasti irrimediabilmente sacrificati. 22 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE La pronuncia apre peraltro la discussione in ordine all'effettiva corrispondenza della regola del caso concreto reperita rispetto al principio espresso dalla Consulta nella sentenza n. 170 del 2014. La Corte costituzionale, nella motivazione di tale sentenza, aveva escluso che le coppie dello stesso sesso – siano esse originarie o sopravvenute (come quelle attraversate da una vicenda di rettificazione di sesso) – possano essere legate dal vincolo matrimoniale, ai sensi dell'art. 29 Cost. Ciò parrebbe comportare anche che a tali coppie non possa essere riconosciuto uno statuto in tutto e per tutto coincidente con quello delle coppie coniugate, pena il rischio di aggiramento del precetto costituzionale. La questione che viene a porsi è allora se il fatto che, in base alla regola applicata dalla sentenza n. 8097 del 2015, la coppia divenuta dello stesso sesso resti unita in matrimonio (stante la cancellazione dell'annotazione di cessazione degli effetti civili dello stesso) – o, comunque, conservi lo «statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale» – solo "a tempo" riesca ad assicurare la fedeltà del seguito e, in particolare, la sua conformità al paradigma esclusivamente eterosessuale del matrimonio affermato dal Giudice delle leggi. Certo è che soltanto la ritenuta compatibilità con l'art. 29 Cost. di un vincolo matrimoniale solo temporaneo tra persone divenute dello stesso sesso ha consentito alla Cassazione di estrarre dalla sentenza n. 170 del 2014 un principio – quello della «necessità immediata e senza soluzione di continuità di uno statuto sostanzialmente equiparabile [...] a quello derivante dal vincolo matrimoniale» – che non consistesse nella mera affermazione della necessità di un adeguato riconoscimento legislativo delle coppie già coniugate e attraversate da una vicenda di rettificazione di sesso. Principio, quest'ultimo, che, a differenza del primo, era evidentemente inidoneo a tradursi, nell'attesa dell'interpositio legislatoris, in una regola immediatamente applicabile dal giudice a tutela delle posizioni soggettive dei membri della coppia, che sarebbero, perciò, nel frattempo, restate integralmente sacrificate. La vicenda mostra comunque, ancora una volta, l'improcrastinabilità di un intervento legislativo che riconosca giuridicamente le unioni tra persone dello stesso sesso. In effetti, ancorché l'obbligo imposto al legislatore dalla sentenza n. 170 del 2014 riguardi le sole coppie divenute omosessuali, pare assai probabile che l'attesa soluzione normativa riguarderà, genericamente, le unioni civili tra persone dello stesso sesso, a prescindere dal momento, iniziale o successivo, in cui si determini 23 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE l'identità di genere (così è in effetti orientato il disegno di legge AS n. 2081, attualmente in discussione al Senato, il cui art. 7 stabilisce che «Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso»). L'entrata in vigore dell'auspicata legge, segnando l'avveramento della condizione – in quanto dia alla coppia la possibilità di costituire un'«altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima» – determinerà la cessazione degli effetti civili del matrimonio delle ricorrenti. 3. Il principio affermato dalla sentenza n. 15138 del 2015. Con la successiva sentenza n. 15138/2015, la Corte ha affermato che, in base a un'interpretazione conforme agli artt. 2, 3 e 32 Cost. e all'art. 8 CEDU, degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 – quest'ultimo attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 – al fine di ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali primari, considerato che l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un percorso individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà e univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale siano oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale. 3.1. La vicenda, le norme applicabili e le trasformazioni del transessualismo. La sentenza riguarda il caso di una persona che, dopo avere richiesto al tribunale, nel 1999, l'autorizzazione al trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei propri caratteri sessuali primari al genere femminile, al fine di ottenere la rettificazione dell'attribuzione di sesso, dopo circa dieci anni, senza essersi sottoposta all'autorizzato trattamento, si era nuovamente rivolta al tribunale chiedendo comunque la rettificazione anagrafica. A sostegno della nuova domanda, la persona interessata aveva dedotto sia il timore di complicanze di natura sanitaria sia il fatto che, nel frattempo, aveva raggiunto un'armonia con il proprio corpo che l'aveva portata a sentirsi donna a prescindere dal citato trattamento. Sia il tribunale che, successivamente, la corte d'appello, avevano respinto la domanda, sulla scorta di un'interpretazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 secondo la quale il 24 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE trattamento chirurgico per la modificazione dei caratteri sessuali primari costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso. La corte d'appello aveva anche ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 164 del 1982 sollevate, in via subordinata, dalla reclamante (si utilizza, in questo scritto, il femminile, conformemente al genere rivendicato e, alfine, riconosciuto dalla Cassazione). Nel corso del giudizio davanti a tale corte, erano state disposte due consulenze tecniche d'ufficio sulle condizioni psicosessuali della reclamante, le quali avevano accertato che: la somministrazione di ormoni femminilizzanti aveva determinato il quasi azzeramento dell'attività testicolare, come risultava dalle ridotte concentrazioni sieriche di testosterone; la reclamante aveva ottenuto una consolidata modifica dei caratteri sessuali secondari, conseguita mediante diversi e ripetuti trattamenti estetici, anche chirurgici (rinoplastica, mastoplastica additiva, incisive terapie ormonali); sul piano psichico, la stessa reclamante aveva raggiunto l'ormai radicato convincimento di appartenere al genere femminile, senza avvertire il contrasto con la sua realtà anatomica e la necessità di sottoporsi all'intervento chirurgico di amputazione dei genitali maschili e di costruzione dell'organo genitale femminile. Le consulenze concludevano che le caratteristiche femminili erano da ritenersi integrate con l'identità psicofisica della reclamante e per lo più irreversibili, se non attraverso complessi interventi farmacologici e chirurgici. La questione interpretativa posta ai giudici di merito (e successivamente risolta dalla Corte) nasce dall'ambiguità del dettato legislativo. L'art. 1 della legge n. 164 del 1982 stabilisce che il presupposto della rettificazione di attribuzione di sesso di una persona è costituito da «intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», senza che venga specificato se queste debbano indefettibilmente riguardare i caratteri sessuali primari o possano avere a oggetto anche i soli caratteri sessuali secondari. L'art. 3 della stessa legge n. 164 del 1982, abrogato dall'art. 34, comma 39, lett. c), del d.lgs. n. 150 del 2011, e attualmente trasfuso, senza variazioni testuali sul punto, nell'art. 31, comma 4, dello stesso decreto, prevede che, «quando risulta necessario» un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza. Quanto a quest'ultima disposizione, va osservato che la corte d'appello, nel riconoscere come da essa si desumesse la non indefettibilità dell'intervento chirurgico, aveva tuttavia ritenuto, in base a un'interpretazione definita «storico- 25 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE sistematica», che la stessa si riferisse esclusivamente alla condizione di coloro che o si fossero già sottoposti all'intervento prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 o non ne avessero necessità per ragioni congenite. Sul piano fattuale, il problema in questione affonda le radici nei mutamenti che hanno attraversato il fenomeno del transessualismo nei decenni successivi all'entrata in vigore della legge n. 164 del 1982. Infatti, e per quanto qui rileva, mentre all'epoca dell'entrata in vigore di tale legge le aspirazioni e le richieste degli interessati consistevano proprio nella possibilità di sottoporsi a intervento chirurgico per la modificazione dei caratteri sessuali primari (intervento che, in assenza di una legge che ne disciplinasse presupposti e limiti, sarebbe stato vietato), successivamente sono costantemente aumentati i casi di persone transessuali che intendono affermare la propria identità di genere senza sottoporsi al detto intervento chirurgico. 3.2. La soluzione della Cassazione: la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non costituisce un presupposto necessario della rettificazione di attribuzione di sesso. Investita del ricorso proposto dall'interessata avverso la sentenza della corte d'appello, la Corte ha anzitutto affermato che l'interpretazione della legge n. 164 del 1982 deve tenere conto del fatto che la sentenza della Corte costituzionale n. 161 del 1985 – dichiarativa, tra l'altro, dell'infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della detta legge, nella parte in cui consente di rettificare l'attribuzione di sesso anche nelle ipotesi di transessualismo – nel sancire la riconduzione del diritto all'identità di genere nell'area dei diritti inviolabili della persona, lo ha collocato in «"una civiltà giuridica in continua evoluzione" in quanto soggetta alle modificazioni dell'approccio scientifico, culturale ed etico alle questioni inerenti, nella specie, alle domande di mutamento di sesso e al fenomeno del transessualismo». Ciò premesso in ordine alla necessità di un'interpretazione "evolutiva" della legge n. 164 del 1982, la sentenza n. 15138 del 2015 ha escluso che la lettera, e anche la ratio, degli artt. 1 e 3 della stessa, congiuntamente esaminati, conducano univocamente a ritenere la necessità della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari. Al riguardo, la Corte ha osservato che l'art. 1, utilizzando la clausola «onnicomprensiva "caratteri sessuali"», senza specificare se quelli da modificare siano i primari o i secondari, non può ritenersi «riferito soltanto ai primi perché anche i 26 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE secondari richiedono interventi modificativi anche incisivi come è emerso dalle consulenze tecniche d'ufficio disposte nel giudizio di merito» e che l'art. 3, facendo uso della clausola «"in bianco" [...] "quando risulti necessario"», coerentemente contempla l'intervento chirurgico come non indefettibile. Quanto, in particolare, a quest'ultima clausola, la Corte ha respinto la menzionata interpretazione che ne aveva dato la corte d'appello, sia in quanto «fondata su una lettura esclusivamente storico- originalista, di carattere del tutto statico», in contrasto con l'evidenziata necessità di interpretare in senso evolutivo gli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982, sia perché tale esegesi, leggendo la clausola come riferita esclusivamente a situazioni di impossibilità in natura della sottoposizione ad intervento chirurgico demolitorio dei caratteri sessuali primari, cioè ad ipotesi che escludono in radice la necessità di una norma che possa imporne l'esecuzione, «priva di efficacia prescrittiva la previsione "quando risulti necessario"». Escluso, in base all'argomento letterale e logico, che gli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982 esprimano un contenuto precettivo univoco nel senso della necessità della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, la Corte ha ritenuto di doverli interpretare alla luce dei principi della Costituzione (artt. 2, 3 e 32) e della CEDU (art. 8) che riconoscono il diritto ad autodeterminarsi in ordine all'identità di genere, nonché bilanciando tale diritto con l'interesse pubblico, con esso in conflitto, alla certezza delle relazioni giuridiche. Quanto al primo aspetto, la Corte ha ritenuto che il processo di ricongiungimento del «soma con la psiche» – secondo l'espressione utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 161 del 1985 – da parte del soggetto che percepisca una "disforia di genere" (attuale denominazione del manuale diagnostico delle malattie mentali D.S.M. V, che ha sostituito la precedente "disturbo dell'identità di genere") «non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell'intervento chirurgico». A tale riguardo, la Corte ha rilevato che negli ultimi venti anni si è avuto un progressivo sviluppo della scienza medica e degli approdi della psicologia e della psichiatria, in parallelo con la crescita di una cultura, largamente condivisa a livello europeo (è citata la sentenza della Corte EDU 10 marzo 2015, XY c. Turchia), dei diritti delle persone e che tali fattori hanno influenzato il riconoscimento dei diritti dei transessuali, ai quali «è stato possibile, diversamente che in passato, poter scegliere il percorso medico- psicologico più coerente con il personale processo di mutamento dell'identità di genere», il cui «momento conclusivo [...] è individuale e certamente non 27 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE standardizzabile, attenendo alla sfera più esclusiva della personalità» e alla «autodeterminazione verso l'obiettivo del mutamento del sesso». Ciò non senza rilevare come tale punto d'arrivo sia, «anche in mancanza dell'intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un'elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale». Quanto al bilanciamento del diritto all'identità di genere, così inteso, con il configgente interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche – «che costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al suo riconoscimento» – la Corte ha ritenuto che il «punto di equilibrio» tra di essi vada individuato alla stregua del principio di proporzionalità, valutando, in particolare, se il sacrificio del detto diritto fondamentale sia necessario al fine di realizzare l'obiettivo della certezza della distinzione tra i generi e delle relazioni giuridico-sociali. In proposito, la Corte ha ritenuto che le indicate caratteristiche del percorso individuale di realizzazione dell'identità di genere inducano a ritenere, anche alla stregua delle coincidenti indicazioni delle scienze medica e psicologica, «che il mutamento di sesso sia una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico somatici ed ormonali». Ciò non senza sottolineare che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto «da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l'irreversibilità personale della scelta». Alla luce di tali caratteristiche del percorso di realizzazione dell'identità di genere, «unite alla dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo», la Corte ha ritenuto di dovere aderire ad un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme degli artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982, la quale, valorizzando la locuzione, presente nell'art. 3, «quando risulta necessario», non imponga l'intervento chirurgico «demolitorio e/o modificativo» dei caratteri sessuali anatomici primari, escludendo che l'interesse pubblico alla definizione certa dei generi richieda il sacrificio, sotto il profilo dell'obbligo di tale intervento, del diritto alla conservazione della propria integrità psico-fisica. La Corte ha affermato, perciò, conclusivamente che «L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non [...] 28 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE postula la necessità [dell'intevento chirurgico], purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale». Con riguardo al caso di specie, la Corte ha ritenuto che le consulenze tecniche d'ufficio non lasciassero dubbi «sulla radicalità della scelta di genere effettuata dalla parte ricorrente». Essa ha quindi accolto il ricorso e, non reputando necessari ulteriori accertamenti di fatto, ha deciso la causa nel merito, accogliendo la proposta domanda di rettificazione di sesso da maschile a femminile. La sentenza n. 15138 del 2015 ha interpretato la disciplina della legge n. 164 del 1982 sulla rettificazione dell'attribuzione di sesso – operata, immediatamente dopo la nascita della persona, sulla base delle sue caratteristiche sessuali esterne – in modo coerente con l'evoluzione già verificatasi in altri Paesi europei per effetto di pronunce delle rispettive Corti costituzionali. Il riferimento è alle pronunce del Bundesverfassungsgericht dell'11 gennaio 2011, che ha ritenuto che l'imposizione dell'intervento chirurgico e la richiesta della sterilità permanente previsti dalla legge tedesca fossero contrari alle garanzie costituzionali in materia di tutela dell'integrità fisica e del diritto all'autodeterminazione sessuale, nonché della Corte costituzionale austriaca del 3 dicembre 2009. L'attualità del tema del transessualismo e, in particolare, delle questioni giuridiche relative alle condizioni imposte ai transessuali ai fini del cambiamento di sesso e della modificazione dello stato civile è emersa di recente anche nella giurisprudenza della Corte EDU, che, con la già citata sentenza del 10 marzo 2015, ha affermato che la sottoposizione dell'autorizzazione al mutamento di sesso alla condizione della previa incapacità di procreare viola il diritto al rispetto della vita privata garantito dall'art. 8 CEDU [su tale pronuncia, CORDIANO, 2015, 502]. La pronuncia della Corte risponde inoltre, almeno in parte, alle raccomandazioni e agli auspici formulati in diversi strumenti di cosiddetta soft law, tra i quali si possono qui menzionare la Raccomandazione CM/Rec(2010)5, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 31 marzo 2010 (punti 20-21 e 35- 36 dell'exposé des motifs) e la Risoluzione 1728(2010), adottata dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa il 29 aprile 2010 (punto 16.11.2). Si è visto come la legge n. 164 del 1982 ponga a necessario fondamento della rettificazione di attribuzione di sesso il fatto che siano intervenute «modificazioni dei [...] caratteri sessuali» (art. 1), da intendere, come pare evidente, in senso fisico. La novità, certo non da poco, della pronuncia della Corte consiste nell'avere negato la 29 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE necessità della modificazione (chirurgica) dei caratteri sessuali primari, mentre resta ferma la necessaria sussistenza di «oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari». Resta quindi escluso, pur dopo la sentenza della Corte, che la mera esistenza di una "disforia di genere" – cioè dell'elemento psicologico, anch'esso necessaria precondizione della rettificazione, costituito dalla percezione del soggetto di appartenere al sesso diverso da quello attribuitogli alla nascita – possa di per sé sola costituire presupposto della rettificazione di attribuzione di sesso, quando non sia accompagnata da oggettive modificazioni dei caratteri sessuali (almeno) secondari. La Corte è pervenuta all'indicata soluzione utilizzando, come si è visto, la tecnica interpretativa del bilanciamento fra diritti o principi tra loro configgenti. Questi sono stati individuati, nella specie, da un lato, in un diritto inviolabile della persona, quello all'identità di genere, dall'altro, in un interesse pubblico, quello alla «chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche». Va notato come la Corte, ponderando con l'anzidetto diritto costituzionale tale interesse, sembri attribuire anche a questo, sia pure implicitamente, rango costituzionale. Il «punto di equilibrio» del menzionato conflitto è individuato sulla base del principio di proporzionalità, elaborato, come la stessa Corte rammenta, dalla Corte EDU al fine di definire i limiti dell'interferenza dello Stato nell'esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall'art. 8 CEDU. Il giudizio di proporzionalità è inteso, in particolare, come verifica della necessità del sacrificio del diritto all'identità di genere al fine di assicurare il contrapposto interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche. Per realizzare tale interesse, la Corte ha ritenuto non necessaria l'imposizione della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari e necessaria, invece, l'imposizione della mutazione di quelli secondari. Ciò sulla scorta delle caratteristiche del percorso individuale del transessuale – che evidenziano che il mutamento del sesso si configura come «una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari» – unite alla «dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo». Notazione, quest'ultima, che pare mostrare come anche il carattere numericamente marginale del fenomeno della transizione sessuale abbia avuto un ruolo nella ponderazione operata dalla Corte. Sempre a tutela dell'interesse alla certezza delle relazioni giuridiche, la Corte non ha mancato di "richiamare" i giudici di 30 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE merito ad un accertamento «rigoroso» della «serietà ed univocità del percorso scelto [nonché della] compiutezza dell'approdo finale». Va poi notato il riferimento operato dalla Corte al carattere «tendenzialmente immutabile» della scelta compiuta dal transessuale. L'avverbio utilizzato non pare escludere, sia pure in casi limite, la possibilità del cosiddetto ritorno alle origini, del resto non precluso dal dato normativo (e addirittura espressamente disciplinato dalla legge tedesca). Quanto alle modificazioni dei caratteri sessuali secondari, la Corte ha fatto riferimento a mutazioni dei caratteri sessuali secondari «estetico - somatici ed ormonali» e all'ottenimento di esse mediante «terapie ormonali trattamenti estetici». Essa non ha quindi precisato se i necessari trattamenti estetici debbano o no essere (anche) di tipo chirurgico – quali, ad esempio, la mastectomia (quando si tratti del transito dal genere femminile a quello maschile) e la mastoplastica additiva (quando si tratti, viceversa, del transito dal genere maschile a quello femminile) – lasciando, perciò, aperta la questione se possano riscontrarsi «oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari» nel caso in cui la persona che richieda la rettificazione di attribuzione di sesso si sia sottoposta soltanto a terapie ormonali e a trattamenti estetici non chirurgici (avendo, anche in mancanza di interventi di chirurgia estetica, raggiunto un soddisfacente equilibrio psico-fisico). Potrebbe quindi porsi in futuro il dubbio se, in simili casi, l'interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche richieda o no – alla luce del principio di proporzionalità – il sacrificio del diritto alla conservazione dell'integrità psico-fisica della persona sotto il profilo dell'obbligo di sottoporsi a interventi di chirurgia estetica non desiderati [PATTI, 2015, 647]. Successivamente alla sentenza n. 15138 del 2015, è intervenuta, sul medesimo tema, la sentenza della Corte costituzionale n. 221 del 2015. Il Giudice delle leggi, con una pronuncia interpretativa di rigetto che ha richiamato anche la sentenza n. 15138, ha escluso che l'art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982, interpretato in senso conforme agli artt. 2 e 32 Cost. e 8 CEDU, imponga la necessità del «ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali». 31 CAP. II – L'EQUA RIPARAZIONE Bibliografia A. CORDIANO, La Corte di Strasburgo (ancora) alle prese con la transizione sessuale. Osservazioni in merito all'affaire Y.Y. c. Turquie, in Nuova Giur. Civ., 2015, 9, 502; S. PATTI, Trattamenti medico-chirurgici e autodeterminazione della persona transessuale. A proposito di Cass., 20.7.2015, n. 15138, in Nuova Giur. Civ., 2015, 11, 643; B. PEZZINI, A prima lettura (la sent. 170/2014 sul divorzio imposto), in www.articolo29.it, 15 giugno 2014; R. ROMBOLI, La legittimità costituzionale del «divorzio imposto»: quando la Corte dialoga con il legislatore ma dimentica il giudice, in Il Foro it., 2014, 10, 2680-2685; A. RUGGERI, Il matrimonio "a tempo" del transessuale: una soluzione obbligata e ... impossibile? (A prima lettura di Cass., I Sez. civ., n. 8097 del 2015), in ConsultaOnLine, 2015 (28 aprile 2015), 304-313. 32 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO CAPITOLO III GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO. (di Francesco Federici) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Le questioni. - 3. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla sufficienza del disconoscimento. - 4. Segue: l'indirizzo favorevole alla necessità della querela di falso. - 5. Segue: la teoria dell'accertamento negativo. - 6. Il contributo della dottrina alla formazione degli indirizzi giurisprudenziali: la teoria favorevole alla sufficienza del disconoscimento. - 7. Segue: le principali obiezioni. - 8. Segue: la teoria favorevole alla necessità della querela di falso. - 9. La composizione del contrasto: la scelta della terza via. - 10. Brevi considerazioni conclusive. 1. Premessa. Tra gli arresti giurisprudenziali più significativi del 2015 va annoverata la decisione relativa alla individuazione dello strumento processuale cui ricorrere nella ipotesi di contestazione della autenticità del testamento olografo. Sul punto Sez. U, n. 12307/2015, Travaglino, Rv. 635554, intervenendo a composizione di un contrasto ormai pluridecennale, hanno stabilito che la parte che contesti l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, e l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa. La fattispecie portata alla attenzione della Corte costituiva un caso tipico e frequente in materia. Deceduto il de cuius, la vedova ne aveva fatto pubblicare il testamento olografo. Poiché però i parenti del defunto asserivano che questi da tempo era stato colpito da ictus ed era caduto in stato di totale incoscienza sino al decesso, impugnavano il testamento per falsità (asseritamente privo di autenticità), invocando il diritto al riconoscimento della qualità di eredi e alla attribuzione dei beni del de cuius. Dopo alterne vicende, nelle quali il tribunale adito rigettava le domande, motivando la pronuncia sull'assunto che il testamento olografo, disconosciuto dagli attori, poteva essere impugnato solo con la querela di falso, e dopo il rigetto dell'appello, la parte soccombente ha censurato la decisione dei giudici di merito, sostenendo la maggiore correttezza dell'orientamento che riconosce 33 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO la possibilità di ricorso ad entrambi gli strumenti (querela di falso e disconoscimento seguito dalla verificazione) per contestare la genuinità del testamento. La Terza Sezione della Corte di cassazione, avvertendo che sullo strumento processuale utilizzabile per contestare l'autenticità del testamento olografo vi era contrasto, con ordinanza Sez. 3, n. 28586/2013, rimise gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili, che hanno deciso nei termini riportati. L'arresto rappresenta una interessante soluzione, che, abbandonando entrambi i termini del contrasto, predilige una terza via a superamento dei dubbi interpretativi che affliggevano da oltre mezzo secolo giurisprudenza e dottrina. Per comprendere la decisione è allora interessante seguire il percorso logico della pronuncia, e cioè comprendere quali ragioni abbiano indotto le Sezioni Unite ad adottare una soluzione "a sorpresa", estranea (o tale solo apparentemente) alla contrapposizione per la quale il contrasto stesso era stato sollevato. Sarà altrettanto interessante comprendere se questa soluzione abbia effettivamente eliminato, una volta per tutte, i dubbi sullo strumento processuale da adottare nella ipotesi di contestazione della autenticità del testamento olografo. 2. Le questioni. La sentenza intanto avverte come lo sforzo interpretativo a favore dell'uno o dell'altro indirizzo non si riconduce ad una mera scelta dello strumento processuale cui ricorrere per contraddire o impedire che il testamento assuma efficacia nei riguardi di chi non ne è menzionato quale beneficiario, oppure, visto dall'opposto punto d'osservazione, perché possa farsi valere nei confronti di colui che, quale potenziale erede ab intestato, dalla efficacia riconosciuta di quell'atto veda compromesse, in tutto o in parte, le proprie pretese ereditarie, definitivamente accreditando i diritti del successore chiamato nella scheda olografa. La contrapposizione degli indirizzi è peraltro così persistente e radicale perché con essa si interseca l'altra questione sensibile, ossia il valore, anche probatorio, delle scritture private che non provengono da nessuna delle parti in causa, nonché quella, se si vuole ancora più sensibile, della ripartizione dell'onere probatorio. Peraltro, si legge in motivazione, il testamento olografo non è solo un documento che supporta, o contribuisce a supportare, sul piano probatorio, le ragioni della parte in causa, ma costituisce esso stesso il titolo in 34 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO forza del quale ad un soggetto, o a una pluralità di soggetti in esso menzionati, vengono riconosciuti diritti soggettivi, e in ragione del quale dunque si verifica la successione nelle posizioni giuridiche soggettive del de cuius. Ma per comprendere il perché della soluzione scelta dalla S.C. è necessario seguire il dibattito in materia della giurisprudenza e della dottrina. Esso è puntualmente riportato nella pronuncia, sicché ne viene agevolata, per le finalità di questo contributo, la illustrazione. 3. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla sufficienza del disconoscimento. Parte della giurisprudenza, collocando il testamento olografo tra le scritture private, sostiene che per la contestazione della autenticità della sua sottoscrizione sia sufficiente il disconoscimento, più correttamente il non riconoscimento, della scheda testamentaria. Già Sez. 2, n. 03371/1975, Sagnelli, Rv. 377509, affermava che per la contestazione dell'autenticità di una scrittura privata non riconosciuta non occorre la proposizione della querela di falso, ma l'impugnazione, in via di eccezione, della sottoscrizione mediante il disconoscimento, incombendo alla controparte la richiesta di verificazione e l'onere della prova sulla autenticità della scheda testamentaria. Ciò perché lo strumento della querela di falso si rende indispensabile solo quando la scrittura abbia acquistato efficacia di piena prova, ai sensi dell'art. 2702 c.c., per riconoscimento tacito o presunto, o, ancora, all'esito del procedimento di verificazione. Le conclusioni e l'iter argomentativo non mutano per Sez. 2, n. 03849/1979, Colasurdo, Rv. 400306, che esamina l'ipotesi in cui, contro colui che è stato istituito erede con un precedente testamento, sia prodotto un successivo testamento, a sua volta istitutivo di altro erede, dovendo ricorrersi sempre al procedimento previsto dall'art. 214, comma 2, e segg. c.c. L'indirizzo favorevole allo strumento previsto dall'art. 214 c.c. non esclude il ricorso alla querela di falso, in alternativa rispetto al semplice disconoscimento. In particolare Sez. 2, n. 03833/1994, Patierno, Rv. 486333 afferma che «alla parte nei cui confronti venga prodotta una scrittura privata (così come il testamento olografo) deve ritenersi consentita, oltre la facoltà di disconoscerla, così facendo carico alla controparte di chiedere la verificazione (addossandosi il relativo onere probatorio), anche la possibilità alternativa, senza riconoscere né espressamente, né tacitamente la scrittura medesima, di proporre querela di falso, al fine di contestare la genuinità 35 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO del documento, atteso che in difetto di limitazioni di legge non può negarsi a detta parte di optare per uno strumento per lei più gravoso, ma rivolto al conseguimento di un risultato più ampio e definitivo, quello cioè della completa rimozione del valore del documento con effetti erga omnes e non nei soli riguardi della controparte». D'altronde nello stesso senso, con riguardo alla scrittura privata in generale, si ritrovano molte pronunce, come ad es. e tra le più recenti, Sez. 2, n. 01789/2007, Mazziotti di Celso, Rv. 595719, mentre sembra rimarcare la diversa finalità dei due strumenti, escludendo una libera alternatività, perché in rapporto funzionale di reciproca esclusione, Sez. T, n. 01572/2007, Marinucci, Rv. 595303. Inoltre, affermato che l'onere probatorio ricade sulla parte che del testamento voglia servirsene e che a tal fine propone l'istanza di verificazione (salvo la diversa scelta della controparte di promuovere azione di querela di falso), si afferma che non ha alcuna incidenza sull'onere probatorio la posizione processuale assunta dalle parti e cioè «se l'azione sia esperita dall'erede legittimo (che adduca quindi, in via principale, la falsità del documento), ovvero dall'erede testamentario che voglia far valere i propri diritti ereditari e si trovi di fronte alla contestazione dell'autenticità del documento da parte dell'erede legittimo». In tal senso sono indirizzate molte pronunce, come, tra le ultime, Sez. 2, n. 26943/2008, Mazzacane, Rv. 605442. L'orientamento persiste anche nei tempi più recenti, tanto che Sez. 2, n. 28637/2011, Carrato, dopo aver riaffermato che querela di falso e disconoscimento della scrittura privata sono istituti preordinati a finalità diverse e del tutto indipendenti tra loro, sostiene che, «poiché il testamento olografo è un documento che non perde la sua natura di scrittura privata per il fatto che deve rispondere ai requisiti di forma imposti dalla legge (art. 602 c.c.) e che deriva la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che ne faccia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta, quest'ultimo, ove voglia impedire tale riconoscimento e contesti globalmente l'intera scheda testamentaria, deve proporre l'azione di disconoscimento, che pone a carico della controparte l'onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e proviene, invece, effettivamente dal suo autore apparente». 4. Il contrasto nella giurisprudenza: l'indirizzo favorevole alla necessità della querela di falso. Contrapposto a questo orientamento è quello che, pur non attribuendo valore di atto pubblico al testamento olografo, sostiene la necessità della querela di falso. Già Sez. 2, n. 02793/1968, Tresca, Rv. 335435, riteneva che la fattispecie si risolvesse in una eccezione di falso, così 36 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO da essere sollevata nelle sole forme di cui agli artt. 221 e segg., c.p.c. La pronuncia tiene conto del rapporto tra scrittura prodotta in giudizio e soggetto contro il quale essa è prodotta, affermando che il disconoscimento può provenire solo da chi sia autore dello scritto (o suo erede ex art. 214, comma 2, c.p.c.). In tal senso anzi già deponeva Sez. 2, n. 00766/1966, Straniero, Rv. 321538, che evidenziava come il principio sostanziale affermato dall'art. 2702 c.c., relativo all'efficacia in giudizio della scrittura privata, riconosciuta effettivamente o presupposta tale, e la procedura di disconoscimento e di verificazione regolata dagli artt. 214 e segg. c.p.c. sono istituti applicabili solo «alle scritture provenienti dai soggetti del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto». Quando invece la contestazione della autenticità non sia sollevata dalla parte contro cui l'atto viene prodotto, prosegue la pronuncia, risolvendosi in una eccezione di falso, necessita della querela di falso. Ed è proprio tale antico insegnamento a costituire per lustri il principale dei motivi su cui si fonda l'indirizzo giurisprudenziale favorevole al ricorso allo strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg. cit. Infatti gli eredi legittimi che contestano l'autenticità della scheda olografa, secondo certa interpretazione (che anche parte della dottrina condivide), sono soggetti estranei alla scrittura testamentaria, non rientrando neppure nello schema dell'art. 214 comma 2, cit. Conferma alla ratio della ricostruzione giurisprudenziale appena accennata viene da un'altra sentenza che, pur ritenendo sufficiente il disconoscimento, relaziona questa conclusione alla qualifica attribuita alla parte che in quel giudizio contestava un testamento olografo. In particolare Sez. 2, n. 01599/1971, Palermo, Rv. 352004, afferma che «l'erede istituito col primo testamento, che ha esperito la petizione di eredità, in quanto investito di un valido titolo di legittimazione fino al momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva pur sempre la veste di erede, anche nei confronti di altro soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria. Egli, invero, non può qualificarsi terzo fino al momento del definitivo accertamento della validità del secondo testamento. Pertanto è legittimato a contestare, sulla base del titolo, l'efficacia del testamento posteriore oppostogli mediante il mero disconoscimento, senza necessità di proporre querela, incombendo all'altra parte, che abbia proposto domanda riconvenzionale –tendente a far dichiarare la validità del secondo testamento con conseguente caducamento delle disposizioni contenute nel primo- l'onere di provare tale domanda e, quindi, di chiedere la verificazione dell'olografo successivo, di cui intende avvalersi». Balza subito 37 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO all'evidenza che in questo caso vi è elezione del disconoscimento perché colui che contesta l'autenticità del secondo testamento è a sua volta erede testamentario (in forza di altro precedente testamento), il che lo pone in una posizione processuale "titolata" di erede del de cuius, con conseguente applicabilità del comma secondo dell'art. 214, cit. Da tanto sembra di capire che sarebbe stato necessario proporre querela di falso se si fosse costituito nella qualità di erede legittimo, posizione il cui riconoscimento è subordinato alla declaratoria di non autenticità o falsità del testamento istitutivo di altro erede, sicché sino alla eliminazione del documento l'erede ab intestato resta processualmente terzo rispetto al de cuius. È utile sul punto rammentare che, pur con effetti diversi e comunque in tema di disconoscimento di scrittura privata (non dunque con riguardo al testamento olografo), la lontana Sez. 2, n. 01382/1961, affermava che l'onere dell'erede di disconoscere o di non riconoscere il documento prodotto in giudizio sussiste se e in quanto la qualità di erede sia incontestata in giudizio. L'indirizzo favorevole alla querela di falso, che tiene conto della provenienza della scrittura, è espresso ancora da Sez. 2, n. 16362/2003, De Julio, Rv. 567822. Essa afferma che «la procedura di disconoscimento e di verificazione di scrittura privata (artt. 214 e 216 c.p.c.) riguarda unicamente le scritture provenienti da soggetti del processo e presuppone che sia negata la propria firma o la propria scrittura dal soggetto contro il quale il documento è prodotto; ...per le scritture provenienti da terzi estranei, come nel caso del testamento olografo oggetto del presente giudizio, la contestazione non può essere sollevata secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì nelle forme dell'art. 221 e segg. c.p.c., perché si risolve in una eccezione di falso». Le argomentazioni che prediligono lo strumento della querela, principalmente concentrate sull'assunto della terzietà del soggetto rispetto al testamento olografo contro di lui prodotto, trovano una evoluzione interpretativa in Sez. U, n. 15169/2010, Goldoni, Rv. 613799. Questa pronuncia, che interviene sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, ne ricostruisce l'efficacia probatoria, inquadrandole tra le prove atipiche dal valore meramente indiziario; sennonché per un verso, tenendo conto del loro valore probatorio, afferma che possono essere liberamente contestate dalle parti, ma poi, concentrando l'attenzione su alcune di esse, tra cui il testamento olografo, nega che un simile documento possa annoverarsi tra le prove atipiche per l'incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che gli è riconosciuto, e assume 38 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO che la sua contestazione necessiti della querela di falso. La pronuncia sul punto passa per un obiter dictum, sebbene, in rapporto al complesso argomentativo della sentenza, trattasi di un obiter del tutto peculiare perché, distinguendo le stesse scritture provenienti da terzi in due sottocategorie (la prima contenente la generalità, a valenza probatoria debole, la seconda, comprensiva di atti di particolare incisività per l'essere titoli immediatamente esecutivi del diritto fatto valere, e dunque a valenza sostanziale e processuale pregnante), le Sezioni Unite indicano distinti strumenti processuali per la loro contestazione a seconda della collocazione. La pronuncia in commento evidenzia soprattutto che il precedente del 2010 sposta il baricentro dell'attenzione della giurisprudenza dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta, al valore intrinseco del documento medesimo. Con ciò finalmente raccordandosi ad un piano di confronto che già investiva la dottrina sullo stesso argomento. Tale considerazione è tanto più importante quando si segnali che anche la recente Sez. 2, n. 08272/2012, D'Ascola, Rv. 622420, sostiene la necessità dello strumento disciplinato dagli artt. 221 e segg., c.p.c., nella ipotesi di contestazione dell'autenticità del testamento, invocando non solo la provenienza dell'atto da terzi, ma soprattutto l'incidenza sostanziale e processuale particolarmente elevata della scheda olografa. 5. Il contrasto nella giurisprudenza: la teoria dell'accertamento negativo. Questi due orientamenti, presto entrati in contrasto, erano stati preceduti da un enunciato, contenuto in Sez. 2, n. 01545/1951, Torrente, Rv. 882295, che, sull'asserita ricorribilità alle azioni di accertamento negativo in ordine alla provenienza delle scritture private e del testamento olografo, affermava che l'onere della prova spetta all'attore che chieda di accertare la non provenienza del documento da chi apparentemente ne risulta l'autore. In estrema sintesi l'assunto trova origine nell'opinione, elaborata in parte della dottrina, che la contestazione della genuinità del testamento olografo si traduca in una domanda di accertamento negativo della validità del documento stesso. La pronuncia pertanto, che in verità non assumeva posizione esplicita se l'accertamento negativo dovesse o meno assumere la forma della querela di falso, fu oggetto di alcuni autorevoli consensi e di numerose rilevanti critiche. Qui è sufficiente rammentare che 39 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO uno dei fondamenti della pronuncia si riportava ad un orientamento ricostruttivo, propugnato da una parte della dottrina e della giurisprudenza, secondo cui l'impugnazione per falsità del testamento olografo si risolve in una quaestio nullitatis, applicandosi dunque alla fattispecie le regole di cui all'art. 606 c.c., in tema di nullità del testamento olografo per mancanza dei requisiti. A tale osservazione si rispondeva però che l'olografo impugnato non è nullo per difetto di forma ma inesistente. Abbandonata comunque dalla giurisprudenza la ricostruzione fondata sulla natura di domanda di accertamento negativo, il ricorso agli strumenti processuali della verificazione e della querela, con opposte conseguenze in ordine all'onere della prova, fu ripartito sul presupposto delle diverse finalità e dell'indipendenza dei due istituti. Così affermandosi che la querela postula l'esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria. Sul punto ad esempio Sez. 2, n. 03880/1980, Pierantoni, Rv. 407755 affermava (nella versione massimata) che «...chi contesti l'autenticità della sottoscrizione della scrittura onde impedire che all'apparente sottoscrittore di essa venga imputata la dichiarazione sottoscritta nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela di falso, mentre invece, allorchè sia accertata l'autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestare la provenienza delle dichiarazioni contenute nella scrittura di colui che, ormai incontrovertibilmente, l'ha sottoscritta, ha l'onere di proporre la querela di falso». 6. Il contributo della dottrina alla formazione degli indirizzi giurisprudenziali: la teoria favorevole alla sufficienza del disconoscimento. Il dibattito sull'argomento ha investito anche la dottrina, nella quale si riscontrano nette contrapposizioni tra i due orientamenti, supportate con variegate motivazioni, nelle quali si intersecano: a) l'attenzione al rapporto tra provenienza della scrittura e parte in causa contro cui è prodotta, b) la valutazione del documento per l'incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che gli è riconosciuta, c) la preoccupazione di tener separato il piano del contenuto del testamento (il thema probandum) da quello dello strumento mediante il quale esso possa acquisire rilevanza agli effetti processuali. Il quadro ricostruttivo risente poi del problema, più generale, dell'efficacia delle scritture private e dei modi di impugnazione. 40 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO Per l'indirizzo favorevole al disconoscimento è innanzitutto costante l'inquadramento del testamento olografo tra le scritture private. In verità sul punto non si dubita, salvo tuttavia ad attribuire alla scheda testamentaria un valore intrinsecamente elevato, come anche si riscontra in parte della giurisprudenza. E tuttavia la distinzione tra scritture private in ragione del valore ad esse attribuito è criticata da chi ne contesta il fondamento normativo, denunciando peraltro l'irragionevolezza del riconoscimento ad alcuni documenti provenienti da terzi di un regime giuridico "rafforzato" rispetto a quanto assicurato alle scritture private provenienti dalle parti. Si lamenta in particolare che non sarebbe comprensibile quale criterio adoperare per la identificazione di questa particolare categoria di scritture private [Finocchiaro, 2010, 971 e ss.]. Anzi più in generale, oltre che lamentare l'assenza di un supporto normativo che sostenga l'intrinseco grado di attendibilità del testamento olografo a giustificazione della necessaria proposizione della querela di falso, si adombra la confusione concettuale che tende a sovrapporre il piano processuale con quello sostanziale, occorrendo invece aver chiara la distinzione tra efficacia di un documento rispetto alla sua provenienza, da un lato; ed efficacia di un documento rispetto all'oggetto del giudizio, cioè rispetto al thema probandum dall'altro lato. In altre parole si denuncia la confusione tra il valore del documento e del suo contenuto e lo strumento processuale con il quale quel documento viene riconosciuto e assume dignità probatoria nel processo. D'altronde è proprio alla confusione tra diritto e prova che autorevole dottrina attribuiva la causa dell'errore in cui incorrevano i fautori del ricorso alla querela di falso. In particolare si criticava l'assunto secondo cui incombesse su colui che contestava il testamento olografo la prova del suo accertamento negativo (sul punto si rammenta la sentenza n. 1545 del 1951 già citata), dissentendo dalla necessità della querela di falso e ritenendo invece corretto, al pari di ogni scrittura privata, il mero disconoscimento del documento. Sul punto era infatti convinzione che «si continuano a confondere la posizione e i poteri della parte relativamente al diritto fatto valere in giudizio...con la posizione e i poteri della parte relativamente alla produzione ed alla verificazione della prova documentale. Dal primo punto di vista, la contrapposizione che qui interessa è quella tra fattispecie successoria legale e fattispecie successoria testamentaria: l'attore in petizione di eredità, che si richiami alla prima, può vedersi contrapposto, come elemento "impeditivo", il testamento il quale, a sua volta, è elemento "costitutivo" della pretesa fondata 41 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO sulla seconda. Il negozio testamentario, pertanto, è il tema di prova proposto dall'attore o dal convenuto a seconda che sia invocato ai fini della domanda o ai fini della eccezione: il tema contrapposto è dato dal fatto costitutivo della vocazione legittima, a sua volta causa petendi della domanda o della eccezione, secondo della posizione formale di attore o di convenuto dell'erede legittimo. Tutto ciò riguarda (e non può non riguardare) le fattispecie sostanziali, rispetto alle quali opera la regola del giudizio enunciata dall'art. 2967 cod. civ., mentre non ha nulla a che vedere con la prova della autenticità del documento olografo, necessaria perché lo stesso possa spiegare nel processo, se disconosciuto, l'efficacia probatoria che la scrittura privata di per sé non possiede. L'autenticità dell'olografo costituisce se mai il tema della prova nel giudizio incidentale di verificazione, la cui instaurazione è soltanto eventuale, sia perché presuppone il disconoscimento della scrittura, sia perché la produzione del documento, nella causa principale diretta all'accertamento della fattispecie testamentaria, può addirittura non avvenire» [Denti, 1961, 1185 ss.]. L'influenza a lungo esercitata dalla teoria della riconducibilità della verifica della provenienza della scheda testamentaria alla domanda di accertamento negativo trova riscontri in teorie che, pur favorevoli al disconoscimento, fanno onere al soggetto che invoca il testamento della prova della sua genuinità, ad eccezione dell'erede legittimo che proponga la domanda di annullamento o di nullità dell'atto mortis causa, nel qual caso è quest'ultimo a sobbarcarsi dell'onere probatorio. 7. Segue: le principali obiezioni. Sono state peraltro evidenziate due questioni che, se non superate, porrebbero in discussione le conclusioni cui pervengono i fautori dell'indirizzo favorevole al disconoscimento. La prima riguarda il rapporto tra autore del testamento e parti in causa a fronte di chi ravvisa che la pretesa inapplicabilità dello strumento del disconoscimento, per precisione del non riconoscimento previsto dall'art. 214, comma 2, c.p.c., si riconduce all'opinione che il testamento proviene da un terzo rispetto alle parti del processo ed esula dunque dalla predetta fattispecie normativa. Sul punto invece si ritiene che, pur materialmente provenendo la scheda olografa da chi non può assumere la qualità di parte in senso processuale o sostanziale, acquistando essa efficacia solo con la morte del suo autore, è altrettanto «vero che la posizione di "parte" del destinatario della attribuzione deriva unicamente dalla devoluzione ereditaria», evidenziando per converso che «ci sono casi in cui il documento, pur non 42 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO provenendo...da alcuna delle parti in causa, non può essere considerato alla stregua di una scrittura di terzo estraneo alla lite» [Sassi, 2013, 1408 e ss.]. In argomento vi è chi, avvertendo l'utilità di circoscrivere la qualità di terzo rispetto alla scrittura privata prodotta in giudizio, e dunque all'olografo, dall'esame esegetico degli artt. 2702, 2704 c.c., 214 c.p.c. ricava che nella teoria generale del diritto il concetto di terzo ha "natura relazionale", per tale intendendosi chi è estraneo a un qualsiasi rapporto o atto giuridico, e individua tre piani in cui utilizzare il concetto di terzo, dunque specularmente di parte: 1) quello proprio della formazione della scrittura, così che «è parte chi abbia sottoscritto o vergato di suo pugno la scrittura, e correlativamente è terzo chi non abbia né sottoscritto né vergato a mano la medesima»; 2) quello negoziale, cioè «attinente alla situazione giuridica di diritto sostanziale come incisa dall'atto negoziale contenuto nella scrittura privata prodotta in giudizio (in questa prospettiva parte è la persona fisica cui sia riferibile la dichiarazione negoziale»; 3) quello processuale, cioè «del giudizio in cui la scrittura privata è prodotta (in questa accezione è terzo la persona fisica che non sta in giudizio nel processo pendente» [Finocchiaro, op. cit., 977-979]. Lo stesso autore giunge infine ad affermare che l'espressione "eredi o aventi causa" utilizzata dal secondo comma dell'art. 214 c.p.c. va intesa in senso ampio, comprensiva cioè di tutti coloro che si trovino in una "generica posizione di dipendenza". Si è anche denunciata l'erronea valorizzazione del nesso processuale tra il documento ed il soggetto, condividendo invece quell'orientamento, definito dominante, secondo cui anche il successibile ex lege, in ragione della propria posizione sostanziale, non è terzo ma soggetto contro il quale la scrittura (l'olografo) è prodotta. La posizione del successibile ex lege, se qualificabile parte o terzo rispetto al testamento olografo che istituisca erede altro soggetto, è questione costantemente dibattuta, e quando la dottrina è orientata a superare la differenza tra erede legittimo e quello testamentario ai fini del mezzo cui ricorrere per contestare una scheda olografa, non può che rimarcare che oggetto dell'accertamento giudiziale è la fattispecie successoria (legale o testamentaria) invocata in proprio favore, affermando che solo all'effetto giuridico di tale fattispecie va riferito l'onere della prova. Da ciò consegue che è proprio il negozio testamentario a costituire il tema della prova, dell'attore come del convenuto, gravando dunque il relativo onere su colui che vuol far valere quel documento, con l'effetto che la parte nei cui confronti l'atto 43 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO testamentario è prodotto può limitarsi al disconoscimento, ricostruzione peraltro non affatto pacifica. La seconda questione, anche questa influente sull'elaborazione teorica in ordine all'onere della prova, è relativa al rapporto tra successione legittima e successione testamentaria, ossia alla supposta preminenza della vocazione testamentaria su quella legittima. Secondo certa ricostruzione infatti il tenore dell'art. 457, comma 2, c.c., il quale dispone che «non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria», attribuirebbe alle norme disciplinanti la seconda valenza dispositiva, a fronte della valenza suppletiva della legittima. Per i fautori della querela di falso questa preminenza a sua volta incide sulla ripartizione dell'onere probatorio, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione di accertamento negativo, atteso che, a fronte della "posizione consolidata" attribuita dal testamento all'erede vocato, chi voglia impugnarlo ha l'onere di dimostrare la falsità della provenienza o la insussistenza dei requisiti di validità, in osservanza dei principi generali di ripartizione dell'onere probatorio prescritti dall'art. 2697 c.c. Sulla preminenza della successione testamentaria è sufficiente rammentare che la dottrina ne ha discusso a lungo, contestandone autorevolmente e da tempo il fondamento, sino ad invertirne il rapporto, attribuendo cioè alla delazione legittima funzione primaria, con il conseguente carattere dispositivo della sua disciplina, mentre alla vocazione testamentaria residuerebbe un carattere suppletivo [Mengoni, 1999, 11 e ss.]. Nonostante essa trovi ancora qualche autorevole sostenitore, è comunque avversata dai sostenitori della sufficienza del disconoscimento della scheda testamentaria, che ne evidenziano i limiti e le critiche portate dalla dottrina. 8. Segue: la teoria favorevole alla necessità della querela di falso. Con riguardo all'opposto indirizzo, già Satta riteneva che il testamento olografo potesse essere contestato solo a mezzo della querela di falso, considerando quel documento «una autentica prova legale, che solo può essere distrutta dalla querela di falso» [Satta, 1959-60, 194 e ss.]. Gli interventi in dottrina a favore dello strumento della querela, certo meno numerosi di quelli a sostegno della sufficienza del disconoscimento, sono supportati da autorevoli motivazioni, 44 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO attente agli aspetti sostanziali e processuali riconducibili alle peculiarità della scheda olografa. E' stato evidenziato il valore sui generis del testamento sul piano sostanziale, pur estraneo alla categoria degli atti pubblici, rivelato innanzitutto dalla circostanza che la falsificazione della scheda olografa nel sistema penale è equiparata al medesimo reato compiuto con riguardo agli atti pubblici. Infatti vi è equiparazione ai fini della entità della pena, secondo quanto previsto dall'art. 491 c.p., e la condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d'ufficio ai sensi dell'art. 493 bis, comma 2, c.p. Inoltre l'olografo ha effetti immediati e diretti nella sfera giuridica del terzo, costituendo, una volta pubblicato, titolo di acquisto per l'erede e per il legatario, come prescrive l'art. 620, quinto comma, c.c. [Sesta, 2014, 74]. Trattasi infatti di scrittura la cui efficacia non necessita dell'accertamento della autenticità, e che si distingue da tutte le altre scritture private, per natura inidonee a formare titolo immediatamente costitutivo di diritti verso i beneficiati. Al riconoscimento del suo intrinseco valore sul piano sostanziale depone anche la disciplina riservatagli dalle norme sulla trascrizione, in particolare dagli artt. 2648 e 2660 c.c., che prevedono le modalità di trascrizione dell'acquisto a causa di morte con la sola presentazione del testamento e dell'atto di accettazione della eredità, procedimento che conferma come non vi sia necessità di verificare l'autenticità della scheda, anche in questo dunque in contrapposizione con il trattamento riservato alle altre scritture private, che possono trascriversi solo quando autenticate o giudizialmente accertate, secondo il disposto dell'art. 2657 c.c. Si è anche asserito che il procedimento di verificazione non è adeguato al testamento, atteso che, trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione, ex art. 620 c.c., non è richiesta alcuna altra misura di preservazione del documento durante il giudizio, laddove nel procedimento per querela di falso l'art. 224 c.p.c. prevede più rigorosamente il sequestro del documento quale misura più elevata per la sua custodia. A sostegno dell'indirizzo favorevole alla querela esistono anche argomenti di natura processualistica, spiegandosi che la contestazione della autenticità del testamento debba promuoversi con quello strumento non tanto per la efficacia probatoria del documento, quanto perché in materia di contraffazione l'azione di verificazione si risolverebbe in una iniziativa processuale identica nel contenuto alla querela, ma libera dalle formalità essenziali che la 45 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO legge prevede invece nella disciplina dettata dagli artt. 221 e segg. c.p.c. I sostenitori dello strumento della querela hanno inoltre esaminato la natura dell'accertamento -per i suoi riflessi sull'onere della prova- e la posizione di terzietà del successibile ex lege rispetto al testamento, per trarre argomenti a loro favorevoli, con conclusioni ovviamente opposte rispetto all'altro indirizzo. Sulla prima questione si è affermato che l'onere della prova gravi su chi contesta il testamento olografo, argomentando dall'art. 2697 c.c. e dall'art. 457, comma 2, c.c., il quale prevede che si fa luogo alla successione ex lege solo in mancanza di vocazione testamentaria, risolvendosi pertanto la contestazione del documento olografo in una domanda di accertamento negativo. Infatti, aderendo alla tesi della preminenza della vocazione testamentaria rispetto alla legale, si esplicita che la norma, in presenza di una scheda olografa, consente di ritenere raggiunta la prova del fatto costitutivo della fattispecie successoria testamentaria, escludendo per l'effetto quella legale, così che chi voglia porre in discussione il testamento per far valere una delazione legale avrà l'onere di provarne la nullità [Sesta, op. cit.]. Quanto al rapporto tra erede ab intestato e testamento si afferma che il disconoscimento di una scrittura non può provenire da terzi, poiché tale strumento è riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. E mentre per i sostenitori della sufficienza del disconoscimento gli eredi ex lege sono compresi nella fattispecie del secondo comma dell'art. 214 c.p.c., per i fautori della querela di falso la fattispecie normativa si riferisce «ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi, a fondamento di una pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo impugnano richiede proprio la dimostrazione della falsità del testamento» [Sesta, 2012, 75]. Con ciò per il successibile ex lege residua lo strumento della querela di falso per contestare l'autenticità del testamento olografo. 9. La composizione del contrasto: la scelta della terza via. Le posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza mostrano la complessità del tema, ed è proprio nella elevata difficoltà di elezione dell'uno o dell'altro indirizzo, entrambi supportati da 46 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO argomentazioni persuasive ma ad un tempo oggetto di rilievi altrettanto penetranti, che può individuarsi la chiave di lettura della decisione che la S.C. ha infine assunto. Sez. U, n. 12307/2015, cit., infatti individuano lucidamente gli elementi a favore dei due orientamenti. In riferimento a quello a sostegno della sufficienza del disconoscimento indicano: a) la natura di scrittura privata del testamento olografo, b) la attribuzione al successibile ex lege della qualità di erede di colui che apparentemente è l'autore della scheda olografa, c) la netta distinzione tra il piano sostanziale della vicenda, che riguarda più propriamente il thema probandum, e il piano processuale, che riguarda le modalità con le quali in un processo può trovare ingresso, con dignità di prova, il documento di delazione testamentaria. In relazione al secondo, a sostegno della necessità della querela di falso, evidenziano: aa) la incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata che è riconosciuta al testamento, come emergente da un complesso di norme, la cui lettura depone a suo favore, bb) la esclusione in capo al successibile ex lege, almeno sino a quando la sua qualità non sia processualmente accertata, della posizione di erede, con conseguente inapplicabilità della fattispecie contemplata nell'art. 214, comma 2, c.p.c. Ad un tempo però avvertono i limiti di entrambe le posizioni. Innanzitutto, con riguardo al rapporto tra successore ex lege e scheda olografa, ossia relativamente alla diatriba se l'erede ab intestato sia terzo o meno rispetto alla scrittura, dubitano che possano ricavarsi argomenti del tutto persuasivi per l'uno o per l'altro orientamento. Su questo piano la sentenza avverte che la difficoltà e pericolosità di scandagliare il concetto di terzo emerge dalla considerazione che esso, ai fini dell'art. 214 c.p.c., non va esaminato dal punto di vista del soggetto parte della lite, ma dell'autore del documento che si vuol disconoscere, sicché sarebbe corretto affermare che il de cuius non sia mai parte nel giudizio di impugnazione del proprio testamento. Subito dopo però evidenzia come sia altrettanto legittimo argomentare che l'erede, che può dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore, è colui che subentra al de cuius nei suoi rapporti, il che, su un piano di astratta speculazione, presuppone che quel medesimo scritto si sarebbe potuto produrre nei confronti del testatore se ancora in vita. E tuttavia torna parimenti difficile che tra i documenti (siano essi negoziali oppure dichiarazioni di scienza) possa annoverarsi il testamento formato dal medesimo de cuius, il 47 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO quale produce effetti giuridici nella sfera giuridica dei suoi destinatari, ma non in quella dell'autore, vigendo dal momento del suo decesso e non prima. Dovrebbe allora concludersi che il testamento è sempre una scrittura di terzo. E tuttavia è consapevole dei limiti di questo pur complesso percorso argomentativo, essendo quanto meno incontestabile che ad alcuni successibili, quali i legittimari, debba comunque attribuirsi la qualifica di parti e non di terzi ai fini della non riconoscibilità della sottoscrizione del de cuius. Peraltro è frequente che il testamento olografo sia impugnato, contestandosene provenienza ed autenticità, da parte di chi, pur beneficiario di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque un erede testamentario, sicchè nei suoi confronti non può affatto porsi questione di accertamento della sua qualità di erede, avendo già assunto questa qualifica perché vocato nel testamento. Si avverte allora l'inutilità di soluzioni che, a seconda della posizione vestita da chi contesta il testamento (escluso totalmente dalla eredità, erede legittimo compreso nelle categorie dei legittimari, erede testamentario sia pur per quota che non lo accontenti), oscillino tra la sufficienza del disconoscimento e la necessità della querela. Dunque conclude affermando che l'attenzione concentrata sulla qualità di terzo o di parte rispetto alla scheda olografa non porta lontano. Senza una appagante soluzione si rivela anche la tormentata questione relativa alla preminenza o meno della forma testamentaria su quella legittima, secondo la lettura data dell'art. 457, comma 2, c.c., cui sono riconducibili conseguenze di rilievo in ordine all'onere dalla prova. La sentenza è consapevole di quanto sia impervio anche questo percorso interpretativo, con risultati dubbi quando non irrilevanti, tenendo conto dei rilievi sollevati dai fautori dell'indirizzo favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella questione che ci occupa non si controverte sul valore della fonte della successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per dare ingresso nel processo al documento stesso. La sentenza prova allora a seguire un altro percorso, concentrando l'attenzione su due aspetti: 1) il valore sostanziale da attribuire al testamento; 2) il meccanismo processuale attraverso cui il testamento possa superare le contestazioni assumendo dignità probatoria. I due aspetti sono relazionati e tuttavia, quando si privilegi l'aspetto processuale, qualunque valore possa attribuirsi al 48 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO testamento olografo, l'oggetto della sua contestazione riguarda propriamente il thema probandum, mentre la opzione tra disconoscimento, cui segue la verificazione a carico di chi di quel testamento voglia valersene, e querela di falso, a carico di chi quel testamento voglia eliminare dalla realtà processuale, riguarda solo lo strumento probatorio a mezzo del quale il testamento spiega efficacia nel processo. Con la conseguenza che la natura di scrittura privata finisce con il privilegiare il primo indirizzo. Se invece l'attenzione si appunta sull'aspetto sostanziale, se ne esalta l'intrinseca elevata incidenza che il testamento di per sé assume. E sul punto deve evidenziarsi come anche la giurisprudenza e la dottrina favorevole al disconoscimento riconoscono che il testamento olografo, per il suo tratto formalistico, olografo, datato e sottoscritto ai fini della sua validità, sia una scrittura privata sui generis, i cui requisiti tendono a garantire la corrispondenza del contenuto del documento a quello della dichiarazione e la tutela della integrale autenticità di quest'ultima contro le manomissioni del terzo. Anzi proprio all'olografia (di cui non si rinvengono altri riscontri) è attribuita una funzione specifica, ossia la funzione integrativa della "conoscenza" dell'atto, nel senso che con essa vuol garantirsi che il testo sia stato "conosciuto" dal suo autore, in un significato dunque che va oltre la "presunzione di conoscenza" delle normali scritture. D'altronde anche di recente Sez. 6–2, n. 22420/2013, Petitti, Rv. 627816, ha sottolineato l'importanza dei requisiti formali dell'olografo, asserendo che il «requisito della sottoscrizione...ha la finalità di soddisfare l'imprescindibile esigenza di avere l'assoluta certezza non solo della .... riferibilità [delle disposizioni] al testatore, già assicurata dalla olografia, ma anche della inequivocabile paternità e responsabilità del medesimo che, dopo avere redatto il testamento...abbia disposto [evidentemente il testatore] del suo patrimonio senza alcun ripensamento». Le Sezioni Unite avvertono quanti elementi confermino le peculiarità della scheda olografa rispetto ad una comune scrittura privata: dalla sua immediata esecutività e trascrivibilità, alla disciplina penalistica che ne accomuna le sorti al documento pubblico nella ipotesi di falsificazione, alla maggiore coerenza dello strumento della querela che, per la partecipazione al processo del Pubblico Ministero, si armonizza con la rigorosa disciplina penale prevista per la ipotesi di falsificazione dell'olografo, parificata al reato di falsificazione dell'atto pubblico; alla coerenza all'oggetto dell'indagine, il cui accertamento si estende all'intero testo e non alla 49 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO sola sottoscrizione, così come avviene per l'ipotesi di querela di falso dell'atto pubblico. Ma tutti questi pur importanti elementi sono riconducibili agli aspetti sostanziali del documento, senza aver spiegato perché tale aspetto debba superare quello eminentemente processuale. A questo punto la S.C., consapevole del rischio di non offrire, nell'adesione ad uno dei due indirizzi, una soluzione soddisfacente, e quindi cosciente dei limiti di entrambi, ha scelto una terza via per comporre il contrasto, quella secondo cui per contestare il testamento, perché non genuino, deve proporsi una domanda di accertamento negativo. Con ciò essa ritorna da dove era partita la giurisprudenza, ossia dalla sentenza del 1951, con estensore Andrea Torrente. Che il motivo della scelta sia riconducibile alla constatata mancata sufficienza dei due indirizzi storicamente contrapposti è la stessa sentenza ad evidenziarlo espressamente. In essa infatti si spiega che la scelta della terza via, significativamente definita come soluzione che «non del tutto insoddisfacentemente» sia in grado di superare le aporie delle altre soluzioni, consente: 1) di mantenere il testamento olografo nell'orbita delle scritture private; 2) di evitare infruttuosi sforzi finalizzati a identificare un criterio distintivo tra scritture private a valenza probatoria intrinsecamente elevata e scritture a valenza probatoria debole, e, ove si voglia negare questa distinzione, rischiare di qualificare la scheda olografa, pur tratteggiata da peculiari caratteristiche, come una qualunque scrittura proveniente da terzi; 3) evitare che la scelta dello strumento del disconoscimento gravi l'erede testamentario dell'onere della prova, nonostante rivesta il ruolo processuale di parte titolata in forza di un atto innegabilmente dotato di intrinseca forza dimostrativa; 4) evitare che la contestazione della genuinità della scheda olografa si disperda in un defatigante procedimento, qual'è quello per querela di falso, essendo invece da privilegiare una soluzione processuale «tutta interna al processo» . 10. Brevi considerazioni conclusive. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite dunque può intanto definirsi una scelta "saggia", di un giudice che ha avvertito i limiti delle altre soluzioni intorno alle quali il contrasto si è sviluppato e poi avviluppato. Resta da capire se si tratti di una scelta che soddisfi pienamente la richiesta di chiarezza sulla opzione processuale da adottare, superando definitivamente i dubbi che hanno investito gli 50 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO strumenti cui si era fatto ricorso in precedenza. Soprattutto resta da capire se quegli strumenti siano concretamente superati perché, se è vero che la S.C. ha indicato l'azione cui ricorrere per contestare la genuinità del testamento olografo, è altrettanto vero che esso però non esclude, e non potrebbe escludere, le altre opzioni processuali. Infatti alla parte interessata non solo a contestare la genuinità della scheda, ma che abbia intenzione di eliminare, del tutto e definitivamente, dalla realtà giuridica il documento, non sembra che possa inibirsi l'utilizzo del procedimento per querela di falso. Pertanto occorrerà comprendere se e quale portata pratica la soluzione adottata possa avere nel prossimo futuro. Restano poi alcune ombre, di portata sistematica, sulla stessa azione di accertamento negativo, che, all'indomani della sentenza del 1951, fu oggetto di molte perplessità e di critiche da parte della dottrina, e che fu pertanto accantonata poco dopo. Deve però anche segnalarsi che la complessità dei problemi di teoria generale coinvolti nelle ragioni del contrasto, qualunque sia l'opzione processuale preferita quando contestata l'autenticità del testamento, stride con l'estrema semplicità dell'istruttoria richiesta. Ed infatti, mentre sul piano giuridico la scelta del tipo di azione, e dunque del criterio di distribuzione dell'onere della prova, assumeva molta importanza all'epoca in cui il contrasto è insorto, l'attuale evoluzione scientifica e tecnologica in ordine alle tecniche di verifica della genuinità della scrittura olografa, o addirittura alla capacità di datazione del documento mediante agenti chimici, ha nei fatti ridotto di molto l'attività di accertamento. Questa è oggi prevalentemente assorbita dall'espletamento di una consulenza e nulla più, sicchè ben si comprende quanto sia più marginale, sul piano pratico, il tipo di azione attraverso cui accertare la falsità dell'atto. A fronte di una attività istruttoria così semplificata, la scelta delle Sezioni Unite, pur nella consapevolezza d'una soluzione "non del tutto insoddisfacentemente" idonea a superare le censure all'uno o all'altro orientamento, resta tanto più opportuna e in grado di dirimere un contrasto pluridecennale che, per come impostato, era non diversamente superabile. 51 CAP. III – GLI STRUMENTI PROCESSUALI PER LA CONTESTAZIONE DELLA AUTENTICITA' DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: VERIFICAZIONE, QUERELA DI FALSO E LA TERZA VIA DELLA DOMANDA DI ACCERTAMENTO NEGATIVO Bibliografia G. FINOCCHIARO, nota a Cass., S.U. 23 giugno 2010, n. 15169, in Rivista diritto processuale, 2011. Pag. 971 e segg. V. DENTI, Verificazione e onere della prova dell'autenticità di testamento olografo, in Foro Padano, 1961, I, pag. 1185 e segg. A. SASSI, Testamento e garanzie giurisdizionali, in Rivista di diritto civile, 2013, pag 1408 e segg. L. MENGONI, Successioni per causa di morte, Milano, 1999, pag. 11 e segg S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1959-60, pagg. 194 e segg. M. SESTA, Questioni sulla prova del testamento olografo, in Contratto e impresa, 2014, 1, pagg. 69 e segg. 52 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE CAPITOLO IV QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE (di Cesare Trapuzzano) SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Usucapione dell'azienda. 3. Trasferimento del possesso. 3.1. Trasferimento della proprietà fondato sull'attestazione dell'usucapione a cura del disponente. 4. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale. 5. Interruzione del termine per usucapire. 1. Premessa. L'analisi che segue sarà incentrata sull'approfondimento degli argomenti che rivestono carattere di novità e di interesse in ordine ad un tradizionale istituto del diritto civile, disciplinato nel libro terzo del c.c., ossia l'usucapione, quale modo di acquisto a titolo originario della proprietà o di altri diritti reali di godimento (su mobili e immobili). In specie, l'attenzione sarà appuntata sull'usucapione avente ad oggetto i beni immobili. Innanzitutto, sarà affrontato il tema della usucapibilità dell'azienda, quale complesso di beni, tra loro eterogenei, organizzato e destinato all'esercizio dell'impresa, nel suo insieme distinta dai singoli componenti. Al di là della configurazione- qualificazione dell'azienda (secondo la teoria unitaria o la teoria atomistica, la teoria dell'universalità di beni o di fatto o di diritto o dell'azienda quale unico bene immateriale), l'oggetto della riflessione (e la conseguente soluzione del problema) sarà funzionalmente impostato sul (intorno al) bene-azienda quale mezzo attraverso cui si esercita l'attività di impresa, che può essere oggetto di proprietà, usufrutto, sequestro giudiziario (si parla, al riguardo, di "oggettivizzazione" dell'azienda). Per l'effetto, la tesi della relativa usucapibilità è stata prospettata alla stregua dell'applicazione analogica degli artt. 816 e 1160 c.c., artt. rispettivamente vertenti sulla definizione e sull'usucapione delle universalità di mobili. Seguirà una verifica mirata della questione relativa alla natura dell'accertamento dell'acquisto del diritto sul bene per usucapione e alla surrogabilità della dichiarazione giudiziale con l'attestazione unilaterale dell'alienante, che ponga a fondamento dell'atto di vendita il proprio acquisto, appunto a titolo di usucapione, del bene alienato (per un verso, senza che l'autorità giudiziaria abbia preliminarmente accertato tale acquisto e, per altro verso, senza che l'intestatario usucapito in via stragiudiziale abbia riconosciuto il possesso utile ad usucapionem in suo favore). Siffatto aspetto è stato collegato a quello dell'ammissibilità nel nostro ordinamento della 53 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE figura della vendita del possesso, indipendentemente dal passaggio di proprietà di un diritto. Ulteriore riflessione sarà riservata ai requisiti richiesti ai fini della maturazione dell'usucapione speciale per la piccola proprietà rurale. In particolare, sarà trattata la questione relativa alla necessità che, oltre alla destinazione agricola di fatto del bene, vi sia anche il corrispondente inquadramento urbanistico quale fondo rustico nei comuni classificati come montani, affinché possa trovare applicazione la disciplina di favore dell'art. 1159 bis c.c., che - come è noto - stabilisce termini più brevi per il perfezionamento dell'acquisto. Anche l'aspetto procedimentale desta particolare interesse, in ragione della peculiare natura del decreto di riconoscimento della proprietà nonché delle conseguenze che discendono dal mancato assolvimento degli oneri di pubblicità e di notifica prescritti dalla legge speciale. Anche le questioni connesse alla maturazione dell'effetto interruttivo del termine utile ad usucapire sono di specifico interesse, alla stregua dell'individuazione e della conformazione delle cause tassative di interruzione, siano esse naturali o giudiziali. L'attenzione è stata, in specie, riposta sulle caratteristiche del riconoscimento del diritto altrui, idoneo a fungere da atto interruttivo, e sulla dibattuta querelle relativa all'idoneità del sopravvenuto decreto di esproprio a determinare una forma di costituto possessorio. 2. Usucapione dell'azienda. Sez. U, n. 05087/2014, Ceccherini, Rv. 629549, risolvendo una questione di massima di particolare importanza, ha statuito che l'azienda, quale complesso dei beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, deve essere considerata come bene distinto dai suoi singoli componenti, suscettibile di possesso unitario, che può essere oggetto dell'acquisto a titolo originario per usucapione, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge. Siffatta conclusione è stata argomentata in ragione della riconduzione dell'azienda all'oggetto dell'attività di impresa, come tale passibile - per espresso disposto normativo - di successione a titolo derivativo, unitamente ai relativi rapporti giuridici - contratti, crediti e debiti - [ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962, 329 ss.; AULETTA, Note in tema di circolazione dell'azienda, in Studi in onore di Alberto Asquini, I, Padova, 1963, 15], di possesso, di proprietà ed usufrutto, di sequestro ed anche - attraverso un ragionamento analogico - di acquisto per usucapione. 54 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE La possibilità di acquistare l'azienda per usucapione è questione strettamente connessa a quella concernente la natura dell'azienda, oggetto in dottrina di un dibattito molto risalente nel tempo e mai definitivamente sopito. Sul punto, nel corso degli anni si sono opposte la teoria unitaria, da un lato, e la teoria atomistica, dall'altro. Secondo la prima ricostruzione, il complesso dei beni connotato dalla medesima destinazione consente di configurare l'azienda in una dimensione unitaria, sia essa un unico bene complesso o una universalità di beni. Ne conseguirebbe, in ordine all'ammissibilità dell'acquisto dell'azienda per usucapione, che il potere di fatto attuato su tale entità unitaria ne permetterebbe l'acquisto con il decorso del tempo, alla stregua del dettato degli artt. 816 e 1160 c.c. per le universalità di beni mobili. In base alla teoria atomistica, invece, l'azienda sarebbe un insieme di beni, ognuno dei quali ha un'autonoma disciplina, in base alla sua intrinseca natura. Sicché, in difetto di un'espressa previsione normativa sull'usucapione dell'azienda, ciascuno dei beni che la compongono soggiacerebbe al regime di specie sull'usucapione, senza che possa trarsene alcuna automatica conclusione sull'acquisto dell'intero, come parrebbe desumersi per gli acquisti a titolo derivativo dall'art. 2556, comma 1, c.c., che prescrive l'osservanza del vincolo di forma stabilito dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che costituiscono l'azienda. Peraltro, anche aderendo alla tesi della natura unitaria dell'azienda, siccome qualificabile come un'universitas, l'istituto è stato ricondotto dalla giurisprudenza e dalla dottrina talvolta ad un'universitas rerum, talaltra ad un'universitas iuris ed ancora ad un'universitas facti, tanto per giungere alla conclusione secondo cui l'azienda sfugge all'applicazione dell'art. 1153 c.c., in ragione della previsione contenuta nel successivo art. 1156. Conseguentemente, il possesso, per consentire l'acquisto, dovrebbe essere protratto nel tempo tanto da integrare i requisiti della fattispecie di cui all'art. 1160 c.c. Così Sez. 1, n. 13765/2007, Rordorf, Rv. 601318, ha ritenuto che il complesso di beni costituito in azienda rappresenta una tipica universalità di beni ai sensi dell'art. 816 c.c. Ed ancora, altra pronuncia di Sez. 1, n. 04404/2006, Del Core, Rv. 587752, ha affermato la possibilità di possedere una azienda anche solo animo e quindi pur se il rapporto materiale con l'azienda sia esercitato da un mero detentore. Deve essere riportata nell'alveo delle teorie dell'unitarietà anche l'impostazione secondo cui l'azienda non costituirebbe affatto una universitas, bensì un unico bene immateriale. 55 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE L'art. 2555 c.c. definisce l'azienda come il complesso dei beni organizzato per l'esercizio dell'impresa. Il coordinamento di questa definizione, dettata nel libro quinto del codice civile, con la classificazione dei beni, contenuta negli artt. 810 - 817 c.c., è tradizionalmente ritenuto un punto indefettibile di qualsiasi concezione dell'azienda. Si osserva, infatti, che la classificazione dei beni giuridici nel codice civile non consentirebbe di qualificare l'azienda - intesa come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista - come bene mobile o immobile o anche - se non con qualche importante adattamento - come universalità di beni nella definizione dell'art. 816 c.c. (tesi, questa, prevalente invece nella giurisprudenza di legittimità), che suppone non solo la natura mobiliare di tutti i beni, ma altresì la loro appartenenza all'unico proprietario. Queste considerazioni, peraltro, potrebbero indurre anche soltanto alla conclusione che l'art. 2555 c.c. - quantunque avulso dalla disciplina generale dei beni del libro terzo del codice - costituisce la fonte primaria della qualificazione dell'azienda come bene oggetto di diritti, in quanto universalità di beni (in conformità alla generica dizione dell'art. 670 c.p.c.) o che, almeno, proprio questa fosse la voluntas legis. Riconoscere che l'azienda, come oggetto di diritti, costituisce un bene giuridico non sarebbe sufficiente per considerarla una cosa, che sola può essere oggetto di possesso (e quindi di usucapione) nella definizione dell'art. 1140 c.c.; sicché la considerazione delle cose che compongono l'azienda, con la riconduzione - eventualmente analogica - di questa a un'universitas rerum sarebbe un passaggio indispensabile per l'ammissione del suo possesso. La Corte di legittimità ha puntato l'attenzione sul rilievo che la stessa nozione di cosa non è naturalistica, ma economico-sociale, sicché non sarebbe illogico trattare come cosa tutti quei possibili oggetti di rapporti giuridici che non hanno natura corporea. Ora, se non può escludersi la configurabilità di un bene costituito da una cosa immateriale, come nei casi comunemente citati di proprietà intellettuale, non sembra che vi sarebbero insormontabili ostacoli di diritto positivo al riconoscimento di una "cosa" (appunto l'azienda) costituita da un "complesso organizzato di beni", conformemente all'indicazione dell'art. 2555 c.c. Il fatto che l'art. 1140 c.c. restringa il possesso (e quindi l'usucapione) alla "cosa" non implica necessariamente neppure l'esclusione categorica della cosa immateriale, quale sarebbe, secondo un'opinione dottrinale, il "complesso organizzato di beni", distinto dagli stessi beni singolarmente considerati e inteso come "organizzazione", e precisamente come frutto di attività 56 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE dell'uomo. In conseguenza, il possesso ad usucapionem dell'azienda dovrà essere inteso, non già come disponibilità fisica che il possessore abbia sulle singole cose, valutate dal punto di vista quantitativo, bensì come possesso continuato nel tempo del complesso economico-produttivo finalizzato alla produzione o allo scambio e quindi al profitto, ossia avvalendosi, non tanto di un insieme di elementi singolarmente considerati, quanto anche dell'avviamento aziendale, della capacità cioè di produrre profitto dalle cose che – in ragione della loro connessione/organizzazione armonica – va al di là della somma algebrica delle stesse. Che il "complesso dei beni organizzati" debba essere inteso come un'universalità di beni, o come cosa immateriale o altrimenti, non sembra dunque un punto decisivo per affermare o negare la sua qualità di cosa, suscettibile di possesso. La stessa giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 06957/2000, Verucci, Rv. 536950; Sez. 1, n. 07409/1986, Schermi, Rv. 449459) ha riconosciuto la signoria di fatto su una quota di una s.r.l., addirittura semplicemente mediante la sola iscrizione nel libro soci della società del trasferimento della quota sociale: sicché la quota di una s.r.l. è un bene immateriale equiparato ex art. 812 c.c. ad un bene mobile materiale non iscritto in pubblici registri e quindi sottoposto alla relativa disciplina legislativa. Nella definizione dell'art. 2555 c.c., l'elemento unificatore della pluralità dei beni - indicato nell'organizzazione per l'esercizio dell'impresa (c.d. elemento funzionale) - è ancorato a un'attività (l'organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l'impresa): l'attività, come tale, è certamente un'espressione del soggetto, che trascende la categoria dei beni giuridici e non può essere oggetto di possesso. È necessario, per l'effetto, riconoscere che l'art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell'azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l'attività d'impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di "cosa", oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti. Ciò che sembra decisivo, per il tema in discussione, è dunque proprio l'oggettività dell'azienda, considerata unitariamente quale oggetto di diritti. Il problema di fondo si risolve, allora, nell'accertare se non vi siano, nel codice civile, disposizioni incompatibili con l'affermazione che l'azienda è suscettibile di possesso, che per ciò stesso sia utile all'usucapione. La risposta negativa al quesito è imposta dal riconoscimento che, al contrario, un tale possesso è supposto in diverse disposizioni. Va in primis considerata la 57 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE definizione del possesso nell'art. 1140 c.c. come potere sulla cosa, che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso è dunque configurabile sempre che, rispetto allo stesso bene, sia ipotizzabile la proprietà o un altro diritto reale, al cui esercizio corrisponda l'attività del possessore. Che l'azienda possa essere oggetto di proprietà o di usufrutto è peraltro espressamente sancito dall'art. 2556, comma 1, c.c. e dall'art. 2561 c.c. È dunque pienamente giustificata l'affermazione che colui il quale esercita sull'azienda un'attività corrispondente a quella di un proprietario o di un usufruttuario la possiede e, nel concorso degli altri requisiti di legge, la usucapisce. All'uopo, si è altresì richiamato l'art. 1145, comma 1, c.c., secondo cui il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto. Dalla lettura di tale norma si è argomentato che, poiché dell'azienda si può acquistare la proprietà ai sensi dell'art. 2556 c.c., non si vede perché non si potrebbe anche acquistarne il possesso. Difatti, poiché il possesso è senza effetto per le cose di cui non si può acquistare la proprietà, a contrario dovrebbe produrre effetto per le cose di cui si può acquistare la proprietà, tra cui l'azienda, e dunque consente, con il tempo, di acquistarle per usucapione. Il possesso è qui riferibile esclusivamente al "complesso dei beni" unitariamente considerato, e non già ai singoli beni, che - come è noto - non appartengono necessariamente al titolare dell'azienda e seguono le regole di circolazione loro proprie. Del resto, non è di ostacolo a tale riconoscimento la circostanza che l'azienda sia connotata dall'avviamento, inteso come valore economico del collegamento dei beni in funzione di uno scopo produttivo, il quale non costituisce un bene a sé stante o un elemento dell'azienda, bensì è un modo di essere o una qualità del complesso dei beni avvinti dal vincolo aziendale (Sez. 1, n. 05845/2013, Ceccherini, Rv. 625716). Il possesso dell'azienda, inoltre, è specificamente considerato nell'art. 670 c.p.c., che ammette il sequestro delle aziende - o di "altre universalità di beni" - quando ne sia controversa (la proprietà o) il possesso. Ora, la previsione di una controversia sulla proprietà dell'azienda - sia essa o no un'universalità di beni - si ricollega evidentemente al dettato dell'art. 2556, comma 1, c.c.; mentre l'ammissione di una controversia sul possesso dell'azienda discende dal collegamento di principio tra possesso ed esercizio di fatto di diritti reali stabilito dall'art. 1140 c.c. In conclusione, il complesso di queste disposizioni non consente di dubitare che, nell'intento del legislatore, l'azienda (nel caso esaminato dalla S.C. una farmacia) 58 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE debba essere considerata unitariamente, sia sotto il profilo della proprietà (o dell'usufrutto; e con l'ovvia precisazione, anche in questo caso, che la proprietà del "complesso organizzato" non è proprietà dei singoli beni), sia sotto quello del possesso. 3. Trasferimento del possesso. Secondo una recente pronuncia di Sez. 2, n. 13222/2014, Proto, Rv. 631145, il contratto atipico col quale le parti si obblighino al trasferimento del mero possesso, disgiunto dal diritto, è nullo per impossibilità dell'oggetto, in quanto l'animus possidendi, per la sua soggettività, può riferirsi solo al possessore attuale e non al possessore precedente. Siffatta conclusione conferma gli arresti pregressi (in questo senso già si erano espresse Sez. 2, n. 08502/2005, Oddo, Rv. 581621; Sez. 2, n. 09884/1996, Riggio, Rv. 500494; Sez. 2, n. 08528/1996, Vella, Rv. 499793; Sez. 2, n. 07283/1996, Vella, Rv. 499046) in ordine alla invalidità del trasferimento della signoria di fatto sulla cosa, in considerazione della natura del possesso, che costituisce una situazione di fatto e non un autonomo diritto. Tre ordini di motivazioni supportano la ricostruzione della Suprema Corte, che postulano tutte l'assunto secondo cui il possesso rappresenta una situazione di fatto (o uno stato di fatto), cui sono connesse importanti conseguenze giuridiche, che non determinano però in sé il mutamento o l'evoluzione di detta situazione in un autentico ed assestante diritto. La prima ragione ostativa al riconoscimento del trasferimento del possesso in sé muove dall'esegesi dell'art. 1470 c.c., secondo il quale oggetto del contratto di compravendita è il trasferimento della proprietà o di altro diritto sulla cosa verso il corrispettivo di un prezzo. Sicché l'atto di trasferimento contemplato dal legislatore deve avere ad oggetto diritti e non situazioni di fatto come il possesso. Sebbene oggetto di detta figura negoziale possano essere anche diritti privi di natura reale (come i diritti di credito ovvero i diritti patrimoniali su beni immateriali, quali i diritti di autore o di brevetto), è escluso che oggetto di tale tipo contrattuale possa essere una posizione che, pur avendo rilevanza giuridica, non costituisca tuttavia un diritto. Conseguentemente il possesso, che è pacificamente qualificato come una mera situazione di fatto (segnatamente il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale ex art. 1140 c.c.), e non come un diritto, non può formare oggetto del contratto di compravendita. 59 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE La seconda motivazione è sviluppata in termini negativi. Infatti, si esclude che la tesi circa l'ammissibilità del trasferimento del possesso possa trovare fondamento nell'art. 1146 c.c. e, soprattutto, nel comma 2 dello stesso articolo, che disciplina l'accessione nel possesso. E tanto perché l'accessione nel possesso presuppone l'esistenza di un titolo di acquisto astrattamente idoneo a trasferire il diritto. Ebbene, se - per un verso - la successione e l'accessione del possesso consentono all'erede ed al successore a titolo particolare di unire il proprio possesso a quello esercitato dal dante causa, per goderne gli effetti ai fini dell'usucapione e della tutela possessoria nonché per qualsiasi altra finalità connessa ai vantaggi assicurati dalla legge a chi eserciti il possesso su una cosa - per altro verso -, in base alla norma in esame, il possesso continua nell'erede con effetto automatico dall'apertura della successione, e analogamente avviene nel caso della successione a titolo particolare (dal momento della immissione nel possesso della cosa trasferita), alla condizione che il passaggio dall'uno all'altro dei successivi possessori si ricolleghi e trovi la sua giustificazione in un titolo traslativo del bene che forma oggetto del possesso, anche se viziato, purché astrattamente idoneo a trasferire la proprietà o altro diritto reale che imponga la sostituzione di un soggetto ad un altro. Naturalmente il trasferimento del possesso può avvenire anche al di fuori di specifiche ipotesi negoziali o di successione mortis causa, come semplice atto giuridico, allorché un soggetto consegni ad un altro una cosa, rinunziando al potere che aveva sulla stessa, che comincia ad essere esercitato dall'altro soggetto, ma in tal caso non si verifica l'accessione nel possesso prevista dall'art. 1146 c.c. (in questo senso confronta Sez. U, n. 03369/1972, Saya, Rv. 361213; e più recentemente Sez. 6-2, n. 22348/2011, Matera, Rv. 619866; Sez. 2, n. 06353/2010, Migliucci, Rv. 611857; Sez. 2, n. 03177/2006, Colarusso, Rv. 586254; Sez. 2, n. 08502/2005, Oddo, Rv. 581621; Sez. 2, n. 12034/2000, Mazziotti Di Celso, Rv. 540115). Inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti. La regola della continuazione del possesso in capo all'erede o al legatario (perché questi ne possano godere gli effetti ai fini dell'usucapione e della tutela possessoria) sarebbe invece espressione di una scelta avente carattere di specialità, non estensibile a materie diverse da quelle espressamente previste. In conseguenza, il termine "autore", usato dal legislatore nell'art. 1146, 60 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE comma 2, c.c., non può avere altro significato che quello di precedente titolare del diritto trasferito. L'ultima spiegazione circa l'invalidità del passaggio a titolo derivativo del possesso (in realtà si tratta di un corollario di tale invalidità) si impernia sul fondamento giuridico degli acquisti a titolo originario. Ora, l'esercizio del possesso per un determinato numero di anni non dà luogo, di per sé, ad un diritto, ma costituisce soltanto il presupposto per ottenere il riconoscimento della proprietà (o di un diritto reale minore) usucapita, mentre l'acquisto vero e proprio del diritto esige l'accertamento di una sentenza dichiarativa, la cui valenza sarebbe assimilabile alla categoria giuridica degli accertamenti costitutivi. Ne discende che il trasferimento del diritto, basato sull'asserzione del trasferente circa l'avvenuto acquisto per usucapione, è impossibile, posto che oggetto di una vendita, come visto innanzi, può essere solo il trasferimento della proprietà di una cosa o comunque di un altro diritto, mentre gli effetti del possesso protratto nel tempo non sono ancora diritto. L'esercizio della signoria di fatto per il numero di anni stabilito dalla legge costituisce, infatti, solo il presupposto per ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) sulla cosa posseduta, mentre l'acquisto di tale diritto per effetto della usucapione, per potere essere fatto valere e quindi costituire il possibile oggetto di un eventuale contratto di compravendita, deve essere prima accertato e dichiarato nei modi di legge. A questa linea interpretativa sembra aderire altro arresto di Sez. 6-2, n. 07294/2011, Petitti, Rv. 617086, secondo cui, in tema di giudizio volto all'accertamento della proprietà di un bene immobile per intervenuta usucapione, la circostanza che esso sia destinato a pertinenza rispetto ad un altro bene di proprietà dell'istante non fa venire meno la necessità di procedere all'accertamento richiesto, non potendo tale destinazione essere considerata, di per sé, alla stregua di un modo di acquisto della proprietà. All'opinione restrittiva della giurisprudenza circa la validità del trasferimento del possesso è poi sottesa, in ogni caso, la considerazione, che invece ha trovato formulazione espressa in dottrina, secondo cui non avrebbe in radice senso discorrere di un "trasferimento" del possesso. Dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 c.c., si evince la sua intrasmissibilità. Infatti, un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi, cioè da un elemento che, per la sua soggettività, 61 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. Se è vero, come ormai concordemente si afferma, che il possesso è una res facti e che come tale si qualifica in virtù del duplice elemento materiale (corpus possessionis) e psicologico (animus possidendi), allora si cadrebbe in contraddizione logica nel voler ricostruire come vicenda circolatoria quella per cui un possessore succede ad un altro. Perché vi sia possesso, infatti, è necessario (e sufficiente) che un soggetto ne abbia l'animus e, al contempo, eserciti un potere di fatto sulla cosa: si tratta, con ogni evidenza, di una situazione che, come è stato affermato, «si esercita, ma non si trasferisce». Accade, cioè, che un soggetto che in precedenza era possessore non lo sia più e che, al contrario, un altro che prima non lo era lo diventi, senza che questa situazione composita possa trasferirsi dall'uno all'altro. Quindi, esattamente si è affermato in dottrina che ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, «non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per effetto di un negozio» e, perciò, «l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato». Sicché il possesso, inteso come attività, è «l'indice di una situazione in movimento» (o dinamica), «cui, come tale, conviene una valutazione soltanto in termini di attualità e non di mera potenzialità» [NATOLI, Il possesso, Milano, 1992, 44]. L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, in quanto in tale ipotesi, in forza di una fictio legis, il possesso continua nell'erede con effetto dall'apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto. Pertanto, il contratto, preliminare o definitivo, con cui le parti si siano, rispettivamente, obbligate ad alienare e ad acquistare, ovvero abbiano alienato ed acquistato, la sola situazione possessoria relativa ad un bene immobile è nullo, ai sensi degli artt. 1418 e 1325 c.c., per l'impossibilità dell'oggetto, poiché il possesso, in quanto costituente un'attività (art. 1140 c.c.), necessariamente accompagnata dall'animus possidendi, non è negozialmente trasferibile o non è affatto negoziabile, salva l'eccezione rappresentata dalla prevista continuazione, per effetto di una fictio legis, del possesso nell'erede (art. 1146, comma 1, c.c.). 3.1. Trasferimento di proprietà fondato sull'attestazione dell'usucapione a cura del disponente. Da queste premesse dovrebbe derivarne anche un corollario. Non può essere altresì valido il contratto traslativo della proprietà (o di altro diritto reale), con il quale il disponente attesti che ha acquistato per usucapione la 62 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE proprietà (o altro diritto reale) che si appresta a trasferire, benché non vi sia alcun accertamento giudiziale di tale acquisto a titolo originario (ovvero alcun accertamento o transazione raggiunta con l'intestatario che confermi tale acquisto). Anche in questo caso, ad essere trasferito è la res facti, poiché l'accertamento giudiziale dell'acquisto, ovvero l'accertamento o la transazione stragiudiziale raggiunta con l'intestatario (vedi art. 2643, n. 12 bis, c.c.), sebbene abbiano valenza puramente ricognitiva, non possono essere surrogati dall'attestazione unilaterale del disponente contenuta nel contratto e fungono da condicio iuris di efficacia. Nondimeno, su tale specifico punto l'orientamento della giurisprudenza di legittimità non è concorde. Siffatta contrapposizione riflette l'antagonismo tra valori conflittuali e difficilmente compatibili: da un lato, il principio della certezza «statica» dei rapporti giuridici e, dall'altro, l'esigenza di «fluidità» nella circolazione della ricchezza nel mercato. Secondo un primo orientamento di Sez. 2, n. 09884/1996, Riggio, Rv. 500494, specificamente riferito agli atti traslativi a titolo oneroso, perché l'acquisto della proprietà di un immobile per effetto dell'usucapione possa essere fatto valere - ed il diritto acquistato possa formare oggetto di un contratto di vendita - deve essere dapprima accertato e dichiarato nei modi di legge. Al riguardo, si sostiene che, pur essendo l'usucapione un modo di acquisto a titolo originario, essa non opera automaticamente con il maturare del possesso ventennale, bensì esige un possesso pieno ed esclusivo, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale, idoneo a determinare la prescrizione acquisitiva, condizioni necessarie che devono essere previamente controllate dal giudice. Pertanto, sino a quando non vi sia l'accertamento giudiziale dell'insorgenza del diritto di proprietà per effetto del possesso qualificato e continuato ex art. 1158 c.c., l'acquisto del diritto di proprietà non può essere dichiarato a vantaggio del possessore. Pur avendo la sentenza di usucapione natura dichiarativa e non costitutiva del diritto, nondimeno tale funzione di mero accertamento è condizione indispensabile perché il soggetto possa vantare il diritto di proprietà e disporne. Il possesso protratto nel tempo, dunque, non equivale al diritto di proprietà. Perché quest'ultimo emerga e spieghi i suoi effetti, occorre che sia dichiarato in via giudiziale (o mediante negozio di accertamento in contraddittorio con l'usucapito). La stipula dell'atto a cura del notaio sarebbe pertanto censurabile. Per converso, altra pronuncia di Sez. 2, n. 02485/2007, Triola, Rv. 596957, ha affermato che non è nullo il contratto di 63 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell'usucapione, ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario. Nel corpo di tale pronuncia si smentisce che Cass. n. 09884/1996 costituisca un precedente in senso favorevole alla tesi della nullità ed, inoltre, si rileva che la ricostruzione secondo cui la compravendita di immobile, sul presupposto della dichiarazione unilaterale di usucapione a cura dell'alienante, sarebbe nulla, oltre che essere priva di qualsiasi supporto normativo e logico, è tacitamente disattesa da altre pronunce di legittimità, debitamente menzionate (vedi Sez. 1, n. 13184/1999, Papa, Rv. 531526; Sez. T, n. 10372/2000, Cicala, Rv. 539281). Del resto, prosegue Cass. n. 02485/2007, se si aderisse alla tesi della nullità, si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito sarebbe proprietario, ma non potrebbe validamente disporre del bene fino a quando il suo acquisto non sia accertato giudizialmente. Il che non sarebbe compatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà ex art. 832 c.c. Di conseguenza, il notaio che si presti alla stipulazione di simile atto non incorrerebbe in alcuna responsabilità per negligenza professionale, nel momento in cui il rogito precisi che il venditore attesta di avere usucapito il bene oggetto di disposizione, senza che vi sia una corrispondente statuizione che acclari il perfezionamento di detto acquisto a titolo originario. La questione inerente alla necessità dell'accertamento giudiziale dell'usucapione (ovvero di un accordo di accertamento o di transazione, cui partecipi l'intestatario) rimanda poi al tradizionale dibattito circa l'ammissibilità di un negozio di accertamento posto in essere fra privati. Con la precisazione, in ogni caso, che in questa evenienza l'accertamento riguarderebbe non già l'intestatario e l'usucapiente, bensì il presunto usucapiente ed il terzo acquirente. Secondo autorevole dottrina [SANTORO-PASSARELLI, Le dottrine generali del diritto civile, 9^ ed., rist., Napoli, 2002, 177], infatti, le parti private sarebbero prive del potere di accertamento, che costituirebbe invece un corollario della funzione giurisdizionale. Di conseguenza, sarebbe per le parti possibile accertare retroattivamente l'incerta situazione giuridica esistente solo in ipotesi eccezionali espressamente previste dalla legge (ad esempio, per il riconoscimento del figlio naturale ex artt. 250 ss. c.c.). Ulteriore opinione [GIORGIANNI, Il negozio d'accertamento, Milano, 64 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE 1939, 1 ss.] ritiene, invece, pacificamente ammissibile il negozio di accertamento, sulla base del rilievo secondo cui la funzione dell'acclaramento si sostanzierebbe in un minus rispetto ai più penetranti poteri dispositivi attribuiti ai consociati dall'ordinamento (ad esempio, di alienazione del bene, di abbandono, etc.). Sennonché in questa ricostruzione non si tiene conto della circostanza che, quand'anche si reputi l'ammissibilità di un negozio di accertamento avente ad oggetto l'acquisto per usucapione (e l'attuale disposizione dell'art. 2643, n. 12 bis, c.c. parrebbe ammettere tale possibilità), sul piano subiettivo, siffatto accordo dovrebbe pur sempre riguardare l'intestatario e la parte che pretende di avere usucapito, non già quest'ultimo ed il terzo. Non è certo l'accettazione dell'acquirente la condizione che può far ritenere verificato il presupposto della vendita, id est l'avvenuto acquisto del diritto sul bene alienato in favore del venditore per usucapione. Per altro verso, l'acquisto a titolo originario non opera automaticamente in ragione dell'asserita protrazione del potere di fatto sulla cosa, ma postula comunque una declaratoria, giudiziale o negoziale, che acclari la ricorrenza delle condizioni per la produzione dell'effetto. Aspetti ancora più problematici si presentano in ordine all'atto di donazione di immobile acquistato per usucapione non accertata giudizialmente. Secondo una tesi, infatti, tale figura ricadrebbe nel divieto di donazione di beni futuri, sanzionato con la nullità dall'art. 771 c.c. Questo perché l'interpretazione estensiva del disposto dell'art. 771 c.c. (sul punto dell'assimilazione alla fattispecie dell'art. 771 c.c. la questione pende dinanzi alla Sezioni Unite per effetto dell'ordinanza di rimessione di Sez. 2, n. 11545/2014) porterebbe ad includere in tale novero anche i beni altrui, come il cespite acquistato per usucapione non accertata giudizialmente in ipotesi di evizione dello stesso. In tal caso, dunque, il negozio di trasferimento del cespite sarebbe nullo ex art. 771 c.c. (così Sez. 6-2, n. 12782/2013, Manna, Rv. 626423; Sez. 2, n. 10356/2009, Giusti, Rv. 608011; per la tesi dell'inefficacia vedi Sez. 2, n. 01596/2001, Triola, Rv. 543649; che comunque sostengono tutte che il titolo sia astrattamente idoneo alla maturazione dell'usucapione breve). Ulteriore prospettazione sostiene però l'ammissibilità della donazione di un bene di cui sia dichiarata l'usucapione, ancorché in assenza di accertamento giudiziale sul punto. Ciò in quanto si tratterebbe della donazione di un bene qualificato come proprio e non già di un cespite altrui. Il donante, infatti, enuncerebbe un titolo comunque astrattamente idoneo ad escludere l'altruità della res. Sembrerebbe in tale prospettiva, peraltro, opportuno escludere 65 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE espressamente la garanzia per l'evizione a carico del donante, al fine di elidere ogni rischio che siffatta donazione possa essere per questi fonte di obbligazioni o responsabilità. Ma anche questa opinione, sebbene in modo condivisibile escluda che la donazione basata sulla dichiarazione unilaterale di usucapione del donante possa essere ricondotta alla donazione di bene altrui, poiché il donante dispone del bene come proprio, nondimeno ipotizza la validità di simile atto sul presupposto che l'affermazione unilaterale del donante, in ordine al possesso continuato ed utile ad usucapire, costituisca titolo astrattamente idoneo al perfezionamento dell'acquisto in favore del donante stesso. Conclusione che, come anticipato, non persuade poiché la legittimazione dell'acquisto a titolo originario richiede un vaglio, giudiziale o negoziale, che coinvolga direttamente l'usucapito. In conclusione, aderendo alla tesi dell'infungibilità dell'accertamento giudiziale dell'acquisto del diritto reale sul bene per usucapione ovvero del negozio di accertamento concluso tra intestatario ed acquirente per usucapione (eventualmente anche all'esito del perfezionamento del tentativo di media-conciliazione), il notaio deve rifiutarsi di stipulare un atto traslativo basato sull'attestazione unilaterale dell'acquisto a cura del disponente. E qualora l'atto sia ciononostante stipulato, esso dovrebbe ricadere nel radicale vizio di nullità sempre per impossibilità dell'oggetto (in difetto del presupposto insurrogabile della dichiarazione giudiziale dell'acquisto o del riconoscimento dell'intestatario). La vendita o la donazione di un immobile, di cui il disponente (alienante o donante) dichiari unilateralmente di avere maturato l'usucapione, non è un atto traslativo di bene altrui, ma astrattamente di bene proprio di chi dispone. Il che non toglie che oggetto del trasferimento non è ictu oculi un diritto ma il possesso sulla cosa, in difetto della verifica indefettibile dell'acquisto a titolo originario di tale diritto. Il trasferimento del diritto, fondato sull'attestazione unilaterale dell'acquisto a titolo originario, esclude a priori che tale acquisto sia intervenuto, sicché il disponente può rivendicare il solo possesso sul bene ed, al contempo, il medesimo possesso non può che costituire l'oggetto del trasferimento. Del resto, se così non fosse, verrebbe meno la ratio che connota l'istituto stesso dell'usucapione, che è quella di rispondere all'avvertita esigenza di attribuire definitività e certezza giuridica alla pacifica utilizzazione del bene protrattasi nel tempo. Di contro, ritenere sufficiente la mera dichiarazione unilaterale dell'acquisto per usucapione ai fini della validità dell'atto di disposizione, senza una pronuncia giudiziale o un negozio che 66 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE confermino il tramutamento della situazione di fatto protratta nel tempo in diritto, è suscettibile di determinare ulteriori incertezze e conflitti di non poco momento. Ed ancora, siffatta impostazione non appare del tutto in linea con la ricostruzione individualistica della proprietà, come contemplata dalla Cedu (l'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1). Ammettere tale disposizione sulla scorta di una mera attestazione unilaterale del disponente significherebbe, infatti, ledere il principio del rispetto del bene altrui, che esige una verifica qualificata della maturazione dell'effetto, o quantomeno trasgredire la soglia minima esigibile dell'interesse generale nella regolamentazione dell'uso dei beni. Ora, se è pur vero che i singoli ordinamenti possono ammettere che con il decorso del tempo maturi l'acquisto a titolo originario del bene posseduto, nondimeno tale fattispecie acquisitiva deve essere circondata da un minimum di certezze in ordine al perfezionamento dell'acquisto (e non può sicuramente essere basata sulla mera dichiarazione del presunto usucapiente). Anche sul piano pratico sembra auspicabile che la stipulazione dell'atto traslativo sia posticipata alla previa declaratoria giudiziale (ovvero al riconoscimento dell'intestatario formale) dell'avvenuta usucapione. E a questo fine dovrebbe essere diretta anche l'opera qualificata del notaio. Sostenere che siffatta ricostruzione limiterebbe ingiustificatamente le facoltà di disposizione riconosciute al proprietario ai sensi dell'art. 832 c.c., quando i presupposti dell'usucapione sarebbero comunque maturati (benché non dichiarati da una pronuncia giudiziale o da un accordo tra le parti), porterebbe a conseguenze aberranti. Verrebbe, infatti, del tutto eluso il principio che subordina la legittimazione a disporre dei diritti alla titolarità dei medesimi. Se così fosse, la vendita o la donazione potrebbero perfezionarsi sulla base della dichiarazione unilaterale del disponente secondo cui il precedente atto traslativo compiuto dallo stesso disponente sarebbe nullo (sebbene non vi sia l'accertamento giudiziale di tale nullità) ovvero secondo cui tale atto si sarebbe risolto di diritto, in ragione della maturazione di una fattispecie di risoluzione automatica (diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa, termine essenziale), senza che vi sia il corrispondente accertamento di detta risoluzione. In prospettiva, sembra auspicabile una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, volta a dirimere un contrasto in essere su indubbia questione di massima di particolare importanza. 4. Usucapione speciale per la piccola proprietà rurale. Recentemente Sez. 6-2, n. 22476/2014, Proto, Rv. 633001, ha 67 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE affrontato il problema della rilevanza della destinazione urbanistica ai fini della qualificazione di un fondo come rustico e, in quanto tale, soggetto alla disciplina dell'usucapione speciale per la piccola proprietà rurale di cui all'art. 1159 bis c.c. Si premette che la norma allude al fondo rustico che ricada in un comune classificato montano e non esige che esso ricada nella zona montana del comune classificato montano. Ne consegue che, qualora il comune presenti le caratteristiche altimetriche previste dalla legge per essere classificato montano, il fondo incluso nel territorio comunale può essere usucapito ai sensi dell'art. 1159 bis c.c., ancorché si trovi nel livello inferiore del territorio medesimo (Sez. 2, n. 11312/2012, Giusti, Rv. 623079). A tale fattispecie è equiparata, in base alle modifiche apportate alla l. n. 346 del 1976 dalla l. n. 97 del 1994, quella in cui i fondi rustici siano situati in territori non classificati montani, ma il loro reddito dominicale iscritto in catasto non superi complessivamente una certa soglia (Sez. 2, n. 14414/2006, Trombetta, Rv. 590176). Al riguardo, la Corte ha sostenuto che, in tema di usucapione speciale per la piccola proprietà rurale, la destinazione urbanistica del bene costituisce elemento rilevante per la qualificazione del fondo come rustico, poiché, ove il fondo sia destinato ad insediamenti e attività diversi da quelli agricoli, viene meno lo scopo stesso della disposizione di cui all'art. 1159 bis c.c., volta ad incoraggiare e salvaguardare il lavoro rurale. In particolare, la questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità concerneva la rilevanza della diversa destinazione urbanistica di cui al programma di fabbricazione, quando il terreno sia catastalmente qualificato come fondo rustico e la stessa controparte abbia riconosciuto la sua destinazione agricola; sicché, secondo l'assunto dei ricorrenti, ai fini dell'applicazione della norma richiamata, sarebbe stato necessario fare riferimento all'effettiva destinazione del fondo e non ai dati formali conseguenti a provvedimenti adottati dalla p.a. Sennonché, la S.C. ha precisato che la destinazione urbanistica del bene non è elemento irrilevante al fine della qualificazione nel fondo come fondo rustico, essendo indubbio che un fondo destinato ad insediamenti e attività diversi da quelli agricoli non può essere considerato fondo rustico; in tal guisa verrebbe meno lo stesso scopo della disposizione di cui all'art. 1159 bis c.c., che ha la finalità di incoraggiare lo sviluppo e salvaguardare il lavoro agricolo, obiettivo non perseguibile in presenza di una destinazione urbanistica incompatibile. 68 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE Inoltre, non è sufficiente che il fondo sia iscritto nel catasto rustico, ma è necessario che esso sia destinato in concreto all'attività agraria (Sez. 2, n. 14577/2004, Bognanni, Rv. 575139), atteso che la suddetta usucapione può avere ad oggetto soltanto un fondo rustico inteso come entità agricola ben individuata, che sia destinata ed ordinata ad una propria vicenda produttiva; ciò tuttavia non vuol significare che la destinazione urbanistica, incompatibile con la destinazione agricola, non possa e non debba assumere rilievo. Pertanto, devono concorrere i requisiti della destinazione urbanistica, della iscrizione in catasto agrario e della concreta utilizzazione agricola del fondo (Sez. 2, n. 08778/2010, Piccialli, Rv. 612665). La relativa disciplina speciale è inoltre applicabile ai soli acquisti a titolo originario della proprietà e non di altri diritti reali (Sez. 2, n. 00867/2000, Mazziotti di Celso, Rv. 533196) su fondi rustici, con o senza annessi fabbricati (Sez. U, n. 10301/1993, Triola, Rv. 483971). Ed, ai fini del compimento del periodo di quindici anni, necessario per l'usucapione speciale introdotta dalla l. 10 maggio 1976, n. 346, è invocabile anche il possesso ininterrotto iniziato prima dell'entrata in vigore della l. n. 346, senza che, in contrario, rilevi il disposto di cui all'art. 252 disp. att. c.c., mentre non può tenersi conto del possesso del fondo rustico di durata pari al periodo suddetto, ma interrottosi prima dell'entrata in vigore di tale legge (Sez. U, n. 10690/1993, Triola, Rv. 484085; Sez. 2, n. 05851/1999, Mensitieri, Rv. 527406). Quanto al particolare procedimento regolato dalla l. 10 maggio 1976, n. 346, la S.C. ha chiarito che il decreto di riconoscimento della proprietà rurale non ha valore di sentenza e, quindi, non è idoneo a passare in cosa giudicata, conferendo soltanto una presunzione di appartenenza del bene a favore del beneficiario del provvedimento fino a quando, a seguito dell'opposizione di cui all'art. 3 della citata l., non sia emessa pronuncia di accertamento della proprietà. Ne consegue che, pur in difetto di opposizione, non rimane precluso al proprietario del bene di far accertare, in un giudizio ordinario, il proprio diritto dominicale, proprio al fine di ottenere una statuizione che abbia idoneità a passare in giudicato e a divenire, dunque, incontrovertibile (Sez. 2, n. 16238/2011, Carrato, Rv. 618715). Del resto, ove il giudizio di opposizione si estingua, gli effetti del decreto devono intendersi caducati (Sez. 2, n. 14373/2004, Malpica, Rv. 575058). In ultimo, nel caso in cui l'istante non osservi gli oneri di pubblicità e di notifica che gli competono con riferimento ad una 69 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE richiesta divenuta tale in quanto già depositata, entro il periodo di tempo ragionevolmente necessario dato all'istante per assolvere tali oneri, il giudice deve dichiarare l'inammissibilità del ricorso. Qualora tali difetti di pubblicità o notifica siano rilevati nel giudizio di gravame, il giudice dell'appello deve dichiarare nulla la pronuncia impugnata e rimettere le parti davanti al giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 354 c.p.c. (trattandosi di ipotesi assimilabile alla nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio avente la forma della citazione). 5. Interruzione del termine per usucapire. L'art. 1165 c.c. prevede espressamente che le disposizioni relative all'interruzione della prescrizione si applicano anche all'usucapione, in quanto compatibili. È interessante, all'esito, analizzare la posizione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla concreta individuazione - e al relativo assetto - di tali cause di interruzione, siano esse naturali o giudiziali [DE MARTINO, Del possesso, in Commentario di diritto civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1984, 105], in forza del rinvio all'elencazione tassativa delle cause di interruzione della prescrizione, che esclude la possibilità di contemplare atti di interruzione diversi da quelli previsti dalla legge (Sez. 2, n. 16234/2011, Falaschi, Rv. 618663; Sez. 2, n. 13625/2009, Mazzacane, Rv. 608623). In primo luogo, è stato espressamente affermato che il termine per usucapire si interrompe in ragione del riconoscimento del diritto altrui ex art. 2944 c.c. (Sez. 6-2, n. 19706/2014, Giusti, Rv. 632364). Infatti, il riconoscimento del diritto altrui da parte del possessore è atto incompatibile con la volontà di godere il bene uti dominus. Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata, la quale aveva attribuito valore di riconoscimento alla sottoscrizione, da parte del possessore, della domanda di ammissione al concordato preventivo presentata dal proprietario, nonché all'adesione prestata dal medesimo possessore ad una domanda di divisione presupponente l'altrui proprietà del bene. E ciò sebbene l'atto introduttivo del giudizio di divisione ereditaria in sé non interrompa il decorso del tempo utile per usucapire da parte del convenuto, tale atto non essendo rivolto alla contestazione diretta ed immediata del possesso (Sez. 2, n. 06785/2014, Falaschi, Rv. 630156). Il riconoscimento del diritto altrui, da parte del possessore, quale atto unilaterale non recettizio incompatibile con la volontà di godere del bene uti dominus, interrompe il termine utile per l'usucapione anche quando sia effettuato nei confronti di un 70 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE soggetto diverso dal titolare del diritto stesso (Sez. 2, n. 18207/2004, Colarusso, Rv. 576943). Detto riconoscimento può essere dimostrato anche con prova testimoniale. Per converso, non interrompe il termine la conoscenza o la manifestazione di tale conoscenza, da parte del possessore, della titolarità del diritto sul bene in capo ad un terzo. Infatti, l'usucapione richiede solo il possesso, inteso come esercizio di un potere di fatto sulla cosa con la volontà di esercitarlo alla stregua di un proprietario, e non è, quindi, incompatibile con la conoscenza del diritto altrui né con una dichiarazione rivolta ad un terzo relativa al titolo di proprietà del titolare formale intestatario (Sez. 2, n. 25245/2013, Proto, Rv. 628796). Pertanto, per escludere la sussistenza del possesso utile all'usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l'altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l'animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell'intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (Sez. 2, n. 26641/2013, Migliucci, Rv. 628547). Così l'espressione specifica della volontà di acquisto del bene posseduto, esternata direttamente al proprietario (Sez. 2, n. 25250/2006, Fiore, Rv. 593763), è sinonimo di riconoscimento e, quindi, determina interruzione del termine utile ad usucapire. Inoltre, il riconoscimento, affinché possa interrompere il termine, deve provenire direttamente dal soggetto che lo manifesta o da soggetto abilitato ad agire in nome e per conto di quest'ultimo (Sez. 2, n. 07847/2008, Mensitieri, Rv. 602473). Viceversa, quando la disponibilità all'acquisto dell'immobile sia manifestata successivamente al decorso del termine di usucapione, non si configura per ciò solo un'abdicazione al diritto acquisito per usucapione, poiché la rinuncia tacita alla maturazione di tale acquisto postula un'incompatibilità assoluta fra il comportamento del possessore e la volontà del medesimo di avvalersi della causa di acquisto, il che non si realizza nel caso di mera disponibilità ad effettuare la traslazione della proprietà che sia riconducibile all'intento del possessore di regolarizzare la propria posizione e di eliminare il contenzioso in atto (Sez. 2, n. 17321/2015, Falaschi, Rv. 636219). Il termine utile ad usucapire è interrotto anche dal perfezionamento di atti o comportamenti che radicano l'istituto del costituto possessorio, ossia il passaggio da una signoria di fatto 71 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE inquadrabile nell'alveo dell'art. 1140 c.c. ad una situazione degradata di detenzione. In tale evenienza a mutare non è l'elemento oggettivo del corpus, che può continuare in modo invariato, bensì l'elemento subiettivo dell'animus possidendi (ovvero la sopravvenienza di un titolo identificativo della detenzione qualificata). Nondimeno, è dibattuto in giurisprudenza se tale effetto possa risalire all'emissione di un decreto di esproprio. Secondo un primo orientamento (Sez. 1, n. 06742/2014, Benini, Rv. 630047; Sez. 1, n. 13669/2007, Benini, Rv. 597367), il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene, e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto o di fatto con essa incompatibile, con la conseguenza che, qualora il precedente proprietario, o un soggetto diverso, continui ad esercitare sulla cosa attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, la notifica del decreto comporta la perdita dell'animus possidendi, derivandone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis. Sul punto già a suo tempo si era espressa Sez. U, n. 03563/1991, Girone, Rv. 471551, che aveva ritenuto che, dopo l'adozione ed esecuzione del provvedimento di occupazione d'urgenza, l'eventuale protrarsi del godimento del fondo da parte del privato deve ascriversi a mera tolleranza della pubblica amministrazione e, pertanto, non può integrare possesso, come tale tutelabile davanti al giudice ordinario. Di contrario avviso sono altre pronunce (Sez. 6-2, n. 05996/2014, Carrato, Rv. 629806; Sez. 2, n. 25594/2013, Carrato, Rv. 628831; Sez. 1, n. 05293/2000, Sotgiu, Rv. 535970; Sez. 2, n. 13558/1999, Mazzacane, Rv. 531836), che valorizzano la non alterazione dell'elemento soggettivo, pur in presenza di un provvedimento ablatorio, fino alla concreta immissione in possesso. Secondo detta ricostruzione, in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché - con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità - il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell'espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l'espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, ex se, un mutamento dell'animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell'usucapione (a ciò non ostando, tra l'altro, il disposto 72 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE degli artt. 52 e 63 l. n. 2359/1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l'immissione in possesso, né l'attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell'espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l'acquisita consapevolezza dell'esistenza dell'altrui diritto dominicale. Secondo una certa impostazione, siffatto contrasto rifletterebbe l'eterogeneità di prospettazioni in ordine agli elementi identificativi della detenzione. Se si aderisse alla tesi secondo cui la detenzione è individuata dal titolo (costitutivo di un diritto personale di godimento ovvero di un'obbligazione), senza che assuma alcun pregio l'elemento spirituale, dovrebbe propendersi per la prima ricostruzione, in forza della quale basterebbe la notifica del provvedimento ablatorio per determinare gli effetti del costituto possessorio. Optando, invece, per la tesi secondo cui la detenzione si individua per mezzo dell'animus detinendi, non basterebbe il mero decreto espropriativo, in difetto della relativa attuazione, a giustificare il mutamento del possesso in detenzione. La ricostruzione non convince poiché, indipendentemente dalla teoria cui si aderisca ai fini della discriminazione tra possesso e detenzione, resta comunque fermo che traditio brevi manu e constitutum possessorium sono forme "consensuali" di trasferimento del possesso, senza che sia intaccato l'elemento materiale (nella prima ipotesi con evoluzione della detenzione in possesso e nella seconda con la degradazione del possesso in detenzione), sicché, affinché tali meccanismi possano operare in concreto, è necessario il coinvolgimento (rectius il consenso) delle parti direttamente interessate dalla traslazione del possesso ovvero che il titolo riguardi immediatamente tali parti. Per contro, nel caso del provvedimento unilaterale ed autoritativo di esproprio non vi è alcuna partecipazione del possessore del bene espropriato, con la conseguenza che, nonostante la notifica del decreto a cura dell'amministrazione terza, la situazione di chi vanta un pregresso potere di fatto sulla res continua a mantenersi tale, sino all'immissione dell'amministrazione nel possesso. Appare, dunque, più plausibile la tesi che disconosce al decreto in sé l'idoneità a costituire una forma di costituto possessorio. Al contempo, l'atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell'usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, res inter alios acta, ininfluente sulla prosecuzione dell'esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né 73 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE contestato in modo idoneo (Sez. 2, n. 18095/2014, Scalisi, Rv. 631780). Interrompe, invece, il termine utile ad usucapire l'azione di reintegrazione, anche qualora venga respinta per tardività, atteso che, ai fini della produzione dell'effetto interruttivo, non rileva l'esito dell'azione, ma la volontà di riacquistare il possesso mediante un atto valido ad instaurare il giudizio (Sez. 2, n. 18353/2013, Scalisi, Rv. 627365). La persistenza del possesso non è ancora intaccata dagli atti di diffida e di messa in mora, quali atti idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione, ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale (Sez. 2, n. 15199/2011, D'Ascola, Rv. 618610). Così come il potere di fatto sulla cosa non è interrotto dalla proposizione davanti al giudice amministrativo dell'impugnazione avverso la concessione edilizia rilasciata al possessore per l'opera da cui discende l'occupazione dell'immobile, in quanto l'eventuale annullamento dell'atto amministrativo non implica comunque che il ricorrente recuperi il possesso del bene oggetto dell'intervento edilizio (Sez. 2, n. 20815/2015, D'Ascola, Rv. 636665). In ultimo, non costituisce in senso stretto un caso di interruzione l'ipotesi in cui, ai fini dell'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella legale, nel corso del tempo necessario ai fini di tale acquisto, l'originario manufatto (consistente, ad esempio, in un rudere fatiscente) sia stato demolito e sostituito con un immobile avente una differente altezza ed una diversa localizzazione rispetto alle fondamenta ed all'area di sedime del preesistente, poiché in questa evenienza sono integrati gli estremi di una nuova costruzione e non di un intervento di ristrutturazione, con conseguente venir meno dell'identità del bene occorrente per l'unitarietà del possesso ad usucapionem (Sez. 2, n. 14902/2013, Scalisi, Rv. 626588). 74 CAP. IV – QUESTIONI ATTUALI IN TEMA DI USUCAPIONE Bibliografia ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, Milano, 1962; AULETTA, Note in tema di circolazione dell'azienda, in Studi in onore di Alberto Asquini, I, Padova, 1963; DE MARTINO, Del possesso, in Commentario di diritto civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1984; NATOLI, Il possesso, Milano, 1992; SANTORO-PASSARELLI, Le dottrine generali del diritto civile, 9^ ed., rist., Napoli, 2002; GIORGIANNI, Il negozio d'accertamento, Milano, 1939. 75 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 CAPITOLO V LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015. (di Dario Cavallari) SOMMARIO: 1. La responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni arrecati ai terzi nell'esercizio della sua attività: cenni generali. – 2. La responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione. – 3. La vicenda processuale. – 4. La decisione: i punti fondamentali. – 5. Considerazioni finali. 1. La responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni arrecati ai terzi nell'esercizio della sua attività: cenni generali. Il modello di responsabilità della P.A. per i danni causati ai terzi qualora agisca nell'esercizio delle sue funzioni si è continuamente evoluto, nel nostro ordinamento giuridico, fin dalla nascita dello stato unitario. Prima dell'entrata in vigore della Costituzione repubblicana la sua ammissibilità in via generale era, nella sostanza, esclusa, in ragione della fondamentale incompatibilità del perseguimento dell'interesse pubblico con il concetto stesso di responsabilità. I principi basilari di questa responsabilità, ove ammessa, erano stati elaborati, in origine, dalla dottrina italiana sulla base delle disposizioni della legge 20 marzo 1865, n. 2248, e della successiva legge 25 giugno 1865, n. 2359, in tema di espropriazione per pubblica utilità. La legge n. 2248 del 1865 prevedeva per il privato la possibilità di agire in giudizio, davanti all'autorità giudiziaria ordinaria, a difesa dei propri diritti civili, affinché l'atto amministrativo fosse disapplicato per non conformità alla legge. Una volta ottenuta la sentenza di condanna il giudice amministrativo doveva annullarlo, adeguandosi alla sentenza civile. Il risarcimento era previsto nel caso di danno da attività materiale, situazione nella quale la P.A. rispondeva come qualsiasi altro ente, e ad essere tutelati erano solo i diritti soggettivi e non gli interessi legittimi. In seguito, il fondamento della responsabilità civile della P.A. per lesione di diritti soggettivi di terzi è stato rinvenuto nell'art. 28 76 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 Cost., per il quale «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Alla luce di detta disposizione, tale responsabilità, qualificata come extracontrattuale, è stata ricostruita in vari modi dalla dottrina. In primo luogo, è stata ipotizzata una responsabilità indiretta della P.A., che avrebbe dovuto rispondere per culpa in vigilando o in eligendo con riferimento alla condotta del dipendente, unico soggetto responsabile in via diretta. Altra impostazione ha affermato l'esistenza di una duplice responsabilità della P.A., la quale sarebbe stata diretta e principale per i danni commessi dai dipendenti nell'esercizio di funzioni dell'ente e indiretta qualora detti danni fossero esulati dall'ambito di queste funzioni. Per la teoria della responsabilità diretta, invece, l'art. 28 Cost. avrebbe obbligato la P.A. a risarcire i danni dovuti a condotte dei suoi dipendenti. In particolare, si è sostenuto che vi sarebbe stata una immedesimazione organica fra amministrazione e dipendente, e che la distinzione fra la responsabilità diretta della P.A. per gli illeciti dei dipendenti e quella del subordinato autore del fatto avrebbe avuto una valenza semplicemente processuale. Le Sez. U, n. 00500/1999, Preden, Rv. 530553, hanno esteso la responsabilità de qua, ancora intesa come aquiliana, anche alle lesioni di interessi legittimi. Peraltro, soprattutto dopo l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, sono state proposte letture alternative in ordine alla questione della natura di detta responsabilità, non essendo chiaro se la parte pubblica dovesse rispondere dei danni arrecati ai soggetti con cui interagiva nell'esercizio dei suoi poteri a titolo contrattuale od aquiliano. Infatti, in ambito amministrativo ha avuto un notevole seguito la categoria della cosiddetta responsabilità da contatto sociale (o da contatto amministrativo), da cui derivano obblighi di protezione per le parti (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 1945 del 2003). Sulla base di questa categoria la giurisprudenza ha enucleato, così, dei doveri specifici in capo all'amministrazione, nascenti dal contatto sorto fra la stessa ed i cittadini, la violazione dei quali si 77 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 traduceva in una responsabilità modellata sulla falsa riga di quella contrattuale. La base normativa per questa ricostruzione è stata individuata nella legge 241 del 1990, con cui sono stati positivizzati i principi di efficienza e di economicità dell'azione amministrativa e di partecipazione del privato al procedimento amministrativo. L'interessato, pertanto, avrebbe avuto la possibilità di contestare la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che si ponevano quali limiti esterni alla discrezionalità amministrativa. D'altronde, proprio l'esistenza di un legame fra P.A. e privato dovuto all'instaurazione del procedimento amministrativo avrebbe dovuto portare ad escludere il ricorso all'art. 2043 c.c., disposizione concernente le lesioni patite da soggetti estranei al danneggiante. Pure una parte della giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 00157/2003, Benini, Rv. 559550) ha accolto una lettura contrattualistica della responsabilità della P.A.. Tale impostazione è oggi considerata recessiva, anche alla luce dell'approvazione del Codice del Processo Amministrativo (allegato 1 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), che avrebbe ormai optato per un modello di responsabilità della P.A. di natura aquiliana. In questo modo, hanno perso di interesse, altresì, le ulteriori ricostruzioni alternative di detta responsabilità, che la avevano inquadrata ora, in via generale, nello schema precontrattuale (Tar Lombardia, Milano, Sez. 3, n. 1869 del 2000), ora in quello della responsabilità speciale (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 1047 del 2005). 2. La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione. La responsabilità precontrattuale di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. consegue principalmente alla violazione del dovere di buona fede nelle trattative contrattuali e, come ormai affermato sia in dottrina che in giurisprudenza, rappresenta una specie della responsabilità aquiliana. La dottrina è solita distinguere due tipi di responsabilità precontrattuale della P.A. [CARINGELLA, 2007]. Il primo è la responsabilità precontrattuale cosiddetta spuria, con la quale si designa l'obbligazione risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dall'adozione di provvedimenti illegittimi nel corso della serie procedimentale di evidenza pubblica. 78 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 Il secondo tipo è rappresentato dalla responsabilità precontrattuale cosiddetta pura, che discende dalla trasgressione dei canoni comportamentali privatistici posti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. Nel primo caso, viene in rilievo una responsabilità da lesione di interessi legittimi solo connessa alle trattative precontrattuali e la P.A. è vista come un cattivo amministratore e non come un cattivo contraente. Nel secondo, invece, il soggetto pubblico non adotta provvedimenti illegittimi, ma tiene comportamenti illeciti, per cui è l'attività, non l'atto della P.A. a non avere rispettato i canoni di correttezza e buona fede. È questa la responsabilità precontrattuale propriamente intesa che qui viene in rilievo. Tale responsabilità impone la necessità di mediare tra due opposti interessi, entrambi meritevoli di protezione. Infatti, se da una parte occorre garantire ai cittadini una tutela nei confronti dei pubblici poteri, dall'altra la P.A. necessita di uno spazio d'azione che le consenta di realizzare il pubblico interesse in maniera efficiente. L'esito del bilanciamento di questi opposti interessi dipende dalla preminenza che l'ordinamento riconosce all'uno o all'altro. Prima dell'entrata in vigore dell'attuale codice civile, detta preminenza era riconosciuta alla parte pubblica, e, quindi, era escluso un modello generale di responsabilità precontrattuale che, comunque, era riferita solo ai rapporti fra privati. Infatti, si sosteneva che, una volta entrata in contatto con il contraente, l'amministrazione restasse libera di valutare in maniera discrezionale la convenienza alla stipulazione del contratto e che, perciò, l'ammissione di un sindacato giurisdizionale in materia avrebbe violato il principio della separazione dei poteri. In seguito, tale posizione è stata superata (ex multis Sez. 3, n. 01142/1963, Sbrocca, Rv. 261669), poiché si è osservato, valorizzando i principi della parità contrattuale e della solidarietà sociale, che buona fede e correttezza rappresentavano canoni di valutazione della condotta del contraente durante le trattative riferibili pure all'amministrazione, non avendo alcuna correlazione con profili inerenti alla legittimità e alla convenienza dell'azione amministrativa [CHINÉ, 2003, 803]. Ne conseguiva che ricorreva una responsabilità precontrattuale della P.A. ogni volta che questa, nei rapporti con i terzi, avesse agito in contrasto con i principi di correttezza e buona 79 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 fede e, quindi, non avesse tenuto il contegno esigibile dal corretto contraente. Si è ammessa, così, l'applicazione dell'art. 1337 c.c. ai contratti pubblici, limitatamente ai comportamenti tenuti durante la fase terminale delle trattative, ed è stata accolta una nozione restrittiva del concetto di "parti", che considerava tali solo i soggetti identificati come possibili futuri contraenti ed escludeva la responsabilità precontrattuale nelle fasi precedenti, quando i concorrenti erano ancora una pluralità. Perché si potesse parlare di un obbligo di lealtà della P.A., perciò, era necessario che venisse in essere una relazione specifica tra soggetti in trattativa. Tale relazione era esclusa nei casi di licitazione privata, di pubblico incanto e di appalto concorso, poiché gli interessati non rivestivano la qualifica di contraenti, ma di partecipanti alla gara, e non potevano, come tali, vantare un diritto alla buona fede nelle trattative, bensì un interesse legittimo al corretto esercizio del potere (Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705). La responsabilità precontrattuale era ammessa, invece, al di fuori delle procedure di evidenza pubblica, cioè quando, individuato il soggetto contraente, l'aggiudicatario fosse divenuto parte nella trattativa negoziale, con possibilità, perciò, di invocare l'applicazione delle regole di correttezza e buona fede ove la P.A. avesse revocato in autotutela la gara, rilevando, ad esempio, un errore nel procedimento seguito. La responsabilità della P.A. in ambito di gara era individuata esclusivamente nel corso di una trattativa privata con un unico destinatario, nella quale il privato assumesse il ruolo di parte della trattativa stessa, e nel contesto di rapporti successivi all'aggiudicazione della gara. Ciò in quanto si riteneva che i procedimenti che conducevano alla scelta dei contraenti ricorrendo ai pubblici incanti, all'appalto concorso e alla licitazione privata fossero stati previsti dalla legge nell'interesse esclusivo della parte pubblica e non dei privati concorrenti. Era negata, così, ogni responsabilità precontrattuale della P.A. con riguardo ai comportamenti tenuti in sede di gara o nei procedimenti amministrativi preordinati alla conclusione dei contratti ad evidenza pubblica, stante la non risarcibilità degli interessi legittimi. 80 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 Solo più tardi tale forma di responsabilità è stata ravvisata anche nel procedimento ad evidenza pubblica, ma esclusivamente nell'ipotesi di condotta illecita posta in essere successivamente all'aggiudicazione e nella fase precedente la stipulazione del contratto. E' stata affermata, allora, la responsabilità precontrattuale della P.A. nel caso di mancata stipulazione del contratto con l'impresa aggiudicataria senza plausibili motivi di pubblico interesse (Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705), ovvero di impedimento dell'attività di controllo del contratto o di omissione colposa o dolosa della redazione formale dello stesso (Sez. 1, n. 02255/1987, Maiella, Rv. 451481). Tale responsabilità assumeva rilevanza dopo che il ricorrente aveva ottenuto effetti concretamente vantaggiosi, come l'aggiudicazione, per poi perderli nonostante l'affidamento ormai conseguito dalla parte interessata. Occorre rilevare, però, come la giurisprudenza, in primo luogo amministrativa (ex multis Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 6 del 2005; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 790 del 2014; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 1142 del 2015), sia oggi giunta a riconoscere l'applicabilità anche ai soggetti pubblici, sia nell'ambito di trattative negoziali condotte senza procedura di evidenza pubblica, sia nel corso delle procedure di gara e prima dell'aggiudicazione, dell'obbligo di improntare la propria condotta al canone di buona fede e correttezza sancito nell'art. 1337 c.c. [CHINÉ, 2003, 803]. In tal modo, si vuole sanzionare la P.A. che abbia ingenerato nella controparte privata affidamenti ingiustificati ovvero abbia leso, senza giusta causa, affidamenti legittimamente ingenerati, imponendo alla stessa amministrazione l'obbligo di valutare con diligenza le concrete possibilità di positiva conclusione della trattativa e di informare con tempestività la controparte dell'eventuale esistenza di cause ostative rispetto a detto esito. Con specifico riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, il Consiglio di Stato ha, quindi, avuto cura di precisare che le regole di condotta in esame non possono essere riconducibili soltanto ad una o più singole fasi in cui si suddivide la gara, poiché ognuna di dette fasi, pur se distinta da quella successiva e da quella precedente, tende all'unico fine della stipulazione del contratto. Ne consegue che già da prima della sottoscrizione del contratto l'amministrazione è obbligata al rispetto dei principi della 81 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 buona fede e correttezza nelle trattative e che l'applicazione di tali principi non può essere circoscritta al periodo successivo alla determinazione del contraente. La disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato fra P.A. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall'inizio del procedimento, non potendosi scindere un comportamento che si presenta unitario e che, conseguentemente, non può che essere valutato nella sua complessità, estrinsecandosi sotto forma di atti che hanno al contempo una valenza sia pubblicistica che negoziale. Costituisce, pertanto, recente conquista giurisprudenziale l'affermazione della responsabilità precontrattuale della P.A. nell'ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, ma lesiva dei principi di affidamento e buona fede. L'importanza del cambiamento giurisprudenziale in questione si coglie se si considera, con specifico riferimento all'eventualità che un contratto pubblico non sia stipulato o che la relativa approvazione sia negata, che l'attività della P.A. che viene contestata ha natura spiccatamente provvedimentale e viene svolta all'interno di un procedimento e che, in un'ottica tradizionale, il soggetto coinvolto nella procedura di evidenza pubblica è titolare di una posizione di interesse e non di un diritto alla stipulazione o all'approvazione. Seguendo questa impostazione, pure la giurisprudenza della Corte di cassazione, con Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507, ha iniziato a ritenere applicabile l'art. 1337 c.c. alla P.A. ove un ente pubblico, anche nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica, abbia posto in essere, nelle trattative con i terzi, delle condotte contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, ravvisandosi una responsabilità della parte pubblica qualora ricorrano due elementi, uno positivo e l'altro negativo, rappresentati dall'affidamento incolpevole ingenerato dal comportamento della stazione appaltante e dall'assenza di una giusta causa alla mancata conclusione del procedimento. 3. La vicenda processuale. Nella fattispecie oggetto di Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, una società aveva convenuto il Ministero per i Lavori Pubblici per sentire dichiarare la risoluzione di un contratto di appalto per la costruzione di opere e 82 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 la condanna del convenuto al risarcimento dei danni, al pagamento degli interessi maturati sull'anticipazione e di altre voci. In particolare, era avvenuto che, a seguito di una gara a licitazione privata conclusasi con l'aggiudicazione dell'appalto, il Ministero avesse proceduto alla consegna immediata dei lavori per ragioni d'urgenza, per poi successivamente stipulare ed approvare il contratto con decreto ministeriale. Peraltro, la Corte dei conti aveva negato la necessaria registrazione e, quindi, i lavori, sospesi dalla P.A. a distanza di diciassette mesi dalla consegna, non erano potuti proseguire. Per queste ragioni, parte attrice aveva sostenuto che il contratto, essendo valido ed efficace, doveva essere risolto per inadempimento del Ministero e, in subordine, che questo doveva essere condannato per responsabilità precontrattuale, avendo posto in essere un comportamento contrario ai principi di buona fede e correttezza. Le sue domande, però, erano state respinte dalle corti di merito. Il punto della controversia che qui interessa, pertanto, concerne la configurabilità di una responsabilità della P.A. per la mancata approvazione definitiva di un contratto, in un caso in cui essa aveva ingenerato nel privato un ragionevole affidamento in ordine alla regolare esecuzione del contratto stesso, in quanto aveva proceduto alla consegna dei lavori d'urgenza senza verificare, già nella fase precontrattuale, l'effettiva eseguibilità dell'opera, rivelatasi, poi, non realizzabile. 4. La decisione: i punti fondamentali. La Corte di cassazione, adita dall'impresa danneggiata, dopo avere escluso che il contratto, seppure perfetto nei suoi elementi costitutivi, potesse essere dichiarato risolto per inadempimento, stante la mancanza del necessario visto di registrazione della Corte dei conti, ha affrontato la questione della sussistenza dell'eventuale responsabilità precontrattuale della P.A. per violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., a causa del suo comportamento colpevole sin dalla fase della progettazione dell'opera. Era stato dedotto che detta responsabilità sarebbe conseguita alla circostanza che la Corte dei conti aveva riscontrato la carenza della necessaria autorizzazione del Ministero dei Beni culturali e ambientali ed aveva svolto osservazioni critiche su talune scelte tecniche effettuate dalla P.A. stessa. 83 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 In tal modo, sarebbe rimasto frustrato, ad avviso di parte ricorrente, l'affidamento ragionevolmente riposto dall'impresa nella genuinità del progetto, la cui attuazione era oggetto di un contratto stipulato e approvato e di cui essa aveva iniziato l'esecuzione, a seguito della consegna anticipata dei lavori in via d'urgenza. Peraltro, la P.A. aveva omesso di fornire giustificazioni del proprio comportamento, avendo sospeso i lavori per un lungo periodo, senza informare l'impresa interessata. Era criticato, soprattutto, l'assunto della corte territoriale, secondo la quale la responsabilità precontrattuale del Ministero doveva essere esclusa alla luce della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica da parte del Ministero medesimo nel procedimento di licitazione, che si era svolto regolarmente, come si desumeva dal fatto che le opere erano state approvate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, mentre il rifiuto della Corte dei conti di autorizzare la registrazione, per la mancanza del visto di conformità da parte del Ministero dei Beni culturali e ambientali, non dimostrava che l'amministrazione fosse a conoscenza di elementi ostativi alla realizzazione delle opere. La Corte di cassazione, nell'accogliere il ricorso, è partita dalla considerazione che la responsabilità precontrattuale della P.A. non era una responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, e presupponeva la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Ne conseguiva che non aveva alcuna importanza la legittimità dell'esercizio della funzione pubblica che aveva condotto all'aggiudicazione e che era espressa nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in altri provvedimenti successivi, contando solamente la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica erano strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale. Del resto, come chiarito da Consiglio di Stato, Sez. 5, n. 3831 del 2013, la formazione dei contratti pubblici è caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento amministrativo e di uno negoziale, il primo disciplinato da regole di diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento dell'interesse pubblico, l'altro da regole di diritto privato, concernenti la volontà contrattuale. Diviene d'obbligo concludere, quindi, che la fase dell'evidenza pubblica non si colloca al di fuori delle trattative, ma 84 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 ne è parte integrante, poiché si è in presenza di un'unica serie di atti operanti in una duplice dimensione, pubblicistica e privatistica. Pertanto, il giudice della legittimità ha affermato che, una volta terminata la procedura di evidenza pubblica con la stipulazione di un contratto la cui efficacia sia condizionata all'approvazione dell'autorità di controllo, l'amministrazione committente ha l'obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, vale a dire di informare l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo e di evitare che subisca i pregiudizi connessi agli sviluppi e all'esito del medesimo procedimento. Di particolare interesse e degna di specifico rilievo è la circostanza che tale obbligo sia stato posto a carico della P.A. in ragione del suo status professionale, nel quale è implicita una posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rapportano ad essa. Perciò, ad avviso di Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, la P.A. è responsabile se, avendo preteso l'anticipata esecuzione della prestazione, abbia accettato il rischio del successivo mancato avveramento della condizione di efficacia del contratto a causa della mancata registrazione del decreto di approvazione, così frustrando il legittimo e ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del contratto. Il Supremo Collegio, nel giungere a simili conclusioni, ha dato atto, altresì, dell'evoluzione della giurisprudenza in materia, che ha equiparato la parte pubblica ad un normale contraente privato, sul presupposto che le fasi della procedura ad evidenza pubblica sono uno strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale. In tal modo, la responsabilità precontrattuale della P.A. è stata riconosciuta, a prescindere dall'avvenuta aggiudicazione, persino nel procedimento strumentale alla scelta del contraente, poiché essa già in questa fase instaura trattative idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici specifici e differenziati, entrando in contatto con una pluralità di offerenti, nei confronti dei quali deve rispettare i principi generali di correttezza e buona fede. E' stata censurata, dunque, la decisione della Corte d'Appello, nella misura in cui si era limitata a rilevare la legittimità formale degli atti della procedura di licitazione privata, in quanto la responsabilità precontrattuale della P.A., anche nella procedura pubblicistica di scelta del contraente, non era una responsabilità da provvedimento, 85 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 ma da comportamento, che presupponeva la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Questa conclusione conferma l'orientamento di recente espresso da Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507, la quale aveva stabilito che «La responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti. Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della P.A. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante». La recente giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, e Sez. 1, n. 15260/2014, Cristiano, Rv. 631507) è di estremo rilievo, poiché ha superato il precedente prevalente e difforme indirizzo seguito, fino a poco tempo prima, da Sez. 2, 00477/2013, Petitti, Rv. 624592, da Sez. 3, n. 12313/2005, Trifone, Rv. 582735, e da Sez. U, n. 04673/1997, Vella, Rv. 504705. La stessa Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, ha sottolineato come questa recente evoluzione della giurisprudenza sia coerente con l'affermazione, contenuta in alcune più risalenti decisioni della Suprema Corte di cassazione, di una responsabilità precontrattuale della P.A., ove sia ravvisabile una relazione specifica tra soggetti che abbia ingenerato un affidamento ragionevole nella parte non pubblica, anche nell'ambito della procedura amministrativa di scelta del contraente ed a seguito dell'aggiudicazione, ad esempio qualora sia stata omessa la redazione del contratto formale senza giustificazione, ovvero questo sia stato stipulato, ma non trasmesso all'autorità di controllo, oppure nell'eventualità che l'ente pubblico abbia preteso l'adempimento della prestazione prima dell'approvazione del contratto da parte dell'autorità di controllo, (Sez. 1, n. 23393/2008, Panebianco, Rv. 605071; Sez. 1, n. 03383/1981, Sgroi, Rv. 413966; Sez. 2, n. 03008/1968, Bivona, Rv. 335853). 86 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 In tal modo, è stata messa in evidenza la necessità di valutare le circostanze del caso concreto, in particolare se la P.A., in pendenza del procedimento di controllo ed approvazione del contratto stipulato con il privato, abbia osservato l'obbligo generale di comportamento secondo correttezza e buona fede, informando l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo, affinché potesse, a sua volta, evitare i pregiudizi connessi agli sviluppi e ai tempi del procedimento, e ciò a prescindere dagli strumenti di tutela spettanti al privato a seguito dell'eventuale esito negativo del controllo. Nella fattispecie in esame, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, ha individuato un legittimo affidamento dell'appaltatore nel fatto in sé che egli avesse dovuto iniziare l'esecuzione del contratto prima della sua approvazione, anche perché, ai sensi dell'art. 337, comma 2, legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, egli avrebbe già avuto diritto alla reintegrazione nelle spese per i lavori eseguiti qualora l'approvazione non fosse intervenuta. Al riguardo, sembra che Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635222, abbia seguito, quindi, l'orientamento secondo il quale oggetto dell'affidamento è la lealtà del comportamento della controparte nella conduzione delle trattative, come manifestatosi per mezzo di atti che, per la loro serietà e specificità, fanno nascere la fiducia nella correttezza della successiva condotta, e non, al contrario, quello in base a cui l'affidamento ha ad oggetto solo la futura conclusione del contratto. Inoltre, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, si segnala perché ha rimeditato l'orientamento tradizionale che escludeva la configurabilità di una responsabilità della P.A., a norma dell'art. 1338 c.c., per non avere informato l'altra parte di una causa di invalidità o inefficacia del contratto di cui doveva presumersi la conoscenza e conoscibilità con l'uso della normale diligenza (ad esempio, la mancanza del visto ministeriale necessario per la registrazione, o della registrazione del decreto di approvazione del contratto della Corte dei conti). Infatti, era costante l'affermazione in giurisprudenza che la responsabilità prevista ex art. 1338 c.c., a differenza di quella di cui all'art. 1337 c.c., tutelasse l'affidamento di una delle parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua validità, sicché non era reputata configurabile una responsabilità precontrattuale della P.A. ove l'invalidità del contratto derivasse da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e, quindi, tali da 87 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 escludere l'affidamento incolpevole della parte adempiente (Sez. 1, n. 07481/2007, Del Core, Rv. 595698; Sez. 1, n. 11135/2009, Panebianco, Rv. 608244, che ha applicato il principio alle cause di inefficacia del contratto, per l'esattezza alla mancata approvazione del contratto stipulato da una P.A. da parte del Ministro competente). Pertanto, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha chiarito, conformemente a quanto già fatto dalla magistratura amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. 3, n. 279 del 2013), che, in materia contrattuale, il principio ignorantia legis non excusat non deve essere inteso in senso generale e assoluto, così da desumerne sempre la non scusabilità dell'ignoranza dell'invalidità contrattuale derivante da norme di legge, ma che occorre indagare caso per caso sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità dell'affidamento del contraente, avendo riguardo non alla conoscibilità astratta della norma, bensì anche all'esistenza di interpretazioni univoche della stessa e, soprattutto, alla conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. L'astratta conoscibilità della regola, quindi, non dimostra sempre che il privato sia in colpa, poiché avrebbe dovuto sapere dell'invalidità o dell'inefficacia del contratto, in quanto l'effettiva conoscenza di questa spesso dipende dalla necessaria cooperazione dell'altro contraente, il quale è tenuto, ex art. 1338 c.c., a comunicare le circostanze di fatto alle quali per la legge consegue tale invalidità o inefficacia, quando ne sia o ne debba essere informato in ragione delle sue qualità professionali o istituzionali. In particolare, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha escluso che tale conoscenza potesse desumersi automaticamente dalla circostanza che qualunque norma avrebbe efficacia di diritto obiettivo conoscibile dalla generalità dei cittadini, perché la principale funzione dell'art. 1338 c.c. è di compensare l'asimmetria informativa nelle contrattazioni tra parti che non sono su un piano di parità, come avviene nei rapporti con la P.A., la quale governa la procedura di evidenza pubblica sulla base dei suoi poteri ed ha uno status professionale ed un bagaglio di conoscenze tecniche ed amministrative di cui il privato è privo. L'obbligo specifico di comunicare alle parti tutte le cause di invalidità o inefficacia negoziale di cui abbia o debba avere conoscenza è imposto alla parte pubblica pure per via della sua funzione istituzionale di rappresentanza e di protezione degli interessi di coloro che entrano in rapporto con essa e, perciò, 88 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 riguarda non solo il procedimento di formazione del contratto secondo il modulo privatistico della trattativa privata, ma anche quello di evidenza pubblica, a tutela dell'affidamento delle imprese concorrenti. E' di indubbio interesse, al riguardo, che Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, abbia fatto riferimento, nella motivazione, a quella parte della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. 5, n. 1300 del 2007) che ha, talora, valutato la colpa della P.A. con riferimento al criterio di imputazione della responsabilità del professionista di cui all'art. 2236 c.c. «introducendo un parametro di imputazione del danno riferito al grado di complessità delle questioni implicate dall'esecuzione della prestazione», così anticipando possibili ulteriori sviluppi in ordine alla tematica in questione. Sussiste, quindi, una responsabilità per culpa in contraendo della P.A. che non solo rimanga silente con riferimento al summenzionato dovere di informazione, ma conduca il procedimento sino alla stipulazione di un contratto destinato ad essere caducato o a rimanere inefficace, persino chiedendone l'anticipata esecuzione. In questo modo, infatti, viene frustrato il legittimo affidamento dell'impresa nell'eseguibilità dello stesso e nella legalità dell'azione amministrativa. Pertanto, Sez. 1, n. 09636/2015, Lamorgese, Rv. 635220, ha sancito che il giudice adito in sede risarcitoria deve accertare, al fine di escludere o affermare una responsabilità precontrattuale della P.A. ex art. 1338 c.c., se il contraente abbia confidato colpevolmente o incolpevolmente nella validità ed efficacia del contratto, concluso o da concludere (in dottrina [Satullo, 2011, 3700-3701] è stato suggerito di considerare non scusabile la condotta del privato solo qualora la violazione della P.A. assuma carattere manifesto e particolarmente grave). Nel fare ciò occorre verificare, in concreto, se la norma di relazione violata sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, sulla base del parametro dell'homo eiusdem professionis et condicionis (cosiddetta causa di invalidità "auto evidente"), tenuto conto della univocità dell'interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Infatti, la P.A., in presenza di norme di azione che è tenuta istituzionalmente a conoscere e ad applicare in maniera professionale, ha sempre l'obbligo di informare il privato delle 89 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 circostanze che potrebbero rendere invalido, inefficace o, comunque, non eseguibile il contratto, pena la sua responsabilità per culpa in contraendo, salva la possibilità di dimostrare che l'affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifici, che provino come, in quel determinato rapporto, la controparte fosse effettivamente a conoscenza della causa che viziava il contratto concluso o da concludere. A tal fine, si è proposto [SATULLO, 2011, 3700-3701] di distinguere tra norme che costituiscono diretta ed immediata attuazione di principi fondamentali regolatori dell'attività amministrativa e norme che non lo siano o lo siano indirettamente. Sono state ritenute conoscibili, così, le disposizioni la cui violazione il privato possa con immediatezza percepire come manifestamente contraria ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento ed ai principi fondamentali dell'attività amministrativa di cui all'art. 1 della legge n. 241 del 1990. Inoltre, è stato sottolineato che vi sono delle circostanze oggettive che escludono la conoscibilità della norma a priori ed indipendentemente da un giudizio di ordinaria diligenza condotto caso per caso, ad esempio, quando la formulazione della disposizione sia poco chiara od oscura ovvero esista un contrasto giurisprudenziale sulla sua interpretazione ed applicazione. 5. Considerazioni finali. La decisione in commento, che va letta come un ulteriore passo verso la parificazione della posizione della P.A. a quella del privato, parte dall'assunto che la responsabilità del soggetto pubblico prescinde dall'esistenza di un rapporto personalizzato con il privato, e sorge sin dall'inizio del procedimento ed indipendentemente dalla sua legittimità, in quanto posta a tutela dell'affidamento della controparte. Non è più possibile negare l'applicabilità, nei confronti della P.A., dell'art. 1338 c.c. con riferimento ad una procedura di evidenza pubblica. In tal modo, le posizioni della giurisprudenza civile e di quella amministrativa nella materia in questione sono state ricondotte ad unità. E' interessante notare, inoltre, come, nel settore in esame, sia sempre più significativo l'influsso del diritto dell'Unione europea. In particolare, non può escludersi, anche alla luce del richiamo, contenuto nella sentenza in commento, al concetto di status (riferito alla P.A.) e al criterio di imputazione della 90 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 responsabilità previsto dall'art. 2236 c.c. per il professionista, che stiano maturando i presupposti per una complessiva rimeditazione della stessa natura della responsabilità precontrattuale della P.A., alla luce dei principi comunitari. Infatti, è noto l'orientamento maggioritario in dottrina e d in giurisprudenza che qualifica come aquiliana tale responsabilità, da cui derivano determinate conseguenze in tema di prescrizione, di onere della prova, di regime della mora nonché di elemento psicologico del contraente che pone in essere il comportamento scorretto. Con riferimento a questo ultimo profilo, la riconduzione alla responsabilità extracontrattuale degli artt. 1337 e 1338 c.c. impone al soggetto che si assume danneggiato di fornire la prova del dolo o della colpa della P.A.. Peraltro, secondo le direttive europee (come le Direttive Ricorsi 2007/66/CE e la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici) la risarcibilità dei danni che conseguono alla violazione di norme in materia di scelta del contraente, da un lato, è ammessa indipendentemente dalla prova di un diritto all'aggiudicazione, dall'altro, è accordata a prescindere dall'accertamento dell'elemento della colpa della P.A.. L'ordinamento europeo configura la responsabilità del soggetto pubblico nel settore specifico degli appalti pubblici in senso oggettivo, tanto che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato l'incompatibilità con il diritto dell'Unione delle disposizioni nazionali che subordinavano il risarcimento del danno alla prova del comportamento colposo della P.A. (Corte Giustizia UE, Sez. 3, 30 settembre 2010, causa C-314/09, Graz Stadt). La stessa giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1672 del 2014; Tar Veneto, Sez. 1, n. 251 del 2015) è, ormai, orientata ad ammettere, almeno in caso di violazioni di norme in tema di appalti pubblici, la natura oggettiva della responsabilità della P.A.. Viene allora da chiedersi se la necessità di provare la colpa della P.A. quando sia contestata, nell'ambito di una procedura di evidenza pubblica, la sua responsabilità precontrattuale ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c. (necessità che discende dalla natura aquiliana della detta responsabilità) sia oggi compatibile, ancorché non si ponga una questione di legittimità o meno dell'attività provvedimentale del soggetto pubblico, con i principi enunciati in sede comunitaria. 91 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 Le soluzioni che potrebbero prospettarsi per ovviare a tale potenziale conflitto sono varie, fra cui riconoscere il carattere oggettivo di tale responsabilità oppure ammetterne la natura contrattuale [VAPINO, 2014, 1187-1188]. 92 CAP. V – LA RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZIONE I, N. 9636 DEL 12 MAGGIO 2015 Bibliografia F. CARINGELLA, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: un istituto dal sesso incerto, Relazione tenuta a Roma al convegno del 29 ottobre 2007 su "Attività contrattuale e responsabilità della pubblica amministrazione", rinvenibile su httpss://view.officeapps.live.com/op/view.aspx?src=httpss%3A%2F %2Fwww.unirc.it%2Fdocumentazione%2Fmateriale_didattico%2F 113_2008_1057_1953.docsu G. CHINÉ, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nell'era della risarcibilità degli interessi legittimi, in Foro amm. - Tar, 2003, 803 ss. D. SATULLO, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione e annullamento d'ufficio: il problema del legittimo affidamento, in Foro amm. - Tar, 2011, 3694 ss.; A. VAPINO, La Cassazione conferma la responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase precedente l'aggiudicazione, in Urbanistica e Appalti, 2014, 11, 1181-1188. 93 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE CAPITOLO VI LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE (di Annamaria Fasano) SOMMARIO: 1. Il contratto preliminare di preliminare. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità. – 3. Il recente arresto della Suprema Corte sulla validità del contratto preliminare di preliminare: Sez. U, n. 4826 del 2015. – 3.1. Riflessioni sulla causa. – 3.2. La tesi negativa. – 3.3. La tesi positiva. – 3.4. L'orientamento delle Sezioni Unite e le condizioni di ammissibilità del preliminare di preliminare. 1. Il contratto preliminare di preliminare. La formazione di un accordo contrattuale è generalmente preceduta da una fase preparatoria, che spesso si concretizza in semplici trattative o può anche manifestarsi con accordi preparatori quali, ad esempio, l'opzione di patto di prelazione, il contratto normativo, i patti sulla forma ecc. Il contratto preliminare si inserisce in questa fase di formazione progressiva del contratto, strumento negoziale con il quale le parti si obbligano a concludere, in futuro, un ulteriore contratto, già delineato nei suoi elementi essenziali, chiamato definitivo. Il contratto preliminare di preliminare integra, invece, l'accordo con cui le parti si impegnano a concludere in futuro un contratto con effetti obbligatori (un contratto preliminare), che a sua volta le vincolerà a stipulare in seguito un negozio definitivo. La prassi immobiliare fa frequente uso di questa figura negoziale nell'ambito delle compravendite immobiliari. Tra le modalità di contrattazione che vedono le agenzie immobiliari nella veste di mediatori è venuta a delinearsi la figura del preliminare c.d. "aperto", con il quale le parti fermano l'affare obbligandosi alla conclusione di un successivo contratto preliminare c.d. preliminare "chiuso". Generalmente è la stessa agenzia che, ottenuta dal futuro acquirente la sottoscrizione di una proposta di acquisto, provvede a a farla sottoscrivere dal futuro venditore. Tale documento, altrimenti definito "preliminare di preliminare", si distingue dal preliminare "chiuso" o "compromesso", con il quale si definisce il contenuto dell'accordo e ci si obbliga alla stipulazione del definitivo. La distinzione è, in realtà, meglio descritta ove si definisca la prima ipotesi, purchè l'accettazione della proposta sia regolarmente portata a conoscenza del promittente alienante (art. 1326 c.c.), come un vero e proprio contratto preliminare, e la seconda come un contratto definitivo già perfezionato, che andrà poi riprodotto in forma idonea alla trascrizione e integrato con le menzioni 94 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE urbanistiche e fiscali all'atto del rogito notarile. In questo settore l'istituto, da mera ipotesi di scuola, è divenuto oggetto di rinnovato interesse, in quanto sovente le parti procedono alla stipula di un doppio contratto preliminare. 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e di merito. L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità e di merito propende per l'inammissibilità del c.d. preliminare di preliminare. In particolare, si ritiene che non ricorrerebbe la causa tipica del contratto preliminare e la mancanza di una concreta giustificazione causale ed economica concreta, in grado di offrire una legittimazione, ai sensi dell'art. 1322 c.c., determinarebbe la nullità dell'accordo stipulato. Sulla questione si è pronunciata soprattutto la giurisprudenza di merito, mentre sono isolati gli interventi della Suprema Corte. In particolare, si riporta la parte motiva della sentenza Trib. Napoli, 23.11.1982, con cui si è dichiarata la nullità del contratto preliminare di preliminare per difetto di causa, evidenziandosi come: «E' opportuno specificare che la singolarità del caso concreto consiste in ciò che l'ordinaria sequenza logica preliminare – definitivo è, nella fattispecie in esame, alterata dall'inserimento tra i due di un secondo preliminare, che dal primo costituisce l'oggetto immediato, dando luogo al fenomeno anomalo del preliminare di un preliminare ossia della promessa di una promessa e, dunque, ad una vicenza contrattuale nell'ambito della quale il preliminare concluso risulta, scopertamente, privo di funzione pratica e, quindi, di causa, perché il promettere di promettere non ha efficacia diversa dal promettere puro e semplice; mentre, è noto cha al contratto preliminare può riconoscersi una funzione giuridicamente apprezzabile soltanto se il contratto la cui stipulazione ne costituisce l'oggetto sia idoneo a produrre effetti diversi, più intensi e specifici di quelli propri del contratto preparatorio, come emerge dalla consueta contrapposizione della funzione strumentale di quest'ultimo alla situazione finale che il contratto definitivo è destinato a produrre e che dalla prima si distingue, nella sostanza proprio perché capace di soddisfare gli interessi perseguiti dalle parti senza ulteriori mediazioni programmatiche e, quindi, senza la necessità di convenzioni integrative». Si è formulato un giudizio negativo sull'ammissibilità del preliminare di preliminare nelle sentenze: Trib. Napoli, 28.2.1995, Trib. Napoli, 23.11.1982, Trib. Salerno, 23.7.1948, con cui, sostanzialmente, si esclude la meritevolezza dell'interesse che giustifica l'esistenza della causa. La tesi che nega la validità a tale accordo negoziale riflette lo sfavore per una pattuizione che sarebbe priva di una giustificazione causale ed economica concreta, in quanto il secondo contratto avrebbe identica portata obbligatoria 95 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE del primo. Con la sentenza del 9.4.1996, la Pret. Bologna e ancora prima la Pret. Firenze, con sentenza del 19.12.1989, hanno escluso qualsiasi funzione diversa da quelle che si vorrebbero realizzare con il preliminare vero e proprio, che potrebbe giustificare il preliminare di preliminare. In particolare, secondo la decisione della Pretura di Firenze, sopra richiamata, alla fase contrattuale intermedia, ancorchè dalle parti denominata contratto preliminare, deve già attribuirsi natura di prestazione del consenso definitivo, intendendo la denominazione pattizia come riferimento a quel "compromesso", che altro non è, nel gerco della prassi del commercio immobiliare, se non un contratto definitivo documentato da semplice scrittura privata, in attesa della riproduzione del consenso in forma autentica, necessaria per soddisfare l'esigenza di pubblicità. La tesi è richiamata anche dalla giurisprudenza di legittimità, nella sentenza della Sez. 2, n. 06040/1979, Pierantoni, Rv. 402744, secondo cui la rimessione ad una altro tempo della traduzione in atto pubblico di un contratto stipulato mediante scrittura privata non vale a trasformare il negozio che le parti hanno inteso concludere definitivamente nella promessa bilaterale di un futuro contratto, in quanto l'atto pubblico assolve ad una mera funzione riproduttiva, al fine di consentire la trascrizione e di soddisfare l'esigenza della pubblicità in conformità del sistema disciplinato dalla legge. Peraltro, si è asserito che l'accordo con cui le parti si impegnano, rispettivamente, a vendere e ad acquistare un immobile, prevedendo tutti gli elementi essenziali della futura vendita, va qualificato senz'altro come contratto preliminare "formale", non rilevando in contrario che sia anche prevista la necessità di sottoscrivere un successivo preliminare, o compromesso, notarile, dovendosi ritenere che quest'ultimo abbia natura meramente riproduttiva di una accordo già completo (in tal senso, si è pronunciata Pret. Bologna, 9.4.1996). La giurisprudenza prevalente ritiene che la funzione economica del preliminare formale, di vincolare le parti alla futura conclusione del contratto definitivo, e, dunque, di "fermare l'affare", in attesa che il compratore reperisca il denaro e svolga ogni indagine necessaria sul cespite oggetto della compravendita, non giustificherebbe la creazione di un contratto, anch'esso preliminare, che impegni le parti alla stipula di un definitivo. Questo indirizzo utilizza il metodo decisionale della "tipizzazione", mediante il quale si legittima, in base al princio che al giudice compete la qualificazione giuridica del contratto come opera di applicazione della norma al fatto, la riconduzione di ogni rapporto negoziale atipico ad un rapporto tipico, con la 96 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE conseguenza di ritenere che la funzione esercitata non è meritevole di tutela secondo i principi dell'ordinamento giuridico. Si è, quindi, affermato che il contratto preliminare, quale contratto meramente obbligatorio avente ad oggetto la stipulazione di un futuro contratto, in tanto può avere una funzione, in quanto il negozio, di cui si prevede la stipulazione, sia idoneo a produrre effetti diversi più intensi o più specifici di quelli offerti dal preliminare, circostanza che non si verifica allorchè il secondo contratto sarebbe inutile. Nelle decisioni di merito è prevalente l'idea che il contratto preliminare di preliminare debba considerarsi in chiave unitaria, accanto a pronunce, che attribuiscono a tale tipo di accordo il valore di un contratto preliminare "formale o chiuso" (Trib. Roma, 29.3.1994, in Rass. Dir. Civ., 1996, 434; Pretura Bologna, 9.4.1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 540; Trib. Napoli, 28.2.1995, in Dir. Giust., 1995, 434; Trib. Torino, 21.3.2006, in Arch. Loc. 2006, 5, 540). In alcuni casi si prospetta un patto di opzione o un contratto atipico a contenuto ed effetti obbligatori, purchè si rispetti la diversità di fattispecie nell' iter progressivo di avvicinamento al compiuto regolamento di interessi (App. Napoli, 11.10.1967, Dir. Giust., 1968, 550; Trib. Venezia, 5.3.1980, Foro. Pad., 1999, I, 75), mentre altre decisioni lo inquadrano come una semplice manifestazione di intenti, resa seria e fondata dal versamento di una somma di denaro, al fine di giungere alla stipula di un vero e proprio impegno contrattuale cristallizzato nel contratto preliminare. Non è dato rinvenire molte decisioni della Suprema Corte sull'argomento, antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite del 2015, che si illustrerà nel paragrafo che segue. E' stata dichiarata la nullità del contratto preliminare di preliminare, con la Sez. 3, n. 08038/2009, Bucciante, Rv. 607773, affermandosi che, all'insegna di una configurazione unitaria del contratto preliminare, tale accordo andrebbe ricondotto alla fase delle trattative, per tale ragione non è vincolante: da un lato, viene, infatti, asserito, nel scolco tracciato dalla prime pronuce di merito, la nullità per difetto di causa dei c.d. preliminare di preliminare, posto che in tale progressione si realizzerebbe «una inconcludente superfetazione non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela, secondo l'ordinamento giuridico»; dall'altro, si riconosce che la sottoscrizione del modulo predisposto dal mediatore appartiene alla fase delle trattative «sia pure, nello stato avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcune effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio». Tale decisione è stata seguita, senza ulteriori approfondimenti dalla sentenza, Sez. 2, n. 19557/2009, Bursese, Rv. 609360. Secondo la Suprema Corte, se il 97 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE fondamento del contratto preliminare deve essere ritenuto nella comune volontà dei contraenti inteso alla conclusione di un vincolo che, pur non essendo idoneo a produrre gli effetti tipici dela stipulazione definitiva, comunque risulti già pienamente impegnativo per le parti, rimanendo le stesse autorizzate unicamente ad introdurre eventuali modifiche consensuali di carattere secondario rispetto agli elementi del contratto, appare chiaro che l'intento di dare vita ad un preliminare di preliminare non sia altro se non la vana reiterazione di un meccanismo che, quando non sia idoneo a sfociare nel perfezionamento della negoziazione definitiva, si manifesta come del tutto inutile e sovrabbondante. La sentenza, Sez. 3, n. 08038/2009, Bucciante, Rv. 607773, argomenta in questo modo: «L'art. 2932 c.c. instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti. Riconoscere come sia possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi...ad obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito. Né sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicchè non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo negozio "formale", il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del "preliminare", di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della "puntuazione", destinata a fissare, ma senza alcune effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio». 3. Il recente arresto della Suprema Corte sulla validità del contratto preliminare di preliminare: Sez. U, n. 4826 del 2015. Con ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 05779/2014, la Seconda Sezione civile ha rimesso gli atti del ricorso n. 18978 del 2008 al Primo Presidente per valutare l'opportunità di sottoporre all'esame delle Sezioni Unite la seguente questione: «Se il contratto con cui le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (i.e. un contratto preliminare di preliminare) sia nullo per difetto di causa, non 98 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, ovvero sia valido laddove sia identificabile un concreto ed effettivo interesse delle parti, come nel caso in cui le stesse prevedano l'obbligo di riproduzione del contenuto del contratto al verificarsi di determinate circostante a cui risulti subordinata la stipulazione del contratto preliminare (circostanze quali – come nella specie – la cancellazione dell'ipoteca gravante sull'immobile oggetto della promesso di vendita)». Le Sez. U, n. 04628/2015, D'Ascola, Rv. 634761, affrontano il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla ammissibilità del contratto preliminare di preliminare, ponendo in evidenza le diversità di tesi ed i contrasti che ne sono derivati. Nella specie, i ricorrenti, promittenti venditori di un porzione di fabbricato, avevano chiesto l'esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare concluso con scrittura privata, che i promissari acquirenti ritenevano insuscettibile di esecuzione in forma specifica, essendo una semplice puntuazione. Il Tribunale rilevò che il contratto conteneva l'impegno a stipulare il contratto preliminare di vendita, allorquando l'istituto bancario avesse dato l'assenso all'esclusione della porzione venduta dall'ipoteca gravante sul fabbricato. Ritenne che il contratto fosse da qualificare come "preliminare di preliminare", e che fosse nullo per difetto orginario di causa, repingendo la domanda. Anche la Corte di appello, adita a seguito di impugnazione della decisione di primo grado, ritenne che al contratto preliminare può riconoscersi funzione giuridicamente apprezzabile solo se è idoneo a produrre effetti diversi da quelli del contratto preparatorio; che, nella specie, il secondo preliminare previsto dalle parti avrebbe prodotto gli stessi effetti di impegnarsi a stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene; che, pertanto, l'accordo era da ritenersi nullo, per difetto di causa autonoma rispetto al contratto preliminare da stipulare. Rigettava, quindi, la domanda di risoluzione e di risarcimento del danno, introdotta nel corso del giudizio di primo grado, ex art. 1453, comma 2, c.c. Avverso questa sentenza, i promittenti venditori proponevano ricorso per cassazione con un unico complesso motivo di ricorso, invocando le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, avevano riconosciuto del tutto ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare. Precisavano che il contratto per cui era causa, intitolato "dichiarazione preliminare d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di un "regolare preliminare di vendita", qualora l' istituto di credito avesse dato l'assenso alla liberazione dall'ipoteca. 99 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE La Sezioni Unite rilevano come sia molto evidente lo stato di incertezza che da qualche decennio agita la dottrina e la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità dell'istituto. Si procede, quindi, ad una analisi approndita delle diverse tesi e, a fronte di una orientamento tradizionale, ripreso poi dalla sentenza n. 08039/2009, della possibile configurabilità di un momento anteriore al preliminare, vi è un indirizzo positivo, che considera possibile una tripartizione delle fasi che conducono alla stipula del definitivo. La validità dell'obbligo ad obbligarsi si inserisce nel più ampio discorso dell'esplicazione della libertà negoziale, che rimane un valore costituzionale e le sue limitazioni devono essere socialmente giustificate, risolvendosi altrimenti nella lesione di un diritto fondamentale della persona. 3.1. Riflessioni sulla causa. L'esame della decisione delle Sezioni Unite della Corte impone di riflettere sulla ragione pratica dell'istituto. La funzione del preliminare è quella di creare un vincolo obbligatorio per la futura stipula di un altro contratto. Generalmente il ricorso al preliminare si spiega nell'interesse delle parti di impegnarsi provvisoriamente in attesa che sia regolarizzato qualche punto, o integrato qualche presupposto del contratto, che si intende stipulare. La funzione del preliminare è quella di assicurare, attraverso la riserva del definitivo, il controllo delle sopravvenienze, quale possibilità non di rinnovare il giudizio di convenienza del negozio, ma di verificare eventuali mutamenti obiettivi del contratto. La parte, in questo modo, sarebbe in grado di impedire eventualmente la produzione degli effetti previsti senza ricorrere alla impugnativa del negozio. In dottrina ed in giurisprudenza è stata ampiamente chiarita la differenza tra la conclusione di un vero e proprio preliminare e la semplice fase avanzata delle trattative (cd. minuta o puntuazione). Per il tema che più da vicino ci interessa, non pare possano esserci dubbi sul fatto che, in fase di cd. "preliminare di preliminare", siamo ormai oltre la fase delle trattative ed un contratto tra le parti è già concluso. Le parti possono, stipulando il negozio, realizzare questi risultati: 1. Esplicitare un impegno concreto, anche se provvisorio, assumendo un obbligo in ordine alle prestazioni che ne sono oggetto; 2. Superare la fase delle trattative negoziali; 3. Manifestare attraverso un accordo scritto che si intende prendere un serio impegno futuro per la stipula di un contratto, con 100 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE la conseguenza di adoperarsi per rimuovere eventuali ostacoli alla conclusione dell'affare; 4. Accordarsi sugli elementi essenziali o accidentali del futuro contratto preliminare, dal quale, se stipulato, possono scaturire, in caso di inadempimento, le conseguenze di cui all'art. 2932 c.c.; 5. Esercitare un controllo sulle sopravvenienze, anche con riferimento ad un periodo temporale preciso, concedendosi il tempo necessario per valutare la convenienza dell'affare. Con la prima stipulazione le parti possono stabilire i punti centrali dell'impegno obbligatorio asserito, con la seconda puntualizzano con precisione tutti gli elementi della futura vendita, e, infine, con l'atto pubblico, realizzano il trasferimento in via definitiva. La valutazione del paradigma contrattuale potrebbe portare a ritenere che l'interesse alla stipula di un preliminare di preliminare, in sostanza, non esaurisce ma concorre ad integrare la causa, la quale si identifica principalmente nella volontà di stipulare un contratto preliminare, a sua volta strumentale alla stipula di un definitivo. Il contratto preliminare successivo presenta peculiarità proprie, alimentate dalla previsione di un'esecuzione in forma specifica mediante una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932 c.c.). La fenomenologia della prassi distingue, infatti, tra un primo preliminare insuscettibile di esecuzione forzata, seguito da un secondo preliminare idoneo all'esecuzione ex art. 2932 c.c., anche se sulla eseguibilità del primo preliminare la dottrina ha assunto posizioni contrastanti. Secondo la decisione in commento, il vero sorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente gestita. La pratica degli affari offre una incalcolabile serie di varianti, ed alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge la inesauribile creatività dei contraenti. Le Sezioni Unite riflettono proprio sulla difficoltà di comprendere la volontà dei contraenti. Si chiarisce che: «La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. E', infatti, evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del confine tra tto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e diniego di rilevanza negoziale, per difetto di causa, di accordi prodromici al preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice puntuazione. Occorre, pertanto, stabilire se, ed in quali 101 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE limiti, sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto». Va precisato, per la Corte, che l'istituto deve essere tenuto distinto da tutti gli istituti di confine. Non può, infatti, essere ritenuto un "recipiente comodo" in cui inserire, ad esempio, la figura dell'opzione di contratto preliminare, o il patto di prelazione, o ancora il patto di contrarre con il terzo. 3.2. La tesi negativa. Nella sentenza n. 04628/2015, si illustra la posizione della dottrina tendenzialmente contraria ad ammettere queste forme di pattuizione, che, pur riconoscendo che nelle trattative complesse il contratto si può formare progressivamente, nega che si possa parlare di obbligo a contrarre e nega che si possa procedere all'esecuzione in forma specifica, ammissibile solo per il secondo contratto. In ragione della completezza del preliminare, si contesta la possibilità di ricorrere ad un preliminare di preliminare; se, infatti, si è già formato un accordo in ordine agli elementi essenziali del contratto e sussiste solo un margine di dubbio in ordine alla opportunità di procedere effettivamente alla stipulazione concordata, si potrà essere di fronte, rispettivamente, ad un preliminare vero e proprio, ovvero ad una intesa precontrattuale, a seconda che sussista o meno la volontà di obbligarsi alla conclusione del contrato. Laddove ci si obblighi ad obbligarsi, il secondo contratto avrebbe identica portata obbligatoria del primo, restando sostanzialmente immutata la situazione giuridica di base, senza riscontro di mutamento della natura e del contenuto dell'obbligazione, che in entrambi i casi avrebbe per oggetto il consenso per la stipulazione del futuro contratto definitivo. Sarebbe nullo, perché privo di giustificazione causale, il secondo preliminare, il quale altro non rappresenterebbe che una mera dilazione del primo. Secondo questi autori [CHIANALE, 2010, 40], la tesi favorevole alla ammissibilità di un preliminare di preliminare, pur se autorevolmte sostenuta, si espone a gravi obiezioni e censure che minano la solidità degli argomenti su cui essa si fonda. Una delle censure attiene alla presunta funzione svolta dal preliminare di preliminare, che è quella di consentire ai contraenti l'assunzione immediata di un vincolo contrattuale di cui abbiano determinato i soli elementi essenziali, rinviando ad un successivo preliminare la completa regolamentazione dell'affare. Secondo questo indirizzo, questa funzione, sulla base dei principi che regolano il contratto in generale, non può essere svolta dal preliminare. I contraenti che si obbligano alla stipula di un contratto del quale non hanno 102 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE previamente definito il contenuto, assumono un'obbligazione avente ad oggetto una prestazione indeterminata, con la conseguenza di rendere nullo lo stesso contratto che ne costituisce la fonte per indeterminatezza del suo oggetto, ai sensi degli artt. 1346 c.c. e 1418 c.c. Due preliminari successivi l'uno all'altro possono concepirsi solo a condizione di differenziarli compiutamente. Alcuni autori sostengono che, non potendo le parti obbligarsi alla stipula di un futuro contratto preliminare diverso da quello già concluso, la clausola, con cui i contraenti rinviano la definizione degli elementi secondari della compravendita ad un successivo preliminare, varrà, piuttosto, ad imporre un mero obbligo di contrattazione ulteriore, finalizzata ad addivenire ad un successivo accordo nel quale sia contenuta la regolamentazione degli aspetti di dettaglio dell'affare concluso. Nulla osta, infatti, che le parti possano stipulare un secondo preliminare di contenuto più ricco, integrando o modificando le pattuzioni contenute nel precedente, ma tale preliminare sarà la conseguenza di un nuovo consenso liberamente raggiunto e manifestato a cui le parti non pervenute all'esito delle ulteriori trattative intercorse e non in adempimento dell'obbligazione assunta con il primo preliminare. Nessuna differenza tra le due fattispecie preliminari sussiste neanche sotto il profilo sanzionatorio in relazione alla clausola, presente nel primo preliminare e non riprodotta nel secondo, con cui le parti abbiano pattuito il pagamento di una somma di denaro in caso di inadempimento dell'obbligo di stipula del successivo contratto. La tesi argomentativa si spinge a ritenere che una pattuizione di tal genere altro non è che una clausola penale con cui i contraenti hanno inteso procedere alla liquidazione forfettaria del danno, la quale serve a rendere più efficace lo strumento risarcitorio eliminando qualunque incertezza in ordine al quantum del pregiudizio subito, senza però che essa escluda la possibilità per le parti di avvalersi degli altri rimedi predisposti dall'ordinamento contro l'inadempimento contrattuale. Da tale pattuizione [GABRIELLI, 1994, 32] non potrebbe desumersi una implicita volontà di precludere il ricorso al rimedio dell'esecuzione in forma specifica; e ciò tanto più quando tale preclusione non sia esplicitamente dedotta in un clausola che rivesta la stessa forma scritta a pena di nullità del contratto in cui è contenuta. Secondo questo orientamento, i due preliminari non presentano e non possono presentare, salvo nuovo accordo, alcuna differenza tra loro né sul piano del regolamento negoziale pattuito, né con riferimento agli effetti prodotti, né con riferimento agli effetti offerti 103 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE dall'ordinamento in caso di inadempimento. Per un indirizzo della dottrina, sarebbe necessaria anche l'applicazione alla fattispecie in esame dell'art. 1374 c.c., alla luce della quale la mancata previsione di elementi secondari non potrebbe impedire, togliendo rilievo al preliminare formale, la conclusione del definitivo, semmai integrato dalla legge, dagli usi e dall'equità. Questo contratto non realizzerebbe altro che le funzioni del preliminare vero e proprio, attraverso il suo adattamento concreto. Per la mancata differenziazione tra i due contratti non è possibile individuare una ragione causale, in quanto il preliminare che vincola le parti alla conclusione di un altro preliminare crea un obbligo il cui adempimento si risolve nella stipula di un secondo contratto, che è la mera ripetizione del precedente senza alcuna progressione di contenuto, efficacia e forza cogente, rispetto al consenso reciproco già manifestato con il primo preliminare. Quindi non può ravvisarsi un interesse meritevole di tutela da parte dell'ordinamento giuridico, da cui deriva necessariamente la declaratoria di nullità del contratto per difetto di causa [BELLANTE, 2010, 958]. Un'altra tesi sostiene l'inesistenza della figura contrattuale in esame. Il contratto che nasce dallo scambio di proposta e accettazione tra le parti di una compravendita immobiliare, mediante agenzia, non è un preliminare di preliminare, ma un normale contratto preliminare che si perfeziona nel momento in cui il proponente ha notizia dell'accettazione dell'oblato, ex art. 1326 c.c., non rilevando la prevista conclusione di un successivo preliminare al quale essi abbiano rinviato la definizione delle pattuizioni di dettagli dell'affare. 3.3. La tesi positiva. Gli interpreti che hanno ammesso la validità del preliminare di preliminare, detto "preliminare aperto", hanno ritenuto che lo stesso fosse diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., quello cioè di consentire la creazione tra le parti di un vincolo immediato nel quale siano determinati i soli elmenti essenziali della futura compravendita, riservando ad un altro contratto preliminare la precisazione delle clausole secondarie dell'affare concluso. I due contratti, pertanto, avrebbero funzione e contenuto diverso: il primo, come detto, sarebbe diretto alla creazione di un vincolo immediato tra le parti, contenente i soli elementi essenziali del negozio, con obbligo di addivenire alla stipula di un successivo, più organico e completo, preliminare; il secondo, invece, sarebbe diretto alla compiuta regolamentazione dell'affare, con obbligo di stipula del definitivo. I 104 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE due negozi, inoltre, secondo un indirizzo, si differenzierebbero anche sul piano sanzionatorio, atteso che il rimedio dell'esecuzione in forma specifica, ex art. 2932 c.c., non sarebbe esperibile contro l'inadempimento del preliminare "aperto". Altri ritengono, invece, che le prime due fasi contrattuali sono entrambe suscettibili di esecuzione forzata, ex art. 2932 c.c. [CHIANALE, 2010, 40]. Il giudizio di utilità deve essere lasciato alle parti, che se fanno un preliminare di preliminare si presume vi abbiano interesse: se l'interesse è meritevole di tutela, il contratto ha causa lecita. Si tratterebbe, pertanto, di una figura contrattuale atipica, espressione di autonomia negoziale, purchè si rispetti la diversità di fattispecie nell'iter progressivo di avvicinamento al compiuto regolamento di interessi. L'unico requisito che si richiede è che la fattispecie preliminare preluda ad una fattispecie che, nell'avvicinarsi maggiormente alla formazione della fattispecie definitiva, non sia identica a quella precedente. Questa impostazione ne giustificherebbe la causa e quindi la concreta giustificazione economica, diversa da quella che è propria del preliminare. 3.4. L'orientamento delle Sezioni Unite e le condizioni di ammissibilità del preliminare di preliminare. Va preliminarmente osservato come la Corte evidenzia che il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in ordine all'ammissibilità del contratto di cui si discute, fa emergere contrasti solo apparenti. Secondo le Sezioni Unite è singolare, ma non casuale, che la causa del contratto sia stata intesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come ricerca dell'utilità, cioè della sua complessiva razionalità ed idoneità ad espletare un funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale. Tutte le opinioni, anche se partono da prospettive diverse, coincidono nel definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia contenuto ulteriore o differenziato. Si giunge anche a trovare un altro elemento di convergenza. Esso si rappresenta quando l'analisi del primo accordo conduce a ravvisare i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La Corte illustra, diversificando, le varie motivazioni che possono indurre le parti ad avere interesse alla previsione di una ulteriore attività contrattuale. Si può verificare il caso che nell'accordo raggiunto sia stata esclusa semplicemente l'applicabilità 105 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE dell'art. 2932 c.c., e ciò configurerebbe una esclsuione convenzionalmente ammessa. Oppure può presentarsi il caso in cui la pattuizione della doppia fase risponda all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare, e che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente, quale costo del recesso da un contratto preliminare già concluso. Infine, come nel caso di specie, le parti possono aver raggiunto una intesa completa subordinandola ad una condizione. Molto forte la conclusione cui giunge la Corte, che si cita per esteso: «Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di "preliminare di preliminare" potrebbe, in tali casi, riguardare tutt'al più il secondo, ma non certo il primo contratto». Non può, comunque, non rilevarsi che la previsione di dovere dare vita, in futuro, all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Quindi, l'accordo potrebbe avere una valenza causale, solo nel caso in cui sia volto, non alla mera ripetizione del primo di identici contenuti, ma solo se «e quanto le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso», sicchè «l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare». La procedimentalizzazione delle fasi contrattuali, secondo le Sezioni Unite, non possono essere connotate da disvalore, se corrispondono ad un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale. Il trionfo dell'autonomia negoziale. Si è consapevoli, tuttavia, della necessità di guardarsi da un uso poco sorvegliato dell'espressione preliminare di preliminare, perché «l'argomento nominalistico non è neutro». La linea interpretativa che va seguita impone l'analisi "caso per caso" dell'interesse delle parti, della ricerca dell'utilità dell'affare, ammettendosi una sequenza di atti caratterizzati da contenuto contrattuale tra loro differenziati, con conseguenze differenti. Si conclude, invitando il giudice del rinvio ad attenersi al seguente principio di diritto, che appare utile, per ragioni di completezza, riportare integralmente: «In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di 106 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisce già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori, ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dare luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale». 107 CAP. VI - LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE Bibliografia G. GABRIELLI, Prassi della compravendita immobiliare in tre fasi: consensi a mani dell'intermediario, scrittura privata preliminare, atto notarile definitivo, Riv. notariato, Gennaio-aprile 1994, 32. M. BELLANTE, Il cd. preliminare di preliminare concluso nelle compravendite immobiliari mediante agenzia, Rassegna di diritto civile, 3/2010, p. 954 ss. A. CHIANALE, Il preliminare di preliminare, Intentio certa se obligandi?, Notariato 1/2010,42. 108 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO CAPITOLO VII LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO (di Luca Varrone) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Brevi cenni sull'evoluzione normativa in materia di locazioni ad uso abitativo. - 3. L'art. 13 e l'obbligo di registrazione del contratto di locazione ad uso abitativo (Sez. U, 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227). - 4. L'art. 1, comma 4, e la forma del contratto di locazione di immobili ad uso abitativo (Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227). - 4.1. La forma nella teoria generale del contratto alla luce dell'evoluzione cd. neoformalista. - 4.2. La forma nel contratto di locazione ad uso abitativo. - 4.3. Le diverse interpretazioni della giurisprudenza di merito. - 4.4. L'interpretazione delle Sezioni Unite. 1. Premessa. Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nel 2015 hanno risolto due questioni in materia di contratto di locazione di immobili ad uso abitativo rimesse dalla terza sezione come questioni di massima di particolare importanza rispettivamente (Sez. 3, n. 00037/2014, Scarano, e Sez. 3, n. 20480/2014, Vivaldi). Una prima questione risolta da Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227, riguardava la necessità di rivedere l'orientamento della Corte espresso da Sez. 3, n. 16089/2003, Preden, Rv. 567691, poi seguito da altre pronunce (Sez. 3, Sentenza n. 08148/2009, Petti, Rv. 607932), Sez. 3, Sentenza n. 19568/2004, Trifone, Rv. 577423, nonché Sez. 3, Sentenza n. 08230/2010, Massera, Rv. 612441) secondo cui: «deve escludersi che l'art. 13, comma 1, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo) sanzioni con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, dovendo intendersi riferita tale disposizione, (e conseguentemente quella di cui al 2° comma dello stesso articolo, che concede al conduttore l'azione di ripetizione delle somme indebitamente corrisposte), non all'ipotesi della simulazione parziale del contratto di locazione relativa alla misura del canone, bensì al caso in cui nel corso di svolgimento del rapporto venga pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario, che deve restare invariato, a parte l'eventuale aggiornamento ISTAT, per tutta la durata del rapporto legalmente imposta». La seconda questione risolta da Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227, aveva ad oggetto, invece, la forma del 109 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO contratto di locazione ad uso abitativo, ed in particolare se l'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998, nella parte in cui prevede che «per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta», prescrivesse il requisito della forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem e se l'eventuale causa di nullità fosse riconducibile alla categoria delle nullità di protezione in relazione all'art. 13, comma 5, della medesima legge. Le sentenze citate rivestono una particolare importanza per l'enorme impatto sociale che ha la materia delle locazioni e in particolare la disciplina del contratto di locazione ad uso abitativo. Basti citare in tal senso le parole della Corte costituzionale secondo cui: «l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge» (Corte cost. 28 luglio 1983, n. 252). Il diritto all'abitazione, dunque, «rientra ... fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico» ed è compreso «fra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione» ( Corte cost. 25 febbraio 1988, n. 217, Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404, Corte cost. 14 dicembre 2001, n. 410, Corte cost. 21 novembre 2000, n. 520, Corte cost. 25 luglio 1996, n. 309). Sul tema del cd. diritto all'abitazione si segnala, peraltro, un'altra importante decisione delle sezioni unite in materia di edilizia convenzionata Sez. U, Sentenza n. 18135/2015 Barnabai Rv. 636470). 2. Brevi cenni sull'evoluzione normativa in materia di locazioni ad uso abitativo. La locazione di immobili urbani, già oggetto di una specifica disciplina codicistica, ha costituito negli ultimi decenni il punto di riferimento di una abbondante legislazione speciale concernente, in particolare, la locazione di immobili ad uso abitativo. La materia delle locazioni ad uso abitativo ha trovato una prima sistemazione organica nella legge 27 luglio 1978, n. 392, ispirata sostanzialmente all'idea di realizzare un meccanismo di determinazione legale del contenuto del contratto e, in particolare, del canone, calcolato sulla base di una serie di parametri oggettivi. Infatti mentre nello schema delineato dal codice civile, la locazione è disciplinata da norme pressoché totalmente dispositive, le quali consentono alle parti di determinare liberamente il contenuto contrattuale, con la l. n. 392 del 1978 il legislatore ritiene di predeterminare il contenuto del contratto con riferimento al canone per le locazioni abitative e con riferimento alla durata per le 110 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO locazioni commerciali, oltre che, in entrambi i casi, sotto ulteriori numerosi e tutt'altro che irrilevanti aspetti. Questa impostazione dirigistica ha prodotto risultati estremamente negativi causando una grave distorsione del mercato delle abitazioni. Infatti i proprietari si sono trovati di fronte all'alternativa o di ricorrere al nero o di lasciare vuoti i propri appartamenti, non essendo economicamente conveniente concederli in locazione ad un canone spesso irrisorio e del tutto sganciato dal vero valore di mercato e con alti rischi di perdita della disponibilità del bene per lungo tempo. Si è determinato, pertanto, un rilevante numero di immobili rimasti vuoti tanto da rendere necessario un intervento del legislatore, prima timidamente derogatorio della precedente impostazione (art. 11 del d.l. 11 luglio 1992 n. 333 - misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica-, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, cd. "patti in deroga"), e successivamente con un radicale ripensamento ad opera della l. n. 431 del 1998. Il primo tentativo del 1992 è consistito nel consentire, nei contratti di locazione ad uso abitativo, la libera pattuizione del corrispettivo bilanciata da un sostanziale raddoppio della durata del contratto. Tutti gli altri aspetti del rapporto contrattuale sono rimasti regolati dalla precedente disciplina. La legge n. 431 del 1998 ha reso definitiva la scelta del legislatore del 1992 abbandonando definitivamente l'idea del canone "equo" imposto per legge, e preoccupandosi principalmente della necessità di far emergere il sommerso. Si conferma, dunque, la liberalizzazione del canone delle locazioni ad uso abitativo, bilanciata da una maggiore stabilità del rapporto contrattuale, inoltre, si prevede l'obbligo della forma scritta e della registrazione del contratto. La legge prevede due possibili modalità di contrattazione: una prima "libera" e una seconda mediante modelli tipo, frutto di accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative (art. 2, comma 3). I contratti di locazioni che ricadono nell'ambito applicativo della legge sono i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo che non abbiano ad oggetto beni vincolati o che non siano costruiti nell'ambito dell'edilizia residenziale pubblica o che non siano alloggi locati per finalità esclusivamente turistiche (Art. 1). Il legislatore si limita a dettare pochissime prescrizioni, tra le quali la forma scritta e la durata del contratto che varia a seconda si sia scelto il modello a forma libera oppure quello concordato tra associazioni. Nel primo caso, infatti, è prevista una durata minima 111 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO di quattro anni rinnovabili per ulteriori quattro, mentre nel secondo la durata minima è di tre anni rinnovabili per altri due. Allo scadere il locatore ed il conduttore possono attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto, comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. La parte interpellata deve rispondere con lo stesso mezzo entro sessanta giorni dalla data di ricezione della raccomandata. In mancanza di risposta o di accordo il contratto si intenderà scaduto alla data di cessazione della locazione. In mancanza della comunicazione di rinuncia al rinnovo il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni. 3. L'art. 13 e l'obbligo di registrazione del contratto di locazione ad uso abitativo (Sez. U, n. 18213/2015, Travaglino, Rv. 636227). La legge n. 431 del 1998 nata, come si è detto, dall'esigenza di far emergere l'enorme numero di contratti in nero determinatosi a seguito dell'imposizione dell'equo canone, all'art. 13 comma 1, ha previsto espressamente la sanzione della nullità per le pattuizioni volte a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. La norma era stata oggetto di un'interpretazione riduttiva della sua portata in quanto si era escluso che la stessa sanzionasse con la nullità, in conseguenza della mancata registrazione, la pattuizione di un canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, e si era affermato, invece, che la riferita disposizione riguardasse «il caso in cui nel corso di svolgimento del rapporto fosse pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario» (Sez. 3, n. 16089/2003, Preden, Rv. 567691). In altri termini secondo tale interpretazione il legislatore avrebbe voluto introdurre esclusivamente il cd. "principio di invarianza del canone" che si concretizza nel divieto di aumento del canone inizialmente pattuito, a pena di nullità. Tale interpretazione nasceva sulla base di due fondamentali presupposti: il primo riguardava la mancata previsione di una analoga sanzione di nullità per l'ipotesi più grave della mancata registrazione dell'intero contratto con sottrazione al fisco dell'intero canone di locazione e non della sola differenza tra la somma realmente pattuita e quella indicata nel contratto registrato. Il secondo riguardava il problema dell'incidenza della violazione delle norme fiscali o tributarie sulla validità o efficacia degli atti negoziali dei privati, problema che si era posto sin dal secolo scorso [GABBA, 112 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO 1874]. Tradizionalmente, infatti, si era sempre operata una distinzione tra la frode alla legge, la quale determina ai sensi del 1344 c.c. l'illiceità della causa con conseguente nullità del contratto secondo l'art. 1418 c.c., e la frode al fisco i cui effetti rimangono confinati entro l'ambito dell'ordinamento tributario. Anche la giurisprudenza aveva più volte affermato che: «la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie, trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio. È principio generale quello secondo il quale la nullità è collegata alla tutela di interessi "superindividuali" e non particolari come quelli di cui è portatore il fisco. A tal fine, non potrà certamente reputarsi la norma tributaria in oggetto norma di carattere imperativo». Nella sentenza delle sezioni Unite si evidenzia che entrambi i presupposti alla base della sentenza del 2003 non sono più attuali, in quanto l'art. 1, comma 346, della legge n. 311 del 2004 ha previsto espressamente la nullità dell'intero contratto non registrato e la Corte Costituzionale sollecitata a verificare la legittimità costituzionale di tale norma, nella parte in cui prevede che i contratti di locazione sono nulli se non sono registrati, ha colto l'occasione per affermare che essa non solo «non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 cod. civ.» (ord. n. 420 del 2007). Pertanto si afferma espressamente che «Non può darsi ulteriore seguito all'interpretazione della norma adottata da questa Corte con la più volte ricordata sentenza n. 16089 del 2003». Nella motivazione si ribadisce che l'interpretazione del 2003 nasceva dalla correlazione comparativa di due fattispecie solo apparentemente omogenee, quella della elusione fiscale parziale e quella dell'evasione totale delle imposte. Le sezioni unite affermano che oggi l'interpretazione dell'art. 13 deve condursi alla stregua della più generale riflessione secondo cui già nel 1998 la volontà del legislatore era quella di sanzionare con la nullità la sola previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente, così come indicato nel contratto registrato, in guisa di vera e propria lex specialis, derogativa ratione materiae, alla lex generalis (benché posteriore) costituita dal cd. statuto del contribuente. sotto il profilo della validità del contratto di locazione registrato, e della invalidità della sola pattuizione contenente l'indicazione del canone maggiorato, così come indicata nella controdichiarazione. Spingono nel senso dell'interpretazione prospettata le seguenti ragioni: a) di tipo letterale, in quanto il comma 1 dell'art. 13 113 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO non lascia spazio a dubbi interpretativi di sorta; b) ragioni di tipo logico, in quanto una diversa interpretazione - quella, cioè, predicativa della tutela soltanto ex post dell'invarianza del canone - si risolverebbe nella sostanziale vanificazione della duplice ratio sottesa alla disposizione in esame, volta, in via principale, a colpire in radice l'elusione fiscale, e nel contempo intesa, sia pur in via subordinata, a tutelare la parte contrattualmente "debole" al momento della stipula del negozio; c) ragioni di tipo storico-sistematico, se si pensa che le disposizioni di legge successive al 1998 introducono un principio generale di inferenza/interferenza dell'obbligo tributario con la validità del negozio, principio generale di cui è sostanziale conferma il dictum della Corte Costituzionale che nell'ordinanza n. 420 del 2007 ha affermato che la norma sopravvenuta e sopra citata di cui all'art. 1, comma 346, della l. n. 311 del 2004 «non introduce ostacoli al ricorso alla tutela giurisdizionale, ma eleva la norma tributaria al rango di norma imperativa, la violazione della quale determina la nullità del negozio ai sensi dell'art. 1418 cod. civ.» (ord. n. 420 del 2007). Secondo i giudici della Suprema Corte, il procedimento simulatorio si sostanzia nella stipula di un unico contratto di locazione (registrato), cui accede, in guisa di controdichiarazione, la scrittura (nella specie, coeva alla locazione, e redatta in forma contrattuale) con cui il locatore prevede di esigere un corrispettivo maggiore da occultare al fisco. La sostituzione, attraverso il contenuto della controdichiarazione, dell'oggetto apparente (il prezzo fittizio) con quello reale (il canone effettivamente convenuto) contrasta con la norma imperativa che tale sostituzione impedisce, e pertanto, lascia integra la (unica) convenzione negoziale originaria, oggetto di registrazione. Nella sentenza si precisa che non è la mancata registrazione dell'atto recante il prezzo reale (attesa la funzione già in precedenza specificata di controdichiarazione) ad essere sanzionata con la nullità, ma l'illegittima sostituzione di un prezzo con un altro secondo un meccanismo del tutto speculare a quello previsto per l'inserzione automatica di clausole in sostituzione di quelle nulle. Le Sezioni Unite offrono soluzione anche all'ulteriore problema degli effetti della tardiva registrazione del patto scritto con il prezzo dissimulato e alla sua possibile efficacia sanante. Sulla base della ricostruzione del meccanismo simulatorio operata nella sentenza, si afferma che, anche nel caso di registrazione successiva dell'atto controdichiarativo avente forma contrattuale, essendosi in presenza della prosecuzione di quello stesso rapporto di locazione nato nell'ambito del procedimento simulatorio, la sostituzione 114 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO dell'importo del canone fittizio con quello realmente pattuito e riscosso pro tempore, è vietata ex lege, con conseguente nullità del patto contenente la previsione del canone effettivamente preteso dal locatore. Infatti, l'adempimento tardivo dell'obbligo di registrazione, visto il suo carattere extranegoziale, non può avere alcun effetto sull'aspetto civilistico della validità/efficacia del patto oggetto della registrazione tardiva, diversamente finendo per incidere, del tutto inammissibilmente, sulla sua struttura e sulla sua morfologia. In altri termini la autonomia e diacronia del procedimento simulatorio rispetto al contratto successivamente registrato - sia pur nella singolarità di una vicenda in cui il medesimo atto partecipa al tempo stesso della natura di controdichiarazione (all'interno di quel complesso procedimento) e di vero e proprio contratto quale risultante dalla successiva registrazione - si pone, nondimeno, come del tutto ostativa a qualsiasi ricostruzione della fattispecie volta a predicare, della registrazione, un effetto di sanatoria, poiché l'atto negoziale avente funzione contro-dichiarativa, inserita nell'ambito del procedimento simulatorio, risulta, come già detto, insanabilmente affetto da nullità per contrarietà a norma imperativa. Lo scopo dissuasivo dell'intento di elusione fiscale, che costituisce la ratio dell'intera legge, sarebbe difatti fortemente attenuato, se non del tutto vanificato, dal riconoscimento di una qualsivoglia efficacia sanante alla registrazione tardiva: il legislatore, sanzionando di nullità ogni patto volto alla previsione di un maggior canone, aveva inteso, in via principale, contrastare proprio il fenomeno del cd. mercato sommerso degli affitti, perseguendo incondizionatamente l'emersione del fenomeno delle locazioni cd. "in nero". La causa concreta di tale patto, ricostruita alla luce del procedimento simulatorio, si rivela, pertanto, come ineluttabilmente caratterizzata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e conseguentemente affetta dalla medesima nullità che la caratterizzava all'interno del detto procedimento. Degna di nota la chiosa finale della sentenza nella quale si afferma che la soluzione adottata, su un piano più generale - etico/costituzionale- impedisce che, dinanzi ad una Corte suprema di un Paese europeo, una parte possa invocare tutela giurisdizionale adducendo apertamente e impunemente la propria qualità di evasore fiscale, e che, l'imposizione e il corretto adempimento degli obblighi tributari, lungi dall'attenere al solo rapporto individuale contribuente-fisco, afferiscono ad interessi ben più generali, in quanto il rispetto di quegli obblighi, da parte di tutti i consociati, si 115 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO risolve in un miglior funzionamento della stessa macchina statale, nell'interesse superiore dell'intera collettività. 4. L'art. 1, comma 4, e la forma del contratto di locazione di immobili ad uso abitativo (Sez. U, n. 18214/2015, Travaglino, Rv. 636227). 4.1 La forma nella teoria generale del contratto alla luce dell'evoluzione cd. neoformalista. Con la seconda sentenza in commento si è affrontato il diverso tema della forma del contratto di locazione. Nella motivazione si ricorda che nel nostro ordinamento secondo l'opinione dominante (peraltro non condivisa da autorevole dottrina), vige il principio generale di libertà della forma. Di massima, pertanto, la manifestazione di volontà contrattuale non richiede forme particolari, ma può avvenire con qualunque modalità idonea a manifestarla, compresi comportamenti concludenti. Tale principio non è privo di eccezioni. È noto che, per alcuni atti la legge, richiede che la volontà sia manifestata attraverso particolari modalità espressamente stabilite, attraverso la stipula di contratti a forma cd. vincolata: l'art. 1350 c.c. elenca quelli per i quali la forma scritta è prevista a pena di nullità. La forma vincolata risponde ad una molteplicità di esigenze: a) in primo luogo vi è quella di garantire certezza sull'esistenza e sul contenuto del contratto oltre che sulla stessa volontà delle parti; b) quella di rendere possibili i controlli sul contratto, previsti nell'interesse pubblico (come per la contrattazione con la pubblica amministrazione); c) quella di rendere trascrivibile il contratto a fini di pubblicità, per rendere opponibili a terzi i diritti da esso nascenti; d) quella di protezione del contraente che mediante la forma scritta e, quindi, attraverso una certa sacralità si può rendere conto meglio delle obbligazioni che assume mediante il contratto. Alcune teorie sulla forma del contratto valorizzano il contenuto del contratto attribuendo un valore funzionale alla forma, da valutarsi in concreto, in relazione alle rationes che un determinato contratto esprime. Secondo tale teoria non è possibile applicare automaticamente la disciplina della nullità in mancanza della forma prevista dalla legge ma è necessario operare un'interpretazione assiologicamente orientata nel rispetto dei valori fondamentali del sistema. Quindi il carattere eccezionale o meno della norma sulla forma ovvero il suo carattere derogabile o inderogabile non potrà essere definito in astratto e in via generale ma dovrà risultare da un procedimento interpretativo che dipende dal ruolo che la norma 116 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO assume nel sistema, dalla ratio che esprime, dal valore che per l'ordinamento rappresenta [PERLINGIERI, 1987]. Il neoformalismo [SCALISI, 2011, 415; BRECCIA, 2006, 535]; tende a favorire l'emersione del rapporto economico sottostante a ciascun documento negoziale favorendo il mutamento genetico del ruolo stesso della forma del contratto, che non è più soltanto indice di serietà dell'impegno obbligatorio, o mezzo di certezza o idoneità agli effetti pubblicitari, ma strumento che consente di rilevare lo squilibrio esistente tra i contraenti e di tutelare la parte debole. In senso opposto altra dottrina [IRTI, 1985, 41 e ss.] ritiene che l'art. 325, n. 4 cod. civ. indichi la forma come puro elemento necessario nella struttura del contratto senza attribuire alcun rilievo all'elemento teleologico sulle ragioni per le quali si ritiene necessaria una certa forma. Nel diritto civile sostanziale, dunque, sarebbe preclusa un'operazione consentita invece nel diritto processuale circa la valutazione sull'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo. 4.2. La forma nel contratto di locazione ad uso abitativo. Com'è noto prima della legge n. 431 del 1998, sia la disciplina codicistica che la legge n. 392 del 1978 non imponevano alcuna forma particolare al contratto di locazione sia per le locazioni ad uso abitativo che per quelle ad uso diverso. L'unica ipotesi di obbligo di forma scritta era quella relativa ai contratti di locazione ultranovennale ex art. 1350 n. 8 c.c. La giurisprudenza sul punto si era espressa più volte sancendo tra l'altro che la forma scritta ad susbtantiam prevista dall'art. 1350, n. 8, cod. civ. era richiesta solo per i contratti di locazione ultranovennale e non anche per quelli che superassero tale termine a seguito del rinnovo che resta comunque eventuale anche se quasi automatico e obbligatorio (Sez. 3, n. 06130/1993, Fancelli, Rv. 482622 e Sez. 3, n. 01633/1998, Vittoria, Rv. 512680). Pertanto fino alla l. n. 431 del 1998 l'unica eccezione alla regola della libertà della forma era quella prevista per le locazioni ultranovennali. L'art. 1 comma 4, ha previsto testualmente che «A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta». La forma scritta è ispirata in primo luogo dalla necessità di assicurare certezza a rapporti giuridici che coinvolgono un così importante bene della vita. In secondo luogo si vuole stabilizzare il canone che seppure liberalizzato deve rimanere quello indicato nel contratto per tutta la durata del rapporto e, infine, si vuole assicurare la più ampia 117 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO pubblicità possibile al rapporto, al fine di contrastare l'evasione fiscale. Infatti la prescrizione della forma scritta è volta soprattutto a tutelare l'intereresse alla trasparenza del mercato delle locazioni in funzione dell'esigenza di un più penetrante controllo fiscale, esigenza avvertita in modo significativo in un settore dove come si è detto, a causa della precedente disciplina dirigistica il fenomeno dell'evasione era elevatissimo. E proprio il collegamento funzionale (anche se non strutturale) tra forma scritta e registrazione del contratto apparve a tuttora appare particolarmente significativo in tal senso. La stessa relazione di accompagnamento (Relazione della VIII Commissione permanente (Ambiente territorio e lavori pubblici), presentata alla Presidenza il 25.11.1998, Relatore Zagatti, in Atti Parlamentari-Camera dei Deputati, XIII Legislatura - Disegni di legge e Relazioni - Documenti, 3) indica con chiarezza che l'obiettivo della legge n. 431 del 1998 era quello di «introdurre misure atte a combattere il fenomeno dell'evasione fiscale che appare particolarmente presente in questo settore», in aggiunta alla volontà di realizzare una liberalizzazione controllata del mercato locativo. 4.3. L'interpretazione dell'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 della giurisprudenza di merito. Nell'ordinanza interlocutoria si era evidenziato che la giurisprudenza di legittimità (diversamente da quella di merito, non unanime sul punto) non si era mai pronunciata sulla portata della norma in esame. Nella sentenza delle sezioni unite si richiamano i diversi orientamenti della giurisprudenza di merito ribadendo che la dottrina in modo pressoché unanime ha sempre ritenuto che la legge n.431 del 1998 richieda per i contratti di locazione ad uso abitativo la forma scritta a pena di nullità. La giurisprudenza di merito sembra aver privilegiato quasi unanimamente l'interpretazione secondo la quale la forma scritta del contratto di locazione sia richiesta ad substantiam. Secondo alcuni la norma citata deve combinarsi con l'art. 1418 c.c. che sanziona con la nullità la mancanza di uno dei requisiti di cui all'art. 1325 c.c. ivi compresa la forma del contratto se prevista a pena di nullità. Secondo altri, invece, deve farsi riferimento all'art. 1350 n. 13 c.c. che contempla tra gli atti che devono farsi per iscritto a pena di nullità anche quelli specificamente indicati dalla legge. Un'ulteriore percorso interpretativo per affermare che la forma scritta prevista dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 sia 118 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO a pena di nullità fa riferimento agli artt. 1352 e 2739 c.c. circa il significato da attribuire al requisito di forma in difetto di univoche prescrizioni. In conformità con la tesi della nullità si è detto da parte della giurisprudenza di merito che il contratto di locazione stipulato in forma orale deve ritenersi irrimediabilmente nullo e che, pur dovendosi riconoscere ai proprietari un'indennità per l'occupazione dei locali, questa non può essere commisurata al canone di locazione pattuito con il contratto verbale perché altrimenti si finirebbe con attribuire efficacia ad un contratto espressamente qualificato come nullo dalla legislazione vigente. 4.4. L'interpretazione delle Sezioni Unite. Le sezioni unite con la decisione in esame hanno ritenuto in primo luogo che la forma scritta sia prevista a pena di nullità in quanto rispondente alla finalità di assicurare al contratto la più ampia pubblicità al fine di contrastare l'evasione fiscale. L'interpretazione letterale dell'art. 1, comma 4, della legge n.431 del 1998 non consente una soluzione diversa in quanto dire che per stipulare validi contratti di locazione è necessaria la forma scritta, significa a contrario dire che il contratto di locazione che manchi di tale requisito è invalido e, quindi, nullo. Non vale obiettare che nella categoria dell'invalidità rientra anche il contratto annullabile perché nella disciplina positiva non si riscontrano ipotesi di annullabilità per vizio di forma. Le Sezioni Unite evidenziano che deve essere privilegiata l'interpretazione secondo la quale la forma scritta è richiesta ad essentiam, ma che la rilevabilità della nullità da parte del solo conduttore deve essere limitata alla specifica ipotesi di cui all'art. 13, comma 5 della l. n. 431 del 1998, che accorda al medesimo conduttore una speciale tutela nel caso in cui gli sia stato imposto, da parte del locatore, un rapporto di locazione di fatto, stipulato soltanto verbalmente. In altri termini il conduttore può far valere, egli solo, la nullità qualora sia stato il locatore ad imporre la forma verbale, abusando della propria posizione dominante all'interno di un rapporto asimmetrico. In tal modo si offre una risposta anche al secondo quesito se l'eventuale causa di nullità per vizio di forma sia riconducibile alla categoria delle nullità di protezione con una portata più ampia di quella prevista dall'art. 13, comma 5, della medesima legge. Secondo i giudici di legittimità non può essere data un'interpretazione estensiva o tantomeno analogica all'art. 13, comma 5, della l. n. 431 del 1998, in quanto le norme in materia di 119 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO cd. nullità di protezione, hanno una portata eccezionalmente derogatoria di un principio-cardine dell'ordinamento quale quello dell'insanabilità del contratto nullo, e quindi, sono di stretta interpretazione. Anzi proprio il meccanismo di cui all'art. 13, comma 5, della legge n. 431 del 1998, prova che la nullità per difetto di forma scritta ha carattere assoluto, infatti, solo in presenza dell'elemento caratterizzante costituito dall'"abuso" del locatore il rapporto necessita di un riequilibrio mediante l'introduzione di un'ipotesi di nullità relativa, ne consegue che in mancanza di tale «abuso» la nullità è assoluta e, quindi, non sanabile e rilevabile da entrambe parti oltre che d'ufficio ex art. 1421 c.c. Se la forma scritta risponde alla finalità di attribuire alle parti, ed in specie al conduttore, uno status di certezza dei propri diritti e dei propri obblighi, la sua funzione primaria (coerente con la ratio dell'intero dettato normativo di cui alla legge 431) deve comunque ritenersi quella di trarre dall'ombra del sommerso - e della conseguente evasione fiscale - i contratti di locazione. Il comma 5 dispone, difatti, testualmente, che «nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 2 ovvero dal comma 3 dell'articolo 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall'articolo 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l'esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero quello definito ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l'alloggio per i motivi ivi regolati; nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti» La norma opera un espresso riferimento all'art. 1, comma 4, ovvero all'ipotesi di un contratto nullo per mancanza di forma scritta che abbia dato luogo ad un rapporto di locazione di fatto. Si richiede, tuttavia, espressamente, un ulteriore presupposto, ovvero che sia il locatore ad aver preteso l'instaurazione del rapporto di fatto, e che quindi la nullità del contratto sia a lui attribuibile, mentre il conduttore deve averla solo subita. Si ipotizza, pertanto, un locatore che ponga in essere una coazione idonea ad influenzare il processo di formazione della volontà del conduttore, condizionando alla forma verbale l'instaurazione del rapporto di locazione in violazione dell'articolo 1, comma 4. 120 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO Solo in questo caso il conduttore sarà il (solo) soggetto legittimato a chiedere che la locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto in relazione al canone predeterminato in sede di accordi definiti ai sensi del comma 3 dell'articolo 2 ovvero ai sensi dell'articolo 5, commi 2 e 3. Il giudice dovrà pertanto accertare, da un canto, l'esistenza del contratto di locazione stipulato verbalmente in violazione dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998, e, dall'altro, la circostanza che tale forma sia stata imposta da parte del locatore e subita da parte del conduttore contro la sua volontà, così determinando ex tunc il canone dovuto nei limiti di quello definito dagli accordi delle associazioni locali della proprietà e dei conduttori ai sensi del comma 3 dell'articolo 2, con il conseguente diritto del conduttore alla restituzione della eccedenza pagata. L'innegabile difficoltà probatoria dell'abuso del locatore richiesto dall'art. 13, comma 5, (gravando il relativo onere sul conduttore, in ossequio alle tradizionali regole del relativo riparto) non può condurre a soluzione diversa, non potendo un principio (e una maggior difficoltà) di carattere processuale incidere sulla ricostruzione sostanziale della fattispecie. Le Sezioni Unite ribadiscono di non poter accedere alla tesi della natura relativa della nullità prevista dall'art. 1, comma 4, della legge n. 431 del 1998 in funzione di protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale. Ciò perché lo scopo della forma scritta nel caso del contratto di locazione non è lo stesso di altre norme che introducono obblighi di forma (nelle varie fasi della formazione del contratto, dalle trattative alla stipulazione definitiva) in funzione di protezione del contraente maggiormente esposto al rischio contrattuale. In alcuni casi, infatti, come per i contratti bancari di investimento la forma scritta è dettata in funzione del superamento di uno squilibrio informativo che caratterizza il rapporto tra le parti ed è diretta a fornire al contraente debole tutte le informazioni necessarie per assumere consapevolezza del rischio cui si espone nell'investimento e per avere la possibilità di verificare la conformità del contratto definitivo con quanto è stato oggetto di informativa preliminare. Tali finalità non possono ritenersi presenti con riguardo al requisito di forma scritta del contratto di locazione. In primo luogo, non può ravvisarsi un collegamento tra prescrizione di forma e obblighi informativi in quanto non vi sono particolari rischi connessi allo svolgimento del contratto e non è dato riscontrare quello squilibrio informativo che tipicamente caratterizza le 121 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO relazioni che intercorrono tra contraenti deboli e contraenti professionali. In secondo luogo, la prescrizione di forma non è dettata in funzione strumentale del contenuto, il quale, nell'ordinaria modalità di svolgimento delle relazioni contrattuali, risulta agevolmente comprensibile dal conduttore. Queste considerazioni, sebbene non escludano la volontà di tutelare il conduttore, la quale risulta da una pluralità di norme dettate nel suo esclusivo interesse, conducono a ritenere esclusa la possibilità di applicazione analogica delle norme che prevedono nullità relative. 122 CAP. VII - LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI CONTRATTO DI LOCAZIONE AD USO ABITATIVO Bibliografia C.F. GABBA, La nullità degli atti privati non registrati e non bollati, in Monitore Trib., 1874. P. PERLINGIERI, Forma dei negozii e formalismo degli interpreti, Esi, 1987. V. SCALISI, Forma solenne e regolamento conformato: un ossimoro del nuovo diritto dei contratti? Riv. Dir. Civ., 2011, 3, 415. U. BRECCIA, Neoformalismo, formalità, informazioni, procedimenti, in Roppo, Trattato del contratto, I, Milano, Giuffrè, 2006, 535. N. IRTI, La rinascita del formalismo ed altri temi, in Idola libertatis, Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985, 41 ss. 123 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' CAPITOLO VIII PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' (di Fabio Antezza e Lorenzo Delli Priscoli) SOMMARIO: 1. Premessa: la questione di diritto. – 2. Ricostruzione dei diversi percorsi logico-giuridici seguiti dalla S.C. – 3. Interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., beni giuridici tutelati e rilevanza a fini risarcitori. – 4. Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà. – 5. Considerazioni di sintesi. 1. Premessa: la questione di diritto. Nel 2015 la S.C. ha affrontato la questione giuridica inerente l'interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., dovendo decidere in ordine a risarcimento del danno non patrimoniale, per lesione della reputazione e della riservatezza, conseguente al reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale nell'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria (in tutti i casi si trattava di pubblicazioni effettuate dopo gli avvisi di cui all'articolo 415 bis c.p.p.). È stato in particolare posto l'interrogativo in ordine al se la valutazione del giudice di merito, finalizzata all'accertamento del danno non patrimoniale, debba essere vincolata al semplice rilievo delle minima riproduzione di un atto non divulgabile o, per converso, debba avere ad oggetto l'apprezzamento dei contenuti della riproduzione medesima. Sull'argomento sono intervenute tre decisioni della S.C. ed in particolare Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, che ha statuito nel senso dell'irrilevanza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto non divulgabile, oltre che Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, e Sez. 1, n. 22003/2015, Campanile, che hanno invece rimesso gli atti al Primo Presidente con conseguente assegnazione dei ricorsi alle Sezioni unite, ritenendo sussistente una questione di massima di particolare importanza, allo stato non ancora risolta. La questione inerisce la riproduzione di atti non coperti da segreto ma non divulgabili, ai sensi dell'art. 114, comma 2, c.p.p., ed in particolare se essa integri il reato di cui all'articolo 684 c.p., ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto (ad esempio per il fatto di riferirsi a fatti storici non Paragrafi 1, 2, 3 e 5 a cura di Fabio Antezza; paragrafo 4 a cura di Lorenzo Delli Priscoli. 124 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' particolarmente significativi), e se la consumazione di tale contravvenzione possa determinare di per sé un danno non patrimoniale risarcibile per lesione della reputazione o della riservatezza, a prescindere dunque dalla consumazione del reato di diffamazione o di fattispecie a tutela della riservatezza previste dal D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. 2. Ricostruzione dei diversi percorsi logico-giuridici seguiti dalla S.C. Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, depositata il 20 gennaio 2015, ha deciso una questione di risarcimento del danno conseguente al reato di cui all'art. 684 c.p. nel senso dell'irrilevanza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto non divulgabile. Con la citata sentenza è stata ritenuta la possibilità di fondare una pretesa risarcitoria sul reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale a prescindere dal fatto che esso concorra o meno con la diffamazione. La detta possibilità è stata argomentata dalla ritenuta autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione, in ragione della plurioffensività del reato punito dall'art. 684 c.p. e del combinato disposto di esso e dell'art. 114 c.p.p. (nel senso dell'autonomia delle due tutele si veda anche Sez. pen. 5, n 17051 del 2013). La fattispecie contravvenzionale di cui innanzi, infatti, è volta a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al procedimento penale nonché l'interesse dello Stato al retto funzionamento dell'attività giudiziaria, al fine di garantire l'assenza di condizionamenti del giudice dell'eventuale futuro dibattimento. Le disposizioni di cui all'art. 114 c.p.p. segnano invece gli ambiti entro i quali opera il divieto di divulgazione degli atti coperti da segreto, così integrando il precetto penale dell'articolo 684 c.p.. Nel caso di specie, trattandosi di procedimento penale nella fase delle indagini preliminari ma successiva agli avvisi di cui all'art. 415 bis c.p.p., ha rilevato, come ha chiarito la motivazione della sentenza in esame, l'articolo 114, comma 2, c.p.p. che, rispetto al divieto assoluto di pubblicazione (parziale o per riassunto o anche solo del contenuto), vieta la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti da segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare. 125 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' All'esito dell'interpretazione di cui innanzi la S.C. ha negato ogni rilievo al dato quantitativo della "limitatezza" della trascrizione dell'atto non divulgabile enunciando il principio di diritto per il quale «fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto degli atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall'art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale» (nello stesso senso, sostanzialmente, Sez. 1, n. 17602/2013, Didone, e Sez. pen. 1, n. 00473 del 2013). Successivamente, con ordinanza depositata il 30 marzo 2015, Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, dovendo decidere questione analoga a quella di cui innanzi, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della S.C., con conseguente assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ritenendo sussistente una questione di massima di particolare importanza – come detto, allo stato non ancora risolta – inerente l'interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.c. e 684 c.p., ai fini del risarcimento dei danni non patrimoniali per lesione della reputazione e della riservatezza. La S.C. ha osservato che l'enunciazione del principio di diritto di cui innanzi da parte della citata Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, si colloca in immediata correlazione con la ritenuta autonomia della tutela fondata sulla violazione delle norme concernenti il segreto su atti processuali rispetto a quella correlata alla diffamazione, in ragione della plurioffensività della contravvenzione di cui all'articolo 684 c.p. e della portata integrativa del precetto penale riconosciuta al disposto di cui all'articolo 114, comma 2, c.p.p. ed interpretato come innanzi evidenziato. L'ordinanza in oggetto ha poi osservato, da un lato, che sembrerebbe discostarsi dal principio di diritto sancito dalla citata Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, Sez. pen. 1, n. 43479 del 2013, Rv. 257401, per la quale non integra la fattispecie di cui all'art. 684 c.p. la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell'interrogatorio dell'indagato. In secondo luogo, in motivazione la S.C. ha altresì evidenziato che, anche sotto il profilo della tutela apprestata dalla previsione incriminatrice di cui all'articolo 684 c.p., la natura plurioffensiva del reato, predicata dalla prevalente giurisprudenza, risulta posta in dubbio da una recente decisione. Il riferimento è a Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104, per la quale la tutela penale accordata dall'art. 684 c.p. non attiene alla sfera di 126 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' riservatezza dell'indagato o dell'imputato ma alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova. Argomentando nei termini di cui innanzi, Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, ha ritenuto che, ove si ritenesse (contrariamente alla prevalente giurisprudenza) l'offensività incentrata soltanto sul profilo pubblicistico della giurisdizione si riproporrebbe il problema della legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria per la mera violazione dell'articolo 684 c.p., in assenza, quindi, di un concreto pregiudizio alla sua reputazione. Il tema problematico centrale è stato comunque ritenuto quello della possibilità, o meno, che la riproduzione parziale di atti non divulgabili, ai sensi dell'art. 114, comma 2, c.p.p., integri il reato di cui all'articolo 684 c.p., ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, quale si potrebbe avere anche nel rapporto quantitativo fra gli atti pubblicati e quelli del procedimento penale. Negli stessi termini di Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, e con le identiche argomentazioni, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della S.C., per la risoluzione della medesima questione di massima di particolare importanza, Sez. 1, n. 22003/2015, Campanile, con ordinanza depositata il 28 ottobre 2015. 3. Interpretazione del combinato disposto degli artt. 684 c.p. e 114 c.p.p., beni giuridici tutelati e rilevanza a fini risarcitori. In ragione della stretta interdipendenza tra l'art. 114 c.p.p. e la contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., in termini di integrazione del precetto penale, necessita una breve disamina del citato art. 114 c.p.p., solo in quanto e nei limiti entro i quali essa risulti prodromica all'individuazione dei beni giuridici tutelati dalla contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale. Dalla formulazione dell'art. 114 c.p.p. emerge la non completa coincidenza tra il regime di segretezza degli atti del procedimento penale e quello della loro divulgazione, permanendo difatti una distinzione tra "segreto" e "divieto di pubblicazione". Per gli atti coperti da segreto assoluto, cioè gli atti del Pubblico ministero e della Polizia giudiziaria fino a che non siano conoscibili dall'indagato, vige un divieto assoluto di pubblicazione, in quanto relativo sia al testo che al contenuto, totale o parziale ed anche per riassunto. Per gli atti non coperti da segreto sussiste 127 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' invece un divieto limitato di pubblicazione che si atteggia diversamente in considerazione della fase o del grado del giudizio. Le disposizioni dell'art. 114 c.p.p., che delimitano l'ambito del divieto di pubblicazione e che valgono ad integrare il precetto della norma penale (così, Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini), disegnano difatti un sistema che stabilisce, al primo comma, il divieto assoluto di pubblicazione anche parziale o per riassunto degli atti coperti dal segreto istruttorio o anche solo del loro contenuto e che, ai commi secondo e terzo, estende il divieto di pubblicazione anche parziale, agli atti non più coperti da segreto ma relativi ad un procedimento ancora in corso, pur facendo salva, al comma settimo, la possibilità della pubblicazione del loro contenuto. In particolare, prima della conclusione delle indagini preliminari, la ratio dell'art. 684 c.p. va rinvenuta nella protezione delle esigenze di giustizia inerenti il processo penale nella delicata fase dell'acquisizione degli elementi di prova, a garanzia quindi del buon andamento delle indagini (in questi termini Sez. pen. 2, n. 30838 del 2013, e Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104). Dopo il detto momento la ratio della norma diventa quella della salvaguardia di un principio cardine del processo penale accusatorio, qual è il giudizio senza pregiudizi che potrebbero formasi nel giudice che abbia avuto conoscenza, totale o parziale, di atti del procedimento penale al di fuori delle regole del contraddittorio. Circa la natura plurioffensiva della fattispecie in oggetto, che tutela il "segreto processuale", si è espressa parte della giurisprudenza della S.C., considerata dominante dalle due citate ordinanze di rimessione degli atti per la risoluzione di massima di particolare importanza. Secondo tale orientamento oggetto di tutela è non solo l'interesse statale al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria ma anche le posizioni delle parti processuali e di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al procedimento penale e, comunque, della loro reputazione oltre che dalla riservatezza (in tal senso, ex plurimis, oltre a Sez. 3, n. 00838/2015, Sestini, anche Sez. 1, n. 17602/2013, Didone; Sez. pen. 1, n. 42269 del 2004, Rv. 230146; Sez. pen. 5, n. 2377 del 1989, Rv. 183403). Per altro orientamento di legittimità, contrapposto al primo, l'unico bene giuridico tutelato dall'articolo 684 c.p. sarebbe l'esigenza di giustizia inerente il procedimento penale, nei termini già innanzi esplicitati, non attenendo la tutela penale in oggetto anche alla sfera di riservatezza dell'indagato (ex plurimis, Sez. pen. 5, n. 2320 del 1980, Rv. 148098). 128 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' Tale ultimo orientamento è stato di recente confermato anche da Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104, per la quale, difatti, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la pubblicazione dell'iscrizione della denuncia nel registro delle notizie di reato non costituisce evento lesivo della reputazione del soggetto indagato, atteso che la tutela ex art. 684 c.p. attiene alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti il procedimento penale e non alla sfera di riservatezza dell'indagato o dell'imputato. La tutela della riservatezza dei soggetti del procedimento penale è sì contemplata dalla fattispecie di cui all'art. 684 c.p. ma in via eventuale ed indiretta, non essendo esso il bene giuridico oggetto diretto della tutela penale, prevedendo peraltro il sistema penalistico italiano già la fattispecie di cui all'art. 595 c.p. e non è detto che qualsiasi atto del procedimento penale pubblicato illecitamente determini una lesione dell'altrui reputazione o riservatezza. Nei detti ultimi termini ha statuito Sez. pen. 1, n. 32846 del 2014, ma tale pronuncia sembrerebbe non fondante un terzo autonomo ed intermedio orientamento della S.C. rispetto ai due già analizzati. La sentenza da ultimo citata, difatti, fa riferimento al concetto di "tutela", ancorché "indiretta", della reputazione o della riservatezza tale, quindi, da evocare l'accezione plurioffensiva della contravvenzione di cui all'art. 684 c.p., al pari del primo degli esaminati orientamenti, o quella contrapposta, qualora si ritenesse "indiretta" la tutela solo "eventuale", "mediata" ed "occasionale". Premesso quanto innanzi evidenziato, potrebbe assumere particolare importanza quale chiave di lettura dell'articolo 114 c.p.p. e, quindi, ai fini dell'interpretazione del combinato disposto degli articoli 684 c.p. e 114 c.p.p. ed all'individuazione dei beni giuridici tutelari dalla fattispecie contravvenzionale, la circostanza per la quale vengono in considerazione valori tutti di rango costituzionale. Trattasi in particolare di valori che attengono alla tutela della persona – reputazione e riservatezza), alla libertà di stampa – in termini di esercizio del diritto di cronaca giudiziaria – ed all'esercizio della giurisdizione (artt. 2, 3, 21 e 111 cost.). Circa i rapporti tra i valori dell'esercizio della giurisdizione, della libertà di stampa e della riservatezza l'art. 111 Cost. prevede, in particolare, che la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata, "riservatamente", della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. La finalità di assicurare il diritto inviolabile alla riservatezza oltre che l'esercizio 129 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' della giurisdizione non deve però motivare un'eccessiva compressione della libertà di stampa, così giustificando ragionevoli particolari modalità di divulgazione del materiale probatorio ed in particolare degli atti del procedimento penale nei termini di cui all'articolo 114 c.p.p. Con il d.lgs. n. 196 del 2003 il legislatore ha poi previsto un sistema ispirato al prioritario rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, in particolare della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali nonché dell'identità personale o morale del soggetto. Emerge ancora una volta, quindi, l'esigenza di garantire il bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, dovendo al riguardo tenersi conto del rango di diritto fondamentale assunto dal diritto alla protezione dei dati personali, tutelato dagli artt. 21 e 2 Cost., nonché dall'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni. Tale diritto sussiste in capo ad ogni consociato nei diversi contesti ed ambienti di vita e concorre a delineare l'assetto di una società rispettosa dell'altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza (in tali ultimi termini Sez. 2, n. 00186/2011, Giusti). Analogo ragionamento, in termini di ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali, può effettuarsi con riferimento ai rapporti con la tutela della reputazione al fine di evitare un'illimitata espansione di uno dei diritti, che altrimenti diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette (per il ragionevole bilanciamento onde evitare la tirannia di un diritto costituzionalmente riconosciuto su altro di pari rango, si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 85 del 2013; Corte cost., n. 264 del 2012). La tesi interpretativa prospettata sembrerebbe anche "convenzionalmente orientata". L'art 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (di seguito CEDU), rubricato sotto il titolo "libertà di espressione", enuncia una serie di possibili limiti all'esercizio di tale libertà al fine di bilanciarla con altre. Il detto esercizio, comportando doveri e responsabilità, può difatti essere sottoposto a formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e tali da costituire misure necessarie, in una società democratica, oltre che alla sicurezza nazionale, all'integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine, alla protezione della salute e della morale, anche, per 130 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' quanto rileva ai presenti fini, alla prevenzione dei reati ed alla protezione della reputazione o dei diritti altrui. Quanto al diritto alla riservatezza esso è invece espressamente sancito dall'art. 8 della CEDU, rubricato sotto il titolo "Diritto al rispetto della vita privata e familiare", e tali disposizioni assumono oggi maggiore rilievo anche in ragione dell'articolo 117 Cost. che ha imposto al legislatore, sia statale che regionale, il rispetto degli obblighi internazionali. Il problema di individuare un corretto punto di equilibrio tra esercizio della giurisdizione, libertà di manifestazione del pensiero, in termini di esercizio del diritto di cronaca giudiziaria ma anche intesa quale diritto fondamentale del pubblico ad essere informati, e tutela della reputazione e della riservatezza dei soggetti coinvolti in procedimenti penali, sia come indagati o imputati sia come terzi, non potendo tale ultimi due diritti considerarsi recessivi rispetto ai primi due, è stato a più riprese considerato tanto dalla Consulta quanto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sempre in termini di "bilanciamento" Si veda, a tale proposito, Corte cost., n. 34 del 1973, che nel vagliare la legittimità costituzionale della disciplina delle intercettazioni telefoniche ha precisato che è necessario che la stessa sia improntata all'obiettivo di tutelare due distinti interessi e cioè, «quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale». Proprio al fine di impedire che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche venga sproporzionatamente sacrificato dalla necessità di garantire una efficace repressione degli illeciti penali, la Consulta ha affermato che nel processo può essere utilizzato solo il materiale rilevante per l'imputazione. Deve, per converso, essere garantita la segretezza delle comunicazioni telefoniche dell'imputato che non siano rilevanti ai fini del relativo processo e, soprattutto, delle comunicazioni non pertinenti a quel processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l'apparecchio telefonico sottoposto a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con lo stesso. Un ulteriore contributo ad una più intensa ed estesa protezione della riservatezza, sempre in un'ottica di bilanciamento con gli altri citati valori, è stato apportato dalla Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nella prospettiva di evitare che 131 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' una eccessiva tutela di uno dei detti valori si traduca nella sostanziale vanificazione della protezione degli altri. La Corte di Strasburgo ha difatti precisato che «per quanto i tribunali siano il foro competente per determinare l'innocenza o la colpevolezza di una persona rispetto ad un'accusa penale ciò non significa che non possa esservi una precedente e contemporanea discussione circa l'oggetto dei processi penali, in giornali specializzati, nella stampa in generale o tra il pubblico nella sua globalità», a maggior ragione quando è coinvolto un personaggio pubblico (nella specie un ex presidente del Consiglio dei Ministri italiano). I personaggi pubblici hanno diritto di godere delle garanzie stabilite dall'art. 8 della CEDU al pari di ogni altro soggetto e ciò deve essere tenuto presente dai giornalisti nell'esercizio del diritto di cronaca in ordine a procedimenti penali e dalla stampa, la quale, come ha precisato la Corte, deve astenersi dal pubblicare informazioni suscettibili di pregiudicare, intenzionalmente o meno, il diritto al rispetto della vita privata, addirittura quando il personaggio pubblico rivesta la qualità di imputato (Cfr., Corte europea dei diritti dell'uomo, Sez. I, sentenza 17 luglio 2003, nel caso Craxi vs. Italia). Il conclusione i giudici di Strasburgo, nel rilevare che nel caso sottoposto al loro esame alcune delle conversazioni pubblicate dalla stampa erano di carattere strettamente privato sicché la loro divulgazione non corrispondeva ad alcuna pressante esigenza sociale, hanno riconosciuto una responsabilità dello Stato italiano per non aver rispettato il proprio obbligo di garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata, ritenendo non influente la circostanza che la violazione della riservatezza fosse stata fatta da giornali privati e dunque al di fuori del controllo di autorità pubbliche. L'esigenza di bilanciamento tra i valori di cui innanzi è stata infine sentita anche dalla Corte di giustizia dell'Unione europe, per la quale è necessario bilanciare il diritto alla riservatezza con quello alla libertà di espressione (Grande Sez., 29 giugno 2010, C-28-08; Grande Sez., 9 marzo 2010, C-510-07). Per ottenere il detto equilibrio le limitazioni alla tutela dei dati devono però operare entro i limiti dello stretto necessario (Grande Sez., 16 dicembre 2008, C-73/07). La validità della esplicitata chiave di lettura dell'articolo 114 c.p.p., in termini di "bilanciamento" dei citati valori costituzionalmente tutelari, e, quindi, del combinato disposto del detto articolo con l'art. 684 c.p., non sembrerebbe infine 132 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' pregiudicata ma rafforzata dalla circostanza per la quale non integrerebbe il reato contravvenzionale in oggetto la divulgazione del contenuto di un atto non più coperto da segreto mentre costituirebbe divulgazione arbitraria la pubblicazione, anche parziale, di esso. Quello appena illustrato sarebbe difatti effetto logico- giuridico consequenziale al sistema di cui all'articolo 114 c.p.p. nonché voluto dal legislatore in un'ottica di bilanciamento di valori costituzionali. Il giudice, difatti, non sarebbe, non si sentirebbe e non sarebbe ritenuto dalla coscienza sociale condizionato dalla notizia di cronaca giudiziaria che non riproduca un atto ma solo il suo contenuto secondo quanto ricostruito dal giornalista. Argomentando nei detti termini potrebbe ritenersi che il legislatore dell'articolo 114 c.p.p., con l'articolato sistema innanzi evidenziato, abbia proprio inteso effettuare il descritto bilanciamento tra i più volte richiamati valori costituzionali e, quindi, si potrebbe concludere nel senso della plurioffensività della contravvenzione in esame, in quanto il relativo precetto è integrato anche dal disposto di cui al citato art. 114 che attua il descritto "bilanciamento". Occorre però considerare l'eventualità, che invero sembra meno sostenibile, che le medesime premesse conducano nel senso opposto della natura non plurioffensiva della contravvenzione, diretta quindi a tutelare solo l'esercizio della giurisdizione nei termini di cui innanzi, proprio in ragione del preventivo bilanciamento effettuato dal legislatore con l'articolo 114 c.p.p. Il profilo della natura plurioffensività o meno della contravvenzione in esame, anche per le considerazioni da ultimo svolte, rileva, e sarà quindi utile verificare come sarà risolto dalle adite Sezioni unite, ma al pari del profilo dell'offensività della condotta. Deve difatti accertarsi, sempre con riferimento al singolo caso concreto, che la riproduzione parziale dell'atto, pur vietata dall'ordinamento giuridico, sia stata tale da offendere il bene giuridico tutelato e, quindi, sembrerebbe più rilevante non tanto il dato quantitativo della riproduzione quanto quello qualitativo di essa, potendo una breve frase riportata essere maggiormente lesiva di un più lungo inciso. Dopo aver accertato l'offensività della condotta rileva l'indagine in merito alla rilevanza o meno dell'entità della lesione in ragione del principio solidaristico, anche esso di rango 133 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' costituzionale, che potrebbe essere condotta nei termini di cui al paragrafo che segue circa l'irrilevanza dei danni "futili". 4. Danno non patrimoniale di lieve entità e principio di solidarietà. Mentre prima della conclusione delle indagini preliminari il bene giuridico tutelato dall'art. 684 c.p. va rinvenuto nella protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova o – per dirlo con altre parole – il buon andamento delle indagini (Sez. 3, n. 19746/2014, Vivaldi, Rv. 632104), dopo tale momento (dall'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. fino all'apertura del dibattimento) la ratio della norma diventa quella di salvaguardare un principio cardine del processo accusatorio, ossia quello secondo il quale il giudice deve arrivare al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa: si tratta in altre parole dell'esigenza di assicurare un corretto, equilibrato, indipendente e sereno giudizio del giudice del dibattimento. E' evidente però che, nel momento in cui è comunque consentito al giudice di apprendere notizie relative al processo attraverso i mezzi di informazione, anche se in forma riassuntiva e non nel testo integrale, si comprende come la gravità del fatto di reato in questa fase, ove il segreto è sostanzialmente caduto, è grandemente attenuata. E' poi indubitabile che l'art. 684 c.p. sia altresì posto a tutela della riservatezza dell'indagato. Ai nostri fini è particolarmente importante rilevare che, secondo Sez. 3, n. 25423/2014, Rossetti, Rv. 633798, l'onore e la reputazione costituiscono diritti inviolabili della persona, la cui lesione fa sorgere in capo all'offeso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato, sicché ai fini risarcitori è del tutto irrilevante che il fatto sia stato commesso con dolo o con colpa. Questo significa che, contrariamente all'impostazione delle sentenze della Cassazione, volte principalmente ad interrogarsi da un lato circa la sussistenza o meno del reato di cui all'art. 684 c.p. nelle ipotesi di minore gravità e dall'altro quanto al bene giuridico in astratto da esso tutelato (se la serenità del dibattimento o la riservatezza dell'indagato/imputato), ciò che più appare assumere rilevanza da un punto di vista civilistico è la verifica dell'esistenza o meno di una lesione non lieve dell'altrui reputazione e riservatezza, circostanza che andrà necessariamente valutata facendo riferimento al caso concreto. In effetti, nel caso di diffusione "marginale" di atti di un procedimento penale, probabilmente un reato è astrattamente configurabile, quand'anche sia suscettibile di rientrare nella 134 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' previsione di cui all'art. 131 bis c.p. (in quanto tale norma, che esclude la punibilità ma non cancella il reato, deve ritenersi dettata in applicazione del principio di necessaria offensività, a sua volta espressione dei principi costituzionali di cui agli artt. 3 – ragionevolezza - e 25, comma 2, Cost. - principio di tipicità e legalità; la particolare tenuità del fatto va valutata in relazione ai parametri di cui all'art. 133 c.p., tra i quali spiccano l'intensità del dolo o il grado della colpa e la gravità del danno cagionato alla persona offesa dal reato), con la conseguenza che ben può invocarsi il diritto al risarcimento del danno ex artt. 2059 c.c. e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 (codice della privacy), norma quest'ultima che prevede la risarcibilità del danno (anche non patrimoniale) in caso di illecito trattamento dei dati personali. Si tratta tuttavia di comprendere se, alla luce del principio costituzionale di solidarietà, il danno non patrimoniale di lieve entità possa essere risarcito. Espressione del principio di solidarietà in campo contrattuale è il principio del divieto di abuso del diritto (Sez. 3, n. 20106/2009, Vivaldi, Rv. 610222), che impone di salvaguardare l'utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio. E' evidente che di tale principio, avendo carattere generale perché derivante dall'art. 2 Cost., non può non predicarsene l'applicabilità anche al campo della responsabilità extracontrattuale, il che impone di verificare nelle ipotesi sottoposte alle sezioni unite se, pur in presenza di una lesione dell'altrui riservatezza e/o reputazione, il giornalista abbia ciò nonostante incrementato in maniera rilevante la possibilità per la collettività di informarsi su circostanze di particolare interesse, in maniera tale da giustificare il sacrificio del singolo. Nel campo della responsabilità extracontrattuale, a partire dalla fondamentale Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605492, secondo la Cassazione il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto se la lesione dell'interesse protetto è grave e se il danno conseguenza non sia futile (orientamento sempre confermato e mai smentito: si veda ad esempio Sez. 3, n. 26367/2014, Vincenti, Rv. 633919, secondo cui la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone che la lesione sia grave e che il danno non sia futile). Tale principio è affermato in virtù da un lato dell'esistenza del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., che impone a tutti i consociati una certa tolleranza nei confronti dei danni non patrimoniali subiti dagli altri e dall'altro dalla constatazione dell'inesistenza di un principio della necessità di risarcire sempre e 135 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' comunque il danno non patrimoniale (cfr., in questo senso Corte cost. n. 87 del 1979). Da una lettura della citata sentenza a sezioni unite sembra emergere che, nell'ipotesi di reato e negli altri casi di danno non patrimoniale la cui risarcibilità è prevista espressamente dalla legge, mentre il requisito della gravità dell'interesse protetto è implicito nella previsione legislativa, occorre invece sempre comunque dimostrare la non futilità del danno subito, a prescindere dunque dal fatto che il danno derivi da reato o che possa qualificarsi come esistenziale o come derivante dalla lesione di un interesse costituzionalmente rilevante. Un indizio a favore della non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità lo si ricava anche dalla lettura degli artt. 138 e 139 del d.lgs. n. 209 del 2005 dalla quale emerge che, nella prospettiva del legislatore, il danno non patrimoniale deve essere risarcito in misura più che proporzionale al crescere della sua entità (si noti l'uso delle espressioni "più che proporzionale" e la possibilità di aumentare di danno non patrimoniale di non lieve entità del 30% e quello di lieve entità del solo 20%). Impostazione questa quindi coerente con il riconoscere la non risarcibilità del danno non patrimoniale "futile". Tale impostazione è stata riconosciuta conforme a Costituzione dalla Consulta con la sentenza n. 235 del 2014. Del resto Sez. 3, n. 16133/2014, Vincenti, Rv. 632536, ha affermato che può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione (ma non quello sulla serietà del danno) sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato. Si pensi del resto all'esempio, offerto dalla sentenza n. 26972 del 2008 SU, quale danno non patrimoniale non risarcibile, di un "graffio superficiale dell'epidermide". Tale danno non è considerato risarcibile pur costituendo sia lesione del diritto fondamentale alla salute di cui all'art. 32 Cost. sia conseguenza di un reato (se infatti il graffio non integrasse un reato in quanto conseguenza di una condotta né dolosa né colposa non si porrebbe proprio il problema dell'accertamento della futilità del danno, mancando a monte uno dei requisiti base dell'illecito civile, ossia l'elemento soggettivo). Sembra semmai che la sentenza voglia da un lato ritenere che quando la lesione di un interesse costituzionalmente protetto sia lieve tale danno degradi ad esistenziale (ma comunque andrebbe risarcito essendoci un reato!) e dall'altro che quanto maggiore sia la rilevanza dell'interesse leso tanto minore sarà la tolleranza che si deve avere in caso di sua lesione. 136 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' Nel caso oggetto di attenzione alle Sezioni unite sembra che, a prescindere dalla configurabilità o meno del reato di cui all'art. 684 c.p., possa individuarsi un diritto costituzionale leso di particolare importanza (violazione della riservatezza e/o della reputazione). Il problema semmai che si pone quindi è, come detto, quello di accertare, anche una volta ammesso che il reato di cui all'art. 684 c.p. sia plurioffensivo in quanto posto a tutela sia dell'interesse del buon funzionamento della giustizia sia (più o meno indirettamente) a tutela della riservatezza e della reputazione, se il danno sia lieve ove alla limitatezza della riproduzione si accompagni la marginalità del loro contenuto, per il fatto di riferirsi a fatti storici «non particolarmente significativi ... se non addirittura pacifici per il pubblico dei lettori». In effetti, riprendendo l'esempio di danno non patrimoniale non risarcibile fatto da Sez. U, n. 26972/2008 relativa al graffio superficiale all'epidermide non sembra ragionevole che tale danno, pure oggettivamente esiguo e pur se compiuto una tantum, debba essere tollerato se effettuato dolosamente. Del resto l'art. 833 c.c. vieta persino l'esercizio di un proprio diritto quando esso abbia il solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri. Potrebbe però sostenersi che il principio di solidarietà debba essere più rettamente inteso come riferito non come dovere di tollerare, sopportare, la maleducazione e l'invadenza del danneggiante ma come dovere nei confronti dell'ordinamento giuridico, e quindi della collettività, «di non far causa per una questione bagatellare», visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che l'aumentare del numero delle cause farebbe inevitabilmente rallentare le altre (oltretutto aventi, nella maggior parte dei casi, ad oggetto interessi più rilevanti). E' infatti evidente, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, che il costo per la collettività di una causa "bagatellare" può raggiungere e nella realtà spesso non solo raggiunge ma supera di gran lunga, il valore della causa. Inoltre, in ragione del principio del bilanciamento tra valori aventi pari dignità costituzionale quando essi si pongano irrimediabilmente in conflitto fra di loro, sembrerebbe che, applicando questo concetto ai valori tutelati dall'art. 684 c.p., potrebbe sostenersi che quando vi sia una lieve lesione del diritto alla riservatezza, tale lesione possa essere accettata e tollerata in relazione al diritto alla libera manifestazione del pensiero. Infatti, il 137 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' sacrificio del singolo non sarebbe fine a sé stesso, ma sarebbe la conseguenza dell'esercizio di un diritto costituzionale di cui usufruiscono anche i destinatari della notizia (in quanto si è detto che il diritto di manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost. ha anche un'importante espressione nel diritto della collettività ad essere informata: cfr., in particolare Corte cost. n. 173 del 2009 e n. 59 del 1995). Se infatti il graffio superficiale all'epidermide deve essere tollerato pur violando l'art. 32 Cost. e pur non avendo come contropartita la tutela di un diritto fondamentale, dovrà a maggior ragione ritenersi giustificabile la violazione di un diritto fondamentale sicuramente di minore rilevanza rispetto alla salute ma soprattutto bilanciato dall'art. 21 Cost. Rimane però, in questa prospettiva, irrisolto il problema della mancata sanzione nei confronti del danneggiante, a meno di non volerlo giustificare per il solo fatto che, in concreto, comportamenti di ordinaria maleducazione sono ormai oggi in Italia all'ordine del giorno e sono purtroppo socialmente ampiamente non solo diffusi ma anche tollerati (si pensi al posteggio di una autovettura in doppia fila per un lasso significativo di tempo). Tuttavia può replicarsi a questa obiezione rilevando come la concezione della responsabilità civile come avente natura sanzionatoria sia ormai superata: si pensi a Sez. U, n. 15350/2015 Salmé, Rv. 635985, in materia di danno tanatologico, secondo cui: «in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo». Nella prospettiva originaria invece il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all'agire dell'autore dell'illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca "nessuna responsabilità senza colpa" e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del '42). L'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della 138 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come «perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva» (Corte cost., n. 372 del 1994). Si ritiene però di poter replicare a questa impostazione sottolineando che nel caso del danno non patrimoniale di lieve entità tale danno (anche se appunto di lieve entità) si è realizzato effettivamente, e quindi, anche in una prospettiva non sanzionatoria ma riparatoria, non può non rilevarsi che così è il danneggiato - che non può chiedere il risarcimento del relativo danno - e non il danneggiante, a doversi fare carico del relativo danno. 5. Considerazioni di sintesi. Come evidenziato nei precedenti paragrafi, la risoluzione della questione di diritto in esame passa (anche) attraverso l'individuazione dei beni giuridici tutelati dalla fattispecie contravvenzionale di cui all'articolo 684 c.p., così come integrata dall'articolo 114 c.p.p., in un'ottica di ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali. Vengono difatti in rilievo valori di rango costituzionale che attengono alla tutela della persona – reputazione e riservatezza –, alla libertà di stampa – in termini di diritto di cronaca giudiziaria – ed all'esercizio della giurisdizione (artt. 2, 3, 21 e 111 cost.) potrebbe difatti argomentarsi nel senso della natura plurioffensiva della contravvenzione nei termini già esposti nel precedente par. n. 3. Per le stesse esigenze di ragionevole bilanciamento è altresì necessario chiedersi se ogni danno non patrimoniale, cioè anche quello di lieve entità, sia risarcibile quale conseguenza della lesione della reputazione o della riservatezza cagionata con la divulgazione dell'atto ed in considerazione del principio solidaristico che impone di "sopportare" quelli "futili". Con particolare riferimento all'interpretazione del combinato disposto degli articoli 684 c.p. e 114 c.p.p. è infine opportuno evidenziare l'importanza, ai fini della risoluzione della questione di diritto in esame, di accertare se la condotta del giornalista integri la fattispecie contravvenzionale dell'arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale. 139 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' Il danno non patrimoniale ex articolo 2059 c.c. è risarcibile anche a prescindere dalla consumazione di un reato, sempre che si tratti di lesione grave dell'interesse di rango costituzionale e di conseguente danno non futile (Cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493). Nel caso in esame, però, se la condotta del giornalista non integrasse la contravvenzione di pubblicazione arbitraria, sarebbe difficile ipotizzare il diritto ad un risarcimento danni per lesione della reputazione o della riservatezza in considerazione delle condizioni scriminanti proprie della cronaca giudiziaria. In tema di esercizio del diritto di cronaca giornalistica, difatti, la verità di una notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste allorché essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta (Sez. 3, n. 18264/2014, Ambrosio, Rv. 632094). Sicché, se la condotta del giornalista, integrante corretto esercizio della cronaca giudiziaria (alla stregua dell'interesse pubblico, della continenza e della verità nei termini di cui innanzi) non integrasse il reato di cui all'articolo 684 c.p. essa non potrebbe essere fonte di un danno non patrimoniale risarcibile per lesione della reputazione o della riservatezza, anche a prescindere dalla futilità o meno di esso. La detta scriminante è difatti configurabile, con riferimento alla fattispecie prevista dall'art. 595 e da quelle di cui al d.lgs. n. 196 del 2003, anche quando oggetto di pubblicazione siano atti di un procedimento penale ancora coperti da segreto, giacché la detta efficacia del diritto di cronaca incontra i soli limiti della verità dei fatti divulgati, della loro rilevanza sociale e della loro continenza espressiva (Cfr., Sez. pen. 5, n. 17051 del 2013, Rv. 255094). Quanto detto assume rilievo anche con riferimento alla violazione del d.lgs. n. 196 del 2003, posto che, in presenza del reato di cui all'art. 684 c.p. sussisterebbe un'illecita pubblicazione ai sensi della normativa sulla riservatezza dei dati personali con possibile integrazione delle fattispecie penali previste dal detto decreto (Cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 17602/2013, Didone, Rv. 627291; Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti). Come è emerso dalle argomentazioni esposte nei precedenti paragrafi, il profilo della natura plurioffensività o meno della contravvenzione in esame rileva ma al pari del profilo dell'offensività della condotta e, quindi, sembrerebbe determinante non tanto e non solo il dato quantitativo della riproduzione bensì 140 CAP. VIII - PUBBLICAZIONE ARBITRARIA DI ATTI DI PROCEDIMENTO PENALE E RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE DI LIEVE ENTITA' quello qualitativo di essa, potendo una breve frase riportata essere maggiormente lesiva di un più lungo inciso. Una notizia monca o incompleta potrebbe difatti essere capace di ledere l'onorabilità dell'interessato e la proiezione sociale della sua personalità, mentre, al contrario, riportare l'intero atto potrebbe condurre ad un'adeguata illustrazione di esso e dell'intera vicenda ed essere idoneo a consentire al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore – o, semmai di disvalore – su una data vicenda o su una determinata persona (in tali ultimi termini si veda Sez. pen. 5, n. 45051 del 2009). Con riferimento particolare alla rilevanza o meno del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione dell'atto, è appena il caso di evidenziare che, diversamente da quanto sembra aver ritenuto Sez. 3, n. 06428/2015, Vincenti, non sembra determinante l'orientamento espresso da Sez. pen. 1, n. 43479 del 2013, Rv. 257401. Per tale ultima statuizione non integra la citata contravvenzione la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell'interrogatorio dell'indagato. Dalla motivazione della detta sentenza sembrerebbe emergere, con riferimento al caso concreto, l'utilizzo da parte del giornalista, in un articolo di cronaca giudiziaria, di un'espressione, benché riportata tra virgolette, di sintesi del contenuto delle dichiarazioni e, quindi, rientrante nella lecita pubblicazione del contenuto di atti e non nell'illecita riproduzione di essi. Dopo aver accertato l'offensività della condotta rileva l'indagine in merito alla rilevanza o meno dell'entità della lesione in ragione del principio solidaristico, anche esso di rango costituzionale, che potrebbe essere condotta nei termini di cui al paragrafo che precede. 141 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE CAPITOLO IX IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE (di Andrea Penta) SOMMARIO: 1. Il danno tanatologico. Il panorama giurisprudenziale che ha preceduto la "sentenza Scarano". – 1.1. Gli orientamenti contrario e favorevole al danno tanatologico e la posizione delle Sezioni Unite. – 1.2. Le sanzioni penali: sovrapposizione di tutele. – 1.3. E' preferibile uccidere o ferire? – 1.4. I rapporti con il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale. 1.5. Il danno da perdita del rapporto parentale. 2. Il danno alla salute: criteri di liquidazione. – 2.1. Il danno morale e quello esistenziale. – 2.2. Altri parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale. - 3. I diritti inviolabili. 1. Il danno tanatologico. Il panorama giurisprudenziale che ha preceduto la "sentenza Scarano". E' noto che la pronuncia meglio nota come "sentenza Scarano" (dal nome del relatore-estensore), Sez. 3, n. 01361/2014 (Rv. 629366), che ha dato il là all'ordinanza interlocutoria su cui si sono poi pronunciate le Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985, aveva rappresentato un elemento di discontinuità in grado di minare le fondamenta dell'impianto che aveva complessivamente retto agli attacchi provenienti da una parte della giurisprudenza e da un gruppo, significativo, di autorevoli studiosi. Invero, con tale sentenza era stato sostenuto che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita, siccome bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile, è garantito dall'ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno "biologico terminale" e di danno (morale) "catastrofale". Esso, pertanto, rileverebbe ex se, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta "immediata" o "istantanea", senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l'intensità della sofferenza dalla stessa subìta per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabilità della propria fine. In linea con tale assunto, la S.C. aveva altresì avallato la tesi per cui il risarcimento del danno da perdita della vita avrebbe funzione compensativa, ed il relativo diritto (o ragione di credito) sarebbe trasmissibile iure hereditatis, atteso che la non 142 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE patrimonialità sarebbe attributo proprio del bene protetto (la vita) e non già del diritto al ristoro della lesione ad esso arrecata. Non si può comprendere appieno l'impatto che sulla questione del danno cd. tanatologico hanno avuto, dapprima, la menzionata sentenza e, poi, quella a Sezioni Unite, se non si ricostruisce preliminarmente, sia pure in termini estremamente sintetici, l'impostazione fino ad allora seguita dai giudici di legittimità. Come è noto, se vi è un'apprezzabile lasso di tempo (mentre per Sez. 3, n. 00458/2009, Travaglino, Rv. 606149, e Sez. 3, n. 09470/1997, Favara, Rv. 508304, questo presupposto è da escludere in presenza di tre giorni, per Sez. 3, n. 21976/2007, Lanzillo, Rv. 600108, lo stesso è configurabile in caso di sopravvivenza per sole 24 ore), è possibile riconoscere esclusivamente il danno biologico terminale, anche se la vittima si sia trovata durante l'agonia in stato di coma, poiché la lesione dell'integrità fisica è presente ugualmente sia che la vittima abbia coscienza della lesione sia che non l'abbia (Così Sez. 3, n. 03760/2007, Petti, Rv. 597054, e Sez. 3, n. 06946/2007, Petti, Rv. 595964. Contra Sez. 3, n. 03260/2007, Filadoro, Rv. 598217, che richiede, invece, che la vittima abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte). In caso di morte istantanea o dopo breve lasso di tempo, si tende a liquidare il solo danno morale jure hereditatis (cd. danno catastrofico), a condizione (Sez. 3, n. 06754/2011, Amatucci, Rv. 616517) che la vittima sia stata in condizione di percepire il proprio stato (escludendolo, pertanto, nell'ipotesi di coma o di persona svenuta). L'orientamento decisamente prevalente (Sez. 3, n. 28423/2008, Amatucci, Rv. 606104), infatti, esclude la risarcibilità anche del danno morale, quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente lo stato di coma e la vittima non sia rimasta lucida nella fase che precede il decesso (contra la risalente Sez. 3, n. 01203/1965, De Santis, Rv. 312305, secondo cui non può ritenersi che il danno non patrimoniale si verificherebbe solo in dipendenza di sofferenze fisiche e morali, delle quali il paziente sia ben conscio, e non anche per sofferenze e decadimenti fisici e psichici di cui chi li subisce non si renda esattamente conto). Incertezze vi sono, in caso di morte della vittima primaria, per apprezzare il danno iure hereditatis, essendosi la dottrina e la giurisprudenza domandati, quanto al danno biologico cd. terminale, come debba essere inteso il parametro dell'"apprezzabile lasso di tempo" e, quanto al danno morale cd. catastrofico (o catastrofale), se abbia ancora senso richiedere che la vittima abbia percepito 143 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE lucidamente l'approssimarsi della morte. Sez. 3, n. 13537/2015, Rossetti, Rv. 631439, ha, ponendosi in consapevole contrasto con la pronuncia n. 01361/2014 (vedasi infra) ed allineandosi a quello che è l'orientamento decisamente prevalente (n. 21976/2007, Rv. 600108; n. 28423/2008, Rv. 606104; n. 06754/2011, Rv. 616517; n. 02564/2012, Rv. 621706), qualificato la paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, come un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente (danno morale iure hereditatis), sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni. E' evidente, inoltre, come l'applicazione del criterio cd. cronometrico, con le sue contorsioni, finisca per creare una disparità di trattamento tra gli eredi della vittima deceduta dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, i quali acquistano iure hereditatis un diritto al risarcimento del danno biologico terminale (che può essere anche di importo considerevole), e gli eredi della vittima deceduta dopo un arco temporale insufficiente a configurare un'effettiva ripercussione delle lesioni sull'integrità psico-fisica, i quali non acquistano un analogo credito risarcitorio. Proprio al fine di superare, sia pure in parte, il vuoto di tutela che in tal modo si determinava, la Cassazione aveva (recte, ha) creato la figura del danno cd. catastrofale o catastrofico. Ciò nonostante, al di là della considerazione della estrema difficoltà che può incontrarsi in concreto nell'accertare se la vittima sia rimasta lucida durante l'agonia (per Sez. 3, n. 07126/2013, Barreca, Rv. 625498, e Sez. 3, n. 02564/2012, Uccella, Rv. 621706, l'elemento della durata della sofferenza può incidere unicamente sulla quantificazione del risarcimento), si evidenziava come tale ricostruzione, «pur segnando un progresso sul piano interpretativo», lasciasse «priva di tutela l'ipotesi dell'agonia inconsapevole, peraltro in passato dalla giurisprudenza ritenuta ristorabile» (tale rilievo si legge in Cass., n. 01361/2014, cit., la quale, tra le decisioni che — prima dell'arresto delle sezioni unite del 2008 — hanno ammesso la risarcibilità del «danno non patrimoniale sofferto anche se in stato di incoscienza», richiama le decisioni della Corte n. 03760/2007, n. 07075/2001, n. 08177/1994, e n. 01203/1965). Più precisamente, a rigore, in caso di morte immediata o, nell'ipotesi in cui segua dopo un non apprezzabile lasso di tempo, se il de cuius non sia stato cosciente poco prima di morire, sussisterebbero le condizioni per ammettere solo il danno 144 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE jure proprio da perdita del rapporto parentale. Sul punto, la dottrina [BIANCA, 2012, 1500 ss.] ritiene che, qualora venisse disconosciuto il danno cd. tanatologico, verrebbero a riproporsi i gravi interrogativi se sia ragionevole che il danno non patrimoniale venga riconosciuto risarcibile a persone che per l'età o per la condizione patologica o per la loro natura non sono in grado di percepire un patema d'animo e sia negato alle vittime che a causa della lesione mortale versino in stato d'incoscienza. Tale lacuna appariva ancora più evidente, se solo si considerava che era stata, invece, riconosciuta la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del nascituro (Sez. 3, n. 09700/2011, Amatucci, Rv. 617791). La "sentenza Scarano", proprio al fine di colmare l'indicato "vuoto di tutela", ha sostenuto che la perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte immediata, senza che assumano, pertanto, rilievo i presupposti della sopravvivenza per un apprezzabile lasso di tempoe della cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine. 1.1. Gli orientamenti contrario e favorevole al danno tanatologico e la posizione delle Sezioni Unite. Occorre partire da una considerazione condivisa dai simpatizzanti dei due opposti orientamenti: la lesione dell'integrità fisica con esito immediatamente letale non può considerarsi una sotto-ipotesi di lesione della salute, perché la morte non incide sul bene-salute (recte, non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute), bensì su un bene giuridico ontologicamente diverso, il bene-vita, oggetto di un distinto diritto della persona (v., in luogo di molte, Sez. 3, n. 07632/2003, Segreto, Rv. 563157, che — insieme alla più recente n. 06754/2011, cit. — può essere considerata il "manifesto" del pensiero della Suprema Corte circa la non ristorabilità in via ereditaria del danno da perdita della vita. Il concetto è stato da ultimo ribadito da Sez. 3, n. 25731/2014, Vincenti, Rv. 63577). Ciò debitamente premesso, si sostiene, in primo luogo, che il sistema della responsabilità civile è diretto al ristoro di perdite effettivamente risentite dal soggetto, ma in ipotesi di morte immediata a carico della vittima non sono individuabili conseguenze dannose, nel senso che nessuna perdita è risentita dal de cuius che non è più in vita, per cui nessun diritto risarcitorio potrà entrare nel suo patrimonio. Con l'evento della morte, la vittima perde la capacità giuridica e non può, quindi, acquisire un diritto al 145 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE risarcimento del danno per la lesione del diritto alla vita. In definitiva, posto che, finchè il soggetto è in vita, non vi è lesione del suo diritto alla vita, mentre, sopravvenuto il decesso, il morto, in quanto privo di capacità giuridica, non è in condizione di acquistare alcun diritto (il concetto era già stato espresso da Sez U, n. 03475/1925, a tenore della quale "Questo - il lesionato - spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l'esistenza di un subbietto di diritto."), il risarcimento finirebbe per assumere, in casi siffatti, un'anomala funzione punitiva (Sez. 3, n. 10107/2011, Amendola, Rv. 618206). Più recentemente, Corte Costituzionale, 27/10/1994, n. 372 (in Foro Amm., 1999, 572), aveva dichiarato infondata la q.l.c. dell'art. 2043 c.c., sollevata in rapporto agli artt. 3 e 32 Cost. sul presupposto che la norma primaria precluderebbe la pretesa al risarcimento, iure hereditario, per danno biologico da morte. Infatti l'illecito, dal quale sia derivata la morte immediata della persona, non è stato causa di perdite a carico della persona offesa ormai defunta. Inoltre, il danno biologico iure hereditario non è risarcibile nel caso di decesso immediato, non essendo sorto nel patrimonio del defunto un diritto di risarcimento relativo al danno alla salute. A fronte di tale (apparentemente assorbente) rilievo, i fautori dell'indirizzo contrario deducono che il diritto al ristoro del danno da perdita della vita - costituendo un'eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza - «si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus» ("sentenza Scarano"; argomentando alla stregua della «logica interna» di quello che è il principio cardine delle pronunce di San Martino, e cioè la risarcibilità dei soli danni-conseguenza e non anche del danno-evento, ad avviso della S.C., «non è chi non veda che il ristoro del danno da perdita della vita costituisce, in realtà, ontologica ed imprescindibile eccezione (a tale) principio»), e si trasmette così iure hereditatis. Questo passaggio sembra chiarire che l'evento di danno non è rappresentato dalla morte, bensì dalla lesione dell'integrità fisica cui segue (immediatamente o a breve distanza di tempo) il decesso. In definitiva, durante la vita della vittima si verificherebbe il "danno-evento" (al momento della lesione mortale la medesima è ancora in vita, ed è in tale momento che acquisterebbe il diritto al risarcimento; il momento dell'evento lesivo, infatti, salvo rare eccezioni, precede sempre la morte cerebrale), il quale sarebbe l'unico che potrebbe dar vita al risarcimento; che, poi, il "danno- conseguenza" si produca post mortem non sarebbe circostanza idonea ad escludere il risarcimento. 146 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE Sul piano naturalistico, anche nell'ipotesi di morte immediata, il decesso costituirebbe sempre una conseguenza della lesione dell'integrità fisica, per cui esisterebbe sempre uno iato temporale tra lesioni e decesso, che consentirebbe l'acquisto da parte della vittima del credito al risarcimento del danno, e la sua trasmissione in via ereditaria, al momento della morte. Non vi è dubbio che è sulla questione della mancanza di un centro di imputazione del diritto al risarcimento e, soprattutto, su quella della funzione che il risarcimento del danno da perdita della vita verrebbe ad assolvere, che, dinanzi alle Sezioni Unite, si è giocata la partita della ristorabilità del danno tanatologico. E, infatti, sul punto, il passaggio logico contenuto nella recente sentenza delle sezioni unite appare inequivoco: «E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva ... dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo». Ancor più significativo risulta un successivo argomento: «... a parte che l'ipotizzata eccezione alla regola (rappresentata dal danno- conseguenza) sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitoci del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità». 1.2. Le sanzioni penali: sovrapposizione di tutele. In secondo luogo, nel nostro ordinamento giuridico il diritto alla vita - che può essere considerato come il primo tra i diritti inviolabili della persona - riceve ampia tutela attraverso la previsione di sanzioni penali, le quali costituiscono, in una ideale gerarchia rimediale, la massima forma di reazione dell'ordinamento alla commissione di un illecito (cfr. Sez. 3, n. 07632/2003, cit.). A fronte dell'affermazione secondo cui la vita sarebbe già sufficientemente tutelata in sede penale [v., tra gli altri, COMANDÈ, 1993, 358], si osserva [BIANCA, cit., 1500 ss.] che la stessa non può essere condivisa, in quanto la tutela penale esige la tutela risarcitoria - art. 185 c.p. -, che si vuole 147 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE invece negare alla vita; senza tralasciare che l'uccisione può non integrare un reato punibile. Secondo l'opposta teoria, anche il ristoro del danno da perdita della vita assumerebbe una «funzione compensativa» — e non una funzione meramente punitiva, propria invero della sanzione penale - per «l'obiettiva circostanza che il credito alla vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell'altrui illecito accresce senz'altro il suo patrimonio ereditario» (così Sez. 3, 01361/2014, cit.). Sono, tuttavia, molti gli studiosi che considerano insoddisfacente tale argomento al fine di replicare all'obiezione secondo cui ammettere la ristorabilità del danno tanatologico finirebbe per assegnare alla responsabilità civile (anche) una funzione sanzionatoria/deterrente (v., tra gli altri, GORGONI, 2009, 399, la quale rileva come «l'accrescimento del patrimonio è un fatto che, di per sé solo, non esprime la funzione della attribuzione monetaria», che, a suo avviso, nella specie, sarebbe senz'altro punitiva). In proposito, le Sezioni Unite hanno osservato che «la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, cass. n. 1704 del 1997 , n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni "punitivi" (cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito». Un passaggio di quest'ultima sentenza, per quanto sintetico, non sembra ammettere repliche, nel momento in cui richiama un concetto più volte in precedenza speso («pretendere che la tutela risarcitoria "sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti"»). Scarso spessore giuridico ha il rilievo, avente mera valenza sociale, secondo cui la morte è un danno per la persona ed un costo per la società, al quale dovrebbe corrispondere un risarcimento capace di trasmettere ai consociati il disvalore dell'uccisione e la deterrenza della reazione dell'ordinamento. Sembra inserirsi in questo contesto il passaggio logico contenuto nella "sentenza Scarano", a mente del quale occorrerebbe considerare la perdita del bene vita quale danno non già del singolo individuo che la subisce, bensì dell'intera collettività. In relazione a questo profilo, peraltro, le sezioni unite sono chiare: «... la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse della intera 148 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, ... ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, ...». 1.3. E' preferibile uccidere o ferire? Un dato che sembra accomunare un po' tutte le opinioni che criticano la tesi dell'irrisarcibilità del danno tanatologico è quello per cui la reazione risarcitoria non può essere inversamente proporzionale alla gravità dell'evento lesivo. Riparare la menomazione, anche non grave, e non il decesso significherebbe avallare l'idea paradossale che, da un punto di vista economico, per il responsabile sia più conveniente uccidere che ferire. In particolare, al danneggiante 'converrebbe' economicamente la morte immediata, piuttosto che le lesioni gravissime dalle quali derivi la morte a distanza di tempo. Muovendo, infatti, dalla considerazione della morte come massima lesione del bene salute, si osserva che, se è risarcibile il danno minimo alla salute, non si vede perché non dovrebbe essere risarcibile il danno supremo alla stessa integrità fisica, qual è (appunto) la morte. Le Sezioni Unite, dopo aver ricordato che il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale, ha escluso la corrispondenza al vero che, «ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall'applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell'illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l'autore dell'illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore». Peraltro, a ben vedere (vedasi postea), il riconoscimento del danno biologico terminale e di quello morale catastrofale ristora già, sia pure in parte qua, anche il danno tanatologico (in tal senso sembra orientarsi Sez. 3., n. 21976/2007, cit.). Non è, infatti, revocabile in dubbio che sia il danno biologico terminale sia il danno da lucida agonia (o catastrofico) siano stati fatti oggetto di "appesantimenti valutativi" volti a compensare, almeno in parte, il "vuoto di tutela" conseguente alla ritenuta irrisarcibilità del danno da perdita della vita. 149 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE 1.4. I rapporti con il danno biologico terminale ed il danno morale catastrofale. Nell'illecito mortale, nel caso in cui il danneggiato sia deceduto dopo un apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo, poiché la morte è causata da una lesione dell'integrità fisica, alla vittima spetterà il risarcimento del danno biologico, che corrisponderà al danno da inabilità temporanea (per Sez. 3, n. 07632/2003, cit., non è, infatti, in questo caso concepibile un danno da invalidità permanente, che - secondo la medicina legale - insorge solo se, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, il soggetto leso non sia riuscito a riacquistare l'originaria validità a causa del consolidarsi di esiti permanenti). La misura del danno dovrà essere determinata in relazione alla effettiva menomazione dell'integrità psicofisica subìta dal soggetto per il periodo di tempo tra il verificarsi delle lesioni ed il sopraggiungere della morte. La Suprema Corte respinge l'idea secondo la quale, nel caso in cui il decesso sia causato dalle lesioni, il danno biologico debba essere risarcito "per intero", ossia come se il de cuius fosse vissuto per un tempo pari alle proprie speranze di vita (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 09620/2003, Segreto, Rv. 564291; Sez. 3, n. 02775/2003, Amatucci, Rv. 560677; Sez. 3, n. 07632/2003, cit., osserva che, «poiché anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media»). Il riferimento all'inabilità temporanea consente di ristorare anche la malattia protratta per un brevissimo lasso di tempo (qualche ora), posto che l'invalidità temporanea si calcola su base giornaliera ed è frazionabile. In particolare, nel caso di morte, il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") né si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, ma non la "progressione" verso di esso, poiché durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (cfr., di recente, Sez. 3, n. 22228/2014, Vincenti, Rv. 633123). Peraltro, il danno biologico terminale è un danno nel quale, proprio stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della personalizzazione debbono valere in grado assai elevato (Sez. 3, n. 11003/2003, Di Nanni, Rv. 565030; conf. Sez. 3, n. 01877/2006, Massera, Rv. 588996); esso, pertanto, non può essere 150 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE liquidato attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso (per Sez. 3, n. 07499/2012 la quantificazione equitativa va operata avendo presenti sia il criterio equitativo puro sia il criterio di liquidazione tabellare, purché tali criteri siano dal giudice adeguatamente personalizzati, ovvero adeguati al caso concreto). I giudici, in definitiva, nel liquidare tale voce di danno, tendenzialmente non ne determinano l'ammontare in una somma corrispondente a quella prevista per l'inabilità temporanea assoluta moltiplicata per i giorni di sopravvivenza della vittima, ma procedono ad una peculiare "personalizzazione" dei criteri tabellari. Per Sez. L, n. 26590/2014, Napoletano, Rv. 633861, la funzione di una personalizzazione del danno non è conseguibile attraverso il ricorso ai criteri predeterminati e standardizzati contenuti nelle tabelle normative (di cui all'art. 13 del d.lgs. del 23 febbraio 2000, n. 38 e degli artt. 138 e 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e successive modifiche) o di quelle del Tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità. In concreto, quanto al criterio di calcolo del danno biologico terminale, fermo restando che è preferibile il riferimento all'effettiva durata della sopravvenienza, anziché alla speranza media di vita futura (contra, però, Sez. L, n. 08204/2003, Picone, Rv. 563492), una parte della giurisprudenza di legittimità propugna l'orientamento (Sez. 3, n. 00870/2008, Durante, Rv. 601456) che utilizza il parametro (che prescinde dall'età) dell'inabilità temporanea, sia pure assoluta al 100%. La Suprema Corte avalla, però, la tesi che, partendo dal valore riconosciuto per la ITT, ne aumenta l'importo in considerazione della peculiarità del pregiudizio da liquidare. In particolare, il danno biologico terminale o il danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) sono stati quantificati con applicazione del criterio equitativo cd. puro (v. Sez. 3, n. 07126/2013, cit.) ovvero, e più frequentemente, movendo dal dato tabellare dettato per il danno biologico, e procedendo alla relativa personalizzazione (v., in particolare, Sez. 3, n. 08360/2010, Lanzillo, Rv. 612362). In quest'ottica, Sez. 3, n. 23183/2014, Sestini, Rv. 633238, ha confermato la sentenza di merito che aveva liquidato in via equitativa, quale danno biologico terminale patito dalla vittima, rimasta in vita sette giorni, la somma di euro 2.500,00 pro die. Quest'ultima sentenza ha avuto altresì il merito di precisare che il 151 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE danno terminale è comprensivo di un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso) cui può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico): mentre nel primo caso la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo caso risulta integrato un danno non patrimoniale di natura affatto peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro (ancorchè sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso) che sappia tener conto della enormità del pregiudizio. Parimenti, Sez. 2, n. 00632/2003, Fiore, Rv. 559826, ha condiviso la pronuncia di merito che, in applicazione di detto principio, aveva operato una "personalizzazione" degli importi monetari indicati nelle tabelle per l'inabilità temporanea assoluta, aumentandoli da 63.000 lire a 6.250.000 lire (dunque, di ben cento volte) per ciascun giorno di sopravvivenza della vittima. In ordine al criterio di calcolo del danno morale catastrofico, si fronteggiano tre indirizzi, accomunati dal rilievo per cui il periodo di sopravvivenza, sebbene limitato nel tempo, consente al fatto illecito di produrre buona parte degli effetti pregiudizievoli. Un primo, riconducibile alla giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 15/06/2000, in Resp. civ. e prev. 2001, 461), lo quantifica in una misura oscillante tra una volta e mezzo e tre volte il danno biologico jure hereditatis. Un secondo, espresso dalla Suprema Corte (Sez. 3, n. 10035/2004, Segreto, Rv. 573120), lo esprime in un valore che va da 1/3 alla metà del danno alla salute complessivo (peraltro, Sez. L, n. 01072/2011, Zappia, Rv. 616252, ha riconosciuto il danno catastrofale jure successionis nella misura del 100% del danno biologico terminale). Un ultimo orientamento ricorre al criterio equitativo, utilizzando, quali parametri, l'età della vittima, i giorni di agonia, l'entità delle lesioni, l'intensità del vincolo, la situazione di (eventuale) convivenza. Alla stregua delle considerazioni che precedono, è evidente che già all'attualità, nella quantificazione dei due pregiudizi ccdd. terminali, si teneva in qualche modo conto, sul piano monetario, dell'evento letale finale. 1.5. Il danno da perdita del rapporto parentale. Da ultimo, partendo dal presupposto per cui il danno tanatologico si sarebbe inevitabilmente tradotto in un danno che di riflesso avrebbe visto come beneficiari gli eredi (recte, i familiari) del defunto, è inevitabile pervenire alla conclusione che in qualche modo tale 152 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE pregiudizio viene ristorato indirettamente nel contesto del danno da perdita del rapporto parentale (subìto sia nel momento in cui la perdita stessa è percepita – danno da lutto – sia con riguardo al tempo di sofferenza che accompagna la vittima secondaria – elaborazione del lutto -, posto che tali sofferenze sono componenti del complesso pregiudizio integralmente ed unitariamente considerato; cfr. Sez. 3, n. 03357/2010, D'Amico, Rv. 611460), risarcibile iure proprio ai suoi congiunti. Per Sez. 3, n. 15760/2008, Rv. 591705, in tema di danno da morte dei congiunti (danno parentale), il danno morale diretto deve essere integralmente risarcito mediante l'applicazione di criteri di valutazione equitativa rimessi alla prudente discrezionalità del giudice, in relazione alle perdite irreparabili della comunione di vita e di affetti e della integrità della famiglia, naturale o legittima, ma solidale in senso etico. A tal fine sono utilizzabili parametri tabellari, applicati dai Tribunali o dalle Corti, rispettando il principio della personalizzazione ed il criterio equitativo dell'approssimazione al preciso ammontare, senza fare applicazione automatica della tabelle concepite per la stima del danno biologico, che consiste nella lesione dell'integrità psicofisica, mentre il danno morale è costituito dalla lesione dell'integrità morale. Secondo Sez. 3, n. 03357/2010, D'Amico, Rv. 611460, compete al familiare sopravvissuto il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, subìto sia nel momento in cui la perdita stessa è percepita (danno da lutto) sia con riguardo al tempo di sofferenza che accompagna la vittima secondaria (elaborazione del lutto), posto che tali sofferenze sono componenti del complesso pregiudizio integralmente ed unitariamente considerato. D'altra parte, occorrerebbe altresì considerare che vi sono dei pregiudizi esistenziali dinamici che possono accompagnare il danno da perdita del rapporto parentale e che vengono riconosciuti in sede di personalizzazione (se l'illecito ha determinato anche particolari ripercussioni - cfr. Sez. 3, n. 19402/2013, Cirillo, Rv. 627584 - sulle abitudini di vita, si procede alla personalizzazione del dato offerto dalle tabelle). In termini generali, per la Suprema Corte (n. 26972/2008, n. 12408/2011, n. 07844/2011), in caso di reato, è risarcibile anche il pregiudizio consistente nel non poter fare; al di fuori del reato e dei casi previsti dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili, purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona (su cui vedasi postea). 153 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE Premesso che possono assumere rilievo, a fianco del danno biologico o di quello morale, solo in caso di macrosconvolgimenti dell'esistenza del soggetto danneggiato (atteso che i micropregiudizi esistenziali - l'agenda della vita alterata e/o peggiorata - sono già in essi ricompresi), si tende, in presenza di conseguenze negative particolari (radicali cambiamenti di vita), a procedere ad una personalizzazione nei limiti del 20-30%. Per Sez. 3, n. 16992/2015, Scarano, Rv. 636308, il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell'esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita (in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, nella quale, pur dandosi atto che, dalla vicenda della tragica morte del giovane figlio, la madre ne era uscita distrutta nel corpo, trascinando la propria successiva esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo, quasi ossessivo, del defunto, aveva, poi, sulla base di tali circostanze, riconosciuto alla medesima il solo danno morale, negandole, però, quello da perdita del rapporto parentale). Ad esempio, l'età avanzata, il legame intenso con la vittima e l'assenza di fattori protettivi alternativi possono condurre al riconoscimento di una percentuale aggiuntiva del 30%; in caso di convivenza, ma di danno parzialmente compensato dalla giovane età e dalla presenza di un fidanzato, è possibile aumentare la liquidazione del 20%; nell'ipotesi di giovane età, ma in assenza di una convivenza quotidiana e sussistendo un proprio nucleo familiare autonomo, la percentuale in maggiorazione riconoscibile è del 10%. Secondo la Corte, n. 07844/2011, n. 10527/2011, n. 14402/2011, n. 09040/2010, n. 19816/2010, per la maggiorazione dovrebbe essersi verificato uno sconvolgimento assoluto delle abitudini di vita del nucleo familiare. Tuttavia, sul profilo probatorio, si rileva un apparente contrasto, atteso che per Sez. 3, n. 18659/2013 la morte di una persona cara costituisce di per sé un fatto noto dal quale il giudice può desumere, ex art. 2727 c.c., che i congiunti dello scomparso abbiano patito una sofferenza interiore tale da determinare un'alterazione della loro vita di relazione e da indurli a scelte di vita diverse da quelle che avrebbero altrimenti compiuto. In quest'ottica, incomberebbe al danneggiante la prova dell'inesistenza del 154 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE pregiudizio. Ovviamente, però, se la prova del danno da uccisione del congiunto è fornita in via presuntiva, detto pregiudizio potrà essere valutato soltanto in misura standard, eguale per tutti, mentre una personalizzazione richiede la prova positiva della maggiore incidenza della privazione del congiunto rispetto all'id quod plerumque accidit. Per quanto riguarda i criteri di liquidazione dei detti pregiudizi, vi è molta incertezza. Probabilmente un criterio di lettura lo fornisce la Suprema Corte (Sez. 3, n. 09040/2010, Amatucci, Rv. 612532, e Sez. 3, n. 19816/2010, Lanzillo, Rv. 614577): ove nella liquidazione del danno morale (o da perdita del rapporto parentale) siano stati espressamente presi in considerazione i profili relazionali, non è possibile che, in aggiunta a quanto già determinato per il primo, venga attribuito un ulteriore ammontare al diverso titolo di danno esistenziale. Argomentando a contrariis, pertanto, ove non siano stati espressamente contemplati i predetti profili, sarà ipotizzabile la loro liquidazione in aggiunta. Sez. 3, n. 12717/2015, Sestini, Rv. 635949, ha statuito che, in materia di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, non è adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che, facendo applicazione dei parametri previsti al riguardo dalle tabelle elaborate dal tribunale di Milano, abbia liquidato, per il pregiudizio subito dai genitori in ragione della nascita di un feto morto, una somma pari ai valori più elevati della forbice risarcitoria ivi contemplata, senza considerare che essa, in quanto dichiaratamente calcolata in ragione della qualità e quantità della relazione affettiva con la persona perduta, non è di per sé utilizzabile nel caso del figlio nato morto, dove tale relazione è solo potenziale. 2. Il danno alla salute: criteri di liquidazione. Minori scossoni ha subìto nel corso degli ultimi tempi il danno cd. alla salute, pur essendo stato individuato dalle sentenze meglio note come di San Martino del 2008 come pregiudizio paradigmatico per tutte le altre voci di danno. Pur tuttavia, nell'ultimo anno si segnalano alcune pronunce che hanno in qualche modo definito con maggiore chiarezza i contorni della liquidazione del danno cd. biologico. Sez. L, n. 13982/2015, De Marinis, Rv. 635965, ha ritenuto precluso il ricorso in via analogica al criterio di liquidazione del danno non patrimoniale da micropermanente derivante dalla 155 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE circolazione di veicoli a motore e natanti ovvero mediante il rinvio al decreto emanato annualmente dal Ministro delle attività produttive, reputando, invece, congruo il riferimento ai valori inclusi nella tabella elaborata, ai fini della liquidazione del danno alla persona, dal Tribunale di Milano, in quanto assunti come valore "equo", in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a ridurne l'entità. Il riferimento alla predetta tabella potrebbe in qualche modo rivitalizzare lo stesso danno morale (sul quale vedasi infra). Invero, ponendo probabilmente la parola "fine" al dibattito che negli ultimi anni aveva si era tradotto nella giurisprudenza di merito in soluzioni discordanti, Corte cost. 16/10/2014, n. 235, aveva reputato non fondata la q.l.c. dell'art. 139 d.lgs. 7.9.2005, n. 209, nella parte in cui stabilisce limiti e modalità del risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità (cc.dd. micropermanenti), considerandolo osservante dei principi e criteri direttivi della legge-delega e realizzando un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. La norma, a dire della Consulta, non impedisce, inoltre, di liquidare il danno morale, poiché, qualora ne ricorrano in concreto i presupposti, il giudice può (recte, deve; n.d.r.) incrementare (in sede di personalizzazione del risarcimento) l'ammontare del danno biologico, secondo la previsione, e nei limiti di cui al comma 3 della stessa (e, quindi, in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato). Da ciò consegue che ai giudici di merito è preclusa di fatto la possibilità, in siffatta evenienza, di concedere un ulteriore risarcimento per il "danno morale" del tutto sganciato da quello previsto ex art. 139. Al di fuori dell'ambito della circolazione dei veicoli, dunque, il giudice non sarebbe vincolato nella quantificazione del pregiudizio connesso alla sofferenza morale. Meritevole di essere segnalata è altresì Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636384, a mente della quale, in tema di danno biologico permanente, la relativa liquidazione va distinta concettualmente in due fasi: la prima, volta a individuare le conseguenze "ordinarie" inerenti al pregiudizio, cioè quelle che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe; la seconda, le eventuali conseguenze "peculiari", cioè quelle che non sono immancabili, ma si sono verificate nel caso specifico. Le prime vanno monetizzate con un criterio uniforme; le seconde con criterio ad hoc scevro da automatismi (lo stesso estensore aveva anticipato questa sua visione con la pronuncia Sez. 3, n. 23778/2014). 156 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE Quanto all'epoca della sua liquidazione, Sez. 3, n. 05197/2015, Rossetti, Rv. 634697, ha statuito che l'invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia e non può, quindi, sussistere prima della sua cessazione, a tal punto che, qualora un contratto di assicurazione preveda il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, nessun indennizzo è dovuto se la malattia, senza guarigione clinica, abbia avuto esito letale. Già Sez. 3, n. 26897/2014, Stalla, Rv. 633923, aveva evidenziato che l'invalidità permanente è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con stabilizzazione dei postumi, con la conseguenza che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato soltanto dalla cessazione di quello temporaneo (incorrendosi altrimenti in una duplicazione dello stesso danno). Da ultimo, Sez. 3, n. 16788/2015, Rossetti, Rv. 636385, ha chiarito che, in tema di risarcimento del danno biologico, il giudice di merito che proceda alla liquidazione secondo il criterio cd. "a punto variabile", nel motivare la propria decisione, non può limitarsi a generici richiami alle relative "tabelle", dovendo, invece, specificare il valore monetario di base del punto ed il grado di invalidità permanente, il coefficiente di abbattimento in funzione dell'età della vittima e le ragioni per cui ha ritenuto di variare o non variare il risarcimento standardizzato. 2.1. Il danno morale e quello esistenziale. Sembra ormai che il danno cd. morale e quello cd. esistenziale, appartenente esclusi dalle sentenze di San Martino (il riferimento è, in particolare, a Sez. U, n. 26972/2008, Rv. 605495), abbiano riacquisito la veste di pregiudizi anche ontologicamente diversi rispetto a quello biologico. Si muove in questa direzione Sez. 3, n. 11851/2015, Travaglino, Rv. 635701 (in merito a tale pronuncia l'Ufficio del Massimario ha predisposto apposita segnalazione di contrasto – Rel. n. 121 - in data 30/07/2015), secondo cui, nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni ccdd. micropermanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in 157 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria. In questa direzione si era già mossa Sez. 3, n. 22585/2013, Travaglino, Rv. 628153, nonché, talvolta con degli obiter dicta, Cass. n. 16041/2013, Rv. 626845, n. 23147/2013, Rv. 628623, n. 10524/2014, n. 21917/2014, Rv. 632667. Peraltro, pur ribadendo l'ormai incontestata omnicomprensività del danno non patrimoniale, è evidente che il pregiudizio morale, riferendosi alla sofferenza interiore, prescinde dall'accertamento medico-legale sull'invalidità, che, invece, costituisce presupposto indefettibile per la valutazione del danno biologico. Una valutazione siffatta crea incertezze sulla possibilità di considerare la sofferenza morale solo in sede di personalizzazione del danno biologico (vedasi postea) o anche in via autonoma. D'altra parte, l'eventuale autonomia del danno morale comporterebbe, da un lato, il possibile suo riconoscimento ex se anche in assenza di una menomazione dell'integrità psico-fisica (cfr. Sez. 3, n. 00811/2015) e, dall'altro, l'esclusione di qualsivoglia automatismo in mancanza di specifica domanda o di precipua contestazione sulle singole, seppur connesse, voci di pregiudizio. Sulla stessa lunghezza d'onda si pone Sez. L, n. 00777/2015, Manna A., Rv. 634051, per la quale il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c., può essere desunto in forza dell'art. 115, secondo comma, c.p.c. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell'infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell'infortunato, avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività. D'altra parte, è evidente che un danno esistenziale possa sussistere anche indipendentemente dalla presenza di un danno morale, se solo si considera, ad esempio, che, nel caso di un nenonato che subisce la perdita di un genitore, la sofferenza (almeno per i primi anni di vita) non sarà percepibile, mentre ben evidenti saranno le concrete privazioni sul piano esistenziale. Avevano già confermato, nella sostanza, la correttezza di un impianto risarcitorio composto da più voci, le quali, solo se complessivamente considerate, sono capaci di assicurare alla vittima 158 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE dell'illecito il ristoro integrale del danno alla persona, Cass. n. 01361/2014, n. 05056/2014, n. 03549/2014 e n. 20292/2012. Di recente, la Terza Sezione (n. 18611/2015, Petti) ha sostenuto, proprio partendo dalla considerazione per cui il danno esistenziale e quello morale meritano una valutazione autonoma rispetto al danno biologico, affermato che appesantire soltanto il punto base indicato nelle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla integrità psico-fisica non permette di considerare la perdita delle qualità della vita del soggetto gravemente leso e tutte le componenti psichiche e spirituali del dolore umano. La tendenza è, quindi, verso un abbandono della valenza meramente descrittiva delle indicate voci di danno. Il principale rischio che si annida dietro una impostazione del genere è quello di realizzare una indebita duplicazione risarcitoria, cui fa da contraltare il pericolo di incorrere in vuoti risarcitori. Proprio nell'ottica di individuare con la maggiore precisione possibile il criterio di quantificazione e di contenere il rischio di duplicazioni risarcitorie, Sez. 3, n. 05243/2014, Barreca, Rv. 630077, aveva sostenuto (in ciò preceduta da Sez. 3, n. 18641 del 2011, Sez. 1, n. 11950 del 2013 e Sez. L, n. 00687 del 2014) che la necessaria liquidazione unitaria del danno biologico e del danno morale può correttamente effettuarsi mediante l'adozione di tabelle che includano nel punto base la componente prettamente soggettiva data dalla sofferenza morale conseguente alla lesione, operando perciò non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione, nel senso di dare per presunta, secondo l'id quod plerumque accidit, quanto meno per le invalidità superiori al dieci per cento, l'esistenza di un tale tipo di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale, salvo prova contraria, a sua volta anche presuntiva. E' evidente, in tal guisa ragionando, l'adesione all'impianto posto alla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano. A ben vedere, non si hanno duplicazioni risarcitorie in presenza della liquidazione dei diversi aspetti negativi ravvisati causalmente derivare dal fatto illecito, bensì quando lo stesso aspetto venga computato due o più volte sulla base di diverse (meramente formali) denominazioni (Sez. 3, n. 10527/2011). Sez. 1, n. 13085/2015, Lamorgese, Rv. 635733, ha, invece, ribadito che la risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, né occorre una condanna 159 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come reato, sicché la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza dei suoi elementi costitutivi. 2.2. Altri parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale. Come si è già accennato, in materia di responsabilità civile, il principio della "omnicomprensività" della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l'impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto (cfr. Sez. 3, n. 09320/2015, Rossetti, Rv. 635319; nel caso di specie il giudice di merito aveva erroneamente liquidato in modo unitario il danno non patrimoniale patito dai familiari delle vittima di un sinistro stradale, non attribuendo autonomo rilievo al danno da perdita del rapporto parentale ed a quello alla salute psichica dagli stessi pure subito in conseguenza della morte del proprio congiunto). Il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., se da un lato preclude duplicazioni risarcitorie, dall'altro impone al giudice di tener conto di tutte le peculiarità del singolo caso, tramite la personalizzazione del risarcimento (Sez. 3, n. 12594/2015). Così, ad esempio, Sez. 3, n. 15733/2015, Armano, Rv. 636175, ha valorizzato il principio di personalizzazione del valore del punto di invalidità in un caso in cui, all'esito di un intervento chirurgico di osteosintesi, erano residuati a carico della paziente postumi permanenti (nella specie, una zoppia per l'accorciamento dell'arto di cm. 5) più gravi di quelli che, per le modalità della frattura, sarebbero comunque derivati nel caso di esecuzione di intervento a regola d'arte, dovendosi in siffatta evenienza tener conto delle conseguenze della maggiore zoppia sulla vita della paziente, ed in particolare delle sue difficoltà a deambulare in modo autonomo, dell'impedimento allo svolgimento del lavoro dinamico precedentemente espletato, oltre che dello sport praticato in epoca anteriore al sinistro, nonché del maggiore danno estetico causato dalla avvenuta esecuzione di un secondo intervento sul medesimo punto dell'arto. Va ricordato, sul punto, che la Suprema Corte si sta orientando nel senso di riconoscere la personalizzazione del risarcimento solo in presenza di circostanze specifiche che siano 160 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE anomale ed eccezionali rispetto alla generalità dei casi analoghi (Sez. 3, n. 24471/2014). Peraltro, Sez. 1, n. 16222/2015, Bisogni, Rv. 636631, ha ribadito che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resta affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito, non sindacabili in sede di legittimità, purché la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo. 3. I diritti inviolabili. Premesso che tuttora è incerta la differenza tra i diritti fondamentali dell'uomo ed i diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti, ben avrebbero potuto il legislatore e la giurisprudenza, anziché dilaniarsi sulla natura meramente descrittiva o meno delle varie voci del danno non patrimoniale, individuare i beni e gli interessi cui può riconoscersi la qualifica di inviolabili. Si tende a disconoscere tale qualifica alle libertà di circolazione e di iniziativa economica privata, così come agli interessi tutelati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (la quale, peraltro, non assume il rango di fonte costituzionale). Viceversa, per quanto non siano qualificati espressamente come inviolabili, si è propensi ad attribuirla ai diritti alla salute (art. 32 Cost.), alla reputazione, immagine nome e riservatezza (artt. 2 e 3 Cost.) ed ai diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.). Incertezze permangono con riferimento al diritto di proprietà (art. 42 Cost.), anche se sembrano orientarsi in senso favorevole la Convenzione Europea dei diritti fondamentali (artt. 17 e 52), la Corte Europea di Strasburgo e la stessa Corte costituzionale. Quest'ultima, in particolare, in data 24/10/2007, n. 348 (in Giurisprudenza Costituzionale 2007, 5, 3475, con nota di Pinelli), ha, in tema di espropriazione per p.u., evidenziato che l'indennizzo inferiore al valore venale del cespite espropriato vanificava l'oggetto del diritto di proprietà e, così, violava l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del primo Protocollo della Cedu, nella interpretazione ad esso data dalla Corte di Strasburgo. Vi è, invece, condivisione di intenti sul rilievo che non si sia al cospetto di un numerus clausus. In questo panorama, Sez. 1, n. 16222/2015, cit., ha confermato che il diritto all'identità personale e sociale costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito, sicché, alla 161 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione (nel caso di specie, si trattava di un riconoscimento della paternità consapevolmente falso e, come tale, in seguito disconosciuto) implica il risarcimento del danno non patrimoniale così arrecato, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato. Nel medesimo contesto, Sez. 6-1, n. 18748/2015, Bisogni, Rv. 636864, ha ribadito che il diritto alla libertà personale (della quale, nel caso di specie, era stato privato uno straniero che era stato trattenuto nonostante non potesse essere allontanato coattivamente contestualmente all'espulsione, costituendo il trattenimento una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata) ha il rango costituzionale e la natura inviolabile, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall'art. 13 Cost.. E' stato di recente confermato l'inquadramento nei diritti fondamentali di rango costituzionale della libertà personale o del domicilio (Sez. T, n. 04066/2015, Valitutti, Rv. 634970, in una fattispecie di accertamento IVA scaturito a seguito di accesso della Guardia di Finanze presso la sede di una società non autorizzato per iscritto). Sez. 3, n. 01126/2015, Travaglino, Rv. 634356, ha qualificato come inviolabile il diritto all'identità sessuale, in un caso in cui un ospedale militare, in tal guisa adottando altresì condotte omofobiche, gravemente discriminatorie e lesive del diritto alla privacy, aveva segnalato la dichiarazione di omosessualità da parte di un chiamato alla leva (ed esonerato dal servizio militare per tale sola ragione) alla Motorizzazione civile, evidenziando la derivante carenza dei requisiti psico-fisici legalmente previsti per la guida di automezzi, nonché la conseguente sottoposizione dell'interessato ad un procedimento di revisione della patente di guida. Sez. 6-3, n. 03079/2015, Vivaldi, Rv. 634387, ha affermato che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di una figlia naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli articoli 2 e 30 della Costituzione - oltre che nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento - un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell'illecito civile e legittima l'esercizio, ai sensi 162 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE dell'art. 2059 c.c., di un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole. Non è chiaro se Sez. 3, n. 14667/2015, Vincenti, Rv. 636276, abbia incluso tra i diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati, quello del passeggero, ove il vettore aereo internazionale si renda responsabile del ritardo nel consegnargli il bagaglio (in base all'art. 19 della Convenzione di Montreal del 28 maggio 1999 in materia di trasporto aereo internazionale, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 12 del 2004). Probabilmente, una tale impostazione, per quanto possa apparire prima facie trasmodare nel danno "bagatellare", allineerebbe la giurisprudenza italiana a quella europea, a mente della quale il termine "danno", ai fini dell'art. 22 n. 2, della convenzione per l'unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale, conclusa a Montreal il 28 maggio 1999, che fissa la limitazione della responsabilità del vettore aereo per il danno derivante in particolare dalla perdita di bagagli, deve essere interpretato nel senso che include tanto il danno materiale quanto il danno morale (Corte giustizia UE, sez. III, 06/05/2010, n. 63). 163 CAP. IX - IL DANNO TANATOLOGICO; IL DANNO ALLA PERSONA: NOZIONE GENERALE E CRITERI DI LIQUIDAZIONE; I DANNI DA LESIONE DI DIRITTI INVIOLABILI, IL DANNO ALLA SALUTE Bibliografia C.M. BIANCA, Il danno da perdita della vita, in Vita not., 2012, 1500 ss.. G. COMANDÈ, in Resp. civ. e prev., 1993, 358. M. GORGONI, Nascituro e responsabilità sanitaria, in Resp. civ. prev. 2009, 399. 164 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO CAPITOLO X LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO (di Irene Ambrosi) SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Natura della responsabilità della struttura e del medico in essa operante. – 2.1. Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nei confronti del paziente e conseguenti corollari, in parte consolidati, in parte problematici. – 2.2. Natura della responsabilità "da contatto" del medico operante nella struttura sanitaria nei confronti del paziente ricondotta al tipo contrattuale. – 3. Criteri di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità. – 3.1. La misura dell'obbligo ovvero il criterio della diligenza qualificata. – 3.2. La regola "del più probabile che non" nell'accertamento del nesso causale. – 3.3. I criteri di ripartizione dell'onere probatorio in tema di nesso causale. – 4. La responsabilità medico-chirurgica come "Nave ... in gran tempesta" verso un nuovo orizzonte normativo. 1. Premessa. Resta molto dibattuto negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità il tema della responsabilità civile derivante dallo svolgimento dell'attività medico-chirurgica tanto da far registrare anche nel corso dell'anno 2015 un cospicuo contenzioso. Continua in materia la complessa opera di elaborazione di regole e princìpi che, lungi dall'essere statici, risentono della continua evoluzione, da un lato, degli avanzamenti scientifici e tecnici in campo medico, dall'altro, dalla mutevolezza dei valori assunti nella coscienza sociale come meritevoli di tutela giuridica. Echeggiano, nello sforzo ermeneutico compiuto dal diritto vivente in materia, le riflessioni dottrinali in tema di nuove funzioni della responsabilità civile [LIPARI, 2013, 194 e ss.; BARCELLONA, 2011, 701; SCOGNAMIGLIO, 2015, 145 e ss.] maturate nella consapevolezza dei suoi incerti confini [CASTRONOVO, 2006, 443 e ss.] e delle variabili frontiere del danno ingiusto [GALGANO, 1985, 1 e ss.). La riflessione sulle problematiche tecnico-giuridiche in materia non può prescindere dal mutamento intervenuto nel modo di intendere i rapporti tra medico e paziente, tradizionalmente ricostruito in termini di responsabilità contrattuale e registrare, per un verso, che i diversi approcci utilizzati appaiono caratterizzati da uno stesso comune fondamento costituito dallo sforzo di apprestare 165 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO meccanismi di tutela idonei a garantire il paziente considerato soggetto debole del rapporto e constatare, per l'altro, che la responsabilità medica viene oggi intesa in un senso più ampio come responsabilità medico-sanitaria all'interno della complessa dinamica delle relazioni tra medico, struttura sanitaria e paziente, tenuto conto che il sistema sanitario attuale presenta una strutturazione assai articolata che trascende il profilo della mera prestazione medica fino a ricomprendere ulteriori obblighi di protezione e salvaguardia scaturenti da una più moderna concezione della responsabilità [FRANZONI, 2015, 589 e ss.]. La giurisprudenza di legittimità ha dato prova di essere consapevole di tale ampliamento tanto da utilizzare sin dal 1999 Sez. 3, n. 00589/1999, Segreto, Rv. 522538 la categoria del "contatto sociale", qualificando la natura del rapporto obbligatorio del medico ospedaliero nei confronti del paziente come contrattuale «non già per l'esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto contrattuale di fatto originato dal contatto sociale» e riconducendo quello che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ad un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo da cui derivano, oltre a obblighi latu sensu alberghieri, anche quelli di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Così, da ultimo, Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984 ove si afferma inoltre che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente consegue all'inadempimento della prestazione medico- professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e l' organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto. Rispetto a tale consolidato assetto, di recente, il legislatore, intervenendo con il decreto-legge 13 settembre 2012 n. 158 recante "Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute", convertito in legge 8 novembre 2012 n. 189, ha introdotto, tra l'altro, una disposizione di difficile cifratura stabilendo, nel testo dell'art. 3, come modificato in sede di conversione, che «l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento 166 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». L'intenzione sottesa alla disposizione introdotta è all'evidenza quella di limitare il fenomeno della cd. medicina difensiva, ma l'inciso utilizzato «fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile», di difficile lettura, ha creato perplessità e incertezze negli interpreti rispetto al quadro consolidato [parla di «piccolo recente scompiglio» al riguardo, CASTRONOVO, 2015, 159 e ss.] ed è tornata alla ribalta la questione della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità medica tanto che la Suprema Corte, con due distinte pronunce, ha escluso che la formula normativa utilizzata abbia innovato alcunché in ordine all'applicabilità delle regole di cui agli artt. 1218 e ss. c.c. in materia. In particolare, con la prima pronuncia, Sez. 3, n. 04030/2013, Petti, (in un passo considerato, nel contesto della motivazione, un mero obiter dictum) ha affermato che la novella ha innovato soltanto la responsabilità penale del medico, mentre quella civile «segue le sue regole consolidate». Con la seconda pronuncia, Sez. 3, n. 08940/2014, Frasca, Rv. 630778, ha chiarito come la citata previsione normativa non abbia espresso alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma abbia inteso solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve. 2. Natura della responsabilità della struttura e del medico in essa operante. Dalla scelta operata dalla giurisprudenza di legittimità di inquadrare la responsabilità della struttura sanitaria e del medico operante in essa, in quella contrattuale discendono conseguenze ermeneutiche fondamentali sul piano dell'inquadramento sistematico dei rispettivi rapporti (l'uno tra struttura e paziente e l'altro, tra medico e paziente), tra loro distinti e autonomi, seppur tra loro saldamente connessi tenuto conto che l'opera intellettuale medica rimane il nucleo qualificante della prestazione sanitaria, pur quando questa si svolga nella cornice di una struttura ospedaliera [CASTRONOVO, 2006, 480]. Muovendo da tale scelta, appare utile compiere una ricognizione dello stato degli arresti più significativi della Cassazione, recenti e meno recenti, nei diversi ambiti. 167 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO 2.1. Responsabilità contrattuale della struttura sanitaria nei confronti del paziente e conseguenti corollari, in parte consolidati, in parte problematici. Come già accennato, la giurisprudenza della Suprema corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria all'interno della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto, così Sez. 3, n. 09085/2006, Manzo, Rv. 589631. In particolare, si è ritenuto e più volte ribadito che l'accettazione del paziente in una struttura pubblica o privata deputata a fornire assistenza sanitaria ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, trova la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive (talvolta definito come contratto di spedalità, talvolta come contratto di assistenza sanitaria) con effetti protettivi nei confronti del terzo. Le Sezioni unite, nel confermare tale ricostruzione, hanno valorizzato la complessità e l'atipicità del legame che si instaura tra struttura e paziente che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere atteso che, in virtù del contratto che si conclude con l'accettazione del paziente in ospedale, la struttura ha l'obbligo di fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori. Pertanto, la responsabilità della struttura ricondotta all'inadempimento di obblighi propri della medesima, per un verso, si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c. e, per l'altro, in relazione alle prestazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, consente di abbandonare il richiamo, «alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare, semmai, la responsabilità dell'ente per fatto dei dipendenti sulla base dell'art. 1228 c.c». Quindi, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della struttura (ente ospedaliero o casa di cura), accanto a obblighi di tipo lato sensu alberghieri, quelli di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Con la conseguenza che la responsabilità della struttura 168 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO (casa di cura o ente ospedaliero) nei confronti del paziente ha natura contrattuale che può dirsi "diretta" ex art. 1218 c.c. in relazione a propri fatti d'inadempimento (ad esempio in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione dei medicinali o del personale medico ausiliario o paramedico o alle prestazioni di carattere alberghiero) e che può dirsi "indiretta" ex art. 1228 c.c. perché derivante dall'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale ausiliario necessario dell'ente, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo "un collegamento" tra la prestazione da costui effettuata e la organizzazione aziendale della struttura, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto; in tal senso, si vedano: Sez. 3, n. 13066/2004, Manzo, Rv. 594562, Sez. 3, n. 01698/2006, Varrone, Rv. 587618, Sez. 3, n. 13953/2007, Trifone, Rv. 597575, Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903 e, infine, Sez. 3, n. 18610/2015, Scrima, Rv. 636984. A conferma della consolidata ricostruzione in termini autonomi delle rispettive responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, da un lato e del medico nei confronti del paziente, dall'altro, va segnalata, da ultimo, Sez. 3, n. 15860/2015, D'Amico, Rv. 636191 che, in una ipotesi in cui la domanda risarcitoria aveva ad oggetto solo l'operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria ha ritenuto che la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell'azione nei confronti della struttura medesima, perché questa è convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicchè la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della struttura, senza che sia neppure possibile invocare l'art. 1304 c.c. Dall'inquadramento nella responsabilità contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, discendono, sul piano generale, i seguenti consolidati logici corollari. In primo luogo, si è affermata l'irrilevanza della qualificazione pubblica o privata della struttura «tenuto conto che sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra 169 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria», così Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903. In secondo luogo, non assume più rilievo - ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria - se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionata oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato la prestazione presso una struttura privata, in tal senso, ancora Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903. Neppure rileva, come costantemente ritenuto sin dalle pronunce Sez. 3, n. 01855/1989, Taddeucci, Rv. 462532, Sez. 1, n. 01883/1998, Carbone, Rv. 512887, la sussistenza o meno di un rapporto di dipendenza del medico con la struttura, in quanto l'imprenditore risponde del fatto doloso e colposo dell'ausiliario, ancorché questo non sia alle sue dipendenze, in forza del principio fissato dall'art. 1228 c.c., sulla responsabilità del debitore per l'illecito di terzi di cui si avvalga per l'adempimento dell'obbligazione. Da ultimo, in tema di rapporto tra medico generico e Azienda Sanitaria Locale in ordine al fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell'esecuzione delle prestazioni curative comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge, Sez. 3, n. 06243/2015, Vincenti, Rv. 635072 ha ulteriormente chiosato che perché possa operare la responsabilità della Azienda Sanitaria Locale ex art. 1228 c.c. «non è affatto dirimente la natura del rapporto che lega il debitore all'ausiliario, ma trova fondamentale importanza che il debitore in ogni caso si avvalga dell'opera del terzo nell'attuazione della sua obbligazione, ponendo tale opera a disposizione del creditore, sicchè la stessa risulti così inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio». Nello stesso ambito, possono inoltre registrarsi i seguenti profili problematici. Un primo aspetto problematico è quello concernente i criteri di imputazione del rapporto qualora una struttura sanitaria sia gestita, in virtù di apposita convenzione, da un soggetto diverso dal proprietario. Si è al riguardo sottolineato che la Convenzione tra Università ed enti ospedalieri o unità sanitarie locali può dar luogo, 170 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO quanto all'attività di assistenza sanitaria ed in modo rilevante per i terzi, al trasferimento dalla prima ai secondi della gestione delle cliniche universitarie, tenuto conto che l'elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente (e con il medico) ed a conseguentemente fondare la correlativa responsabilità è quello della «diretta gestione» della clinica Sez. 3, n. 09198/1999, Vittoria, Rv. 529566. Con riferimento ad una fattispecie nella quale un degente aveva subito danni alla persona in conseguenza di un intervento chirurgico, eseguito all'interno di una clinica di proprietà di una università privata, ma concessa in uso, in virtù di apposita convenzione, ad una università pubblica e nella quale operavano medici dipendenti di quest'ultima, Sez. 3, n. 24791/2008, Scarano Rv. 605179, ha affermato che dei danni causati dai medici ivi operanti è tenuto a rispondere il soggetto cha ha la diretta gestione dell'ospedale, e non il proprietario, in quanto è col primo e non col secondo che il paziente stipula, per il solo fatto dell'accettazione nella struttura, il contratto atipico di spedalità. la Corte sulla base di tale principio ha confermato la decisione di merito che aveva condannato l'università pubblica a risarcire il danno del paziente e rigettato la domanda di regresso formulata da quest'ultima ex art. 2055 c.c. nei confronti dell'ente proprietario dell'ospedale. Ulteriore profilo problematico è quello relativo all'applicabilità della disciplina di cui all'art. 33, comma 2, lett. u), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, concernente il cd. "foro del consumatore", ai rapporti tra pazienti e struttura sanitaria pubblica e/o privata operante in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Dapprima Sez.6-3, n. 08093/2009, Frasca, Rv. 607875 ne aveva escluso l'applicabilità per un duplice ordine di ragioni, la prima, perché, pur essendo l'organizzazione sanitaria imperniata sul principio di territorialità, l'assistito ha la possibilità di rivolgersi a qualsiasi azienda sanitaria presente sul territorio nazionale, sicché se il rapporto si è svolto al di fuori del luogo di residenza del paziente tale circostanza è frutto di una sua libera scelta, che fa venir meno la ratio dell'art. 33 cit.; la seconda, perché la struttura sanitaria non opera per fini di profitto, e non può quindi essere qualificata come "imprenditore" o "professionista". Più di recente, invece, Sez. 6-3, n. 27391/2014, Frasca, Rv. 633920 ne ha affermato l'applicabilità limitatamente alle controversie relative ad eventuali prestazioni aggiuntive rese nell'ambito del rapporto contrattuale intercorrente tra un utente ed una struttura del Servizio 171 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO Sanitario Nazionale (o convenzionata), i cui costi siano posti direttamente a carico del primo. Nella specie, il contratto aveva ad oggetto una prestazione resa al di fuori delle procedure del S.S.N. ovvero un intervento operatorio eseguito da un medico scelto dal paziente ed operante come libero professionista, sebbene nell'espletamento di attività intramuraria. Secondo la Corte, ai fini dell'applicazione del foro del consumatore, diventa imprescindibile valutare la natura del rapporto o della prestazione che ne è oggetto, con la conclusione che il foro del consumatore è in linea tendenziale applicabile all'utente del Servizio Sanitario Nazionale «previo riscontro della idoneità del relativo rapporto ad essere ricondotto sotto le norme del codice del consumo di volta in volta considerate». 2.2. Natura della responsabilità "da contatto" del medico operante nella struttura sanitaria nei confronti del paziente ricondotta al tipo contrattuale. Sul versante dell'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, la giurisprudenza di legittimità, con orientamento consolidato, ha - sin da Sez. 3, n. 00589/1999, Segreto, Rv. 522538 - affermato che ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", anche essa viene ricondotta al tipo contrattuale in quanto si fonda sull'affidamento che il professionista crea per essere stato prescelto per rendere l'assistenza sanitaria dovuta e la sua prestazione, per quanto non derivante da contratto, ma da altra fonte ex art. 1173 c.c., assume un contenuto contrattuale. La teoria del contatto sociale, elaborata dalla dottrina italiana, sulla scorta di quella tedesca è stata, dapprima, utilizzata dalla giurisprudenza nelle ipotesi di danni subiti da un paziente a causa della non diligente esecuzione della prestazione da parte di un medico dipendente di un ente ospedaliero e, poi, utilizzata in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento posti dall'ordinamento a carico di determinati soggetti. La responsabilità da contatto sociale si caratterizza come responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione contrattualmente assunti, in fattispecie di danno di difficile inquadramento sistematico, «ai confini tra contratto e torto». Vengono ricondotte ad essa, ipotesi in cui la responsabilità extracontrattuale appare insufficiente, in quanto generica responsabilità del "chiunque", e nelle quali manca il fulcro del rapporto obbligatorio, 172 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO costituito dalla prestazione vincolante. Fonte della prestazione risarcitoria non è ne' la violazione del principio del neminem laedere, né l'inadempimento della prestazione contrattualmente assunta, ma la lesione di obblighi di protezione, di comportamento, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Il rapporto che scaturisce dal "contatto" è ricondotto allo schema della obbligazione da contratto. Acutamente la dottrina ha, per un verso, inquadrato la responsabilità da contatto sociale nella zona di confine tra responsabilità contrattuale e extracontrattuale [LIPARI, 2013, 194 e ss.] e storicizzato la teorizzazione relativa all'obbligazione senza prestazione in ragione del limite costituito dalle categorie tradizionali le quali non consentirebbero di andare oltre «le colonne del diritto soggettivo, ma anche perché si intuisce che, oltre queste colonne, vi è uno spazio che non ammette di essere abbandonato all'irrilevanza giuridica» [BARCELLONA, 2011, 139 e ss.]. Per avere un'idea quantitativa dell'impatto della teoria sulla pratica, basta operare una ricerca con le parole "contatto sociale" nella banca dati Italgiureweb del Centro elettronico di documentazione della Corte di cassazione per ottenere (dal 1999 al 2015) il dato complessivo di 205 decisioni, 23 delle quali risultano massimate. Per quanto concerne l'obbligazione del medico nei confronti del paziente, efficacemente ha spiegato la Suprema Corte che tale situazione ricorre in presenza di un operatore di una professione cd. protetta (per l'esercizio della quale è richiesta una speciale abilitazione), particolarmente quando essa, come la professione medica, abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti come il bene della salute tutelato dall'art. 32 Cost., in tal senso, Sez. 3, n. 09085/2006, Manzo, Rv. 589631. Come opportunamente osservato in dottrina, la stessa qualificazione professionale del medico genera inevitabilmente un affidamento nei soggetti che su di essa fanno conto sulla base di un contatto sociale funzionale, cioè originariamente volto ad uno specifico fine, «affidamento dal quale, in forza del principio di buona fede, nascono obblighi di conservazione della sfera giuridica altrui che si interpongono tra la condotta e il danno e sottraggono l'eventuale responsabilità al regime del torto aquiliano» [CASTRONOVO 2006, 482-483]. Nel 2008, le Sezioni unite hanno ribadito l'assunto secondo cui l'obbligazione del professionista operante in una struttura sanitaria non è fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, cui si 173 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del contatto stesso, così Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903 e hanno precisato che la responsabilità da contatto caratterizza la categoria più ampia dei cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario e consente di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto. In applicazione di tale estensione, difatti, si è riconosciuta tutela, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita e al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (cfr., rispettivamente, v. Sez. 3, n. 11503/1993, Segreto, Rv. 484431 e Sez. 3, n. 06735/2002, Vittoria, Rv. 554299); pronunce citate, tra l'altro, in Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605492. In questa ottica di protezione, il contatto sociale, è stato utilizzato in ulteriori ambiti similari rispetto a quello della professione medica, ad esempio, con riferimento a quella forense, v. Sez. U, n. 06216/2005, Morelli, Rv. 580918, a quella bancaria, v. Sez. U, n. 14712/2007, Rordorf, Rv. 597395 e a quella di mediazione, v. Sez. 3, n. 16382/2009, Spagna Musso, Rv. 609183 e, addirittura, esportato fuori dall'ambito delle responsabilità professionali, come nel caso dell'insegnante, dipendente dell'istituto scolastico, ritenuto responsabile in solido con l'istituto, del danno da autolesione procuratosi dall'allievo; in tale ipotesi, è stato precisato che tra precettore e alunno si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona, v. Sez. U, n. 09346/2002, Preden, Rv. 555386 e, nello stesso senso, più di recente, Sez. 3, n. 02413/2014, Cirillo, Rv. 630341 e come, ancora, nel peculiare interessante caso di danno conseguente a inesatte informazioni (nella specie previdenziali), attinenti al rapporto di lavoro, fornite, a richiesta, dall'ex datore di lavoro al lavoratore. In tale ipotesi, l'obbligo di comportamento in capo al datore di lavoro rispetto a informazioni in suo possesso attinenti al rapporto di lavoro che non sia più attuale, trova fondamento nell'affidamento che l'ex dipendente ripone nell'ex datore di lavoro, quale detentore qualificato delle informazioni relative ad un rapporto contrattuale ormai concluso, in un contesto che ha sullo sfondo la tutela 174 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO costituzionale apprestata al lavoro (art. 35 Cost.), cfr. Sez. 3, n. 15992/2011, Carluccio, Rv.619454. Vanno segnalate, infine, le precisazioni di particolare rilievo, - in tema di evoluzione giurisprudenziale della responsabilità da contatto sociale tra medico e paziente - fornite da due recenti pronunce; la prima, Sez. 3, n. 07909/2014, Vivaldi, Rv. 630750, occupandosi della disposizione di esonero dalla responsabilità sostitutiva, prevista a carico dello Stato ospitante per ogni evento dannoso provocato da atto, comportamento o fatto posto in essere da un soggetto civile o militare straniero nell'esercizio delle sue funzioni (come disposto dall'art. VIII, paragrafo 5, della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 novembre 1955, n. 1335), ha affermato che tale esonero opera allorché la richiesta di indennità trovi la sua ragione giustificativa nell'applicazione di un contratto, da intendere - secondo i canoni internazionali pattizi - come accordo bilaterale o plurilaterale su singole clausole, che vanno adempiute dalle parti contraenti. Nella specie, è stata confermata la sentenza con cui il giudice di merito ha escluso che l'esonero da responsabilità potesse operare in favore dello Stato italiano, in relazione alla domanda risarcitoria da errato trattamento medico effettuato in Italia da una struttura sanitaria statunitense, proposta dal coniuge di un militare - e poi dipendente civile - della U.S. Navy, ritenendo estranea alla nozione di contratto, di cui alla norma summenzionata, quella del contatto sociale frutto di elaborazione giurisprudenziale interna. La seconda, Sez. 3, n. 06438/2015, Petti, Rv. 634965, ha chiarito come il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell'intervento, non possa essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva; in proposito, viene osservato opportunamente che «nella evoluzione giurisprudenziale intorno al contatto sociale ed alla coesistenza tra la funzione apicale del reparto e la sua organizzazione, la responsabilità civile attiene alla imputabilità soggettiva dello inadempimento, che qui manca all'origine del primo contatto, del primo ricovero e del primo intervento». La dottrina, prendendo spunto dalla modifica al codice civile intervenuta in Germania (§ 311 BGB) che ha ricondotto la rilevanza della teoria del contatto sociale nell'ambito della culpa in contraendo e ne ha limitato l'operatività al versante dei rapporti di 175 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO cortesia, ha posto in luce l'autonomia della rielaborazione compiuta dalla letteratura civilistica italiana della teoria di origine tedesca che, sviluppando l'idea di un rapporto obbligatorio privo di prestazione ed intuendone le potenzialità, l'ha utilizzata per «dare forma giuridica a rapporti altri da quello precontrattuale, ma con essi caratterizzati da uno scopo e, in relazione a questo, qualificati da un affidamento reciproco tra le parti, adottando tale modello in una serie di fattispecie nelle quali in particolare la qualificazione professionale di una delle parti rende plausibile il sorgere di un affidamento sul quale la buona fede, così come nella culpa in contrahendo, ha potuto essere analogamente accreditata del ruolo di fonte di obblighi di protezione la cui violazione ha inscritto la responsabilità nell'area contrattuale, nel momento in cui reciprocamene, i soggetti interessati non potevano considerarsi, proprio in ragione dello scoccato affidamento, alla stregua di passanti reciprocamente estranei» [CASTRONOVO, 2015, 131, nota 100, 133 e ss.] Vanno per completezza segnalati taluni sporadici disallineamenti contenuti in alcune pronunce di legittimità rispetto al consolidato orientamento secondo cui la responsabilità contrattuale da contatto è ravvisabile soltanto nel rapporto tra medico (operante nella struttura) e paziente. Invero, in un passaggio contenuto nelle cd. sentenze gemelle delle Sez. U, n. 26972/2008, n. 26973/2008, n. 26974/2008 e n. 26975/2008, Preden, Rv. 605494, dovuto probabilmente ad un mero lapsus calami - al fine di sostenere la tesi secondo cui anche gli interessi di natura non patrimoniale possono assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali - si prendeva ad esempio la categoria dei cd. contratti di protezione che «sono quelli che si concludono nel settore sanitario» e pur richiamando Sez. U, n. 00589/1999, Segreto, Rv.522538 e le successive pronunce conformi, si affermava che «quanto alla struttura [tali pronunce] hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato». Ancora più di recente Sez. 3, n. 04030/2013, Petti, non massimata, in un passo della motivazione ha affermato a proposito delle modifiche normative recate dal decreto legge Balduzzi che la novella ha innovato soltanto la responsabilità penale del medico, mentre quella civile «segue le sue regole consolidate , e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale». Ma non pare che tali disallineamenti abbiano condizionato in alcun modo il consolidato orientamento di cui si è tentato di ricostruire in sintesi l'excursus. 176 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO 3. Criteri di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità. Ferma la natura contrattuale delle distinte responsabilità della struttura sanitaria e del medico nei confronti del paziente, l'analisi che segue, senza alcuna pretesa di completezza e al fine di percorrere un tracciato sicuro, non può che prendere le mosse dalla struttura della responsabilità civile, di cui la responsabilità sanitaria costituisce "sottosistema" - come affermato sin da Sez. 3, n. 09471/2004, Travaglino, Rv. 572947 - valendo per questa, gli elementi costitutivi di quella: ovvero la condotta, il danno ingiusto (cioè lesivo di un interesse giuridicamente protetto) e il nesso di causalità tra la prima ed il secondo. Ci si propone quindi di limitare l'esame al primo e al terzo di tali elementi (condotta e nesso), analizzando i criteri utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità per accertare, per un verso, il contenuto degli obblighi di diligenza e, per l'altro, i criteri di ricostruzione del nesso causale e di ripartizione dell'onere probatorio con riferimento al rapporto trilatero tra paziente, struttura sanitaria e medico operante in essa. 3.1. La misura dell'obbligo ovvero il criterio della diligenza qualificata. Criterio di valutazione della condotta nella responsabilità sia della struttura sanitaria sia del medico, è quello della diligenza che, per la prestazione a contenuto professionale, come è quella in esame, deve "valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata" come recita l'art. 1176, comma 2, c.c. In termini generali, è stato autorevolmente affermato in dottrina che «la diligenza misura l'obbligo cui il soggetto è tenuto» e che, con riferimento alla responsabilità in campo medico, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha da tempo assunto un orientamento assai rigoroso [BIANCA, 1990, 478] nell'esigere che il medico presti la sua attività con diligenza scrupolosa e superiore alla media. Tale analisi tova conferma sin da Sez. 3, n. 03616/1972, Minerbi, Rv. 361619, per giungere, da ultimo, a Sez. 3 , n. 24213/2015, Rossetti, in corso di massimazione, secondo cui la nozione del professionista medio, lungi dal riferirsi ad un professionista «mediocre» sottende un professionista «"bravo": ovvero serio, preparato, zelante, efficiente». Rilevante quest'ultima affermazione perché attinente proprio ad una fattispecie di responsabilità della struttura sanitaria in cui la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto responsabile l'azienda ospedaliera per 177 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO lesioni derivate da un trapianto di cornee infette fornite dalla "banca degli occhi" gestita dalla stessa azienda. Sul versante della responsabilità del medico, un cenno merita la regola di cui all'art. 2236 c.c. che limita la responsabilità del prestatore d'opera ai casi di dolo e colpa grave «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà» . Correttamente in dottrina si è osservato al riguardo, per un verso, che sono pochi i casi in cui la giurisprudenza ha fatto riferimento a tale norma e, per l'altro, che la valutazione del carattere normale o eccezionale del problema offerto alla soluzione del professionista offre ampi spazi di manovra al prudente apprezzamento del giudice [DI MAJO, 1988, 437]. La giurisprudenza, dal suo canto, ha precisato che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell'onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando, al sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale favor per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato; così, Sez. 3, n. 22222/2014, Scarano, Rv. 633277 con cui è stata cassata la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento danni di una paziente per la lesione di una corda vocale conseguente ad un intervento di tiroidectomia, ritenendolo, da un lato, di non facile esecuzione ed omettendo, dall'altro, di valutare la condotta del medico specialista alla stregua del criterio di diligenza qualificata. Il criterio della diligenza "qualificata" posto dall'art. 1176, comma 2, c.c., costituisce dunque regola generale di valutazione del comportamento del debitore e di apprezzamento dell'esattezza della prestazione dovuta ai fini di cui all'art. 1218 c.c. E' stato anche precisato che la diligenza esigibile dal medico nell'adempimento della sua prestazione professionale, pur essendo quella "qualificata" (nella massima si è preferita l'aggettivazione "rafforzata"), non è sempre la medesima, ma varia col variare del grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico e del grado di efficienza della struttura in cui si trova ad operare. Da ciò consegue che da un medico di alta specializzazione ed inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, da parte del medico con minore specializzazione od inserito in una struttura 178 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO meno avanzata, in tal senso, v. Sez. 3, n. 17143/2012, Scarano, Rv. 623986. Nello stesso segno, si è aggiunto altresì che al professionista e (a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza "particolarmente qualificata" dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare e dallo standard professionale della categoria cui si appartiene e l'impegno dovuto dal professionista, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale o lavorativa esercitata, giacché il medesimo deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria; tale standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità. Così, da ultimo, Sez. 3, n. 07682/2015, Scarano, Rv. 633277, secondo cui il contegno dell'aiuto primario che, in caso di assenza o impedimento del primario, ometta di eseguire un intervento chirurgico urgente viola gli obblighi su di esso gravanti, i quali includono non solo quello di attivarsi secondo le regole dell'arte medica, avuto riguardo al suo standard professionale di specialista, ma anche di salvaguardare, ai sensi dell'art. 1375 c.c., la vita del paziente. Sotto il profilo più generale dell'adempimento delle obbligazioni, particolarmente significativo il richiamo che la pronuncia fa agli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l'insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale) concretantesi nel «mantenere un comportamento leale, osservando obblighi di informazione e di avviso nonché di salvaguardia dell'utilità altrui - nei limiti dell'apprezzabile sacrificio - dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi». In proposito, cfr. in dottrina [BIANCA, 1990, 478] e v. in giurisprudenza Sez. U, n. 28056/2008, Morcavallo, Rv. 605685. In ordine alla scelta di un trattamento terapeutico o di un metodo di intervento rischiosi, Sez. 3, n. 19213/2015, Scarano, Rv. 637015, ha ribadito un principio già affermato da Sez. 3, n. 08875/1998, Vittoria, Rv. 518666, secondo cui, qualora nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, emerga una situazione la cui evoluzione può comportare rischi per la salute del paziente, il medico, che abbia a disposizione metodi idonei ad evitare il verificarsi della situazione pericolosa, è tenuto ad 179 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente, preferendoli a quelli che possano anche solo esporla a rischio, sicché, ove egli privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta. Sul versante della responsabilità della struttura sanitaria, è stato precisato da Sez. 3, n. 21090/2015, De Stefano, Rv. 637449, che «anche il pieno rispetto della normativa vigente» in materia di dotazioni «non esime affatto da responsabilità la struttura ospedaliera se, in relazione proprio a quelle condizioni di partenza pur non ottimali, le condotte degli operatori siano valutate comunque inadeguate». Spiega la Corte in proposito che la responsabilità di una struttura ospedaliera di emergenza per contratto cd. di spedalità deriva dall'obbligo di erogare la propria prestazione con massima diligenza e prudenza; essa comprende, oltre all'osservanza delle normative di ogni rango in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, la tenuta in concreto, per il tramite dei suoi operatori, di condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente, anche in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, pur conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni piu' idonee a scongiurare l'esito infausto. In tema di onere della prova della diligenza, Sez. 3, n. 13328/2015, Rossetti, Rv. 636015, ha affermato come al medico convenuto in un giudizio di responsabilità - per superare la presunzione a suo carico posta dall'art. 1218 c.c. - non basti dimostrare che l'evento dannoso per il paziente costituisca una «complicanza», rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione priva di rilievo sul piano giuridico e soltanto indicativa «nel lessico medico» di un evento, insorto nel corso dell'iter terapeutico, astrattamente prevedibile, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile. Sul dovere del medico di informare il paziente in ordine al trattamento sanitario, la Corte di cassazione ha già precisato che esso costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata 180 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO prestazione da parte del paziente, Sez. 3, n. 11950/2013, Carleo, Rv. 626347. In tale solco, è stato ulteriormente precisato che il diritto all'autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute, sebbene entrambi trovino fondamento nell'art. 32 Cost.; difatti, il primo attiene al diritto fondamentale della persona di esprimere mediante il consenso informato consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico e il secondo, ha riguardo alla tutela del diverso diritto fondamentale alla salute. Pertanto, l'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della prestazione medica dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell'obbligo di informazione, in tal senso Sez. 3, n. 02854/2015, Scarano, Rv. 634415. Sul tema, ulteriore interessante precisazione è quella formulata da Sez. 3, n. 24220/2015, Barreca, in corso di massimazione, che torna ad esaminare la delicata questione della violazione degli obblighi di informazione da parte del medico in tema di scelte diagnostiche e cassa la decisione di merito che aveva omesso di valutare la lesione del diritto di autodeterminazione della gestante la quale, a seguito del referto negativo del bi - test , che pure non escludeva con certezza la esistenza di una patologia genetica, non era stata informata in modo completo della possibilità di ricorrere ad altro esame (amniocentesi) dagli esiti più certi. Per ultimo, va pure segnalato che da Sez. 3, n. 03569/2015, Sestini, è stata rimessa all'esame delle Sezioni Unite la soluzione di un contrasto di giurisprudenza insorto sul tema del danno da nascita indesiderata per omessa diagnosi prenatale (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo dell'esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza), contrasto che si incentra su due questioni: quella relativa ai criteri di ripartizione dell'onere probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria in ordine alla diritto all'autodeterminazione. Le Sez. U, n. 25767/2015, Bernabai, in corso di massimazione, a risoluzione del contrasto hanno affermato, quanto alla prima questione, che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l'onere mediante presunzioni semplici; quanto alla seconda, che il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da «vita ingiusta», poiché l'ordinamento ignora il «diritto a non nascere se non sano». 181 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO 3.2. La regola "del più probabile che non" nell'accertamento del nesso causale. Il nesso di causalità è quello tra gli elementi costitutivi della responsabilità che pone le più difficili questioni in termini ermeneutici e costituisce un tema "classico" sul quale sia la dottrina sia la giurisprudenza si sono misurate e che in ragione delle difficoltà di ricostruzione teorica è stato definito «nozione oscura» [BIANCA, 1991, 194 e ss.]. Il nesso è la relazione che pone in collegamento la condotta con il danno e che identifica l'uno come conseguenza dell'altra. La letteratura giuridica in argomento è sterminata [per una ricostruzione completa delle teorie sul nesso di causalità, v. BIANCA, 2012, 142 e ss.] e le soluzioni proposte dalla giurisprudenza evidenziano che la questione non è ancora compiutamente risolta e sconta - quali fattori di criticità - la disomogeneità tra gli orientamenti adottati in ambito sia penalistico sia civilistico e la complessità di materie assai delicate, come l'infortunistica o la responsabilità professionale, le cui peculiarità specifiche hanno posto in discussione la tenuta di una ricostruzione sistematica unitaria. Al fine di sottolinearne le difficoltà ermeneutiche di inquadramento sistematico, Sez. 3, n. 21619/2007, Travaglino, Rv. 599816, ha efficacemente rilevato che «l'indagine sull'aspetto genetico dell'istituto del nesso causale conduce ad una prima, significativa rilevazione ermeneutica, quella per cui nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sè considerata». Difatti, il nesso causale riceve una scarna descrizione normativa nell'assetto codicistico; l'art. 40 c.p., rubricato «rapporto di causalità», stabilisce che «nessuno può essere punito (...) se l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione»; il successivo art. 41 c.p. si occupa del concorso di cause, per stabilire, il principio «dell'interruzione del nesso causale» conseguente all'intervento di quella causa «sufficiente da sola a determinare l'evento»; gli artt. 1227 e 2043 c.c. strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto - doloso o colposo - ed evento - dannoso - attraverso l'utilizzo del verbo «cagionare». In tema di responsabilità civile, risponde ormai a principio consolidato quanto affermato dalle Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, R. 600899 - v. anche Sez. U pen., n. 30328 del 2002, Canzio, Rv. 222138 - che, tenuto conto della diversità del regime probatorio applicabile in relazione ai valori sottesi ai distinti ambiti civile e penale, hanno ritenuto come nell'accertamento del nesso causale la 182 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO regola probatoria applicabile nel giudizio penale sia quella della prova "oltre ogni ragionevole dubbio" e quella applicabile nel giudizio civile sia la regola della preponderenza dell'evidenza o "del più probabile che non". Secondo le Sezioni Unite, quindi, i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati agli artt. 40 e 41 c.p., secondo cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (criterio della cd. causalità naturale o condicio sine qua non), dando necessario rilievo, all'interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiano -alla stregua di una valutazione ex ante- del tutto inverosimili (criterio della cd. causalità adeguata) v. più di recente, Sez. 3, n. 16123/2010, Spirito, Rv. 613967. Sulla base di tali principi, la regola "del più probabile che non" costituisce uno standard di "certezza probabilistica" in materia civile che «non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)». Applicata detta regola alla fattispecie allora esaminata, le Sezioni Unite hanno affermato la responsabilità del Ministero della sanità - su cui grava un obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico - per aver omesso controllo e vigilanza, tenuto conto delle cognizioni scientifiche esistenti all'epoca di produzione del preparato ed accertata l'esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, così da far ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione fosse stata causa dell'insorgenza della malattia e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Emblematiche, tra l'altro, due precisazioni contenute nella stessa pronuncia; la prima è quella secondo cui «l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p. temperati dalla regolarità causale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va adeguata alla peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile». L'aver utilizzato il 183 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO verbo "adeguare" al fine di attenuare i principi generali di diritto penale alla stregua del principio di regolarità causale, pone in evidenza l'intento pragmatico di valorizzare le peculiarità strutturali delle fattispecie civilistiche cui l'operazione di ricostruzione del nesso causale si riferisce. La seconda precisazione è quella formulata a proposito della differenza tra nesso eziologico e criterio di imputazione stante che «il criterio di imputazione serve ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico ma non vale a costituire autonomo principio della causalità». L'aver affermato ciò implica aver sgombrato il campo del nesso causale da elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità e l'ingiustizia del danno. La regola "del più probabile che non" ha suscitato critiche da parte della dottrina che, tra l'altro, ha osservato: "ritenere che il giudice civile possa accontentarsi di una "minore" certezza probatoria appare in netto contrasto, col principio che richiede comunque l'accertamento del fatto per il quale il soggetto è condannato» [BIANCA, 2011, 133] e ancora, nello stesso senso, che «se la fattispecie sostanziale si incardina su un nesso causale, esso non è adeguatamente descritto da un enunciato che esprime una correlazione probabilistica» [TARUFFO, 2006, 106]. A proposito delle cautele nell'utilizzo della regola probabilistica, era già stato evidenziato da Sez. 3, n. 21619/2007, Travaglino, Rv. che «in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico- legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non"». La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato che l'adozione del criterio della probabilità relativa (o del "più probabile che non") si delinea invero in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, sicché la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica 184 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza limitarsi ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51% ma facendosi luogo ad una compiuta valutazione dell'evidenza del probabile, in tali termini v. Sez. 3, n. 15991/2011, Travaglino, Rv. 618880. In tale ipotesi concernente danni da trasfusione di sangue infetto, veniva sottolineato che: «se le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un'incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata -o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta-, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all'art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili». Da ultimo, la regola probabilistica è stata ribadita da Sez. 3, n. 03390/2015, Vincenti, Rv. 634481 che, ha affermato come l'accertamento del nesso causale in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, implica una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente che deve essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità. Nella fattispecie esaminata, la Corte ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto ad un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l'oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia. Va richiamato infine quanto sostenuto da autorevole dottrina con riguardo al principio del rischio specifico. Secondo tale tesi, la norma che sancisce la responsabilità di chi «cagiona» il danno, va interpretata nel senso che il nesso di causa sussiste «tra fatto e danno quando il danno è la realizzazione di un rischio specifico creato da quel fatto». Viene sottolineato inoltre che il criterio del rischio specifico non esclude ma integra quello della regolarità causale e che «il nesso è accertato se il danno è la normale conseguenza di un fatto. Se il danno non è la 185 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO normale conseguenza del fatto, il nesso causale susssiste se il danno realizza il rischio specifico creato da quel fatto» [BIANCA, 2012, 146]. L'eco di tale tesi si può percepire in alcune decisioni in tema di responsabilità civile della struttura sanitaria per attività pericolosa da emotrasfusioni, che hanno ritenuto come «non possa sostenersi che il nesso causale sia risultato provato sulla base della sola prova della causalità generale, in quanto è provata anche la causalità specifica sulla base della prova presuntiva» e hanno affermato che la prova del nesso causale, che grava sull'attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocarla, può essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.), allorché la prova non possa essere data per non avere la struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e cioè per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, così, Sez. U, n. 00582/2008, Segreto, Rv. 600915 e, più di recente, Sez. 3, n. 19213/2015, Scarano, Rv. 637015. 3.3. I criteri di ripartizione dell'onere probatorio in tema di nesso causale. Complesso è il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova del nesso causale tra la condotta ed il danno. Come da tempo chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità medica, il problema della prova del nesso causale, anzitutto, va depurato dai riflessi che in esso proietta la tradizionale distinzione tra obbligazioni di risultato e di mezzi. Secondo tale superata impostazione, si riteneva che, nelle obbligazioni di mezzi essendo aleatorio il risultato, incombesse sul creditore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da scarsa diligenza e che, nelle obbligazioni di risultato, invece, incombesse sul debitore l'onere di provare che il mancato risultato fosse dipeso da causa a lui non imputabile. Secondo le Sezioni Unite, il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2967 c.c. in materia di responsabilità contrattuale «è identico sia che il creditore agisca per l'adempimento della obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato». Da ciò consegue, che nell'ipotesi in cui la lesione sia avvenuta all'interno di una struttura sanitaria (la fattispecie riguardava il danno da contagio per epatite derivante da 186 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO emotrasusione con sangue infetto), per un verso, il danneggiato deve provare il contratto relativo alla prestazione sanitaria ed il danno assunto (allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto), per l'altro, la struttura sanitaria e il medico in essa operante, debbono entrambi fornire la prova «che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero», così, Sez. U, n. 00577/2008, Segreto, Rv. 600903. In altri termini, una volta che il paziente abbia provato l'esistenza del rapporto contrattuale e l'insorgenza della patologia e abbia allegato l'inadempimento del medico o della struttura sanitaria, astrattamente idonei a provocare il danno lamentato, rimane comunque a carico di questi ultimi l'onere di dimostrare che non vi sia stato inadempimento o che esso non sia stato rilevante dal punto di vista causale. Regole e principi, già affermati in tema di riparto degli oneri probatori, sono stati riaffermati in modo esemplare da due recenti pronunce. Sul versante dell'onere probatorio del nesso causale dovuto dal paziente, efficacemente, Sez. 3 n. 20904/2013, Frasca, Rv. 628993, ha precisato che l'onere probatorio gravante sul danneggiato/paziente si sostanzia nella prova che l'esecuzione della prestazione si è inserita nella serie causale che ha condotto all'evento di danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali costituiti dall'insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente. Sul versante dell'onere probatorio del nesso gravante sulla struttura e sul sanitario, è stato inoltre, nitidamente, osservato che in ogni caso di "insuccesso" incombe al medico o alla struttura provare che il risultato "anomalo" o "anormale" - rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza - dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, bensì ad evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza, rimanendo in caso contrario soccombente, in 187 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c. In proposito, viene evidenziato che la regola di ripartizione dell'onere probatorio del nesso causale gravante sul debitore (sanitario o struttura), applicata in via costante dalla giurisprudenza di legittimità, si fonda sul principio cd. di "vicinanza della prova" o "riferibilità" «o ancor più propriamente (come sottolineato anche in dottrina), sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione protetta», così motiva, Sez. 3, n. 08989/2015, Scarano, Rv. 635339. La casistica dell'anno 2015 conferma i principi già più volte affermati in materia: ad esempio, l'incompletezza della cartella clinica costituisce circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione Sez. 3, n. 12218/2015, Rossetti, Rv. 635623. In tema di accertamento dell'efficienza concausale di un fattore naturale, Sez. 3, n. 08995/2015, Cirillo, Rv. 635338, ha ritenuto che, una volta accertato il nesso causale tra l'inadempimento e il danno lamentato, l'incertezza circa l'eventuale efficacia concausale di un fattore naturale non rende ammissibile, sul piano giuridico, l'operatività di un ragionamento probatorio "semplificato" che conduca ad un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del quantum risarcitorio secondo criteri equitativi. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l'obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto - avvenuto in altra struttura - e presso la quale aveva contratto un'infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio non avessero escluso la possibilità che un contributo concausale al pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita. 188 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO 4. La responsabilità medico-chirurgica come "Nave ... in gran tempesta" verso un nuovo orizzonte normativo. Si preannunciano all'orizzonte modifiche normative di rilevante impatto nel campo della responsabilità medica. Va segnalato, sul versante governativo, che il Ministro della salute - con decreto del 26 marzo 2015 - ha istituito una Commissione Consultiva "per le problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" che, al termine dei lavori (30 luglio 2015), ha proposto di distinguere la responsabilità del medico dipendente di una struttura sanitaria da quella del medico libero professionista; per il primo, viene prevista una responsabilità professionale di natura extracontrattuale, mentre per il secondo una responsabilità di natura contrattuale, con conseguenti mutamenti -per l'una e per l'altra- dei rispettivi regimi della prescrizione, dell'onere della prova e dell'azione di rivalsa da parte della struttura sul medico dipendente. La Commissione ha proposto altresì l'introduzione di sistemi assicurativi obbligatori per le strutture ospedaliere pubbliche, per quelle private e per gli operatori sanitari, modifiche in tema di responsabilità penale del medico e, sul versante processuale, l'introduzione di un accertamento tecnico preventivo e di una conciliazione preventiva obbligatori nei giudizi di risarcimento del danno derivante da malpractice. Sul versante parlamentare, la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati ha, da ultimo (19 novembre 2015), approvato il testo unificato delle proposte di legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario (A.C. 259), recependo, tra l'altro, alcuni degli indirizzi sollecitati dalla Commissione consultiva istituita presso il Ministero della salute. Limitando l'esame del testo unificato ai punti essenziali e di stretto interesse ai fini della presente analisi, va rilevato che l'art.7, rubricato "Responsabilità per inadempimento della prestazione sanitaria della struttura e dell'esercente la professione sanitaria", prevede che la struttura sanitaria, pubblica o privata, la quale nell'adempimento della propria obbligazione si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorchè non dipendenti della struttura stessa, risponde ex artt. 1218 e 1228 c.c. delle loro condotte dolose e colpose (comma 1). La proposta di legge estende tale previsione alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria nonché attraverso la telemedicina (comma 2); prevede che l'esercente la professione sanitaria nello svolgimento 189 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO della propria attività si attiene -fatte salve le specificità del caso concreto- alle buone pratiche clinico assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida (comma 3), rispondendo del proprio operato ex art. 2043 c.c. (comma 4). La scelta operata è chiara: far gravare la responsabilità contrattuale in capo alla struttura nella quale opera "l'esercente la professione sanitaria", nei cui confronti è prevista l'azione di rivalsa soltanto in caso di "dolo o colpa grave" (art. 9). Viene imposto l'obbligo di copertura assicurativa a tutte le strutture sanitarie per danni cagionati dal personale a qualsiasi titolo operante presso le medesime (art. 10). Viene infine prevista l'azione diretta del danneggiato nei confronti della impresa di assicurazione della struttura sanitaria (art. 11). Le formulate proposte vengono da più parti ritenute ormai ineluttabili al fine di scongiurare i rischi connessi agli effetti distorsivi dell'eccesso di responsabilità in campo medico che, alimentando la medicina cd. difensiva, proiettano riflessi negativi sia sulle finanze dello Stato e delle Regioni in termini di costi economici sia in termini di cure inappropriate nei confronti dei pazienti. Secondo tale impostazione, l'introduzione di un regime a doppio binario (responsabilità contrattuale dell'ente e extracontrattuale del medico) non indebolirebbe la tutela dei diritti del paziente, ma consentirebbe di ricondurre tutte le ipotesi non riconducibili né al fatto illecito del medico né all'inadempimento della struttura, alla responsabilità di quest'ultima sulla base del collegamento causale tra danno e organizzazione dell'attività sanitaria [DE MATTEIS, 2015, 566]. Di contro, può osservarsi che un ritorno ad un regime duplice di responsabilità, modello già sperimentato dalla giurisprudenza degli anni 70 del secolo scorso, ritenuto insufficiente e ormai superato dalla consolidata giurisprudenza, potrebbe depotenziare la tutela in giudizio dei diritti del paziente, con un notevole aggravamento degli oneri probatori da questi dovuti. 190 CAP. X - LA RESPONSABILITÀ PER ATTIVITÀ MEDICO - CHIRURGICA NELLA COMPLESSITÀ DEI RAPPORTI TRA MEDICO, STRUTTURA SANITARIA E PAZIENTE: ORIENTAMENTI CONSOLIDATI E NOVITÀ NORMATIVE DE IURE CONDITO E DE IURE CONDENDO Bibliografia BIANCA, Il contratto, Diritto civile, 3 vol., Milano, 1990; BIANCA, Il nesso causale: una nozione oscura in cerca di chiarezze, in Leçons du droit civil : mélanges en l'honneur de François Chabas, Bruxelles, 2011, p. 133 ss., BIANCA, La responsabilità, Diritto civile, 5 vol., Milano, 2012; BARCELLONA, L'ingiustizia del danno e il doppio regime di responsabilità, Art. 2043, art. 96 c.p.c., in Commentario al codice civile diretto da Gabrielli, a cura di Carnevali, Torino, 2011. BARCELLONA, Trattato della responsabilità civile, Torino 2011; CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006; CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015; DE MATTEIS, Colpa medica e inadempimento delle strutture sanitarie, in Contratto e Impresa, 2015, 3; FRANZONI, Il professionista e i criteri per l'accertamento della responsabilità, in Contratto e Impresa, 2015, 3; GALGANO, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e Impresa, 1985, 1; LIPARI, Le categorie civilistiche, Milano, 2013; SCOGNAMIGLIO, Il danno tanatologico e le funzioni della responsabilità civile, in Responsabilità civile e previdenza, 2015, 5; TARUFFO, La prova del nesso causale, in Rivista critica diritto privato, 2006. 191 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE CAPITOLO XI IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE (di Donatella Salari) SOMMARIO: 1. Inquadramento. – 2. Le modifiche di cui alla l. n. 238/1997. – 2.1. Le infezioni contratte e conosciute ante l. n. 238 del 1997 e l'estensione del termine decadenziale alle patologie non previste dalla l. n. 210 del 1992. - 3. La conoscenza dell'evento dannoso. – 4. Il contrasto di giurisprudenza. 4.1. .La composizione del contrasto da parte delle Sezioni Unite. - 5. Indennizzo e risarcimento. - 6. Decorrenza del termine di decadenza. 1. Inquadramento. L'emostrasfusione può considerasi pratica terapeutica la cui tecnica risulta affinata all'inizio del secolo scorso sebbene la letteratura medica ne faccia cenno fin dai tempi più remoti, come antico è il rischio di contagio, soprattutto con la scoperta di virus letali come quello dell'AIDS e delle epatopatie di tipo A, B e C. E' evidente, dunque, la necessità per lo Stato di dotarsi di strumenti di emosicurezza e d'intervenire nel caso d'infezioni contratte per effetto di trasfusioni di sangue e di emoderivati allorchè si sia prodotto l'evento lesivo di menomazione dell'integrità fisica conseguente al contagio. Gli strumenti a disposizione del cittadino sono, allo stato, due: l'uno si concretizza nell'esercizio dell'azione aquiliana ex art. 2043 c.c., l'altro è quello di tipo assistenziale – previdenziale che prevede un indennizzo a carico dello Stato nel caso di lesione irreversibile del danneggiato contratta in conseguenza di vaccinazione, epatite post- trasfusionale e contagio da HIV, secondo una certa evoluzione legislativa di cui si darà conto nel corso della trattazione. Sotto il primo profilo va evidenziato che la natura aquiliana della responsabilità del Ministero della Sanità (ora della Salute) è stata letta dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ai compiti istituzionali di controllo della pratica sanitaria di emotrasfusione e di distribuzione e commercializzazione di sangue ed emoderivati che nei vari arresti giurisprudenziale è stata ricostruita – sia pure con una serie di correttivi – come omessa vigilanza in virtù di un complesso normativo di disciplina dell'emo sicurezza che rimonta agli anni sessanta del secolo scorso, in uno con le conoscenze 192 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE scientifiche disponibili al momento del contagio: Sez. 3, n. 10291/2015, Carluccio, Rv. 636454, nonchè, Sez. 3, n. 26152/2014, Scarano, Rv. 633717, per mancato esercizio di «attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati» anche in relazione ad eventi infettivi precedenti alla scoperta ufficiale del virus scatenante la lesione epatica – nel caso specifico epatite di tipo B - considerata l'unicità della lesione infettiva secondo l'insegnamento di Sez. U,. n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600902: «Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità». Nondimeno, la stessa decisione esclude che il profilo aquiliano sia riconducibile al parametro di cui all'art. 2050 c.c.: «Pur essendo indubbio il connotato della pericolosità insito nella pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, ciò non si traduce nella pericolosità anche della correlata attività di controllo e di vigilanza cui è tenuto il Ministero della salute; ne consegue che la responsabilità di quest'ultimo per i danni conseguenti ad infezione da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per omessa vigilanza da parte dell'Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati, è inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all'art. 2043 cod. civ. e non in quella di cui all'art. 2050 cod. civ.». Per quanto riguarda, invece, il profilo indennitario conseguente all'infezione e posto a carico dello Stato come prestazione assistenziale, va evidenziato che con la l. 25 febbraio 1992, n. 210 è stato riconosciuto l'indennizzo a favore di coloro che lamentavano conseguenze con esiti morbosi irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni con infezione HIV. L'art. 1 comma 2 della citata legge così disponeva: «L'indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psico-fisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV»; ed, inoltre, al comma 3 dello stesso articolo il beneficio risulta esteso anche a « coloro che presentino danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali »). L'art. 3, comma 1 della citata legge prevedeva, inoltre che: «I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'art. 1, comma 1, 193 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE presentano domanda al Ministro della sanità entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV». Al comma 2 stesso articolo si prevedeva inoltre: «I termini decorrono dal momento in cui, sulla base della documentazione di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno». In sostanza, la legge citata prevedeva un termine decadenziale rispetto alla domanda d'indennizzo di tre anni nel caso di vaccinazioni, ovvero di dieci nel caso di infezioni da HIV, nulla disponendo quanto al termine di decadenza per le ipotesi di epatiti post-trasfusionali. Il termine a quo, dunque, veniva fatto coincidere dalla l. n. 210 del 1992, , cit. con la conoscenza, desumibile sulla base della documentazione medica di cui ai commi 2 e 3 dello stesso art. 3, ed inoltre, si riteva applicabile il termine di prescrizione decennale anche per quei casi di danno epatico verificatisi ante 1992, con estensione analogica interpretativa. Ne conseguiva che alcun termine di decadenza fosse previsto per il caso di epatiti post-trasfusionali dalla legge appena citata. 2. Le modifiche di cui alla l. n. 238 del 1997. Sul punto è indipensabile dare preventivamente conto dell'evoluzione normativa in punto di danno da emotrasfusioni e della evoluzione giuirsprudenziali. Il legislatore, infatti, interveniva ancora sulla materia con la legge 25 luglio 1997, n. 238 - introducendo anche per le epatiti post trasfusionali - il termine decadenziale di tre anni per effetto della modifica del comma 1 dell'articolo 3 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nei seguenti termini: «1. I soggetti interessati ad ottenere l'indennizzo di cui all'articolo 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanita', entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post -trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno». In sostanza, veniva previsto un termine anche per le infezioni epatiche post-trasfusionali introducendo una modifica normativa consistente in un termine di decadenza prima non previsto, lasciando aperto il problema dell'applicabilità della nuova disciplina rispetto a situazioni soggettive già in essere. 2.1. Le infezioni contratte e conosciute ante l.. n. 238 del 1997 e l'estensione del termine decadenziale alle patologie non 194 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE espressamente soggette al termine di decadenza. Quid iuris, allora, ove la malattia fosse stata accertata ante 28 luglio 1997 - data di entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238 -, ossia, come si concilia detto nuovo termine nel caso di epatiti post-trasfusionali riconosciute ante 1997, riguardo alle quali, come detto prima, nulla disponeva la normativa del 1992, quanto al termine di decadenza e che, pertanto, potevano ragionevolmente considerarsi prescrivibili nell'ordinario termine decennale, con decorrenza dalla conoscenza dell'esito patologico della pratica trasfusionale? Invero, va dato conto che sul punto si era formata una giurisprudenza di legittimità orientata a ritenere che la normativa del 1997 trovasse applicazione solo nel caso in cui la conoscenza dell'avvenuta infezione fosse successiva all'entrata in vigore della legge 25 luglio 1997, n. 238, con la conseguenza che, nel caso in cui essa fosse anteriore all'anno 1997, trovasse, invece, applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale, Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv 630791, argomentando dal disposto dell'art. 11 preleggi e della irretroattività del nuovo termine di decadenza allorchè conoscenza del danno e della sua genesi eziologica non fosssero tali da consentire la decorrenza dell'esercizio del diritto nell'arco temporale di operatività della legge n. 238 del 1997; Sez. L. n. 19811/2013, Blasutto. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità aveva pure escluso, stante il carattere eccezionale delle norme sulla decadenza e del conseguente divieto di analogia ex art. 14 preleggi, che potesse applicarsi il termine stabilito per fattispecie di danno (epatite post- trasfusionale) diverse da quelle espressamente previste dall''art. 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210. Infatti, si affermava che il termine introdotto dalla legge del 25 luglio 1997, n. 238 dovesse essere considerato come eccezionale e, pertanto, non estensibile con interpretazione analogica ad ipotesi diverse e senza efficacia retroattiva per quei fatti che fossero antecedenti alla sua sua entrata in vigore, Sez. L, n. 06923/2010, Lamorgese, richiamata da Sez. L, n. 16790/2011, Filabozzi, con la conseguenza che l'unico limite temporale applicabile era quello della prescrizione decennale, Sez. L, n. 08781/2004, Vigolo, Rv. 572745. Secondo Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, corollario di questa conclusione è l'invocato principio d'irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 preleggi, con la conseguenza che, se il fatto dal quale scaturiscono gli esiti decadenziali legati al trascorrere del tempo si pone in rapporto d'anteriorità con l'entrata in vigore della nuova legge, la decadenza 195 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE triennale non spiega effetto e recede davanti al termine decennale di prescrizione: «In relazione alle domande di indennizzo per danni post- trasfusionali, si applica il termine triennale di decadenza introdotto dall'art. 1, comma 9, della legge 25 luglio 1997, n. 238, se la conoscenza del danno è sorta successivamente all'entrata in vigore della nuova normativa, mentre, ove tale conoscenza sia anteriore, il diritto è soggetto all'ordinario termine di prescrizione decennale ancorché questo non sia ancora interamente decorso alla data di entrata in vigore della legge, senza che assuma rilievo che l'eventuale periodo residuo abbia una durata maggiore o minore rispetto al nuovo termine decadenziale. » Come noto, il principio d'irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 preleggi, risulta privo di copertura costituzionale e, pertanto, appare derogabile dalla discrezionalità del legislatore ordinario il quale può retroattivamente estendere l'efficacia di una legge anche al periodo antecedente alla sua vigenza. Ne è prova la retrodatazione degli effetti della legge penale più favorevole al reo (art. 2 c.p.), come pure le leggi d'interpretazione autentica. Radicalmente opposto era l'avviso di quella giurisprudenza prevalente che identificava il dies a quo della decadenza con l'entrata in vigore della nuova legge, ossia il 28 luglio 1997 sul presupposto che, secondo i principi generali, ove nell'ordinamento sia introdotto, ex novo, un termine di decadenza esso attinga anche i diritti sorti anteriormente, ma con decorrenza dall'entrata in vigore della nuova normativa, così, Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, cit.; Sez. L, n. 04051/2014, Maisano, Rv 629787; Sez. 6–L, n. 07392/2014, Marotta, Rv. 630276, Sez L, n. 17131/2013, Bandini, Rv. 627208; Sez. L, n. 01635/2012, Maisano, Rv. 621107; Sez. L, n. 09647/2012, Toffoli, Rv. 622798; Sez. 6-L, n. 07304/2011, Toffoli, Rv. 616435; Sez. 1, n. 06705/2010, Zanichelli, Rv. 612481; Sez. L, n. 25746/2009, Curzio, Rv. 611499; Sez. U, n. 06173/2008, Miani Canevari, Rv. 602255. 3. La conoscenza dell'evento dannoso. Occorre, perciò, interrogarsi circa il momento in cui il diritto all'indennità può ritenersi sorto, ossia occorre che il soggetto interessato conosca l'esito morboso e la sua eziologia onde esercitare il diritto all'indennità. Infatti, il termine triennale non può decorrere che dal momento in cui il soggetto risulti avere avuto contezza del contagio e della sua riconducibilità alla trasfusione. 196 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE Ne deriva che la novella di cui all'art.1, commi 1, 2 e 5 della legge 25 luglio 1997, n. 238 dovrebbe estendersi anche agli eventi dannosi verificatisi prima della sua entrata in vigore, ma sempre che vi sia conoscenza dell'esito pregiudizievole della pratica sanitaria. In tal caso il termine utile triennale per conseguire l'indennizzo in caso di infezione epatopatica post-trasfusionale, ove il contagio sia avvenuto in epoca antecedente all'entrata in vigore della nuova disciplina, coincide con il momento d'effettiva conoscenza dell'avvenuto contagio. E' bene evidenziare, a questo punto, che, come rilevato dalla dottrina [RUBINO, 2008, 62] la problematica della conoscenza del fatto è assolutamente contigua a quella del termine prescrizionale che attinge l'esercizio dell'azione aquiliana, sia sotto il profilo della disponibilità degli elementi diagnostici indicativi della menomazione irreversibile dello stato di salute, sia sotto quello della disponibilità di tutta la documentazione utile circa la vaccinazione e la somministrazione degli emoderivati [DRAGONE, 2007, 338] oltre che di quelli diagnostici che consentano l'attendibile riconducibilità dell'evento lesivo alla pratica sanitaria dispensata , ossai l'evento dannoso deve manifestarsi nelle sue componenti essenziali ed irreversibili e nella sua riconducibilità obiettiva alla pratica trasfusionale. Ne deriva che, quanto meno sotto l'aspetto oggettivo e della ricollegabilità eziologica dell'evento, valgono le elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali, come evidenziato da Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600901: «L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell' "esteriorizzazione del danno" può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti». 4. Il contrasto di giurisprudenza. Tale lo stato dei principali arresti giurisprudenziali, fino all'intervento di Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077. Invero, nei procedimenti relativi al riconoscimento dell'indennizzo per patologie derivanti da trasfusioni di sangue, la Sez. 6-L, con due distinte ordinanze gemelle – rispettivamente n. 20519/2014 e n. 20520/2014 - aveva disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente, al fine di valutare l'intervento delle Sezioni Unite sulla questione relative all'applicabilità alle epatiti postrasfusionali del termine triennale per la domanda amministrativa di indennizzo, stante il contrasto tra Sez. L, n. 197 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, che riteneva che se la conoscenza del danno fosse sorta successivamente al 28 luglio 1997 si dovesse applicare il termine triennale, mentre, ove la conoscenza fosse stata anteriore dovesse trovare applicazione il termine decennale di prescrizione, nonchè Sez. L, n. 13355/2014, Arienzo, Rv. 631461, che espressamente prende le distanze da Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv. 630791, che afferma, a sua volta che il legislatore nell'introdurre con la legge n. 238 del 1997 la nuova decadenza triennale anche per le infezioni epatiche post- trasfusionali antecedenti ha inteso attrarre nell'orbita del termine perentorio anche i diritti sorti ed esercitabili prima della legge, ma con decorrenza dall'entrata in vigore di essa, così realizzando un obiettivo accelleratorio rispetto al più lungo termine di prescrizione decennale, peraltro soggetto a sospensione ed interruzione, secondo i principi generali. 4.1. La composizione del contrasto da parte delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite con Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077, sposano l'opzione interpretativa della decorrenza del termine di decadenza dall'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997 anche per il caso delle epatiti post-trasfusionali verificatesi prima della novella del 1997. La S.C. è, infatti, intervenuta su di un caso di epatopatia esitata da infezione contratta ante 1997 a seguito di una trasfusione. Il danneggiato aveva rivolto una richiesta d'indennizzo nell' anno 2002 al Ministero della Salute, ai sensi della l. n. 210 del 1992. In primo grado la domanda era stata respinta per essersi maturata decadenza rispetto al termine triennale decorrente dalla scoperta della patologia, secondo la modifica legislativa di cui sopra. La decisione era stata confermata in grado d'appello e, pertanto, il danneggiato proponeva ricorso per Cassazione sostenendo che la nuova disciplina sulla decadenza triennale era stata introdotta solo nel 1997 laddove, nel caso concreto, l'infezione era stata contratta in un periodo precedente, di qui il contrasto giurisprudenziale sul punto rimesso alle Sezioni Unite della S.C.. Si trattava, perciò, di affermare il principio riguardante l'applicabilità della nuova disciplina sulla decadenza ai fini dell'indennizzo riconosciuto alle vittime di epatiti post-trasfusionali contratte ante legge n. 238/1997 e dirimere il contrasto che, nel frattempo, era insorto nella giurisprudenza di legittimità. La S.C. argomenta la sua decisione sulla base dell' applicazione dell'art. 252 disp. att. c.c., invocandone il principio 198 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE circa l'introduzione di un nuovo termine termine di decadenza rispetto a quello vigente ante novella così disattenedendo, quell'orientamento giurisprudenziale contenuto in Sez. L, n. 10215/2014, Arienzo, Rv 630791, per il quale, ai fini dell'esercizio tempestivo della richiesta d'indennizzo, ove la conoscenza del danno irreversibile fosse stata anteriore al 1997 doveva trovare applicazione l'ordinario termine di prescrizione decennale anche se non completamente decorso al luglio 1997, ossia alla data di entrata in vigore della nuova legge. Le Sezioni Unite non hanno inteso considerare come eccezionale il nuovo termine di decadenza già previsto dall'art. 3 della l. n. 210 del 1992, per la proposizione della domanda amministrativa di ristoro dei danni conseguenti alle vaccinazioni, ma non espressamente riferibile anche ai pregiudizi da pratica trasfusionale, escludendo che, rispetto alla portata generale dell'art. 252 disp.att.c.c. sorga il divieto di applicazione in via analogica del termine prima non previsto. In tal modo, la decisione aderisce a quella giurisprudenza che, vede nell'art. 252 disp.att. c.c., una regola generale di disciplina della successione delle leggi nel tempo la S.C. ha ritenuto che il termine triennale di decadenza si attagli alle infezioni post-trasfusionali, ora previste dalla novella di cui alla legge n.238 del 1997, anche per le menomazioni contratte prima della entrata in vigore della nuova legge. Hanno ritenuto, perciò, sanando il contrasto, di pervenire ad un obiettivo di bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti nella fattispecie secondo un criterio di ragionevolezza e di equità [PAGANINI, 2015, 58] Non può, infatti, disconoscersi che la sollecitazione acceleratoria di un termine di decadenza più breve del diritto al ristoro per esiti epatopatici causati da pratica trasfusionale sia idoneo a garantire una certa stabilizzazione della pretesa indennitaria del singolo, nondimeno non emerge, secondo la S.C. quella compressione irragionevole del suo diritto, che si manifesta, invece, ove l'intervento sulla decadenza sia imprevedibile rispetto ad una eventuale e non imputabile inerzia dell'interessato il quale ragionevolmente aveva fatto affidamento su di un arco di tempo maggiore per azionare la pretesa indennitaria. Invero, l'interpretazione della regola di transizione – non derogata dalla legge n. 238 del 1997 – rispetto all'art. 252 disp. att. c.c., come istituto di portata generale - come già affermato da Corte costituzionale con la sentenza del 3 febbraio 1994, n. 20, contiene 199 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE un principio di transizione secondo il quale ove una nuova legge stabilisca per l'esercizio di un diritto un termine più breve di quello fissato dalla legge anteriore, quello nuovo trovi applicazione anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente, nonché alle prescrizioni ed usucapioni in corso, ma il nuovo termine decorre dalla data di entrata in vigore della legge che ne ha disposto l'abbreviazione. E' vero che l'articolo citato era funzionale a consentire il transito e l'armonizzazione del nuovo codice rispetto a quello del 1865, purtuttavia, è rimasta affermata nella giurisprudenza della S.C. la valenza generale del meccanismo de quo: Sez. U, n. 06173/2008, Miani Canevari, Rv 602255, Sez. L, n. 05811/2010, Stile, Rv. 613326; Sez. 1, n. 06705/2010, Zanichelli, Rv. 612481; Sez. L, n. 25746/2009, Curzio, Rv. 611499. Il principio sposato da Sez. U, n. 15352/2015, Di Cerbo, Rv. 636077, appare, dunque, del tutto congruo all'ipotesi decadenziale come fattispecie generale di subordinazione dell'esercizio di un diritto alla regola del tempo in funzione accelleratoria. E' vero che nella scelta operata entra in gioco anche un altro valore di pari livello che è quello dell'affidamento legittimo circa il tempo utile a disposizione dl singolo per esercitare il diritto stesso, ossia nella sicurezza dei rapporti giuridici da leggere alla luce dell'art. 3 della Costituzione, ma non in termini categorici, ad avviso della S.C. soprattutto ove si consideri che mentre lo stesso termine triennale era già previsto per gli esiti invalidanti delle vaccinazioni alcuna compressione temporale riguardava l'epatite post- trasfusionale nella normativa del 1992. Va segnalato, tuttavia, che sul principio di affidamento ad un termine di prescrizione più lungo rispetto a quello introdotto successivamente e più breve la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 69 del 2 aprile 2014 ha affermato che l'efficacia retroattiva della legge, trovi, comunque, un limite nel «principio dell'affidamento dei consociati nella certezza dell'ordinamento giuridico», e pertanto, «il vulnus arrecato al principio dell'affidamento» si risolve in irragionevolezza della nuova disposizione e comporta, di conseguenza, l'illegittimità della norma retroattiva ( fattispecie in tema di arretrati di ratei pensionistici). Qui, in effetti, il danneggiato poteva trovarsi di fronte ad nuovo termine decadenziale - introdotto solo nel 1997- rispetto ad un contagio insorto in epoca anteriore. Secondo Sez. U, n. 15352/2015, cit., il punto di equilibrio tra l'affidamento sul termine di prescrizione decennale ed il nuovo termine di decadenza triennale per i contagi contratti anteriormente 200 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE alla modifica normatica di cui alla l. n. 238 del 1997 ai fini della prestazione indennitaria sta, allora, nella decorrenza alla data del 28 luglio 1997 per la domanda di ristoro dell'infermità esitata dalla trasfusione, ove essa sia sorta anteriormente a detta data, ma con termine di decadenza che decorrerà dall'entrata in vigore della modifica legislativa. Dunque, una decisione intermedia tra chi riteneva che la novella si applicasse solo se la conoscenza della malattia fosse avvenuta successivamente all'entrata in vigore della l. n. 238 del 1997, rispetto a quella giurisprudenza che affermava, invece, che se la consapevolezza dell'infezione fosse stata antecedente al 1997 il termine applicabile sarebbe stato quello della prescrizione decennale. L'intervento delle S.U. persegue, così, anche un intento accelleratorio rispetto all'ipotesi della prescrizione decennale del diritto all'indennizzo. Del resto, la Corte Cost.con la decisione 27 ottobre 2006 n. 342 del 2006 aveva già affrontato il tema della ragionevolezza del termine triennale di cui all'art. 1, comma 9, della l. n. 238 del 1997, ai fini dell'equo indennizzo, rispetto a quello originale decennale di prescrizione applicabile ai danni da epatite causata da trasfusione ritenendola non fondata rispetto agli artt. 3 e 2 della Costituzione in virtù del carattere solidaristico della prestazione indennitaria che può tollerare una ragionevole compressione del diritto, con la conseguenza che «Alla luce delle esposte considerazioni, si deve ritenere che la disposizione impugnata non ecceda l'ambito delle scelte spettanti al legislatore in materia di diritti sociali». 5. Indennizzo e risarcimento. Stabilito il principio diventa fondamentale verificare i parametri d'individuazione della fattispecie dalla quale far decorrere il concetto di «contrazione di epatite post- trasfusionale» di cui alla modifica normativa della legge n. 238 del 1997, ai fini della decorenza del termine triennale, considerata anche la lungo latenza di simili eventi infettivi. Come noto, la pretesa indennitaria del danneggiato conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV si fonda sulla violazione di un obbligo solidaristico che promana dallo Stato e che si fonda, pertanto, su di un titolo diverso da quello della responsabilità aquiliana per i danni derivanti da emotrasfusione che potrebbe, semmai, compensarsi con quella risarcitoria, Sez. 6-3, n. 20111/2014, De Stefano, Rv. 632976: « secondo il principio della compensatio lucri cum damno, quale limite legale rispetto alla locupletazione di 201 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE una duplice voce di ristoro per effetto dello stesso evento lesivo» con la conseguenza che la prestazione indennitaria già conseguita dal danneggiato può essere dedotta da quanto liquidabile a titolo di risarcimento del danno prevenendo, così, un ingiustificato arricchimento determinato dal porre a carico della P.A. due diverse prestazioni patrimoniali in favore dello stesso soggetto ed in conseguenza del medesimo fatto produttivo di danno: Sez. 3, n. 06573/2013, De Stefano, Rv. 625543. Ciò è tanto vero che la S.C. ha affermato con Sez. 6-3, n. 21257/2014, De Stefano, Rv. 632916 che «il riconoscimento dell'indennizzo può comportare, a tutto concedere, l'ammissione, da parte dello Stato che procede alla sua erogazione, della sussistenza dell'elemento oggettivo della diversa e ben più ampia fattispecie invocata dal danneggiato ai sensi dell'art. 2043 c.c.: ma, in modo intuitivo, nulla può comportare in ordine all'elemento soggettivo della colpa (se non del dolo), riguardo al quale resta quindi del tutto neutro e tanto da non costituire alcuna altra agevolazione probatoria in favore del danneggiato». Del resto, Sez. L, n. 07912/2015, Buffa, Rv. 635121, ha sottolineato che « In ipotesi di ritardata corresponsione dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, previsto dall'art. 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, non è configurabile il risarcimento di un danno non patrimoniale, essendo il valore inerente la persona già tutelato mediante l'erogazione dello stesso indennizzo, nonché dei relativi accessori». Rimane, pertanto, confermata la natura onnicomprensiva dell'indennizzo in uno con la sua originaria impronta solidaristica, secondo la lettura che la Corte Costituzionale con la decisione del 27 ottobre 2006, n. 342 sopra citata ne ha dato. 6. Decorrenza del termine di decadenza. In sostanza, dunque, l'indennizzo non appare sovrapponibile alla struttura del danno aquiliano, compreso, ovviamente, quello non patrimoniale. Ciò premesso va, però, considerato, che l'art. 1, comma 9, della legge n. 238 del 1997 nel novellare l'art. 3 della l. n. 210 del 1992 ha fissato ai fini dell'esercizio del diritto indennitario il termine perentorio di tre anni per le epatiti post-trasfusionali, così ancorando la decadenza del diritto ad un dato temporale corrispondente al giorno in cui il danneggiato ha avuto avuto conoscenza del danno irreversibile. Ne consegue che, a tal fine, questo momento potrebbe non coincidere con quello della patologia conclamata. Di sicuro rilievo, - quantomeno sotto il profilo oggettivo e non dell'imputabilità – potrebbe sovvenire il criterio elaborato da 202 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE Sez. U, n. 00576/2008, Segreto, Rv. 600899, ossia il dies a quo verrebbe a decorrere non già « dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche ». Ciò è tanto vero che ai fini della prescrizione quinquennale dell'azione aquiliana il termine ultimo corrisponde a quello di proposizione della domanda d'indennizzo. Questo parametro terrebbe conto della lungo latenza dell'infezione e della sua sintomaticità che può rimanere silente per periodi apprezzabili rispetto alla pratica sanitaria della trasfusione con sangue infetto e del rapporto causale tra trasfusione ed evento dannoso. La stessa dottrina, invero, a prescindere dal problema dell'imputabilità che riguarda esclusivamente la responsabilità ex art. 2043 c.c., sottolinea che la laconicità dell' indicazione sulla data di conoscenza della lesione epatopatica, ad onta della centralità del problema, rispetto ai termini perentori fissati dalla legge, impone di considerare che non sempre la conoscenza della lesione irreversibile è agevolmente desumibile dalla documentazione sanitaria in possesso del danneggiato [RUBINO, cit., 63 e 185 e ss.; LA MONICA, 2006, 469 e ss.]. La contiguità del tema della consapevolezza delle conseguenze dannose derivate dal contagio rispetto all'azione aquiliana si giustifica con la natuara della pretesa indenniataria verso lo Stato: Sez. L, Blasutto, n. 19811/2013, che ne evidenzia la natura di diritto soggettivo avente per oggetto una prestazione economica a carattere assistenziale, in continuità con Sez. U, n. 10418/2006, Picone, Rv. 589102 che ne afferma il carattere solidaristico in armonia con l'art. 2 Cost. e di risposta al bisogno ex 38, comma 2, Cost., secondo il principio della socializzazione del danno, come ritenuto anche da Sez. L, n. 10876/2014, Lorito, Rv. 630921. Deve, inoltre, trattarsi di una lesione stabilizzata ed inquadrabile in una delle otto categorie previste dalla tabella allegata alla legge. In proposito Sez. L, n. 19811/2013, cit., Blasutto, non massimata la Cassazione ha chiarito che il termine di decadenza decorrere solo da quando «il soggetto contagiato abbia avuto conoscenza di essere portatore di una infermità classificabile in una delle otto categorie della tabella A allegata al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834». 203 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE Il problema delle patologie epatiche lungo latenti sta in ciò: che ove non stabilizzate, eppur consistenti in un danno permanente, potrebbero risultare al di sotto dell'ottava categoria con la conseguenza che, nel caso di malattia silente e senza sintomi riconoscibili, l'indennizzo potrebbe non essere attribuibile perché non vi sarebbe il superamento utile di quel livello d'infermità di cui alla tabella delle infermità classificabili che danno, a loro volta, diritto al ristoro indennitario. Ne consegue la centralità di quella consapevolezza rispetto all'infezione e alla sua diagnosi quale conseguenza della trasfusione da cui decorre il termine di decadenza previsto dall'art. 3, della legge n. 210 del 1997 novellato dalla legge n. 382 del 1997: Sez. 6-L, n. 07304/2011, Toffoli, Rv.616435. In questo senso appaiono spendibili le elaborazioni giurisprudenziali riscontrate nel parallelo profilo della responsabilità extracontrattuale per danni derivati dalla prtatica trasfusionale. Infatti, in ambedue le situazioni giuridiche attive, emerge l'elemento materiale del trascorrere del tempo rispetto all'esercizio del diritto, governati secondo i principii codicistici da decadenza e prescrizione, i quali, per vero, si differenziano così come delineate dall'art. 2964 c.c. soltanto per la circostanza che la prima non potrà essere interrotta o sospesa che nei casi espressamente indicati dalla legge, a differenza della prescrizione. Nondimeno, non potrebbero mutare i parametri di riferimento temporali rispetto al rapporto causale, Sez 3, n. 20999/2012, Barreca, secondo la quale non è corretto sostenere che « la prescrizione dovrebbe decorrere da quando il danneggiato ha conosciuto il proprio stato di contagio perché tale circostanza potrebbe non coincidere con la consapevolezza necessaria a ricondurre l'epatopatia alla pregressa trasfusione, ossia deve risultare effettivamente acquisita la consapevolezza circa la derivazione causale della malattia dalle trasfusioni effettuate, senza trascurare le evidenze scientifiche disponibili in quel momento ». Se ne dovrebbe trarre la conseguenza, secondo l'elaborazione giurisprudenziale sull'azione aquiliana in tema di contagio da emotrasfusione che come affermato da Sez. 3, n. 28464/2013, Segreto, Rv. 629132, sia pure con riferimento al termine di prescrizione quinquennale: «..che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, primo comma, cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche» 204 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE sempre che la conoscenza utile, ai fini dell'esercizio del diritto non emerga aliunde. 205 CAP. XI - IL DANNO DA EMOTRASFUSIONI: INDENNIZZO E TERMINE DI DECADENZA ALLA LUCE DELL'EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE Bibliografia PAGANINI, Danni da emotrasfusione: le Sezioni Unite decidono sulla applicazione retroattiva dei termini decadenziali, in Diritto & Giustizia 2015, 58. DRAGONE, Responsabilità medica danni da trasfusione e da contagio, Milano, 2007, 338. RUBINO, Il danno da emotrasfusioni (e da somministrazione di emoderivati), Milano, 2008, 62. 206 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO CAPITOLO XII I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO (di Milena d'Oriano) SOMMARIO: 1. Le controversie previdenziali in materia di amianto. - 2. La natura del beneficio contributivo. - 3. La domanda amministrativa. - 4. La decadenza. - 4.1. La decadenza generale-triennale. - 4.2. La decadenza speciale-semestrale. - 5. La prescrizione. 1. Le controversie previdenziali in materia di amianto. L'inalazione di fibre di asbesto, anche dopo un lungo intervallo di latenza, provoca gravi patologie dell'apparato respiratorio e neoplasie varie; sebbene la lavorazione e l'utilizzo di tale materiale siano stati banditi da tempo, le prime e principali vittime dell'amianto continuano ad essere i lavoratori. Le controversie previdenziali promosse dai lavoratori esposti ad amianto attengono all'applicazione della legislazione che ha loro riconosciuto specifici benefici pensionistici. In materia, a partire dalla l. 27 marzo 1992, n. 257, di attuazione della direttiva n. 477/83/CEE, si sono succeduti diversi interventi legislativi che hanno comportato, e ancora comportano in quanto la produzione normativa non accenna ad arrestarsi, con le ultime novità ascrivibili ai commi da 115 a 117 dell'articolo unico della l. 23 dicembre 2014, n. 190, problemi interpretativi che ne rendono difficoltosa l'applicazione. Benché siano trascorsi decenni dall'introduzione delle prime misure di sostegno per i lavoratori esposti al rischio amianto, sussistono ancora oggi questioni aperte in tema di domanda amministrativa, decadenza, prescrizione, disciplina sostanziale, ambito applicativo soggettivo e oggettivo, diritto intertemporale. La normativa in tema di amianto è di natura premiale, in quanto prevede il riconoscimento figurativo aggiuntivo di anzianità contributiva, con attribuzione all'assicurato, al momento del collocamento a riposo, di periodi di anzianità virtuali che si aggiungono all'anzianità effettivamente maturata ai fini previdenziali. La cd. anzianità convenzionale ha di norma un effetto utile, sia per il diritto sia per la misura della pensione, pur senza collegamento con il versamento di contribuzione; consente dunque una maturazione anticipata del diritto a pensione, per chi è ancora in servizio, mentre chi è già titolare di un trattamento pensionistico, 207 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO senza aver ancora raggiunto il massimo della contribuzione versata, ne beneficia con una rideterminazione della pensione in rapporto al sopravvenuto mutamento della posizione contributiva. [C. MAROTTA, Napoli, 2015]. Attualmente coesistono, in linea di massima, due diverse discipline, quella più favorevole, che consente il riconoscimento della rivalutazione contributiva di cui all'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992, con moltiplicazione per 1,5 del periodo di esposizione qualificata, cioè superiore alle 100 fibre/litro, ai fini del conseguimento del diritto alla pensione, e beneficio anche sul quantum, e quella più restrittiva, di cui all'art 47 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. dalla l. 24 novembre 2003, n. 326, entrato in vigore dal 2 ottobre 2003, che prevede la sola maggiorazione del trattamento pensionistico, con moltiplicazione per 1,25 del periodo di esposizione qualificata ai soli fini della determinazione dell'ammontare della pensione; molteplici e complesse le norme che prevedono eccezioni alla mera successione nel tempo delle due normative. Con le ultime pronunce in materia, la S.C. ha ulteriormente consolidato i suoi più recenti orientamenti in tema di configurabilità del diritto alla rivalutazione contributiva derivante dall'esposizione all'amianto come diritto autonomo, rispetto al diritto alla pensione, e in tema di necessità della previa presentazione di specifica istanza all'INPS, sia ai fini della proponibilità della domanda giudiziale di rivalutazione contributiva che ai fini della decorrenza del termine di decadenza triennale di cui all'art 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639; innovative invece le posizioni assunte in relazione alla decadenza speciale dall'azione giudiziaria, prevista dall'art. 47, comma 5, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. in l. n. 326 del 2003, ed in tema di prescrizione. 2. La natura del beneficio contributivo. In Sez. 6-L, n. 02351/2015, Marotta, Rv. 634542, si cristallizza il principio dell'autonomia del diritto alla rivalutazione contributiva, derivante dall'esposizione all'amianto, rispetto al trattamento pensionistico sul quale può incidere. Posto che nel sistema assicurativo - previdenziale la posizione assicurativa, nonostante la sua indubbia strumentalità, costituisce una situazione giuridica dotata di una precisa individualità, che può spiegare effetti molteplici, anche successivamente alla data del pensionamento, e può costituire oggetto di un autonomo accertamento, secondo un orientamento che può dirsi ormai 208 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO consolidato in sede di legittimità, analogo carattere va riconosciuto al beneficio contributivo in materia di amianto, autonomamente disciplinato ed il cui riconoscimento richiede un'apposita domanda amministrativa. Secondo tale ricostruzione chi, pensionato o meno, agisce per ottenere il riconoscimento della rivalutazione contributiva non lo fa per rivendicare una componente essenziale del credito pensionistico, da liquidarsi ovvero già liquidato parzialmente, bensì per chiedere qualcosa di nuovo e di autonomo. Non si tratta dunque di una richiesta di esatto adempimento di una prestazione previdenziale riconosciuta solo in parte, ma della possibilità di far valere una posizione giuridica ricollegabile a "fatti", quali l'esposizione qualificata e la durata dell'esposizione stessa, in relazione ai quali viene ad essere determinato con la maggiorazione contributiva, il tempo ovvero l'ammontare della pensione, ancorata a presupposti propri e distinti da quelli in presenza dei quali era sorto, o sarebbe sorto in base ai criteri ordinari, il diritto al trattamento pensionistico. La caratteristica di fattispecie autonoma costitutiva di un diritto si evince anche dalla facoltà, pacificamente ammessa, di far valere in giudizio la pretesa all'accertamento dell'effettiva consistenza della posizione contributiva, in relazione alla rivalutabilità dei contributi accreditati nei periodi lavorativi di esposizione all'amianto, e ciò separatamente rispetto al diritto a pensione, essendo configurabile un interesse, concreto ed attuale dell'assicurato a tale domanda; né tale autonomia viene meno quando la richiesta di rivalutazione contributiva è contestuale alla domanda di pensione, restando sempre distinti gli elementi costitutivi delle corrispondenti situazioni giuridiche soggettive. L'opzione sistematica della natura autonoma del beneficio della rivalutazione contributiva ha delle rilevanti ripercussioni in tema di decadenza dall'azione giudiziale per far valere tale diritto e di prescrittibilità dello stesso e costituisce la premessa comune di tutte le principali decisioni in materia della Corte di legittimità. 3. La domanda amministrativa. Sez. 6-L, n. 11574/2015, Arienzo, Rv. 635716, ha poi efficacemente ribadito che, per ottenere i benefici previdenziali ricollegabili all'esposizione all'amianto, è innanzitutto necessaria una domanda amministrativa. Anche se la l. n. 257 del 1992 non prevede espressamente l'obbligo di presentazione della domanda amministrativa, a differenza di quanto dispone, con riferimento all'I.N.A.I.L., l'art. 47 209 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO del d.l. n. 269 del 2003, la necessità della domanda amministrativa all'ente cui compete il riconoscimento del diritto, e quindi l'erogazione dell'adeguamento del trattamento pensionistico conseguente alla positiva verifica della sussistenza dei presupposti per l'anzianità convenzionale rivendicata, è ricavabile dal sistema. Salvo casi specifici previsti dalla legge, in cui l'Istituto previdenziale è tenuto ad attivarsi autonomamente per la liquidazione, le prestazioni previdenziali ed assistenziali non vengono mai erogate d'ufficio dall'Ente, ma soltanto se l'interessato abbia presentato l'apposita domanda ed avviato il procedimento amministrativo finalizzato alla valutazione di tutti i requisiti richiesti. Dalla presentazione della domanda conseguono poi importanti effetti sostanziali, quali l'individuazione della decorrenza della prestazione e la decorrenza degli interessi legali, ma anche effetti processuali, in quanto senza la presentazione della domanda amministrativa e dei ricorsi amministrativi, la domanda giudiziale difetta di un presupposto essenziale. In numerose occasioni la Corte di legittimità ha ormai affermato il principio - in tema di combinato disposto degli artt. 443 c.p.c. e 148 disp. att. c.p.c., e di rapporto tra procedimento amministrativo ed azione giudiziaria - che la preventiva presentazione della domanda amministrativa costituisce un presupposto dell'azione, la cui mancanza determina non già la mera improcedibilità ma la radicale improponibilità della domanda giudiziale (tra le tante vedi Sez. L, n. 02063/2014, Venuti, Rv. 629924; Sez. L, n. 26146/2010, Napoletano, Rv. 629924; Sez. L, n. n. 00732/2007, Roselli, Rv. 594245; Sez. L, n. 05149/2004, Vidiri, Rv. 571093). La necessità della domanda amministrativa in tutte le ipotesi in cui si controverti di rivalutazione dei contributi per l'esposizione ad amianto è stata da ultimo ripetutamente affermata dalla Suprema Corte (cfr. tra le più recenti Sez. 6-L, n. 07934/2014, Mancino, Rv 630093 e Sez. 6-L, n. 16592/2014, Marotta, Rv. 632330), in base alla considerazione che i presupposti del beneficio, quali l'esposizione all'amianto e la relativa durata, sono fatti la cui esistenza è nota soltanto dall'interessato, che pertanto è tenuto a portarli a conoscenza dell'ente con apposita domanda amministrativa. Può dirsi, dunque, definitivamente superato l'iniziale orientamento espresso in motivazione da Sez. L, n. 21862/2004, D'Agostino, Rv. 578066, e da Sez. L, n. 15008/2005, Picone, Rv. 582633, secondo cui nel regime di cui al comma 8, dell'art. 13 della l. n. 257 del 1992, non fosse prevista una domanda amministrativa 210 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO per far accertare il diritto alla rivalutazione dei contributi previdenziali in conseguenza dell'esposizione all'amianto. Trattandosi di un beneficio fondato su presupposti diversi e speciali rispetto alla normale contribuzione versata e computabile ai fini del trattamento pensionistico, non è idonea la semplice domanda di collocamento in pensione ma occorre che venga presentata, prima o dopo il pensionamento, una domanda finalizzata in modo specifico alla richiesta dei benefici amianto. Nella domanda di pensione non è infatti automaticamente ricompresa la richiesta di riconoscimento della rivalutazione contributiva; sebbene sia gli accrediti contributivi afferenti la posizione del lavoratore per effetto del rapporto di lavoro, sia l'incremento figurativo dei medesimi per effetto dell'esposizione all'amianto, incidano sulla medesima prestazione pensionistica, si tratta di contributi che presentano caratteristiche e presupposti totalmente differenti. I primi sono soggetti alla regola dell'automatismo e vanno accreditati in virtù del rapporto assicurativo con l'Istituto, non occorrendo alcun procedimento ad hoc né alcuna domanda dell'interessato (salvo il limite della prescrizione dei contributi stessi che vanno accreditati in quanto ancora dovuti). I secondi, invece, non sono assoggettati ad alcun automatismo, per cui non basta aver lavorato, né basta essere stati esposti, per avere l'accredito, ma occorre accertare autonomamente il presupposto dell'esposizione, attraverso un complesso procedimento che inizia proprio con la domanda dell'interessato. [ R. RIVERSO, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989]. Come poi chiarito da Sez. L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805, la domanda amministrativa va certamente presentata all'I.N.P.S., unico ente legittimato a concedere il beneficio previdenziale in parola e non può ritenersi fungibile quella inoltrata all'I.N.A.I.L., attesa la loro diversità funzionale : la domanda all'I.N.P.S. è, infatti, necessaria per il riconoscimento del diritto al beneficio previdenziale, quella rivolta all'I.N.A.I.L. mira unicamente a fornire al lavoratore la prova dell'esposizione all'amianto. ( Sul difetto di legittimazione passiva dell'I.N.A.I.L. nelle controversie in tema di benefici amianto Sez. 6-L, n. 16592/2014, Marotta, Rv. 632331). Il fatto che il legislatore, all'art. 3, comma 132, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, abbia fatto salve le domande avanzate all'I.N.A.I.L. al fine di regolare il regime transitorio non è significativo di una equiparazione tra l'una e l'altra istanza, poiché il 211 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO riferimento alle richieste presentate all'I.N.A.I.L. ha la sola finalità di consentire il recupero del vecchio regime in favore di chi si è comunque attivato entro una certa data per ottenere il beneficio, mentre per ottenere la prestazione occorre comunque avere fatto domanda amministrativa all'I.N.P.S., unico soggetto preposto ad attribuirla o negarla; la domanda all'I.N.P.S. è poi sempre necessaria anche per coloro che, rientrando nella disciplina di cui alla l. n. 326 del 2003, che prevede a pena di decadenza speciale l'obbligo di domanda all'I.N.A.I.L., abbiano presentato la domanda all'I.N.A.I.L. nel termine ivi previsto. 4. La decadenza. In materia di benefici previdenziali da amianto operano due tipologie di decadenza: quella generale, prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 e succ. mod., riferita alla domanda giudiziale, e quella speciale, prevista dall'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003 e dal relativo d.m. attuativo del 27/10/04, relativa alla domanda da rivolgersi all'I.N.A.I.L., entrambe di natura sostanziale. 4.1. La decadenza generale-triennale. Sez. L, n. 17798/2015, Pagetta, Rv. 636805, in linea con Sez. 6-L n. 13398/2015, Pagetta, Rv. 635838, e Sez. 6-L, n. 07934/2014, Mancino, Rv. 630093, precedute da plurime decisioni a partire da Sez. L, n. 12685/2008, Roselli, riafferma il principio che la decadenza dall'azione giudiziaria prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, nel testo riformulato dall'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, conv. con modif. dalla l. 14 novembre 1992, n. 438, trova applicazione anche per le controversie aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto alla maggiorazione contributiva per esposizione all'amianto, siano esse promosse da pensionati ovvero da soggetti non titolari di alcuna pensione. L'applicabilità di tale decadenza consegue alla natura autonoma del diritto: secondo la S.C. non vi sarebbe ragione di non applicarla poiché siamo in presenza di un diritto autonomo, che opera sul montante contributivo, ed in questi casi non si tratta di rivalutare l'ammontare dei singoli ratei bensì i contributi previdenziali necessari a calcolare la pensione originaria. Posto che l'art. 47 riformulato fa riferimento alle "prestazioni previdenziali", e quindi comprende tutte le domande giudiziarie in cui venga in discussione l'acquisizione del diritto a pensione ovvero la determinazione della sua misura alla luce della posizione contributiva, va ritenuto incluso nella previsione di legge anche 212 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO l'accertamento relativo alla consistenza dell'anzianità contributiva utile, sulla quale incide il sistema più favorevole di calcolo della contribuzione in cui si sostanzia il beneficio previdenziale previsto dall'art. 13, comma 8, della l. n. 257 del 1992. Colui che presenta una domanda amministrativa per far valere il diritto all'anzianità convenzionale è esposto alla decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970 in quanto non fa valere il diritto al ricalcolo della prestazione pensionistica, ovvero alla rivalutazione dell'ammontare dei singoli ratei erroneamente liquidati in sede di determinazione amministrativa, bensì il diritto a un beneficio che, seppure previsto dalla legge a fini pensionistici e, dunque, intimamente collegato alla pensione, poiché strumentale ad agevolarne l'accesso, ovvero, nel caso dei già pensionati, ad ottenerne un arricchimento, ove la contribuzione posseduta sia inferiore al tetto massimo, è dotato di una sua specifica individualità e autonomia. Per lo stesso motivo viene anche escluso che per i già pensionati ci si trovi in presenza di una controversia che abbia ad oggetto l'esatto adempimento di prestazioni già adempiute solo in parte, e che in caso di domanda giudiziale intesa ad ottenere il beneficio contributivo della rivalutazione per esposizione all'amianto possa trovare applicazione la disciplina della decadenza c.d. mobile, atteso che non si tratta di stabilire quale sia il giusto importo dei ratei di prestazione pensionistica, e quindi di rivalutare l'ammontare di singoli ratei, bensì di verificare se i contributi già versati, ed utilizzati per calcolare la pensione originaria, debbano o meno essere rivalutati in applicazione delle speciali disposizioni in tema di esposizione qualificata ad amianto. Si evidenzia ancora nelle numerose pronunce che, applicata la decadenza, non sussiste alcuna violazione dell'art. 38 Cost., in quanto il soggetto non perde il diritto alla pensione, che resterà calcolata in base all'anzianità contributiva maturata secondo gli ordinari criteri, ma solo il diritto alla rivalutazione dei contributi e all'applicazione del più favorevole sistema di calcolo della contribuzione versata nel periodo di esposizione all'amianto. Costituisce altro principio consolidato in materia quello affermato in Sez. 6-L, n. 08926/2011, Bandini, Rv. 616914 (e ripreso da Sez.6-L, n. 16592/2013, La Terza, n. 04409/2014, Garri, n. 17500/2014, Blasutto, e n. 05681/2015, Mancino, ed altre), secondo cui, intervenuta la decadenza, al fine di non vanificarne gli effetti e la funzione, è irrilevante e non consente riconoscimento della prestazione la riproposizione, in epoca posteriore alla 213 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO maturazione della stessa, di una nuova domanda diretta ad ottenere il medesimo beneficio previdenziale della rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto, La tesi dell'autonomia del diritto alla rivalutazione dei contributi ed il granitico orientamento della Suprema Corte sull'applicabilità della decadenza cd. tombale in tema di amianto non sono da tutti condivisi. [ S. L. GENTILE, Foro It., 2012, I, 2101 e Giuffrè 2015; P. GHINOY, 2012, 738; R. Riverso, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989]. Si contesta, in particolare, che possa esistere una prestazione economica autonoma e diversa dalla mera eventuale maggior misura della pensione, ritenendo che si sarebbe comunque in presenza di contributi già versati regolarmente dal datore di lavoro e accreditati dall'INPS, dei quali manca solo la corretta attribuzione contabile con una ripercussione esclusivamente sull'ammontare dei ratei della pensione maturati. Si afferma che non sarebbe possibile parlare di un diritto autonomo, così come non lo si fa ogni qual volta si discute del computo di ciascun mese di anzianità di servizio o dell'applicazione delle molteplici leggi che disciplinano le percentuali e modalità di accredito contributivo; che l'unico bene giuridico è la posizione assicurativa, cioè il montante contributivo, già accreditato o comunque spettante, in relazione al quale il lavoratore agisce a tutela in quanto bene strumentale al trattamento pensionistico, e non diritto autonomo rispetto ad esso, che nasce ex lege, per effetto soltanto del fatto materiale dell'espletamento di lavoro in regime di subordinazione, senza la necessità di esplicite manifestazioni di volontà e di formalità amministrative, ed esiste sino a quando la posizione assicurativa cessa di produrre effetti giuridici. Si evidenzia che la rivalutazione contributiva per esposizione all'amianto non comporta soltanto una rivalutazione dei contributi necessari per calcolare l'importo della pensione originaria (essendo tale diritto previsto soltanto dall'art. 47 della l. n. 326 del 2003), ma anche il diritto al conseguimento anticipato della pensione (per chi avesse maturato il diritto ai più sostanziosi benefici previsti dall'art.13, della l. n. 257 del 1992), per cui la decadenza colpisce anche questo diritto al pensionamento anticipato ; che la distinzione tra aumento dei ratei ed aumento dei contributi lascia molto perplessi in quanto è evidente che l'aumento della contribuzione non è mai un diritto fine a sé stesso, ma serve appunto per incidere sul diritto a pensione e quindi di conseguenza sui ratei, presenti e futuri; che la distinzione è solo terminologica perché, se si guarda ai 214 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO contributi, la rivalutazione per esposizione amianto deve considerarsi diritto ad un'autonoma e speciale contribuzione mentre, se si guarda alla pensione, si tratta del diritto all'aumento della pensione, o all'anticipazione del suo conseguimento, attraverso quei contributi. Si insiste poi sull'irrilevanza della classificazione come diritto autonomo o accessorio in quanto si esclude a priori che la decadenza rientri tra le ipotesi disciplinate dall'art. 47 già cit.: stante il richiamo ivi contenuto ai "ratei pregressi" ed alla domanda giudiziale relativa agli stessi, si ritiene che l'istituto della decadenza sostanziale si riferirebbe solo a prestazioni che si traducono in un'erogazione periodica, e sarebbe quindi del tutto inapplicabile ai presupposti di computo di tale erogazione, qual è il diritto alla rivalutazione contributiva. [R. RIVERSO, RGLPS, 2013, 1, 655 e DPL, 2013, 15, 989]. Si rileva ancora la contrarietà dell'effetto tombale di tale decadenza, che si ripercuote su tutti i ratei pregressi e futuri, con i principi costituzionali più volte richiamati dalla Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza 3 giugno 1992, n. 246, a tutela dell'intangibilità del diritto a pensione che viene più volte definito fondamentale, irrinunciabile e imprescrittibile. [P. GHINOY, 2012, 738]. In verità, quanto ai profili di costituzionalità, va ricordato che il Giudice delle leggi ha in varie occasioni ridimensionato le sue stesse affermazioni (ad es. nelle sentenze 15 luglio 1985, n. 203, e 22 luglio 1999, n. 345), sia ammettendo che il diritto a pensione, pur coperto da garanzia costituzionale, possa essere sottoposto a limiti, sempre che questi siano compatibili con la funzione del diritto e non si traducano nella esclusione dell'effettiva possibilità di esercitarlo, sia non ritenendo in contrasto con gli artt. 31 e 37 della Cost. norme che non incidevano sull'an del diritto alla pensione, ma solo marginalmente sul quantum, laddove il mancato aumento del trattamento previdenziale non valesse a far considerare tale emolumento insufficiente ai fini della tutela imposta dalle norme costituzionali (vedi ad es. in Corte cost. 26 febbraio 2010, n. 71). La posizione della S.C., secondo cui l'effetto della decadenza determina la perdita irreversibile del diritto alla rivalutazione contributiva, e quindi solo della parte aggiuntiva della pensione che a tale rivalutazione sarebbe conseguita, sembra quindi del tutto conforme alla citata lettura costituzionale in quanto la componente della pensione, che in tal modo non viene acquisita, ne costituisce 215 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO una quantità marginale, e comunque non tale da farne scendere l'ammontare al di sotto della soglia costituzionalmente garantita. Si segnala infine una rivisitazione interpretativa che, al fine di contenere gli effetti decadenziali, recupera una sorta di decadenza mobile, diversa cioè da situazione a situazione, prendendo in considerazione le diverse condizioni soggettive degli istanti, e distingue il lavoratore che non abbia ancora maturato il diritto alla pensione, che ha dunque un interesse a proporre una domanda soltanto accertativa del diritto alla rivalutazione contributiva, con efficacia di giudicato, dal lavoratore che ne è già titolare, e quindi domanda anche il pagamento della pensione nella maggiore misura che gli spetta. [S. L. GENTILE, Foro It., 2012, I, 2101 e Giuffrè 2015]. Precisamente si sostiene che, nel caso di domanda proposta da un pensionato per il ricalcolo del trattamento corrisposto dall'Inps senza la specifica addizione spettante per il rischio amianto, si introduce una controversia di riliquidazione non distinguibile dalle altre aventi la medesima finalità incrementativa per motivi diversi, sia che il ricorso venga impostato proponendo una sola domanda, che distinguendo formalmente quella accertativa da quella di condanna, per cui si dovrebbe applicare l'art. 38, comma 1, lett. d), punto 1, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, avente ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte. Da ciò deriverebbe: 1) l'esclusione della necessità di una domanda amministrativa, sia perché la materia del contendere è l'importo di una pensione già chiesta all'Inps e in corso di erogazione, sebbene in misura inesatta per difetto, sia perché la peculiare decorrenza del termine decadenziale «dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte», non sarebbe compatibile con l'attivazione di un'altra fase amministrativa ante causam; 2) il computo, a partire dal dies a quo individuabile mediante lo stesso art. 38, soltanto dei tre anni della decadenza pensionistica vera e propria, senza tenere conto dei tempi della procedura amministrativa pregressa (300 gg.) ormai conclusa e superata dal pagamento dei ratei in esecuzione; 3) la perdita, ove la decadenza sia maturata e venga accertata, della quota addizionale per l'esposizione all'amianto, limitatamente alle mensilità ultratriennali della pensione, e non anche per quelle infratriennali e per quelle future. In caso di domanda del lavoratore non pensionato, finalizzata esclusivamente alla verifica e alla dichiarazione del beneficio 216 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO contributivo da amianto, si esulerebbe, invece, dall'ambito operativo dell'art. 38 già cit. per cui occorrerebbe sempre una specifica istanza amministrativa e andrebbe applicata la decadenza triennale di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, da conteggiare in sequenza dopo la conclusione dell'iter amministrativo; se tuttavia si verificasse la decadenza per superamento di tale termine l'effetto non sarebbe totalmente estintivo del diritto ma, per il principio della insopprimibilità del diritto alla pensione in tutte le sue componenti, la decadenza colpirebbe solo il diritto ai ratei di pensione relativi ai periodi di tempo anteriori alla domanda stessa. 4.2. La decadenza speciale-semestrale. Sicuramente innovativo l'orientamento espresso da Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230, in tema di decadenza dall'azione giudiziaria, prevista dall'art. 47, comma 5, del d.l. n. 269 del 2003, conv. con modif. dalla l. n. 326 del 2003, definita speciale in quanto tipica di questa sola fattispecie, che ha imposto a pena di perdita del beneficio, la presentazione di una domanda all'INAIL entro il termine di 180 giorni dalla pubblicazione del decreto ministeriale attuativo. Il decreto ministeriale, adottato il 27.10.2004, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17.12.2004, per cui il suddetto termine per la presentazione della domanda all'I.N.A.I.L. è venuto a scadere il 15 giugno 2005. Sull'ambito applicativo del nuovo termine decadenziale non si registra un unanime orientamento della Corte di legittimità. Si è posto, infatti, il problema se questo termine di decadenza dovesse operare per tutti i benefici previdenziali amianto, sia per quelli più favorevoli stabiliti dall'art.13 della l. n. 257 del 1992, sia per quelli più ridotti stabiliti dall'art. 47 della l. 326 del 2003 (di conversione del d.l. n. 269 del 2003), come previsto testualmente nell'ultimo inciso del decreto attuativo, o se invece ne dovesse essere esclusa l'applicazione per tutti coloro che in base alla disciplina transitoria, anche dopo le modifiche del 2003, avessero conservato il diritto all'applicazione della previgente disciplina. Secondo Sez. L., n. 08453/2014, Lorito, seguita da Sez. L., n. 08661/2014 e n. 09095/2014, Bandini; n. 08904/2014 e n. 08973/2014, Lorito; n. 08903/2014 e n. 09069/2014, Doronzo; n. 09469/2014, Patti, ed altre tutte del 2014, la riforma del 2003 ha introdotto l'obbligo di presentare la domanda di riconoscimento dei benefici all'I.N.A.I.L. nel termine fissato, a pena di decadenza, "per tutte le categorie di lavoratori interessati", e poiché il d.m. 27 ottobre 217 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO 2004, al fine di individuare i soggetti contemplati in quest'ultima disposizione, ha riprodotto la dizione utilizzata all'art. 3, comma 132, della l. 24 dicembre 2003 n. 350 , non si pone alcun problema di una sua eventuale disapplicazione. Andando di diverso avviso Sez. 6-L, n. 14895/2015, Pagetta, Rv. 636230, che segue un orientamento inaugurato da Sez. 6-L, n. 24998/2014, Marotta, e riaffermato in Sez. 6-L, n. 05928/2015 e n. 07885/2015, Mancino, e da Sez. 6-L, n. 14903/2015, Arienzio, ritiene invece che la decadenza in oggetto si applicherebbe soltanto nei confronti dei lavoratori rientranti nell'ambito applicativo della riforma del 2003, perché la salvezza delle previgenti disposizioni, prevista in alcuni casi, non riguarderebbe solo la disciplina sostanziale dei benefici ma anche gli adempimenti formali per il loro conseguimento. Ne conseguirebbe che, in tutti i casi ricadenti nel regime previgente in virtù di espressa previsione di legge, ed in particolare per i lavoratori esclusi in virtù del comma 6 bis dell'art. 47 della l. n. 326 del 2003, non opererebbe la decadenza "speciale" di cui al d.l. n. 269 del 2003 riferita alla domanda all'I.N.A.I.L., ma solo quella "generale" di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, riferita alla domanda all'I.N.P.S. Quanto poi al d.m. 27.10.2004, si osserva che lo stesso, quale fonte regolamentare meramente attuativa, non può che muoversi nel solco tracciato dalla legge per cui, nella parte in cui, riferendo il termine di 180 giorni anche ai lavoratori ai quali si applica la disciplina previgente, ha introdotto un istituto eccezionale in contrasto con la fonte primaria, va necessariamente disapplicato. Tale ultima ricostruzione è stata già criticata affermando che un conto è la individuazione dei soggetti che sono stati salvati dalle modifiche restrittive, altro è la questione di coloro che devono presentare domanda all'INAIL; la l. n. 350 del 2003, laddove stabilisce che restano valide le certificazione già rilasciate, intenderebbe solo esonerare dall'onere della presentazione della domanda chi avesse fatto già domanda all'INAIL, o addirittura ottenute le certificazioni, prima delle modifiche di cui al d.l. n. 269 del 2003, introducendo invece l'obbligo, per chi non l'avesse ancora fatta, quale sia il tipo di beneficio che ha diritto di conseguire in base alla disciplina di legge. Questa interpretazione, si avverte, sarebbe l'unica compatibile con i successivi interventi normativi: il termine del 15.6.2015 viene infatti espressamente richiamato dalla l. 24 dicembre 2007, n. 247, che all'art. 1 comma 20, stabilisce che, nelle aziende interessate dagli 218 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO atti d'indirizzo ministeriale, i benefici contributivi di cui all'art. 13, comma 8, possono essere oggetto di una nuova rivalutazione solo se ed in quanto i lavoratori abbiano effettuato la domanda entro il 15.6.2005, con conseguente conferma che anche per aver diritto al regime precedente bisogna aver fatto domanda all'INAIL entro quella data. [R. RIVERSO, SSM, Napoli, 2015]. 5. La prescrizione. Ulteriore corollario della natura autonoma del beneficio è la sottrazione al regime della imprescrittibilità del diritto a pensione e l'applicazione dell'ordinario termine di prescrizione decennale che, come chiarito in Sez. 6-L, n. 02351/2015, Marotta, Rv. 634542, seguita da numerose altre dello stesso segno, andrà ad incidere in modo definitivo sul diritto alla rivalutazione contributiva e non solo sui singoli ratei maggiorati. Notoriamente in materia previdenziale, il diritto alla pensione, costituzionalmente tutelato, è ritenuto indisponibile, imprescrittibile e non assoggettabile a termini di decadenza, mentre sono soggetti a prescrizione e decadenza i soli ratei delle prestazioni previdenziali. ( cfr Sez. U, n. 10955/2002, Evangelista, Rv. 556221 e Sez. U, n. 09219/2010, Prestipino, Rv. 564093) In tema di benefici da amianto, la tesi dell'applicabilità della prescrizione nel termine ordinario decennale al diritto alla rivalutazione contributiva è una diretta conseguenza della sua configurazione come diritto autonomo, sul presupposto che il lavoratore, a prescindere dalla questione se sia o meno pensionato e da quando, può da subito agire in giudizio, previa domanda amministrativa, per far valere il suo diritto alla rivalutazione. Si precisa infatti che in materia non è validamente invocabile il principio di imprescrittibilità del diritto a pensione, in quanto vi è una ontologica differenza tra diritto alla rivalutazione contributiva e diritto alla pensione nonché diritto ai singoli ratei, e la prescrizione del diritto alla rivalutazione ben può essere definitiva perché non incide sulla pensione, né sui singoli ratei, ma solo sulla eventuale maggiorazione, se spettante. Quanto poi al problema ulteriore della decorrenza, tenuto conto che l'assistito può agire in giudizio anche prima di essere andato in pensione, la S.C. ha considerato dirimente il momento della consapevolezza della esposizione ad amianto. Sebbene l'art. 2935 c.c., nello stabilire che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, si riferisca soltanto alla possibilità legale di far valere il diritto, quindi agli impedimenti di ordine giuridico e non già a quelli di 219 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO mero fatto, rientrando in questi ultimi anche l'ignoranza del titolare del diritto, si è ritenuto, analogamente a quanto avviene per le malattie professionali, che quando il presupposto per l'esercizio del diritto è dalla stessa fattispecie legale ricollegato ad un "fatto" - esposizione all'amianto - è solo dal momento in cui tale fatto, quale presupposto di esistenza del diritto stesso, diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile che può rilevare l'inerzia dell'interessato. [C. MAROTTA, Napoli, 2015] Nelle fattispecie sino ad oggi esaminate in sede di legittimità si è ritenuto che tale consapevolezza esistesse certamente nel momento dell'avvenuto pensionamento, essendo già a tale data nota la lesione del diritto alla maggiorazione contributiva, e da tale data si è fatto decorrere il relativo termine prescrizionale. È prevedibile che in concreto non sarà sempre agevole individuare con certezza il momento della consapevolezza, che dovrà estendersi non solo al "fatto" esposizione all'amianto ma anche alla sua durata ed alla sua natura qualificata e quindi alla presenza di tutti gli elementi costitutivi del diritto alla maggiorazione. È evidente che coloro che contestano la configurabilità del diritto autonomo escludono anche l'applicabilità del termine di prescrizione alla rivalutazione contributiva nel suo complesso e propendono invece per una eventuale prescrizione quinquennale dei singoli ratei di cui è stata chiesta tardivamente la maggiorazione. 220 CAP. XII - I BENEFICI CONTRIBUTIVI DA ESPOSIZIONE ALL'AMIANTO Bibliografia S. L. GENTILE, Lavoratori esposti all'amianto: per una revisione degli effetti che il ritardo nell'azione produce sul diritto al risarcimento pensionistico - Nota a Cass. 7 marzo 2012 n. 3605, in Foro It., parte I, 2012, 2101; S. L. GENTILE, Il processo previdenziale, Giuffrè, Milano, 2015; P. GHINOY, Ancora un'ordinanza ex art. 375 c.p.c. della Cassazione sulla decadenza dalla domanda di rivalutazione contributiva per esposizione ad amianto. Spunti critici, in Rivista Italiana di Diritto del lavoro 2012, 2, 738; C. MAROTTA, L'azione giudiziaria di cui al comma 8 art. 13 L. 257/92 e succ. mod.: questioni aperte in tema di domanda amministrativa, decadenza, prescrizione, Napoli, formazione permanente SSM, 16-17 aprile 2015; R. RIVERSO, Nella torre di babele della decadenza previdenziale per l'amianto: cronistoria di un'ingiustizia, in Rivista giuridica del diritto del lavoro e della previdenza sociale, 2013, 1, 655; R. RIVERSO, Amianto: decadenza dall'azione per i benefici previdenziali, in Diritto e pratica del lavoro, 2013, n. 15, 989; R. RIVERSO, La decadenza dell'azione e la decadenza dal diritto per i c.d. benefici previdenziali amianto, Napoli, formazione permanente SSM, 16- 17 aprile 2015. 221 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO CAPITOLO XIII IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO (di Giuseppe Dongiacomo) SOMMARIO: 1. I dati normativi. – 2. Il potere del curatore di scelta tra il subingresso e lo scioglimento del contratto preliminare. – 3. Il potere del curatore di sciogliere il contratto preliminare e la domanda di esecuzione in forma specifica: il contrasto giurisprudenziale. – 4. La soluzione delle Sezioni Unite. 1. I dati normativi. La legge fallimentare, nella sua stesura originaria, non si occupava della disciplina degli effetti del fallimento sul contratto preliminare: in tale testo normativo, l'unico accenno al contratto preliminare riguardava, infatti, l'ipotesi del preliminare trascritto ex art. 2645 bis c.c.: l'art. 72, comma 5, l.fall., introdotto con la legge 28 febbraio 1997, n. 30, prevedeva che «qualora l'immobile sia stato oggetto di preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile e il curatore ... scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento dei danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile, a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento». L'art. 72 l.fall., così come riformulato con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (ed applicabile alle procedure aperte a far data dal 16 luglio 2006), prevedeva espressamente che la norma dettata dal primo comma (che stabilisce il principio della sospensione del contratto fino a quando il curatore non dichiari di subentrare nel rapporto pendente ovvero di sciogliersi dal medesimo) trovasse applicazione anche al contratto preliminare, con salvezza, però, di quanto stabilito dall'art. 72 bis l.fall., il quale, a sua volta, prevedeva, al comma 2, che, nel caso in cui il curatore optasse per lo scioglimento, il (promissario) acquirente avesse il diritto di insinuare al passivo il suo (eventuale) credito alla restituzione di quanto prestato, con il privilegio previsto dall'art. 2775 bis c.c., a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento a norma dell'art. 2645 bis c.c., ma senza poter far valere i diritto ai danni, ed, al comma 3, disciplinava l'ipotesi (particolare) dei contratti (anche preliminari) relativi ad immobili da costruire con 222 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO espresso riferimento alla legge-delega 2 agosto 2004, n. 210, attuata con il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122. Il cd. decreto correttivo (d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169) ha ulteriormente modificato la normativa in materia non solo raccogliendo nell'art. 72 l.fall. l'intera disciplina dettata per il contratto preliminare di compravendita (che non abbia ad oggetto immobili da costruire: art. 72 bis l.fall. e artt. 1, lett. a), b) e d), 5 e 6 d.lgs. n. 122 del 2005) con l'aggiunta del comma 7, ma anche prevedendo, con l'introduzione del comma 8, la norma (applicabile ai procedimenti aperti dal 1 gennaio 2008: art. 22 d.lgs n. 169 del 2007) per cui la disposizione del primo comma dell'art. 72 (che riconosce al curatore il potere di scelta tra subingresso e scioglimento del rapporto) non si applica «al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado» ovvero, come aggiunto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, «un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire destinato a costituire la sede principale dell'attività d'impresa dell'acquirente». 2. Il potere del curatore di scelta tra il subingresso e lo scioglimento del contratto preliminare. Nel regime in vigore prima della riforma, l'opinione più diffusa riteneva che, in caso di fallimento del promittente venditore, trovasse applicazione la norma prevista dall'art. 72, comma 4, testo originario, l.fall., per la vendita che non avesse determinato al momento del fallimento il trasferimento della proprietà, riconoscendo, quindi, al curatore la facoltà di scegliere tra il subentro nel rapporto pendente (con il conseguente obbligo del contraente in bonis di stipulare il contratto definitivo ed il diritto del curatore, in difetto, di agire in giudizio a norma dell'art. 2932 c.c.) e lo scioglimento dello stesso, con le conseguenti obbligazioni restitutorie delle eventuali prestazioni eseguite, come sopra descritte: sempre che, naturalmente, il contratto non fosse stato, al momento del fallimento, già eseguito con la stipulazione del contratto definitivo (ovvero con il passaggio in giudicato della sentenza di esecuzione in forma specifica a norma dell'art. 2932 c.c.) ed il conseguente trasferimento della proprietà, ed a prescindere, invece, dalla circostanza che il contratto avesse avuto anticipata esecuzione con la consegna del bene ed il pagamento, parziale o integrale, del prezzo pattuito, trattandosi di effetti meramente anticipatori dell'assetto finale di interessi che trova nel 223 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO solo contratto definitivo il suo titolo giuridico (cd. preliminare di vendita ad effetti anticipati). La legge n. 30 del 1997 ha, in sostanza, confermato tale assunto, introducendo, nell'art. 72 l.fall., il comma 5 (divenuto – a seguito della riforma attuata con il d.lgs. n. 5 del 2006 – il comma 7 dell'art. 72 l. fall. ed il comma 2 dell'art. 72 bis l.fall.), secondo cui «qualora l'immobile sia stato oggetto di preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645-bis del codice civile e il curatore, ai sensi del precedente comma, scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento». Tale norma (che è stata, nella sostanza, confermata anche con il decreto correttivo, che, dopo averla rimossa dall'art. 72 bis l.fall., ha stabilito, al comma 7 dell'art. 72 l.fall., che «in caso di scioglimento del contratto preliminare di vendita immobiliare trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non sino cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento»), in effetti, regolando gli effetti restitutori che conseguono allo scioglimento del contratto preliminare da parte del curatore, inequivocamente ammette che il curatore, in caso di fallimento del promittente venditore, ha il potere, appunto, di scegliere se subentrare nel rapporto pendente (ed opponibile) ovvero di provocarne lo scioglimento. La riforma della legge fallimentare ha confermato tale disciplina. Il nuovo testo dell'art. 72, comma 3, l.fall. (sia pur facendo salva la norma dettata dall'art. 72 bis l.fall. in tema di contratti preliminari relativi ad immobili da costruire) ha, infatti, esteso al contratto preliminare (e, quindi, anche al preliminare di compravendita) il principio stabilito al comma 1, vale a dire la sospensione del rapporto fino a che il curatore non dichiari di subentrare nel rapporto o di sciogliersi dal medesimo. Nello stesso senso, del resto, depone il comma 7 dell'art. 72 l.fall., prima citato, così come introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, per cui «... qualora l'immobile sia stato l'oggetto di preliminare di vendita trascritta ai sensi dell'articolo 2645 bis codice civile e il curatore ... scelga lo scioglimento del contratto, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del 224 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO privilegio di cui all'articolo 2775 bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento», nonché (sia pur meno chiaramente) lo stesso comma 7 dell'art. 72 l.fall., anch'esso citato, così come riformulato dal d.lgs n. 169 del 2007, a norma del quale «in caso di scioglimento del contratto preliminare di vendita immobiliare (evidentemente a norma del comma 3) trascritto ai sensi dell'articolo 2645-bis del codice civile, l'acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all'art. 2775 bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del preliminare non sino cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento». Il d.lgs. n. 169 del 2007 ha, tuttavia, disposto, ma con esclusivo riguardo alle procedure concorsuali aperte da far data dall'1 gennaio 2008, che la norma prevista dall'art. 72, comma 1, legge fall., vale a dire la sospensione del rapporto ed il connesso diritto del curatore di scelta tra subingresso e scioglimento, non trova applicazione in caso di contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell'art. 2645 bis c.c., che abbia ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado, a condizione, però, che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla sentenza dichiarativa di fallimento (art. 72, comma 8, l.fall.). La stessa tutela è stata estesa, con il d.l. n. 83 del 2012, convertito con la legge n. 134 del 2012, anche ai contratti preliminari aventi ad oggetto un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell'attività di impresa dell'acquirente: in presenza delle indicate condizioni, quindi, e cioè la trascrizione del preliminare (e la sua perdurante efficacia al momento della sentenza dichiarativa) e la destinazione dell'immobile ad uso abitativo ad abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero la destinazione dell'immobile ad uso non abitativo a sede principale dell'attività di impresa dell'acquirente, il curatore perde il diritto di sciogliersi dal contratto preliminare e resta, come tale, soggetto alla eventuale richiesta del contraente in bonis di stipulare il contratto definitivo, che, pertanto, in caso di inadempimento, può azionare il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. 3. Il potere del curatore di sciogliere il contratto preliminare e la domanda di esecuzione in forma specifica: il 225 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO contrasto giurisprudenziale. Si è posto, tuttavia, il problema di stabilire se ed in che limiti il curatore possa avvalersi del potere di sciogliersi dal contratto preliminare quando, prima del fallimento del promittente venditore, il promissario compratore abbia proposto, a norma dell'art. 2932 c.c., la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di stipulare un contratto di compravendita immobiliare, e l'abbia trascritta a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c. L'opinione che, per lungo tempo, ha largamente prevalso ha ritenuto che, nell'ipotesi in esame, il curatore del fallimento del promittente venditore rimane titolare del potere di provocare lo scioglimento del contratto preliminare: la trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del contratto, a norma degli artt. 2932 e 2652, n. 2, c.c., in data anteriore alla sentenza dichiarativa, infatti, ha, in questa prospettiva, il solo effetto di rendere opponibile (a norma del comb. disp. artt. 45 l.fall., 2652, n. 2, e 2915, comma 2, c.c.) la domanda giudiziale (e, per l'effetto, il processo) al curatore [ANDRIOLI, 1967, 399, 400] il quale, pertanto, una volta che il processo sia stato riassunto nei suoi confronti (artt. 43 l.fall. e 299 c.p.c.), ha l'onere, se vuole evitare l'accoglimento della domanda, di (costituirsi e di) eccepirvi (ove ancora possibile: altrimenti, in sede stragiudiziale, purché prima del passaggio in giudicato della sentenza ex art. 2932 c.c., che coprirebbe, come è noto, il dedotto e il deducibile) lo scioglimento del contratto preliminare ex art. 72, comma 4, l.fall., provocando, in tal modo, a fronte del venire meno del titolo invocato a suo fondamento, il rigetto della domanda proposta. Così, in particolare, ha opinato Sez. 1, n. 03001/1982, Lipari, Rv. 420923, la quale, in motivazione, ha ritenuto che «... ogni qual volta il fallimento del promittente sopraggiunga nel corso del giudizio diretto all'esecuzione dell'obbligo di concludere il contratto, e non possa invocarsi de plano l'inopponibilità ex art. 45 l.fall., perché la domanda giudiziale è stata resa tempestivamente pubblica ex art. 2652 n. 2 cod.civ., non si verifica la paralisi ope legis della potestas iudicandi del giudice adito, ... Ne consegue, ...che, nonostante la sopravvenienza del fallimento, quel processo prosegue e apporterebbe alla emanazione di una sentenza di merito di accoglimento della domanda dell'attore se il curatore medesimo non provvedesse ad esercitare il potere che gli è attribuito dalla norma dell'art. 72 l.fall. da qualificare, come eccezione in senso stretto, assoggettata alle regole all'uopo dettate dalle norme procedurali. Ciò comporta che la domanda di esecuzione in forma specifica, la quale a prescindere dalla deduzione del contro diritto del curatore avrebbe dovuto essere accolta (non rilevando in senso contrario la sopravvenienza del fallimento), 226 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO risulta infondata se ed in quanto il curatore si avvalga concretamente in giudizio del relativo potere, proponendo l'eccezione che viene giudicata fondata dal giudice, previo riscontro della ricorrenza in concreto degli estremi di cui all'art. 72 comma 4 l.fall. cit. ... Per converso se l'eccezione non viene tempestivamente formulata il giudice, il quale ... non può certo pronunciare d'ufficio il rigetto della domanda del promissario se il curatore resta contumace, oppure, comparendo, si astiene dal far valere, in via di eccezione, il potere processuale che la legge gli attribuisce, consentendogli di paralizzare la esecuzione, così evidenziando il proposito di non avvalersi della opzione di opposto segno a favore dello scioglimento, non deve dichiarare improponibile ... la domanda, ma è tenuto, nel rispetto della legge, a portare avanti il processo su stimolo del promissario medesimo, emanando una sentenza di accoglimento destinata ad avere effetti anche in pregiudizio della stessa». In definitiva, conclude la sentenza, «il curatore che trova pendente la domanda giudiziale del promissario debitamente trascritta ex art. 2652 n. 2 cod.civ. prima della dichiarazione di fallimento, non si può limitare, dal punto di vista formale ad invocare la pendenza del fallimento per paralizzare l'ulteriore corso; né per evitare l'opponibilità della emananda sentenza può semplicemente richiamarsi al difetto della formalità necessaria ex art. 45 l.fall. rapportandola alla sentenza, anziché alla domanda... perché in tale situazione operano le regole generali sugli effetti della trascrizione le quali comporterebbero, a seguito della emanazione della sentenza di accoglimento, la prevalenza del promissario, che ha reso pubblica tempestivamente la propria domanda, sulla massa. La vicenda processuale risulta invece correttamente centrata nella disposizione dell'art. 72 comma 4 l.fall. considerato nel dinamismo del suo innestarsi nel processo pendente sub specie di eccezione in senso stretto. Poiché l'effetto di prenotazione in tanto scatta in quanto alla domanda trascritta si venga a saldare una sentenza di accoglimento, ogni qualvolta l'ordinamento offra alla parte un contraddittorio che impedisca di giungere ad una pronuncia siffatta, il meccanismo di salvaguardia a suo tempo innestato resta paralizzato se ed in quanto il curatore eserciti nel processo il potere di scioglimento, che impedisce al giudice di pronunciare una sentenza siffatta e gli impone di dichiarare lo scioglimento del vincolo scaturente dal contratto preliminare invocato in giudizio per conseguire in via giurisdizionale gli effetti del trasferimento correlato alla mancata stipula di quello definitivo, e quindi rigettare la domanda di esecuzione in forma specifica ...». La sentenza è stata così massimata: «In tema di preliminare di compravendita immobiliare, qualora il promissario abbia instaurato giudizio per l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto definitivo, ed abbia provveduto a trascrivere la relativa domanda, la sopravvenienza del fallimento del promittente non determina una situazione di improcedibilità, né legittima il curatore a contestare la opponibilità 227 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO dell'emananda sentenza per il solo fatto della sua posteriorità rispetto al fallimento, tenuto conto degli effetti della suddetta trascrizione in caso di accoglimento della domanda (art. 2652 c.c.), ma il curatore medesimo può conseguire il rigetto di tale domanda avvalendosi - in via di eccezione in senso stretto - della facoltà di scioglimento del contratto conferitagli dall'art. 72 quarto comma del R.d. 16 marzo 1942 n. 267, il quale trova applicazione non soltanto con riguardo alla vendita definitiva con effetti obbligatori non ancora eseguita, ma anche con riguardo al preliminare di vendita non ancora seguito dalla stipulazione del definitivo, ancorché il promissario abbia già provveduto al pagamento del prezzo.». La giurisprudenza della Corte di cassazione, in seguito, ha, in netta prevalenza, ribadito l'orientamento espresso nella sentenza sopra esposta, affermando, appunto, che la trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. prima del fallimento del promittente venditore non impedisce al curatore di scegliere tra il subingresso e lo scioglimento del rapporto contrattuale pendente (indipendentemente dal fatto che il promittente acquirente abbia per parte sua interamente eseguito la prestazione, pagando interamente il prezzo o facendone offerta nei modi di legge) ma con l'onere, onde evitare l'accoglimento della domanda (a lui, come detto, opponibile), di esercitare tale potere fino a quando, con effetti a lui opponibili, non sia stato stipulato il contratto definitivo ovvero sia passata in giudicato la sentenza pronunciata a norma dell'art. 2932 c.c. In tal senso, in particolare, si sono pronunciate Sez. U, 00239/1999, Finocchiaro, Rv. 525322, per cui «in relazione alla previsione della norma dell'art. 2932 c.c., secondo cui l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto è ammessa soltanto "qualora sia possibile", si deve ritenere che il fallimento del promissario venditore, facendo venir meno nel fallito il potere di disposizione e di amministrazione del patrimonio e bloccando la situazione patrimoniale qual era alla data in cui venne pronunciata la dichiarazione di fallimento, impedisca che possa avere corso l'esecuzione specifica della detta promessa, poiché essa determinerebbe un mutamento della situazione patrimoniale ed in particolare un effetto traslativo, nonostante lo spossessamento prodotto dalla sentenza dichiarativa del fallimento, restando, d'altro canto, ininfluente la circostanza che prima del fallimento sia stata trascritta la domanda ex art. 2932 c.c., in quanto essa non può impedire l'apprensione del bene promesso in vendita da parte della curatela fallimentare, giacché gli effetti di tale trascrizione possono spiegarsi soltanto condizionatamente alla trascrizione della sentenza di accoglimento della domanda, che in questo caso non può essere pronunciata», e Sez. 2, n. 04888/2007, Mensitieri, Rv. 595388", per cui "... nel caso di fallimento del promittente venditore 228 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO anche quando il promissario acquirente abbia già proposto domanda giudiziale per l'adempimento in forma specifica ai sensi dell'art. 2932 c.c. ed abbia, inoltre, trascritto la domanda stessa, resta impregiudicata per il curatore intervenuto - ai sensi dell'art. 72 del r.d. n. 267 del 1942 (c.d. legge fallimentare) - la facoltà di dare esecuzione al contratto, oppure (come nel caso di specie) di chiederne lo scioglimento. Gli argomenti addotti a sostegno di tale conclusione sono, in sostanza, per un verso, che la trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica prevista dall'art. 2932 c.c. prima del fallimento del promittente venditore è opponibile al curatore a norma degli artt. 45 l.fall., 2652, n. 2 e 2915, comma 2, c.c., con la conseguenza che il processo può validamente proseguire nei suoi confronti (previa riassunzione: artt. 43 l.fall. e 299 c.p.c.) e che la sentenza di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., pur se pronunciata dopo il fallimento, è senz'altro efficace nei confronti dei creditori, e, per altro verso, che il curatore può dichiarare, purché risulti nel processo, la propria scelta di sciogliere il rapporto contrattuale, così determinando il rigetto della domanda: la scelta del curatore di recedere dal contratto determina, infatti, lo scioglimento ex tunc del rapporto contrattuale (pur se in tutto o in parte adempiuto sul piano fattuale) dando così luogo ad un fatto impeditivo, sul piano sostanziale, all'accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica proposta (che deve essere, per l'effetto, respinta), a nulla sul punto potendo rilevare la sua previa trascrizione, il cui effetto prenotativo, in effetti, presuppone, come si evince dall'art. 2652, n. 2, c.c., il suo accoglimento (a mezzo di una sentenza che a norma dell'art. 2643, n. 14, c.c., deve essere a sua volta trascritta). In tale ricostruzione, quindi, «la domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre del promissario acquirente, trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 2652, n. 2, cod.civ. – poiché l'adempimento di tale formalità non incide sulla facoltà del curatore di recedere ex art. 72 l.fall. ma determina soltanto (ai sensi dell'art. 45 l.fall.) l'opponibilità alla massa dei creditori della domanda stessa e della eventuale sentenza di accoglimento, sempre che il curatore abbia scelto l'esecuzione del contratto, invece che il suo scioglimento – può essere paralizzata dalla scelta del curatore di optare per lo scioglimento del contratto, scelta che si configura come elemento ostativo all'accoglimento di quella domanda» [FABIANI, 2004, 3040]. Non sono, però, mancate autorevoli opinioni contrarie. In una prima prospettiva, se il promissario acquirente ha proposto e trascritto la domanda ex art. 2932 c.c. ed ha 229 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO integralmente pagato (od offerto di pagare il prezzo), il contratto è, da parte sua, interamente eseguito, con la conseguente sottrazione dello stesso alla disciplina dei rapporti pendenti ed al potere del curatore di provocarne lo scioglimento [COLESANTI, 1972, 264 ss]. In altra prospettiva, invece, si è ritenuto che, una volta che la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare sia stata trascritta, a norma degli artt. 2932 e 2652, n. 2, prima del fallimento, non solo il giudizio è opponibile al curatore, al pari della sentenza di accoglimento, ma anche che quest'ultima, retroagendo (ed escludendo, quindi, il bene immobile dal patrimonio del promittente venditore, poi fallito, sin dal) momento della trascrizione della domanda, impedisce al curatore di avvalersi del potere previsto dall'art. 72 l.fall. di provocare lo scioglimento del rapporto. Tale soluzione è stata adottata da Sez. U, n. 12505/2004, Marziale, Rv. 574280, la quale, in particolare, ha rilevato come «il "meccanismo pubblicitario" previsto dall'art. 2652, n. 2, c.c. si articola in due momenti: quello iniziale, costituito dalla trascrizione della domanda giudiziale e quello finale, rappresentato dalla trascrizione della sentenza di accoglimento. È indubbio che la particolare efficacia della trascrizione della domanda resta subordinata alla trascrizione della sentenza e può, pertanto, manifestarsi solo se tale adempimento viene effettuato. Ma è non meno certo che gli effetti della sentenza di accoglimento, quando sia trascritta, retroagiscono alla data della trascrizione della domanda...Non può quindi esservi dubbio che sia la trascrizione della domanda (e non della sentenza) ad assumere rilievo decisivo ai fini dell'opponibilità ai terzi del trasferimento attuato con la pronuncia, ai sensi dell'art. 2932 cod.civ., della sentenza che produce gli effetti del contratto "non concluso". E che l'adempimento di tale formalità sia sufficiente a far prevalere il diritto acquistato dall'attore, una volta trascritta la sentenza, sui diritti contrari o incompatibili venutisi nel frattempo a creare in capo al terzo... Il sistema del codice civile circa gli effetti della trascrizione delle domande giudiziali trova il suo completamento nell'art. 2915, secondo comma, c.c., che risolve il conflitto tra il creditore pignorante (e i creditori che intervengono nel processo di espropriazione) e i terzi, i cui diritti siano accertati con sentenza in epoca successiva al pignoramento, in base alla data della trascrizione della domanda e, quindi, adottando lo stesso criterio accolto dall'art. 2652 c.c. e dall'art. 2653 c.c.. Anche in questo caso, pertanto, la trascrizione della domanda introduttiva del giudizio ha l'effetto di "prenotare" gli effetti della futura sentenza di accoglimento, che saranno pertanto opponibili ai creditori procedenti se la trascrizione della domanda è stata effettuata prima del pignoramento.... L'art. 45 l.fall., non si pone in antitesi con la disciplina appena illustrata, ma la integra (così, in particolare: Cass. 1/75 e 101/90, citt.). Con tale disposizione 230 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO si è statuito, infatti, che "le formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi", (solo) se compiute dopo la data della dichiarazione di fallimento "sono senza effetto rispetto ai creditori". Il che lascia intendere che, nel caso opposto, tali formalità sono invece opponibili. Nella sentenza 1/75, appena richiamata, si osserva, e il rilievo non può non essere condiviso, che il riferimento agli adempimenti necessari per l'opponibilità degli "atti" ai terzi si traduce nella formulazione di un criterio assolutamente generico, il quale richiede, per poter essere concretamente applicato, "di essere puntualmente specificato" a mezzo di quelle norme che, di volta in volta, a seconda della fattispecie considerata, stabiliscono quali siano le "formalità necessarie". L'unica particolarità è data dalla circostanza che, non essendo la sentenza dichiarativa di fallimento oggetto di trascrizione o di iscrizione, l'anteriorità dell'atto dovrà essere verificata, come del resto risulta in modo inequivoco dalla formulazione della disposizione in esame, in relazione alla data di deposito della sentenza dichiarativa di fallimento e non a quella della sua annotazione nei pubblici registri ai sensi dell'art. 88, secondo comma, l.fall., essendo tale adempimento previsto per finalità di mera pubblicità notizia (Cass. 1/75; 101/90, citt.). ... La giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che l'art. 45 l.fall., si coordini (non solo con gli artt. 2652 e 2653 c.c., ma anche) con l'art. 2915, secondo comma, c.c. e che, pertanto, sono opponibili ai creditori fallimentari (non solo gli atti posti in essere e trascritti dal fallito prima della dichiarazione di fallimento, ma anche) le sentenze pronunciate dopo tale data, se le relative domande sono state in precedenza trascritte ... gli effetti derivanti dalla sentenza di accoglimento della domanda trascritta, pronunciata ai sensi dell'art. 2932 cod.civ., retroagiscono alla data di trascrizione della domanda ... se, quindi, la trascrizione è stata eseguita prima della dichiarazione di fallimento deve ritenersi che il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita sia avvenuto prima di tale momento, integrando gli estremi della situazione considerata dallo stesso art. 72, quarto comma, l. fall, come ostativa all'esercizio della facoltà di recesso da parte del curatore...». La sentenza è stata, sul punto, così massimata: «Quando la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, la sentenza che l'accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori e impedisce l'apprensione del bene da parte del curatore del contraente fallito, che non può quindi avvalersi del potere di scioglimento accordatogli, in via generale, dall'art. 72 della legge fallimentare.». La soluzione esposta dalla sentenza esaminata è stata, in seguito, dichiaratamente condivisa da Sez. 1, n. 15218/2010, Piccininni, Rv. 613712, da Sez. 1, n. 27093/2011, Piccininni, Rv. 620072 e da Sez. 2, n. 16160/2010, Piccialli, Rv. 613933. 231 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO 4. La soluzione delle Sezioni Unite. Sez. U, n. 18131/2015, Vivaldi, Rv. 636343, a composizione dell'indicato contrato, hanno adottato una soluzione intermedia. A norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., la trascrizione della sentenza che accolga la domanda diretta a ottenere l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre «prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda», ivi compresa anche l'iscrizione nel registro delle imprese della sentenza di fallimento a norma degli artt. 16, ult. comma, e 17 l.fall.. A seguito della riforma del 2006, infatti, tale pubblicità non assolve più, come nel regime previgente, ad una mera funzione di pubblicità notizia avendo, piuttosto, assunto, a norma dell'art. 16, ult. comma, l.fall. (secondo cui la sentenza di fallimento produce effetti "nei riguardi dei terzi" solo dalla data della sua iscrizione nel registro delle imprese), la natura di pubblicità dichiarativa (come tale dovendosi qualificare ogni pubblicità dalla quale dipende l'efficacia dell'atto pubblicato nei confronti dei terzi, e cioè la sua opponibilità) e rileva, quindi, oltre che a fini di cui all'art. 44 l.fall., anche ai fini della efficacia ex art. 45 l.fall. e, per l'effetto, dei conflitti che tale norma risolve, a partire da quelli relativi alla trascrizione delle domande giudiziali: le sentenze di accoglimento, quindi, pur se pronunciate dopo, sono opponibili al curatore se sono state trascritte prima dell'iscrizione del fallimento nel registro delle imprese. In definitiva, se la domanda di esecuzione in forma specifica è stata proposta prima del fallimento del promittente venditore e riassunta nei confronti del curatore, quest'ultimo (parte del giudizio ex art. 43 l.fall. ma terzo rispetto al rapporto controverso) rimane, come tale, senz'altro titolare del potere di scioglimento del contratto (anche se non trascritto) che l'art. 72 l. fall. gli attribuisce e può (anzi: deve) esercitarlo nel relativo giudizio. Se, però, la domanda è stata trascritta prima del fallimento, l'eccezione di recesso proposta dal curatore, è inopponibile all'attore a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c.. La trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. prima del fallimento (rectius: dopo la sua iscrizione nel registro delle imprese) non impedisce, quindi, al curatore di recedere dal contratto preliminare: gli impedisce, piuttosto, di recedere con effetti nei confronti del promissario compratore che ha agito in giudizio. Il giudice, pertanto, può senz'altro accogliere la domanda pur a fronte della scelta del curatore di recedere dal contratto: con una sentenza che, a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., se trascritta, 232 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO retroagisce alla trascrizione della domanda stessa e sottrae, in modo opponibile al curatore, il bene dalla massa attiva del fallimento. Naturalmente, se la domanda trascritta non viene accolta, la caducazione dell'effetto prenotativo della trascrizione della domanda comporta, ad ogni possibile effetto, l'opponibilità all'attore della sentenza di fallimento e, quindi, l'efficacia nei suoi confronti della scelta del curatore di sciogliere il rapporto. In definitiva, nel caso in cui il promissario acquirente abbia proposto la domanda che mira a conseguire una sentenza che produca "gli effetti del contratto non concluso" a norma dell'art. 2932 c.c., il curatore, pur se il giudizio sia stato riassunto nei suoi confronti (art. 43 l.fall.) e fino a quando, in tal caso, non sia stato definito con il passaggio in giudicato della sentenza, può, in ogni momento (purché, ovviamente, risulti nel giudizio), efficacemente avvalersi della facoltà, di ordine sostanziale, di scegliere se subentrare ovvero di provocare lo scioglimento del rapporto a norma dell'art. 72 l.fall.. Se, però, la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare è stata trascritta, a norma dell'art. 2652, n. 2, c.c., prima dell'iscrizione della sentenza di fallimento nel registro delle imprese, l'esercizio di tale facoltà è inopponibile all'attore promissario acquirente e, quindi, non impedisce al giudice di pronunciarsi, nel merito, sulla domanda medesima fermo restando, però, che il bene immobile è definitivamente sottratto alla massa attiva solo se la domanda è successivamente accolta e la relativa sentenza sia trascritta. 233 CAP. XIII - IL POTERE DEL CURATORE DI SCIOGLIERE IL CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE PENDENTE AL MOMENTO DELLA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO Bibliografia ANDRIOLI, Fallimento, in Enc. Dir., vol. XVI, 1967, 397 ss, 399, 400 FABIANI, Osservazioni a Cass. sez. un. n. 12505 del 2004, in Foro it., 2004, I, 3040 COLESANTI, Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano, 1972 234 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO CAPITOLO XIV IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO (di Andrea Nocera) SOMMARIO: 1. Il contraddittorio endoprocedimentale nella sentenza Sez. U, n. 24823/2015. - 2. Il dato positivo di riferimento. L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 nella applicazione giurisprudenziale. - 3. Il principio del contraddittorio endoprocedimentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. La composizione di un'apparente distonia. - 4. La ricerca di un autonomo fondamento del principio nell'ordinamento interno. - 5. Il principio del contraddittorio nel diritto comunitario. - 6. La divaricazione applicativa del principio. L'obbligo del contraddittorio procedimentale nei tributi cd. "non armonizzati" ed in quelli "armonizzati". - 7. La sanzione dell'invalidità dell'atto impositivo per la violazione del principio del contraddittorio negli accertamenti concernenti tributi cd. "armonizzati". 1. Il contraddittorio endoprocedimentale nella sentenza Sez. U, 24823/2015. Con la sentenza Sez. U, n. 24823/2015, Cappabianca, sono stati delineati il fondamento, la portata ed i limiti applicativi del principio del contraddittorio endoprocedimentale nell'accertamento tributario, nelle forme tipiche attraverso le quali esso si attua. Con la citata pronuncia si è dato puntuale risposta e soluzione alla complessa questione di massima di particolare importanza, superando i dubbi applicativi - e le opzioni interpretative – ivi proposti e, al contempo, tracciando una linea di sostanziale continuità con i precedenti arresti, anche recenti, delle Sezioni Unite in subiecta materia. Per evidenti ragioni di approccio sistematico alla questione giova riportare sinteticamente il quesito posto all'attenzione delle Sezioni Unite: se il principio affermato con sentenza delle Sez. U, n. 19667/2014, Botta, Rv. 632586 secondo cui nella materia tributaria, ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, l'Amministrazione sarebbe tenuta ad attivare, a pena di invalidità dell'atto, il contraddittorio endoprocedimentale «indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da norma positiva» abbia fondamento nell'ordinamento nazionale o esclusivamente nel diritto comunitario e quale ne sia la portata applicativa; se, quindi, le garanzie previste dall'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000 n. 212 siano applicabili, in via analogica, nei procedimenti di verifica fiscale cd. "a tavolino", effettuata presso la sede dell'Ufficio in base alle notizie e alla relativa documentazione di supporto acquisite presso pubbliche 235 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO amministrazioni o presso terzi o fornite dallo stesso contribuente mediante la compilazione di questionari o in sede di colloquio presso l'Ufficio; se, in tali casi, al mancato rispetto della norma consegua in ogni caso l'invalidità dell'avviso di accertamento o se, invece, in applicazione dei principi sul contraddittorio procedimentale di matrice eurounitaria, l'atto debba essere giudicato invalido solo se, in mancanza di tale violazione, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso. Il quesito investe in via principale l'ambito di operatività delle garanzie endoprocedimentali di cui all'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (formazione di un verbale di chiusura delle operazioni e rilascio di copia al contribuente; rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emissione dell'avviso di accertamento), normativamente circoscritte alle ipotesi di cd. "accertamenti a tavolino", ma suscettibili di estensione alla luce della citata sentenza Sez. U, n. 19667/2014, che, in funzione della necessità di tutela e garanzia del diritto di difesa del contribuente, ha riconosciuto l'esistenza di un obbligo di attivazione in fase pre- contenziosa del contraddittorio "endoprocedimentale" ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo, forma procedimentale che risponde ad «un principio fondamentale immanente nell'ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell'amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell'atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario». 2. Il dato positivo di riferimento. L'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 nella applicazione giurisprudenziale. La legge n. 212 del 2000 (cd. Statuto dei diritti del contribuente) individua i diritti e le garanzie riconosciuti ai contribuenti in occasione di attività di accertamento e di verifica fiscale svolte dall'Amministrazione finanziaria. La disciplina dettata dall'impianto normativo dà applicazione ai principi costituzionali di eguaglianza, legalità, capacità contributiva, imparzialità ed efficienza amministrativa e, come tale, esprime principi generali dell'ordinamento tributario, derogabili o modificabili solo espressamente, e mai attraverso leggi speciali (art. 1). Ne deriva che le disposizioni dell'art. 12 della suddetta legge, nel riconoscere i diritti e le garanzie del contribuente soggetto ad attività di verifica fiscale, fissano principi, espressi in modo diretto o altrimenti 236 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO desumibili, caratterizzati da "superiorità assiologia", che svolgono una funzione di orientamento dell'interprete per la migliore garanzia della posizione giuridica del contribuente. In particolare, il comma 7 dell'art. 12, l. 212 del 2000, che investe la tematica processuale posta all'attenzione della Corte nel ricorso, dispone che, «...nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che devono essere valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza di detto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza». La norma ha un duplice contenuto precettivo. In primo luogo, riconosce al contribuente soggetto ad attività di verifica fiscale il diritto di «comunicare osservazioni e richieste» prima che gli uffici impositori assumano provvedimenti capaci di incidere sulla sua sfera giuridica. Il riconoscimento di tale facoltà partecipativa in favore del contribuente costituisce espressione, oltre che del principio di cooperazione alla funzione di accertamento, del diritto di difesa del contribuente, che, attraverso l'esposizione di puntuali e fondate deduzioni logico–giuridiche, agisce per prevenire l'emissione dell'atto impositivo pregiudizievole per le proprie ragioni. La facoltà di comunicare osservazioni e richieste, è ancorato dalla norma alla formalizzazione dell'attività istruttoria nel «processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica» o in un diverso atto endoprocedimentale conclusivo, quale il processo verbale di constatazione (hinc, p.v.c.), atto tipizzato, redatto in contraddittorio col contribuente o con chi eventualmente lo rappresenta, di natura endoprocedimentale, presupposto rispetto all'eventuale avviso di accertamento, che è l'atto impositivo a rilevanza esterna. In secondo luogo, la norma prevede la garanzia di uno spatium deliberandi di 60 giorni per l'adozione dell'atto impositivo (avviso di accertamento), che decorre dalla consegna del processo verbale di constatazione. La prevalente dottrina [MARONGIU, 2010, 77] individua nella fattispecie un'ipotesi di "paralisi" o "sospensione" del potere di accertamento, funzionale allo svolgimento del diritto di difesa preventiva del contribuente. Nella fase istruttoria, infatti, l'Ufficio finanziario è tenuto a valutare tutte le deduzioni formulate dal contribuente in sede di contraddittorio amministrativo preventivo alla cristallizzazione del processo verbale di constatazione, nonché le richieste e le osservazioni 237 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO eventualmente proposte dal medesimo in pendenza del termine dilatorio prescritto dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000. Di qui la deduzione della illegittimità dell'atto di accertamento, perchè emanato in carenza di potere, nel caso di notificazione prima del decorso del termine di sessanta giorni. La norma costituisce espressione del principio di cooperazione nei rapporti tra gli Uffici fiscali ed i contribuenti e, in funzione di una corretta applicazione delle disposizioni tributarie nell'ambito del procedimento tributario finalizzato all'accertamento, pone uno specifico obbligo di attivazione del contraddittorio nella fase istruttoria dell'attività di verifica e controllo svolta dall'Amministrazione finanziaria, che si sostanzia nel riconoscimento del diritto del contribuente a formulare osservazioni e richieste, entro il prescritto termine di sessanta giorni, e nella previsione di un termine dilatorio di 60 giorni per l'adozione dell'avviso di accertamento. La disposizione non sembra assumere, però, la natura di clausola generale. Gli obblighi di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale sono dettati, infatti, con riferimento alle sole ipotesi di «accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali» e la formula adottata dal legislatore è in sintonia con la lettura dell'intero articolo, le cui disposizioni appaiono funzionali ad assicurare una piena tutela "partecipativa" del contribuente nelle ipotesi di verifiche in loco. La formula prescelta dal legislatore manifesta l'intento di assicurare al contribuente, in quanto titolare di una qualificata posizione giuridico–soggettiva di diritto o interesse, particolarmente esposta nei casi di verifica fiscale eseguita mediante accessi o ispezioni, prodromiche condizioni di parità nei rapporti con l'Amministrazione accertante, garantendo forme di partecipazione attiva al procedimento tributario, quale la possibilità di avviare un contraddittorio amministrativo preventivo, in via endoprocedimentale, sia in funzione puramente collaborativa, sia di tutela anticipata delle proprie ragioni, quale espressione del principio costituzionale del diritto di difesa. Del resto, come ricostruito nella sentenza Sez. U, n. 24823/2015, non si è minimamente dubitato del fatto che il perimetro applicativo dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 fosse quello testualmente definito, restando invece acceso il dibattito in merito all'identificazione delle conseguenze 238 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO dell'inosservanza degli obblighi suddetti, in assenza di puntuale sanzioni di invalidità poste dalla norma. I contrasti manifestatisi su tale ultimo punto sono stati composti da Sez. U, n. 18184/2013, Virgilio, Rv. 627474. La decisione ha sancito che l'art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni (dal rilascio di copia del p.v.c. di chiusura delle operazioni) per l'emanazione dell'avviso di accertamento determina, di per sé, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, salva la ricorrenza, da comprovarsi dall'Ufficio, di oggettive specifiche ragioni d'urgenza. La sanzione della invalidità, pur non espressamente prevista, scaturisce ineludibilmente dalla circostanza che la violazione procedimentale si risolve in un'intollerabile deviazione dal modello normativo perentoriamente prescritto. L'indirizzo consolidato della Corte però nega la sussistenza di un obbligo di attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, ove non espressamente previsto dalle leggi speciali, per tutte le ipotesi di accertamento o di verifica condotte "a tavolino", che non presentano tali peculiari modalità direttamente invasive della sfera del contribuente. Si richiama, al riguardo, Sez. T, n. 26316/2010, Didomenico, Rv. 615834, che ha escluso che, anche dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente, allo stato attuale della legislazione, si possa ritenere esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale). Più di recente, la Corte con l'ordinanza Sez. 6-T, n. 15583/2014, Bognanni, Rv. 631683, nel far rinvio al principio di diritto enunciato dalla sentenza Sez. T, n. 16354/2012, Olivieri Rv. 623835, ha osservato che le garanzie previste dal citato art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 sono apprestate esclusivamente a favore del contribuente verificato (in loco) e non anche del terzo, pur se soggetto a verifica con accesso e, dunque, non vengono in questione nel caso di attività di verifica e di controllo effettuata dall'Ufficio in base all'esame della dichiarazione fiscale ovvero nel caso di attività di accertamento iniziata a seguito di segnalazioni, rapporti, comunicazioni ricevute da altri organismi od autorità, nell'ambito dei rapporti di cooperazione (artt. 63 e 66 del d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero direttamente dalla Polizia giudiziaria che ha operato nell'ambito di indagini penali (su autorizzazione della Autorità giudiziaria, ai sensi dell'art. 63, comma 1, ultima parte, del d.P.R. n. 633 del 1972), ovvero ancora nel caso di accertamento effettuato dagli Uffici finanziari in base a documenti ed elementi 239 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO acquisiti a seguito di richieste, questionari od inviti, disposti ai sensi dell'art. 51, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nello stesso senso, cfr. Sez. T, n. 07598/2014, Perrino, Rv. 630223 in tema di accise su olii minerali) L'art. 12 costituisce, dunque, al pari delle disposizioni di cui agli artt. 52, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, richiamato dall'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte dirette, a propria volta richiamato dall'art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1981 in tema di imposta di registro, la fonte del diritto alle garanzie procedimentali per lo specifico procedimento di verifica eseguita mediante accesso nei locali in cui il contribuente esercita la propria attività imprenditoriale o professionale. In materia doganale, inoltre, con l'art. 92 del d.l. 24 gennaio 2012 n.1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012 n. 27, è stato inserito all'art. 11 del d. lgs. n. 374 del 1990 il comma 4-bis che, espressamente richiamando l'art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente, ha previsto per il contribuente il termine di 30 giorni dalla notifica dell'esito della revisione dell'accertamento, compiuta d'ufficio, per comunicare osservazioni e richieste. Del resto, osserva la Corte, quando il legislatore ha inteso estendere l'ambito di applicabilità dei diritti e garanzie previste dallo Statuto del contribuente l'ha espressamente stabilito, come nel caso di accertamenti in materia doganale ed, in particolare, ai sensi dell'art. 11, comma 4-bis del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, che richiama il «rispetto del principio di cooperazione stabilito dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12 dopo la notifica all'operatore interessato, «qualora si tratti di revisione eseguita in ufficio», di copia del verbale delle operazioni compiute, e prevede che l'operatore interessato possa «...comunicare osservazioni e richieste, nel termine di 30 giorni decorrenti dalla data di consegna o di avvenuta ricezione del verbale, che sono valutate dall'Ufficio doganale prima della notifica dell'avviso di cui al successivo comma 5». Ancora, con la sentenza Sez. T, n. 00446/2013, Cirillo, Rv. 624993, in tema di accertamento della base imponibile ai fini IVA, si è ritenuta legittima l'utilizzazione, da parte dell'erario, delle movimentazioni bancarie su conto corrente, acquisite presso istituti di credito, ancorché senza previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell'accertamento, atteso che la legge tributaria lo prevede come mera facoltà dell'amministrazione tributaria, e non già come obbligo, nell'esercizio dei poteri previsti dall' art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, in tema di imposte 240 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO sui redditi, e dall'art. 51, comma 3, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 in materia di IVA. Con la sentenza Sez. T, n. 03142/2014, nel richiamare, ai fini delle forme attuative del principio del contraddittorio, la differente posizione che assume il privato nella fase procedimentale di accertamento e nelle procedure di tipo giustiziale, espressa dal precedente Sez. T, n. 14026/2012, Olivieri il contraddittorio endoprocedimentale viene disancorato dal diritto di difesa e l'intervento del privato nel procedimento amministrativo definito in termini di mera eventualità – contrapposta alla necessità in ambito processuale – quale mera espressione della funzione partecipativa all'attuazione dell'interesse pubblico. Tale intervento «si realizza nell'esercizio di poteri autoritativi e si inserisce, pertanto, in un rapporto che non è paritetico ma di supremazia/soggezione, venendo a costituire pertanto uno dei vari segmenti di cui si compone la sequenza di atti che dalla fase della iniziativa (di ufficio o a istanza del privato) perviene, attraverso le diverse fasi del procedimento - istruttoria, costitutiva della decisione e quindi integrativa della efficacia - alla emanazione del provvedimento in quanto espressione della potestà autoritativa della PA.» Infine, con la sentenza Sez. T, n. 00961/2015, Cirillo, Rv. 634470 sul punto, seppur in via incidentale, si è negato che, in armonia con il generale principio statutario del giusto procedimento in materia tributaria, sussista un obbligo di contraddittorio preventivo con il contribuente prima dell'emissione dell'atto impositivo, in quanto «- a prescindere da talune non univoche e circoscritte linee di tendenza isolatamente espansive di garanzie endoprocedimentali in peculiari fattispecie limitative della sfera giuridica del contribuente (v. Sez. U, 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, sull'iscrizione ipotecaria) - nel quadro istituzionale e normativo generale disegnato dalla Costituzione (art. 97) il principio di legalità dell'azione amministrativa declina il potere pubblico esclusivamente in termini di esercizio tipico e formale (cfr. Sez. U, n. 04648/2010, La Terza)». In tale consolidato orientamento interpretativo, unica decisione in apparente dissonanza si rivela la sentenza Sez. T, n. 02594/2014, in tema di verifica fiscale a fini IVA e IRPEF condotta a mezzo di indagini su conti correnti bancari, la cui motivazione, però, lascia trasparire il dubbio di un possibile fraintendimento in merito alla specifica accezione dei termini "accessi" e "verifiche" rilevanti ai fini della previsione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000. 241 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO 3. Il principio del contraddittorio endoprocedimentale nella giurisprudenza delle Sezioni Unite. La composizione di un'apparente distonia. La sentenza Sez. U, n. 24823/2015, diversamente da quanto ipotizzato con l'ordinanza interlocutoria, evidenzia che, anteriormente alla pronunzia delle decisioni Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, non vi è stata alcuna altra pronuncia anche soltanto vagamente distonica rispetto alla interpretazione sopra riportata circa l'ambito applicativo delle garanzie previste dall'art. 12 della legge n. 212 del 2000. Tale, in particolare, non può considerarsi, la pronuncia Sez. U, n. 18184/2013, né la precedente Sez. U, n. 26635/2009, Botta, pur se l'analisi della giurisprudenza delle Sezioni Unite consentono di delineare l'esistenza di un principio generale del contraddittorio endoprocedimentale, quale connotato essenziale dell'attività impositiva, per sua natura autoritativa. In particolare, con la richiamata sentenza Sez. U, n. 26635/2009, in tema di studi di settore, si è affermato che il contraddittorio, realizzato attraverso la procedura di accertamento per adesione, costituisce, momento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l'azione amministrativa di accertamento. La pronuncia richiama, ed esplicitamente fa proprie, le argomentazioni già espresse da Sez. T, n. 02816/2008, che, in tema di accertamento in via presuntiva delle imposte sui redditi, rilevava che, al di là della eventuale esistenza di disposizione normativa che abbia escluso il contraddittorio procedimentale, per il principio generale amministrativo del giusto procedimento e quello di legalità amministrativa applicato ai rapporti tra atti amministrativi generali ed astratti e atti amministrativi particolari e concreti, la garanzia del contraddittorio è comunque assicurata, per implicito, al contribuente che si voglia assumere come destinatario di un provvedimento amministrativo d'imposizione tributaria esercitando un potere istruttorio di accertamento presuntivo. Tuttavia, la necessità della garanzia del contraddittorio non viene affermata con riferimento alla fase istruttoria, in via anticipata rispetto all'atto impositivo (avviso di accertamento). Con la sentenza Sez. U, n. 18184/2013, poi, nello stabilire che il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni, di cui all'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, debba comportare la nullità dell'avviso di accertamento, si è ritenuto che la violazione del predetto termine realizzerebbe un modello procedimentale 242 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO difforme da quello legale, tale che, pur in assenza d'un'espressa previsione di nullità «spetta all'interprete il compito di delineare l'oggetto e i confini di una ipotesi di invalidità introdotta in via ermeneutica». La pronuncia valorizza il principio del contraddittorio procedimentale, non solo sul piano dell'ordinamento interno, quale primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente e presentando una immediata funzionalità al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva, ma anche sul piano del diritto comunitario, nel richiamo operato all'orientamento della Corte di giustizia in materia di tributi doganali (nella specie, alla sentenza 18 dicembre 2008, in causa C-349/07, Sopropè). Infine, con le sentenze Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, non massimate sul punto, le Sezioni Unite, sulla spinta dell'elaborazione della dottrina, sono giunte ad affermare che la partecipazione e l'accesso del soggetto di imposta (e destinatario della pretesa tributaria formatasi in esito al procedimento) sono compatibili con il procedimento tributario ed operano secondo gli schemi dello Statuto del contribuente (e non secondo i modelli dalla legge n. 241 del 1990, sul procedimento amministrativo, pur se talune di queste disposizioni sono sostanzialmente riprodotte nella legge n. 212 del 2000), costituito da «un complesso di norme la cui precipua funzione è quella di improntare l'attività dell'amministrazione finanziaria alle regole dell'efficienza e della trasparenza, nonché quella di assicurare l'effettività della tutela del contribuente nella fase dei procedimento tributario» (punto n. 14). Si rileva, in particolare, che «la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata" mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella "fase precontenziosa" o endoprocedimentale", al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddicono, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.» (punto n. 15). Per poi desumere che il diritto di difesa del contribuente, da attivarsi in fase pre-contenziosa mediante la forma del contraddittorio "endoprocedimentale" ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente medesimo, «costituisce un principio fondamentale immanente nell'ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione 243 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO normativa. Principio il cui rispetto è dovuto da parte dell'amministrazione indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva e la cui violazione determina la nullità dell'atto lesivo che sia stato adottato senza la preventiva comunicazione al destinatario» (punto n. 16). La presunta distonia con le precedenti pronunce, come detto, si presenta solamente apparente, in quanto il riconoscimento in termini di immanenza del principio del contraddittorio procedimentale si presenta strettamente riferibile al relativo concreto decisum (in tema di contraddittorio nelle ipotesi di iscrizione ipotecaria ex art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, in relazione al vulnus conseguente alla insussistenza di un atto suscettibile di impugnativa), restando, dunque, fuori dall'ambito del principio di diritto propriamente enucleabile dalle citate pronunzie. L'arresto delle Sez. U, n. 24823/2015, richiama, inoltre, la recente sentenza Corte cost., 7 luglio 2015 n. 132, che, in tema di abuso di diritto, ha ritenuto infondata la questione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 37-bis, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973, prospettata in relazione al fatto che, in tema di imposte dirette, la norma, esplicitamente imponendo il contraddittorio endoprocedimentale quale condizione di legittimità dei soli accertamenti fondati su ipotesi tipizzate, sembra determinare un ingiustificato deteriore trattamento di questi rispetto agli accertamenti basati su ipotesi innominate di abuso di diritto. La Corte Costituzionale non prende una esplicita posizione sul tema dell'esistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, pur dando atto che «la sussistenza di un orientamento non isolato della stessa Corte di cassazione, che tende a riconoscere forza espansiva alla regola contenuta nella norma denunciata, non consente di ritenere esistente un diritto vivente in base al quale gli atti impositivi adottati in applicazione della clausola generale antielusiva si debbano considerare validi anche se emessi in violazione della regola contenuta nella stessa norma». 4. La ricerca di un autonomo fondamento del principio nell'ordinamento interno. Appare evidente come la soluzione della estensibilità delle garanzie procedimentali previste dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, presuppone l'individuazione del fondamento normativo dell'affermato principio generale del contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria. La definizione in termini di immanenza del principio del diritto al contraddittorio "endoprocedimentale" che emerge dalle richiamate sentenze delle Sezioni Unite trova rispondenza nel corrispondente principio fondamentale del diritto dell'Unione, 244 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO espressione del diritto di difesa e del diritto di ogni persona di essere sentito prima dell'adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui propri interessi, affermato dalla Corte di Giustizia con le decisioni del 18 dicembre 2008, in causa C-349/07 Sopropè e, più di recente, del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wortdwide Logistics BV. In ambito comunitario il diritto al contraddittorio è espresso non solo dagli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, ma anche dall'art. 41 della medesima Carta, che garantisce il diritto ad una buona amministrazione e, al par. 2 della suddetta norma, prevede che al diritto a una buona amministrazione corrisponde quello di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo. Nella giurisprudenza eurounitaria il principio viene richiamato ogniqualvolta l'amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, garantendo che i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l'Amministrazione intende fondare la sua decisione, mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni. Al di là del richiamo alle pronunce della Corte di Giustizia in tema di fondamento, presupposti e contenuto del diritto al contraddittorio nella fase procedimentale finalizzata all'adozione di un provvedimento lesivo su posizioni giuridiche soggettive dell'individuo, Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014 individuano il fondamento positivo del diritto al contraddittorio nel complesso delle norme dello Statuto dei diritti del contribuente, dalla cui disciplina organica «emerge che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata" mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella "fase precontenziosa" o "endoprocedimentale", al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell'emanazione di questo, realizza l'inalienabile diritto di 245 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.» Resta, comunque, escluso che il diritto alla partecipazione, anche mediante accesso, del contribuente si possa esprimere secondo i modelli generali previsti dalla legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, in ragione della pretermissione dei procedimenti tributari dagli istituti partecipativi (di cui al capo III della legge n. 241 del 1990, ex art. 13 della medesima legge) e del rinvio in materia alle norme speciali previste per detti procedimenti. A siffatta previsione offre rispondenza una normativa tributaria nel cui ambito non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, idonea a costituirne la Fonte. Infatti, alla disciplina dell'art. 12 della legge n. 212 del 2000, relativa agli avvisi conseguenti a verifiche effettuate presso i locali del contribuente, si affiancano specifiche disposizioni attuative del contraddittorio nei singoli procedimenti di accertamento tributario, quali, ad esempio, l'articolo 36-bis, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 36-ter, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 6, comma 5, della legge n. 212 del 2000; l'articolo 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973; l'articolo 10, comma 3-bis, della legge n. 146 del 1998; l'articolo 110, comma, 11, del d. lgs. 917 del 1986 (TUIR); l'articolo 11, comma 4-bis, del d. lgs. n. 374 del 1990. La previsione di specifiche norme che, collocandosi nella prospettiva del "giusto procedimento", costituiscono presidio della garanzia di partecipazione del cittadino all'esercizio dell'azione amministrativa per singole tipologie di accertamento tributario, costituisce ulteriore elemento indicativo della inesistenza di una disposizione espressa che, anche in materia tributaria, sancisca in via generale l'obbligo di attivazione del contraddittorio nella fase istruttoria, antecedente all'adozione dell'atto impositivo. Inoltre, come osservano le Sezioni Unite nella parte motiva della sentenza Sez. U, n. 24823/2015, l'art. 22, comma l, d.l. n. 78 del 2010, convertito in legge n, 122 del 2010, ha introdotto l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale in tema di accertamento sintetico e, al fine di adeguare la disciplina nazionale in materia doganale a quella europea, l'art. 92, comma l, del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012, ha introdotto nella previsione dell'art. 11 del d. lgs. n. 374 del 1990 il comma 4-bis, contemplante l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale anche per l'ipotesi di "revisione eseguita in ufficio", e quindi, di accertamento cd. "a tavolino". Risultando così asseverato a contrario, da entrambe le 246 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO disposizioni, il convincimento che, allo stato attuale della legislazione, non sussiste, nell'ordinamento tributario nazionale, una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale. Ancor più incisivo, nel senso indicato, è, forse il rilievo che la legge 11 marzo 2014 n. 23, di delega al Governo per la riforma del sistema fiscale, inserisce tra i principi e criteri direttivi della delega la previsione di forme di contraddittorio propedeutiche alla adozione degli atti di accertamento del tributi (art. l, comma l, lettera b), nonché il rafforzamento del contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione del successivi atti di accertamento e di liquidazione all'esaurimento del contraddittorio procedimentale (art. 9, comma l, lettera b). Né può ritenersi che, attraverso il richiamo al diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e del buon andamento dell'amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., con le sentenze Sez. U, n. 19667/2014 e Sez. U, n. 19668/2014, si sia voluto riconoscere una diretta portata applicativa a tali norme costituzionali nell'accertamento tributario. Deve rilevarsi, al riguardo, che l'ancoraggio funzionale del diritto al contraddittorio endoprocedimentale alla realizzazione dell'inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall'art. 24 Cost., e del buon andamento dell'amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., si ritrova nella ricostruzione del modello attuativo proposta da autorevole dottrina [MARCHESELLI, 2015, par. 3]. L'Autore individua due inscindibili ed armoniche funzioni del contraddittorio, quella difensiva e quella istruttoria e analizza il rapporto tra l'istruttoria amministrativa tributaria (che ricomprende tutte le attività conoscitive, di cui la verifica fiscale è uno strumento) con l'attività di imposizione in senso stretto (che si esprime nell'atto di imposizione e di riscossione), nell'ottica delle garanzie di tutela riconosciute al contribuente, affermando la piena autonomia funzionale della prima. Nella fase istruttoria si riconosce una posizione di preminenza dell'Amministrazione, nei cui confronti le garanzie previste dall'art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente costituiscono uno standard minimo concesso ad un soggetto tenuto a collaborare, piuttosto che espressione piena di un suo diritto alla partecipazione. Da tale collegamento funzionale tra funzione istruttoria e di accertamento emerge il ruolo centrale del diritto al contraddittorio, che culmina nel riconoscimento della facoltà di presentare osservazioni e richieste, così conferendo al soggetto verificato la 247 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO veste di soggetto attivo, che quasi concorre alla determinazione del contenuto dell'accertamento. Le deduzioni del contribuente contribuiscono a definire il presupposto dell'accertamento, non più modificabile dall'Amministrazione nell'eventuale fase del giudizio di impugnazione. Si assiste, per tale via, ad un recupero della necessità del contraddittorio nell'esercizio del potere istruttorio, attesa la riconosciuta funzione di acquisizione di conoscenze (fatti ed elementi) fiscalmente rilevanti, con la conseguenza che appaiono sempre più evidenti le aperture alla necessità anche in fase endoprocedimentale di quella «ponderazione di interessi pubblici e privati» che caratterizzano le attività tipicamente discrezionali. Nondimeno, come osservato da Sez. U, n. 04648/2010, «nel quadro istituzionale e normativo generale disegnato dalla Costituzione (art. 97) il principio di legalità dell'azione amministrativa declina il potere pubblico esclusivamente in termini di esercizio tipico e formale», dovendosi per tale via ritenere non riconoscibile l'esercizio di potere autoritativi allorché sia del tutto mancante (e non solo viziata) la forma prevista dalla legge. Le garanzie previste dall'art. 24 Cost. attengono, testualmente, all'ambito giudiziale; così pure quella di difesa di cui al comma 2, sia per collocazione, tra i commi l ed i commi 3 e 4 (che recano il testuale inequivocabile riferimento all'ambito giudiziale), sia per l'esplicito riferimento al "procedimento" in ogni suo "stato e grado". Come tali non sono sussumibili di immediata applicazione al procedimento tributario. La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 non ritiene condivisibile sul punto «il rilievo (riportato a p. 14 dell'ordinanza interlocutoria) secondo cui - essendo il giudizio tributario caratterizzato da un'istruttoria giudiziale monca della possibilità di raccogliere prove costituende davanti a giudice terzo e, dunque, di rinnovare davanti ad esso eventuali dichiarazioni di persone informate dei fatti raccolte dai verbalizzanti in sede amministrativa e dotate di valore indiziario - l'anticipazione dei poteri partecipativi del contribuente a momento anteriore all'emanazione dell'atto impositivo, si proietterebbe (ponendo rimedio ad una supposta situazione di "disparità delle armi" in dotazione alle parti processuali), sulla stessa effettività della tutela giudiziale del contribuente.» Al di là del rilievo preliminare che l'affermazione del principio della generalizzata operatività del contraddittorio endoprocedimentale in campo tributario, in funzione dell'anticipazione del diritto di difesa nel giudizio, dovrebbe, in ogni caso, inevitabilmente transitare attraverso declaratoria d'incostituzionalità della normativa ordinaria che si presenti in 248 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO contrasto, deve evidenziarsi che, secondo quanto ritenuto da Sez. U, n. 24823/2015, anche sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte cost., 21 gennaio 2000 n. 18), «il giudizio tributario, seppur nella sua particolarità, non viola, per la caratteristica qui in esame, il principio cd. della "parità delle armi", cui dà copertura costituzionale l'art. 111 Cost., giacché, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale sancito dall'art. 7 d.lgs. 546/1992, il potere di introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, compete non solo all'Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso d'indagine amministrativa, ma, altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. n. 05018/2015, n. 11785/2010, n. 16032/2005, n. 04269/2002).» Anche l'art. 97 Cost. non reca, in alcuna delle sue articolazioni, il benché minimo indice rivelatore dell'indefettibilità del contraddittorio endoprocedimentale; né in seno al procedimento amministrativo (in relazione al quale l'obbligo del contraddittorio procedimentale è generalizzatamente sancito da legge ordinaria, né, tanto meno, con riguardo allo specifico procedimento tributario, per il quale, come visto, la normativa ordinaria espressamente esclude la sussistenza di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, riconoscendo la ricorrenza dell'obbligo correlativo solo in presenza di specifica previsione. La necessità di una autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come attuative delle norme costituzionali richiamate e come «principi generali dell'ordinamento tributario» escludono in radice una diretta applicazione delle norme costituzionali al di là delle disposizioni statutarie e, dunque, la possibilità di affermare l'esistenza di un principio necessario di tutela del contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria. Viene, dunque, escluso in modo netto dalle Sezioni Unite che, «sulla base della normativa nazionale, possa, in via interpretativa, postularsi l'esistenza di un principio generale, per il quale l'Amministrazione finanziaria, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell'atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente.» Tale assunto risolve i dubbi interpretativi posti con l'ordinanza di rimessione e sottrae l'interprete al compito (non congeniale alla funzione) di ricostruire, per le ipotesi non puntualmente disciplinate, le modalità di concreto esercizio del diritto scaturente dal principio affermato e le conseguenze in termini di sanzioni della relativa violazione. 249 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO 5. Il principio del contraddittorio nel diritto comunitario. L'esame delle pronunce della Corte di Giustizia consente di ipotizzare un chiaro fondamento del principio del contraddittorio endoprocedimentale nel diritto dell'Unione Europea, lungo il solco della estensione al procedimento di accertamento delle medesime regole processuali attuative del diritto di difesa nella fase giurisdizionale di acquisizione – e non di mera valutazione - delle prove. In particolare, l'esistenza di un principio generale del rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, nel diritto tributario, è stato affermato dalla Corte di Giustizia con le richiamate sentenze sui casi Sopropè (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2007, C-349/07), Jiri Sabou (sentenza 22 ottobre 2013, in causa C- 276/12) Kamino International Logistics (sentenza 3 luglio 2014, in causa C-129/13). Come detto, nelle sentenze della Corte di Giustizia si ravvisa il fondamento del diritto al contraddittorio nella fase anteriore all'adozione dell'atto impositivo negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, e, soprattutto sull'art. 41 della medesima Carta, che garantisce il diritto ad una buona amministrazione. I riferimenti tratti dalla giurisprudenza eurounitaria consentono di esigere il rispetto dei diritti di difesa ogniqualvolta l'Amministrazione si proponga di adottare nei confronti del soggetto un atto per esso lesivo (Corte di Giustizia, 18.12.2008, causa C-349107, Sopropè; id. 22.10.2013, causa C276/12 Sabou), imponendo all'Amministrazione l'obbligo che i destinatari di decisioni incidenti sensibilmente sui propri interessi siano messi in condizione di manifestare il proprio punto di vista in merito agli elementi raccolti dall'Amministrazione (Corte di Giustizia 24.10.1996, causa C-32/95 P. Lisrestal; id. 21.9.2000, causa C-462/98 P. Mediocurso; id. 12.12.2002, causa C-395/00, Cipriani; id. Sopropè, cit.; id. Sabou, cit.). Deve, però, evidenziarsi che l'obbligo di fissare un termine per la presentazione di osservazioni e difese, ad avviso della Corte di Giustizia (cfr. la citata sentenza del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wortdwide Logistics BV), incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d'applicazione del diritto dell'Unione, 250 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO quand'anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità. L'affermazione di siffatto principio del contraddittorio di derivazione eurounitaria, quantomeno in funzione della possibilità di disapplicazione della norma interna non conforme, resta, dunque, pur sempre soggetto al limite della natura armonizzata della materia tributaria. Nel richiamare il principio espresso dalla Corte di Giustizia nel caso Sopropè (Corte di Giustizia, 18 dicembre 2007, C-349/07) in tema di tributi doganali la Corte (Sez. T, n. 00406/2015) si è spinta ad operare una riconduzione ad unità sistematica del principio di contraddittorio anticipato, espresso dall'art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 – in tema di imposte dirette – e dall'art. 12, comma 7 della legge n. 212 del 2000, riconoscendo ad esso forza espansiva, che, al di là del vincolo interpretativo connesso alla natura armonizzata del tributo, impone ai giudici degli Stati membri di fornire una interpretazione della legislazione nazionale conforme agli scopi del Trattato (TFUE) al fine di assicurare la piena efficacia del diritto dell'Unione Europea (cfr. Corte di Giustizia 28.6.2012, causa C-7/11, Caronna). Ciò al fine di realizzare un necessario allineamento degli standard di tutela al livello più soddisfacente e uniforme anche con riferimento a tributi "non armonizzati", attraverso il meccanismo comunemente denominato spill-over effect. Come precisato, dunque, la necessità del rispetto del principio del contraddittorio nella fase di accertamento è affermato dalla Corte di Giustizia con riferimento alla materia tributaria oggetto di armonizzazione e tale principio non è assunto in termini assoluti e puramente formali, posto che anche i diritti fondamentali, quali il diritto di difesa, non danno vita a prerogative incondizionate, potendo soggiacere a restrizioni, che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, ad obiettivi di interesse generale (cfr. Corte di Giustizia 3 luglio 2014, in cause C-129 e C- 130/2013, Kamino International Logistics; 26 settembre 2013, in C- 418/2011, Texdata Software). Giova richiamare sul punto quanto osservato da Sez. T, n. 07598/2014, che ha fornito una rilettura della sentenza Sopropè (Corte di Giustizia 18 dicembre 2008, C-349/07), alla luce della successiva pronuncia sul caso Jirì Sabou, (Corte di Giustizia 22 ottobre 2013, C-276/12), in tema di reciproca assistenza fra le autorità degli Stati membri in materia di imposte dirette. In tale ultima sentenza la Corte di Giustizia precisa che occorre distinguere, «nell'ambito dei procedimenti di controllo fiscale, la fase dell'indagine nel corso 251 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO della quale vengono raccolte le informazioni...dalla fase contraddittoria, tra l'amministrazione fiscale e il contribuente cui essa si rivolge, la quale inizia con l'invio a quest'ultimo di una proposta di rettifica» (punto 40), e che «l'amministrazione, quando procede alla raccolta d'informazioni, non è tenuta ad informarne il contribuente nè a conoscere il suo punto di vista», a meno che lo Stato membro estenda il diritto al contraddittorio ad altri momenti della fase d'indagine (punto 45). Del resto, la Corte di Giustizia con la sentenza 3 luglio 2014, in causa C-129/13, Kamino International Logistics, ha dato copertura comunitaria al principio giuspubblicistico di strumentalità delle forme, chiarendo che «il giudice nazionale, avendo l'obbligo di garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, può, nel valutare le conseguenze di una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, tenere conto della circostanza che una siffatta violazione determina l'annullamento della decisione adottata al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso» (cfr. Sez. T, n. 00961/2015, Cirillo, Rv.634470; Sez. T, n. 05518/2013, Cirillo, Rv. 625622). Infine, la sentenza Corte di Giustizia, 10 ottobre 2013, in causa C-306/12, Spedition Welter GmbH contro Avanssur SA, nel delineare le linee guida per l'interpretazione delle norme di diritto interno alla luce del testo e dello scopo delle direttive comunitarie, impone al giudice una opzione interpretativa del diritto nazionale conforme al sistema del Trattato FUE, in tal modo assicurando, nell'ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell'Unione nella risoluzione delle controversie (cfr., nel medesimo senso, Sez. T, n. 07598/2014, che, sempre in tema di tributi doganali, offre una lettura del principio nel senso del rinvio alla legislazione dello Stato membro dell'opportunità di estendere il contraddittorio alla fase di raccolta delle informazioni in fase di accertamento). Sulla base del quadro delineato dalle pronunce della Corte di Giustizia e dell'attuale assetto normativo di settore, la sentenza Sez. U, n. 24823/2015 esclude che possa affermarsi per i tributi non armonizzati una diretta applicabilità del principio generale del contraddittorio di derivazione comunitaria, riconoscendo al più di una influenza nell'orientamento interpretativo delle norme sul procedimento di verifica ed accertamento in materia tributaria. Il principio di diritto affermato in proposito è il seguente: «Differentemente dal diritto dell'Unione europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all'Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di 252 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l'invalidità dell'atto. Ne consegue che, in tema di tributi "non armonizzati", l'obbligo dell'Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito...». 6. La divaricazione applicativa del principio. L'obbligo del contraddittorio procedimentale nei tributi cd. "non armonizzati" ed in quelli "armonizzati". La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 riconosce, dunque, l'esistenza di un differente regime della norma comunitaria rispetto alla norma nazionale: «la prima, infatti, prevede il contraddittorio endoprocedimentale, in materia tributaria, quale principio di generale applicazione, pur valutandone gli effetti in termini restrittivamente sostanzialistici; la seconda, lo delinea, invece, quale obbligo gravante sull'Amministrazione a pena di nullità dell'atto - non, generalizzatamente, ogni qual volta essa si accinga ad adottare provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente - ma, soltanto, in relazione ai singoli (ancorché molteplici) atti per i quali detto obbligo è esplicitamente contemplato». Viene in tal modo affermata una inevitabile divaricazione applicativa tra la disciplina dei tributi cd. "non armonizzati" (in particolare: quelli diretti), estranei alla sfera di competenza del diritto dell'Unione europea, e di quelli cd. "armonizzati" (in particolare: l'IVA), in detta sfera rientranti. Per i tributi "non armonizzati" l'obbligo di attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, in cui tale obbligo sia previsto da specifica norma di legge, non potendo trovare spazio applicativo il diritto europeo, come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia nelle sentenze sopra richiamate. I principi dell'ordinamento giuridico dell'Unione operano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell'Unione, ma (v. anche l'art. 5 § 2, T.U.E.) non trovano applicazione al di fuori di esse. In base alla previsione dell'art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, le relative disposizioni si applicano agli Stati membri (a decorrere dall'1.12.2009) esclusivamente ai fini dell'attuazione del diritto dell'Unione, atteso che la Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'Unione al di là delle sue competenze, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei Trattati (Corte di Giustizia 8 maggio 2014, in causa C-483/12, Pelckmans; ord. 12.7.2012, in causa C-466/11, Currà, sent.15.11.2011, in causa C-256/11, Dereci). 253 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO Per tale via, le Sezioni Unite escludono per i tributi non armonizzati qualsivoglia possibilità di ricorso all'estensione in via analogica dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, opzione ermeneutica pur prospettata dalla ordinanza di rimessione Sez. 6-T n. 00527/2014 e non preclusa in astratto per la natura procedurale della norma applicata, come tale funzionale alla composizione di conflitti di interesse che nascono dalla definizione del fatto sociale sottoposto ad imposizione. Viceversa, per i tributi cd. "armonizzati" le Sezioni Unite riconoscono - in contrapposizione ai tributi "non armonizzati" - che l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale assume, invece, rilievo generalizzato, «avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione», trattandosi di materia inerente alle proprie competenze. La normativa eurounitaria trova spazio applicativo al di fuori delle specifiche ipotesi per le quali l'obbligo del contraddittorio è espressamente sancito e disciplinato dal diritto nazionale nel rispetto dei principi di "equivalenza" e di "effettività" (cfr. Corte di Giustizia 3 luglio 2014, in causa C-129 e C/130/13, Kamino International Logistics, punto 82), quale «clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale di matrice comunitaria», la cui violazione è sanzionata con la nullità dell'atto impositivo conclusivo del procedimento di accertamento. Le Sezioni Unite riconoscono che in tema di contraddittorio endoprocedimentale il superamento della duplicità del regime giuridico dei tributi "armonizzati" e di quelli "non armonizzati" non può essere realizzato in via interpretativa. L'innegabile influenza del diritto comunitario su rapporti analoghi a quelli rientranti nelle competenze dell'Unione se può orientare l'interpretazione del diritto nazionale non può spingersi fino alla diretta applicazione dei principi eurounitari. L'assimilazione in via ermeneutica del trattamento di rapporti sottratti all'operatività del diritto comunitario (tributi "non armonizzati") al trattamento di rapporti analoghi ad esso assoggettati (tributi "armonizzati") è preclusa dal quadro normativo nazionale, univocamente interpretabile nel senso dell'inesistenza, in ambito tributario, di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale. Si rinvia, dunque, l'assorbimento della dicotomia in essere all'intervento del Legislatore, che, del resto, ha mostrato di essere consapevole della questione e di intendere farsene carico nei contenuti della legge n. 23 del 2014, di delega al Governo per la riforma del sistema fiscale. 254 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO 7. La sanzione dell'invalidità dell'atto impositivo per la violazione del principio del contraddittorio negli accertamenti concernenti tributi cd. "armonizzati". Dalla ritenuta estensione del principio del contraddittorio ai casi di accertamento "a tavolino", quando abbiano ad oggetto l'accertamento di tributi cd. armonizzati, dovrebbe discendere la nullità dell'atto lesivo che, in violazione del suddetto principio, sia stato adottato senza preventiva comunicazione al destinatario, invalidità che viene in rilievo come conseguenza dell'omessa predisposizione del p.v.c., quando esso si traduca nella sostanziale esclusione della possibilità dell'interessato di interloquire in via preventiva e "informata" (e del dovere di raccogliere quanto affermato, prodotto o indicato), ovvero per effetto della non adeguatezza in concreto dei tempi riservati alla analisi delle osservazioni e richieste dell'interessato. In merito all'individuazione del regime della sanzione della invalidità l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-T n. 00527/2015 aveva prospettato due soluzioni, tra loro alternative: 1) l'applicazione dei principi "formalistici" fissati nella sentenza Sez. U, n. 18184/2013, secondo cui, nel caso di avviso di accertamento emesso senza essere preceduto dalla consegna di un verbale di constatazione, oppure prima dello spirare del termine dilatorio di sessanta giorni, si ha in ogni caso invalidità (salvi i casi di urgenza di cui all'ultimo periodo del comma 7 dell'art. 12), anche se il provvedimento sia assolutamente giusto e non contestato nel suo contenuto. Sul punto, giova richiamare le pronunce: Sez. T, n. 02594/2014, in tema di verifica fiscale a fini IVA e IRPEF condotta a mezzo di indagini bancarie; Sez. T, n. 03142/2014, in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti, che ha escluso l'emendabilità del vizio attraverso la "prova di resistenza", fondata sulla dimostrazione in concreto dell'effettivo pregiudizio subito dal soggetto destinatario dell'atto, non rientrando l'attività di accertamento impositivo dall'ambito applicativo della legge n. 241 del 1990, art. 21-octies, comma 2 e non essendo sussumibile l'atto impositivo nella categoria degli atti amministrativi cd. "vincolati"; Sez. T, n. 07960/2014, Virgilio, Rv. 629967 in tema di accertamento mediante parametri e studi di settore; Sez. T n. 06088/2011, Di Iasi, Rv. 617449, che, sulla base della natura perentoria del termine previsto dall'art. 12, comma 7, ritiene irrilevante il contenuto del p.v.c. 2) L'applicazione di squisita elaborazione di matrice comunitaria, secondo cui, ai fini della invalidità dell'atto di accertamento emanato in violazione del diritto al contraddittorio del 255 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO contribuente, occorre valutare (in termini di cd. "prova di resistenza") la possibilità che, in assenza di tale violazione, per effetto della opportunità di interlocuzione concessa al contribuente in fase istruttoria, il procedimento avrebbe potuto avere esito diverso, opzione che il Collegio ritiene preferibile in via generale, in quanto subordina la rilevanza della violazione delle regole sul contraddittorio alla effettiva possibilità per l'interessato di introdurre in fase istruttoria temi che avrebbero potenzialmente e ragionevolmente ampliato il quadro da valutare in sede di decisione. Le Sezioni Unite forniscono una chiara indicazione nel senso del riconoscimento del carattere di effettività sostanziale e non formale alla garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, richiedendo per l'applicazione della sanzione della nullità dell'avviso di accertamento l'esistenza di una violazione sostanziale dell'interesse del contribuente. Viene in proposito affermato il seguente principio di diritto: «... in tema di tributi "armonizzati", avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione, la violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l'invalidità dell'atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto». La sentenza Sez. U, n. 24823/2015 ha per tale via riconosciuto la piena portata applicativa per i tributi cd. armonizzati del principio di ispirazione eurounitaria, secondo cui la violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione fiscale determina l'annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, il procedimento "avrebbe potuto comportare un risultato diverso". Tale concezione sostanzialistica delle garanzie previste dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, che esclude una nullità ipso iure dell'avviso di accertamento emesso prima dello scadere del termine di sessanta giorni dalla conclusione della verifica fiscale, non è nuova, essendo stata già affermata nelle sentenze Sez. T, n. 00992/2015, Cirillo, Rv. 634407 e Sez. T, n. 21103/2011, Terrusi, Rv. 619742 (ma, anche, Sez. T, n. 18906/2011, Sez. T, n. 256 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO 19875/2008), proprio in tema di violazione degli obblighi informativi di cui all'art. 12, comma 2, della legge n. 212 del 2000, nonché da Sez. T, n. 13890/2008, Scuffi, Rv. 603965, in materia di dazi doganali. Ed ancora, con la sentenza Sez. T, n. 10381/2011, Greco, Rv. 617926, ove la ritenuta nullità dell'avviso di accertamento emesso ante tempus, anche nel caso di consegna di un processo verbale di accesso nel quale non erano stati mossi specifici rilievi né addebiti e, pertanto, prima della chiusura formale della verifica, è connessa non alla violazione della norma procedimentale, ma alla mancanza di motivazione delle ragioni dell'urgenza che la ha determinata, così valorizzando l'eccezione prevista nell'ultimo periodo dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 (principio già affermato nella pronuncia di Sez. T, n. 22320/2010, Scarano, Rv. 615577); nonché con l'ordinanza Sez. T, n. 24739/2013, ove, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dell'art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, si evidenzia come sia irragionevole, nel quadro delle fattispecie antielusive, che il mero difetto di forma del contraddittorio debba necessariamente comportare l'invalidità dell'atto fiscale. Le decisioni indicate, nel sottendere una interpretazione "orientata" in senso sostanzialistico del regime della invalidità conseguente alla violazione del principio del contraddittorio espresso dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, àncorano il fondamento della facoltà partecipativa del contribuente ai principi di legalità e imparzialità dell'azione amministrativa. L'organo procedente è giuridicamente tenuto a valutare tutte le deduzioni, osservazioni e richieste formulate dal contribuente nella perduranza del termine prescritto. In tal modo, la concreta realizzazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale si attua con il riconoscimento del diritto del contribuente ad un effettivo esame da parte dell'Amministrazione che procede all'accertamento delle osservazioni, opposizioni, doglianze e, in generale, argomentazioni proposte in fase istruttoria cui si può derogare solo in presenza di ragioni di urgenza oggettive ed oggettivamente gravi. Le Sezioni Unite hanno anche cercato di definire il limite di rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale in tema di accertamenti relativi a tributi "armonizzati" e di fornire utili elementi guida per la corretta applicazione del regime sanzionatorio. La più attenta dottrina, per superare le indubbie perplessità applicative legate ai labili margini definitori dell'effettività 257 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO dell'interesse alla interlocuzione nel procedimento, la dottrina più attenta [RAGUCCI, 2009, 94] osserva che la fase istruttoria è funzionale alla acquisizione e valutazione dei singoli dati (fatti e interessi) pertinenti e rilevanti ai fini dell'emanazione dell'atto, la sede naturale nella quale vengono verificate le condizioni di ammissibilità ed i requisiti di legittimazione, nonché le circostanze fattuali e tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'azione amministrativa. L'invalidità dell'atto impositivo adottato deriva dalla violazione della disposizione procedurale in esame, alla cui base - come visto - si collocano, non soltanto l'interesse del privato ad essere posto nella condizione di riversare nell'istruttoria tributaria tutti gli apporti conoscitivi funzionali a salvaguardarlo dall'adozione di atti d'accertamento ingiusti (e, sol perché adottati, potenzialmente lesivi), ma altresì l'interesse della stessa amministrazione finanziaria ad un modulo organizzativo dell'azione improntato all'obiettività e, almeno in via di regola, alla massima completezza dell'istruttoria, quali strumenti di più autentica attuazione dei valori costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento, nonché, in definitiva, di pieno perseguimento dell'interesse fiscale dello Stato-comunità. L'omissione del contraddittorio in fase istruttoria produce una lesione sostanziale solo in quanto preclusivo dello svolgimento di difese non temerarie o pretestuose, da valutarsi sulla base di un giudizio prognostico ex ante. Il danno del contribuente soggetto ad accertamento consegue alla impossibilità di introdurre tematiche istruttorie che l'Amministrazione procedente avrebbe potuto "ragionevolmente valutare", indipendentemente dalla eventuale infondatezza dei temi da proporre, che potrebbe essere riconosciuta a posteriori in sede di giudizio. La sanzione della invalidità dell'atto impositivo "anticipato" deve, dunque, avere causa nella lesione di una posizione giuridica del contribuente, individuabile nell'interesse a formulare osservazioni e richieste in ordine ai risultati esposti nel p.v.c. o nell'atto istruttorio equipollente. L'inibizione all'esercizio del potere di accertamento si estende per tutta la durata del termine di legge e la conseguenza dell'invalidità dell'atto, sussistendo concrete posizioni di interesse, è presidio alla garanzia di tutela del contribuente [MARCHESELLI, 2015, par. 7]. Solo in tale ipotesi la violazione delle regole del contraddittorio endoprocedimentale costituisce lesione del "diritto" del contribuente e non può che comportare l'illegittimità dell'accertamento. 258 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO La lesione non si realizza, invece, nel caso in cui il soggetto passivo eccepisca la violazione del proprio diritto ad essere avvisato o sentito in fase istruttoria e non alleghi alcuna difesa nel merito, ovvero indichi circostanze manifestamente pretestuose, indici di difesa temeraria. Nella ricostruzione fornita da Sez. U, n. 24823/2015 si richiede al contribuente che assume di aver subito una lesione del proprio diritto alla piena attuazione del contraddittorio nel procedimento di accertamento, di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere all'atto dell'accertamento, quando ancora la pretesa impositiva non era stata cristallizzata nell'atto tipico conclusivo del procedimento di accertamento. Ciò non significa, però, che la limitazione della rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio nell'ipotesi in cui la sua osservanza "avrebbe potuto comportare un risultato diverso" del procedimento impositivo implichi l'effetto della nullità (parziale o totale) dell'accertamento soltanto se il contribuente fornisca in giudizio prova del fatto che l'omissione del contraddittorio gli ha impedito di far emergere circostanze e ragionamenti idonei ad attestare altri eventuali profili d'illegittimità o l'infondatezza (totale o parziale) della pretesa fiscale. Tale soluzione rende del tutto priva di rilevanza il diritto al contraddittorio nella fase amministrativa, proiettando la fondatezza del diritto alla interlocuzione alla concreta capacità del contribuente di provare in sede giudiziale l'illegittimità per altri profili della pretesa fiscale o la sua infondatezza, finendo così per derubricare l'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale «a precetto senza sanzione, in contrasto con la stessa configurazione offertane dalla giurisprudenza della Corte di giustizia». Si ricorda, sul punto, che più volte la Corte di Giustizia ha affermato che, ai fini considerati, non può obbligarsi l'interessato «a dimostrare che la decisione avrebbe avuto un contenuto differente, bensì solo che tale ipotesi non va totalmente esclusa in quanto avrebbe potuto difendersi più efficacemente in assenza dell'irregolarità procedurale» (cfr.: Corte di Giustizia 1 ottobre 2009, in C-141/08, Foshan Shunde Yongjian Housewares, punto 94; 2 ottobre 2003, in C-194/99, Thyssen Stahl/Commissione, punto 31; 8 luglio 1999, causa C-51/92, Hercules Chemicals/Commissione, punto 81). Ed allora, alla luce della giurisprudenza comunitaria, le Sezioni Unite riconoscono che la limitazione della rilevanza della violazione dell'obbligo del contraddittorio, all'ipotesi in cui la sua osservanza "avrebbe potuto comportare un risultato diverso" del procedimento impositivo, vada inteso nel senso che «l'effetto della 259 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO nullità dell'accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d'essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali». Più in particolare, affinché scatti la sanzione della nullità del provvedimento impositivo non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l'onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni (valutate ex ante con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali l'ordinamento lo ha predisposto. 260 CAP. XIV - IL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE NELL'ACCERTAMENTO TRIBUTARIO Bibliografia G. MARONGIU, Lo statuto dei diritti del contribuente, Giappichelli, Torino, 2010 A. MARCHESELLI, Gli "otto" pilastri del principio del contraddittorio nel procedimento tributario nella giurisprudenza italiana ed europea", in Atti del seminario di aggiornamento professionale per i magistrati delle Commissioni tributarie delle Regioni Piemonte e Valle d'Aosta, 16-17 gennaio 2015, Torino G. RAGUCCI, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Giappichelli, Torino, 2009 261 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE CAPITOLO XV GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE (di Andrea Venegoni) SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La clausola anti-elusione nell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. - 3. Gli aspetti penali dell'abuso di diritto. – 4. Conclusioni. 1. Introduzione. Se si volesse esporre in estrema sintesi in cosa sia consistito fino ad oggi il problema ed il dibattito giuridico sul tema dell'abuso del diritto e del contrasto ai comportamenti elusivi nel nostro ordinamento tributario, si potrebbe dire che lo stesso sia ruotato sul riconoscimento dell'esistenza e sui termini di applicabilità di un principio generale anti-elusivo, che si sostanzia nel divieto dell'abuso del diritto, e sulla fonte normativa dello stesso, considerata l'assenza di una norma di rango legislativo ordinario in tal senso. Fino all'ottobre 2015, infatti, non esisteva una norma di legge che proclamasse un generale divieto di abuso del diritto in funzione anti-elusiva, ma esistevano norme applicabili per settore di imposta, tutt'al più considerabili di carattere solo semi-generale. Ci si riferisce, in primo luogo, alla disposizione di cui all'art. 37 bis d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del d.lgs. 8 ottobre 1997, n. 358 all'interno del testo di legge sull'accertamento delle imposte dirette, che rende inopponibili all'Amministrazione finanziaria atti o negozi privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, legando tale principio a precisi requisiti sostanziali - il compimento di specifiche operazioni nominativamente elencate – e procedurali, sulle modalità di contestazione da parte del fisco, ma anche ad altre norme più specificamente settoriali, quale, per esempio, l'art. 20 del d.P.R. 24 aprile 1986 n. 131 in materia di imposta di registro, secondo cui l'applicazione dell'imposta dipende dalla sostanza degli atti posti in essere e non dalla forma degli stessi, o alla disciplina di cui all'art. 76 (ora 110), comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 in materia di transfer pricing. La costruzione di un principio generale anti-elusivo che andasse oltre i confini delle norme sopra citate è stata, quindi, essenzialmente una operazione giurisprudenziale, ma questo ha 262 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE sollevato un intenso dibattito, perché il superamento per via pretoria delle fonti legislative già esistenti ha richiesto la definizione di tale principio, l'individuazione delle sue fonti e dei suoi confini applicativi; inoltre, il fatto che il riconoscimento di tale principio generale non avesse, almeno all'inizio, un riferimento in una norma di rango legislativo ordinario ha fatto sorgere in letteratura domande, in ultima analisi, sulla rispondenza di tale principio con la certezza del diritto. Ora, il 1 ottobre 2015 è entrata in vigore nel nostro ordinamento la disciplina dell'abuso di diritto in materia fiscale, regolata nell'art. 10 bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto dal d. lgs. 5 agosto 2015, n. 128. La collocazione della nuova norma, che unifica i concetti di elusione ed abuso del diritto dando una definizione di quest'ultimo, all'interno di un atto legislativo applicabile a tutti i tributi, quale è appunto il cd. Statuto dei diritti del contribuente, conferisce alla nuova disciplina un significato generale, rendendola operante per tutte le imposte e non solo per alcune. Anche l'espressa abrogazione, contenuta nella norma, del suddetto art. 37 bis d.p.r. 600 del 1973, conferma il suo valore di nuova disposizione di carattere generale. In prospettiva futura, questo dovrebbe, pertanto, portare al superamento di molte questioni discusse negli ultimi anni, e sarà quindi interessante vedere le modalità concrete di applicazione e l'interpretazione che di tale norma darà la giurisprudenza, se e come la stessa modificherà il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sull'argomento negli ultimi quindici anni circa. 2. La clausola anti-elusione nell'evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. Ma poiché la nuova norma sta muovendo i suoi primi passi proprio in queste settimane e non ha ancora, in concreto, dispiegato completamente i propri effetti, né può necessariamente ritenersi che con essa le discussioni sul tema saranno concluse, ai fini del presente contributo può essere interessante ripercorrere in estrema sintesi la genesi e lo sviluppo del tema nel nostro ordinamento, essendo uno degli argomenti sui quali più vivace si è sviluppato il dibattito in dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni. L'esistenza e l'interpretazione di una norma antielusiva nel sistema tributario italiano è un argomento del quale si dibatte da molto tempo, anche da ben prima dell'entrata in vigore delle norme settoriali di cui all'art. 37 bis d.p.r. 600 del 1973 o art. 20 del testo 263 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE unico sull'imposta di registro, sopra citate. La discussione dottrinale, infatti, risale almeno agli anni '20 e '30 del XX secolo, a seguito della trasformazione delle concezioni sulla natura dell'ordinamento fiscale, da sistema che limita la libertà dei cittadini e le cui norme sono, pertanto, eccezionali e non suscettibili di alcuna interpretazione né analogica né estensiva, a sistema funzionale a consentire la prestazione di servizi pubblici in favore di tutti i cittadini e quindi, in realtà, a permettere lo sviluppo delle libertà fondamentali degli stessi [FALSITTA, 2009, pag. 293]. In tale ottica, quindi, interpretazioni quale quella estensiva o anche analogica per contrastare situazioni elusive non solo non sono vietate, ma anzi assolutamente possibili. L'interpretazione antielusiva costituisce, quindi, «una clausola generale di giustizia nella ripartizione del carico tributario tra i consociati» e nasce dall'esigenza «di impedire lo svuotamento di efficacia delle norme tributarie di imposizione ed agevolazione, allo scopo di dare piena attuazione al fondamentale obbligo di concorso alle spese pubbliche che deve gravare indistintamente su tutti». Tuttavia, è solo a partire da un'epoca molto più recente che clausole anti abuso diventano norma di diritto positivo, con l'art. 20 del T.U. sull'imposta di registro, l'art. 10 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, oggetto poi di modifiche nel tempo, in materia di imposte dirette, e, successivamente, con il già citato art. 37 bis inserito dal d.lgs. 358 del 1997 nella normativa sull'accertamento delle imposte dirette, il d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Tale ultima disposizione, in particolare, pur avendo quasi assunto il rango di espressione di un principio semi-generale per la sua ampiezza, per la sua collocazione sistematica era ritenuta, però, avere comunque un ambito di applicazione specifico, in particolare al campo delle imposte dirette. Dall'inizio degli anni 2000, però, come menzionato in apertura, si è sviluppata una elaborazione giurisprudenziale tendente ad affermare l'esistenza di una vera e propria clausola generale anti- elusiva nel nostro ordinamento, anche a prescindere dalla norma di diritto positivo di cui all'art. 37 bis. Mentre in alcune prime sentenze risalenti agli anni 2001– 2003, la Corte di cassazione si è occupata del tema anti elusione piuttosto timidamente, affermando alcuni principi quali l'inesistenza di un principio antielusivo generale di diretta applicazione giudiziale, la non rilevabilità d'ufficio della clausola anti elusiva, la irretroattività delle disposizioni antielusive speciali e la non necessità di ricorrere agli istituti civilistici della nullità o del negozio in frode alla legge per valutare la sorte dei negozi posti in essere per eludere il pagamento 264 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE delle imposte e limitarne gli effetti [MANZON, 2013, pag. 225], a partire dal 2003 l'orientamento della Corte inizia gradualmente a mutare, avendo Sez. T, n. 07457/2003, Sotgiu, Rv. 563062, inaugurato un orientamento favorevole all'utilizzo delle nullità civilistiche in funzione antielusiva e lasciando intravedere l'applicazione di un principio generale di divieto dell'abuso di diritto. Tale orientamento è poi definitivamente consacrato in alcune pronunce del 2005, Sez. T, n. 20398/2005, Altieri, Rv. 584630, Sez. T, n. 22932/2005, Altieri, Rv. 585562 e Sez. T, n. 20816/2005, Cicala, Rv. 584572, in cui la Corte stabilisce la nullità dei contratti elusivi, nella specie operazioni di dividend washing, facendo riferimento ad istituti di diritto civile, ed in particolare al difetto di causa in concreto, e cioè la mancanza di una ragione economica diversa dal risparmio fiscale, e l'applicabilità dell'art. 1344 c.c., considerando le norme tributarie come norme imperative a tutela dell'interesse generale del concorso paritario alle spese pubbliche di cui all'art. 53 Cost. Nel fare ciò, la Corte stimola anche un dialogo con l'ordinamento sovranazionale dell'Unione, atteso che in tali sentenze si fa riferimento alla derivazione comunitaria di una clausola generale antielusiva espressione del principio del contrasto all'abuso del diritto in materia tributaria. In effetti, l'anno successivo proprio la Corte di Giustizia sembra raccogliere tale invito a specificare i termini della questione, quando nel 2006, nella nota sentenza Halifax (CGUE, caso C- 255/02), che sviluppa temi già affrontati in precedenza, esplicita il divieto di abuso del diritto comunitario come principio generale derivante dalla Sesta direttiva in materia di IVA, precisando altresì che può parlarsi di abuso del diritto quando le operazioni poste in essere hanno "essenzialmente" (e non "esclusivamente") lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale contrario all'obiettivo perseguito dalle norme che appaiono formalmente rispettate. Ovviamente, però, il riferimento ad un principio "generale" doveva essere inteso nei limiti dell'ordinamento di cui la Corte può conoscere, cioè quello dell'Unione, e quindi con riferimento alle imposte armonizzate. A seguito di tale sentenza, e di quella ulteriore sempre della Corte di Lussemburgo nel caso Part Service (CGUE caso C-425/06) in cui la Corte di Lussemburgo ribadisce che «l'esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell'operazione o delle operazioni controverse,» e che la circostanza deve essere valutata in concreto dal giudice, la Cassazione ritorna sull'argomento nel 2008 (Sez. T, n. 25374/2008, 265 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE Altieri, Rv. 605520), proprio nello stesso caso nel quale, in precedenza, aveva compiuto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia che aveva determinato la sentenza appena sopra menzionata, specificando che il divieto dell'abuso di diritto costituisce una clausola generale antielusiva di derivazione comunitaria, operante, però, sia per i tributi armonizzati che per quelli non armonizzati, («la nozione assume il ruolo di Generalklausel antielusiva o di General AntiAvoidance Rule nell'ordinamento tributario: pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali, la sua applicazione, come già riconosciuto dalla Corte ( sentenza 21 settembre 2006, n. 21221 e, da ultima, 21 aprile 2008. n. 10257, entrambe in materia di imposizione diretta ) s'impone per essere la stessa di formazione comunitaria. Con la conseguenza che la stessa opera anche al di fuori dei tributi "armonizzati " o" comunitari ", quali l'i.v.a., le accise e i diritti doganali»), e che tale concetto può operare come una sorta di meccanismo di accertamento semplificato, senza che lo stesso sia incompatibile con altre categorie degli ordinamenti nazionali rilevanti la patologie dei contratti, quali la nullità. Ancora nel 2008, poi, la Cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 30055/2008, D'Alessandro, Rv. 605850, e Sez. U, n. 30057/2008, D'Alessandro, Rv. 605907) specifica ulteriormente il concetto, in quanto, pur confermando l'esistenza di un generale principio di divieto di abuso del diritto, della cui esistenza l'introduzione di singole norme specifiche antielusive viene considerato sintomo, e non elemento contrario, ne individua il fondamento nell'art. 53 Cost. per i tributi non armonizzati, e nel diritto comunitario per i tributi armonizzati. Precisa anche che tale principio «non si traduce nell'imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, ma nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali» e la sua applicazione non si pone quindi in contrasto con il principio di riserva di legge di cui all'art. 23 Cost. In decisioni successive, la Corte conferma sostanzialmente tale orientamento cercando di precisare meglio i limiti del principio, che hanno attirato sullo stesso numerosi commenti dottrinali, ad iniziare dalla sua indeterminatezza e dal rilievo che, espresso in tali termini generali, lo stesso sembra non tenere conto del fatto che, nel nostro ordinamento, in realtà almeno una norma anti-elusiva semi-generale non solo esisteva dal 1997 (il già citato art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973), ma la stessa era estremamente dettagliata, conteneva previsioni specifiche sostanziali sulla definizione della condotta illecita (mancanza di valide ragioni economiche degli atti o 266 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE negozi posti in essere, con lo scopo di aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti) e procedurali sulle modalità con cui, nella pratica, la contestazione della non conformità della condotta all'ordinamento doveva avvenire [LUPI, STEVANATO, 2009, pag. 403]. Altri commenti si sono incentrati sulla diversa interpretazione data dalla Cassazione al concetto di "abuso del diritto" rispetto a quello espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza Halifax. Prescindendo dal fatto che quest'ultima si riferiva solo all'iva mentre la Corte Suprema, anche nelle sentenze successive, consolidava il proprio orientamento consistente nel creare, partendo da ciò, un vero e proprio principio generale di divieto di abuso di diritto applicabile quindi a tutti i settori di imposta (si veda, per esempio, la sentenza Sez. T, n. 08772/2008, Cicala, Rv. 603114), sono state messe in luce anche divergenze nella definizione stessa di "operazione abusiva". La Corte di Giustizia la ha ravvisata non solo nel conseguimento di un vantaggio fiscale pur nell'applicazione formale delle disposizioni di legge, ma anche nel fatto che l'ottenimento di tale vantaggio fiscale è, in realtà, contrario all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni applicate. Ciò è tanto vero, che in un altro caso, di poco precedente alla sentenza Halifax, il caso Cadbury Schweppes (Corte di Giustizia UE C-196/04), la Corte, pur affermando un generale principio di divieto di abuso della legislazione comunitaria per conseguire vantaggi fiscali indebiti, aveva ritenuto che il solo fatto che la sede di una società venisse stabilita in uno Stato Membro della UE con regime fiscale più vantaggioso non integrasse, di per sé, un abuso del principio di libertà di stabilimento. La dottrina ha evidenziato come, invece, l'aspetto sopra menzionato - relativo al perseguimento di un obiettivo contrario a quello cui tendono le norme applicate – sia rimasto piuttosto in ombra nella giurisprudenza della Cassazione, cosicché avere legato il concetto di abuso di diritto al mero conseguimento di un vantaggio fiscale derivante dalla formalmente corretta applicazione delle norme avrebbe reso il confine tra abuso e mere operazioni di risparmio di imposta, del tutto lecite, molto sottile [Lovisolo, 2009, pag. 49, Beghin, 2009, pag. 23 e ss.]. Col tempo, però, la Cassazione sembra avere chiarito meglio i contorni del principio da essa affermato. Sez. T, n. 01465/2009, Scuffi, Rv. 606466, per esempio, sembra fare chiarezza sul punto ed evitare il suddetto rischio nel momento in cui afferma che l'abuso costituisce un aggiramento della legge tributaria per scopi non 267 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE propri, in linea quindi con i principi della sentenza Halifax secondo cui ciò che lo connota è lo scopo, il risultato al quale l'autore dell'operazione tende e non l'uso degli strumenti che esso utilizza. Il paventato pericolo di indeterminatezza del concetto di abuso e, soprattutto, la sua sovrapposizione ad operazioni del tutto lecite di mero risparmio fiscale inizia, quindi, ad essere scongiurato nelle stesse decisioni della Suprema Corte. Inoltre il concetto di abuso del diritto, pur mantenendo la valenza di principio generale datogli dalla Corte, viene maggiormente riferito all'art. 37 bis sia per quanto attiene agli aspetti sostanziali che procedurali. Anche sez. T, n. 01372/2011, Didomenico, Rv. 616371, fornisce qualche, significativa, suggestione in più. In tale ultima decisione, infatti, pur ribadendosi i principi generali già proclamati dalla Corte sull'argomento, si pone, però, in evidenza la necessità che il "disegno elusivo" contestato al contribuente venga motivato comparativamente dall'amministrazione finanziaria nell'atto impositivo e si sottolinea la "particolare cautela" che deve guidare il giudice nell'applicazione del principio generale antielusivo, alla ricerca di una "giusta linea di confine" tra elusione e "libertà di scelta delle forme giuridiche", quale espressione della libertà d' impresa. La tendenza ad una applicazione non indiscriminata dell'abuso di diritto ad ogni situazione di risparmio di imposta, nonché ad una interpretazione dello stesso in più stretta connessione con le norme esistenti appare essersi confermata nelle sentenze degli anni più recenti. Sez. T, n. 00405/2015, Olivieri, Rv. 634069, è molto esplicita in tal senso, quando afferma che «in materia tributaria, l'opzione del soggetto passivo per l'operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un "indebito"vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale». Nella specie, così, è stato ritenuto non costituire abuso del diritto, e ricadere al di fuori dell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 un contratto di sale and lease back, caratterizzato dalla cd. "clausola tandem", in virtù della quale la banca finanziatrice subentra alla società di leasing nel credito per i canoni residui, «in quanto tale operazione, pur procurando al contribuente un risparmio d'imposta, collegato all'accelerata deducibilità della prima maxi-rata, consente di realizzare un concreto interesse, che rientra nella libertà d'iniziativa economica, sostituendo un pregresso debito bancario con un finanziamento a condizioni migliori, e non risulta, pertanto, irragionevole rispetto alle ordinarie logiche d'impresa». 268 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE Ancora nel 2015, Sez. T, n. 24024/2015, Botta, in corso di massimazione, dopo avere ribadito il fatto che l'abuso di diritto rappresenta un principio generale del nostro ordinamento, ha però confermato l'orientamento consolidatosi (Sez. T, n. 04603/2014, Greco, Rv. 629749) secondo cui ciò che connota tale figura è il risultato, lo scopo di eludere il fisco attraverso la manipolazione di schemi negoziali classici (allontanando così ogni rischio di confusione con le mere operazioni di lecito risparmio di imposta); ha, inoltre, affermato che, nelle materie già regolate da specifiche norme di legge (quale, tipicamente, il caso delle imposte dirette dove operava l'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973), il concetto di abuso del diritto debba intendersi quasi tipizzato alla luce dei requisiti previsti da tali disposizioni, ad iniziare dalla individuazione della operazione specifica, tra quelle previste dell'art. 37 bis, che costituirebbe, nel singolo caso, il mezzo elusivo, cosicché la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto il ricorso del contribuente sulla base dell'affermazione del principio astratto di abuso del diritto, richiedendo l'individuazione della specifica pratica abusiva che sarebbe stata posta in essere nella specie, in conformità a quanto previsto dal suddetto art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. Analogo ancoraggio dell'abuso di diritto all'art. 37 bis si ritrova in sez. T, n. 04561/2015, Ferro, Rv. 635403, secondo cui «il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il cui fondamento si rinviene nell'art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600». Ciò comporta come conseguenza, tra l'altro, l'abbandono del ricorso alle nullità civilistiche, perché ai fini del sistema tributario ciò che rileva, quando si debba stabilire se sussista abuso di diritto, non è la nullità o meno del negozio posto in essere, ma la sua opponibilità o meno all'Amministrazione finanziaria. Da un punto di vista processuale, poi, se la giurisprudenza è generalmente costante nel ritenere che l'onere di provare l'abuso spetta alla Amministrazione che lo invoca (si veda, per esempio, Sez. T, n. 20029/2010, Giacalone, Rv. 614550, la sopra citata n. 04603/2014, o, ancora, Sez. T, n. 03938/2014, Terrusi, Rv. 629733) ugualmente si riscontra un orientamento favorevole alla rilevabilità anche d'ufficio. Ancora nella sentenza sopra citata n. 24025/2015, insieme ad altre sempre recentissime del 2015, la Corte, oltre a ribadire il principio per cui «la fattispecie dell'abuso di diritto e la sua valutazione da parte del giudice nazionale rappresenta un principio generale vigente nell'ordinamento italiano, con radici comunitarie e costituzionali» ha ripetuto che la sua rilevabilità in sede processuale «non trova di per sé ostacolo 269 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE nella mancata allegazione da parte dell'Amministrazione finanziaria e può quindi essere rilevato d'ufficio in sede giurisdizionale» (Sez. T, n. 05380/2015, Federico. La nuova disposizione, frutto dell'attuazione della delega fiscale concepita addirittura nel 2012 dal Governo allora in carica e la cui approvazione ha avuto un iter piuttosto travagliato [MANZON, 2013, pag. 225], interviene ora nel dibattito, come detto, non con una portata enormemente rivoluzionaria nella definizione, quanto più con una innovazione nel significato complessivo, ponendosi come norma che per la prima volta codifica un principio generale di abuso del diritto nel nostro ordinamento. In ogni caso, fissa le caratteristiche dell'istituto nella "mancanza di sostanza economica" delle operazioni poste in essere che realizzano vantaggi fiscali "indebiti", distinguendosi così dai meri risparmi di imposta leciti. La norma contiene poi una definizione di "assenza di sostanza economica" e di "vantaggio fiscale indebito", riecheggiando, a proposito di questa ultima definizione, i principi risalenti al caso Halifax, laddove fa riferimento a "vantaggi realizzati in contrasto con la finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario". Contiene, poi, l'espressa abrogazione dell'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. 3. Gli aspetti penali dell'abuso di diritto. Un brevissimo accenno non può non essere compiuto anche ai riflessi penali dell'abuso di diritto, atteso che, almeno in passato, le condotte che lo integravano potevano avere dei risvolti anche da questo punto di vista. In particolare, potevano costituire quanto meno il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all'art. 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. In effetti, non sono mancate in passato, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, decisioni che hanno ritenuto integrato il reato sulla sola base di condotte elusive, e non necessariamente di evasione. Cass. pen., Sez. 2, n. 07739 del 2011, Rv. 252019, per esempio, ha stabilito che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono consistere anche solo in condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di abuso di diritto previste dalla legge, richiamando esplicitamente gli artt. 37, comma 3, e 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. La nuova disposizione, invece, al comma 13, oggi esclude espressamente che le condotte integranti abuso di diritto abbiano rilievo penale. Di tale nuova norma è già stata compiuta applicazione da parte della Corte di Cassazione in un caso, relativo a 270 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE contratti di stock lending, cioè di prestiti di titoli che determinavano perdite fiscali da opporre in compensazione alle attività della società, in cui l'udienza di discussione era fissata proprio il giorno di entrata in vigore della norma, il 1 ottobre 2015. La norma, quindi, è stata applicata con effetto retroattivo, essendosi, in sostanza, realizzata una vera e propria abolitio criminis (Cass. pen., Sez. 3, n. 40272 del 2015), senza che, ai fini penali, sia stato dato valore al limite di applicabilità temporale dell'art. 10 bis alle sole situazioni in cui non fosse stato ancora notificato un atto impositivo ai fini fiscali. 4. Conclusioni. Non c'è dubbio che il tema dell'abuso di diritto e dell'elusione fiscale sia stato sempre più trattato nel corso degli ultimi anni dalle istituzioni con l'attenzione ed il rilievo che esso merita, non dovendosi dimenticare che si tratta di argomento che, riguardando prevalentemente le imprese e la loro attività, riguarda, in ultima analisi, anche l'economia del Paese. Lo stesso continua così ad essere al centro delle analisi non solo della giurisprudenza, ma, ovviamente, anche da parte dell'amministrazione finanziaria. Ne è un esempio una recentissima circolare della Agenzia delle Entrate, la n. 36/E dell'1 dicembre 2015, che, a proposito delle società titolari di beni immateriali quali lo sfruttamento dei diritti legati a brevetti, chiarisce che le operazioni di costituzione delle stesse, anche tramite fusioni, scissioni o conferimento di azienda, che determinano, tra l'altro, il venir meno dell'obbligo di presentazione della istanza di ruling per la determinazione del contributo economico direttamente conseguito, non possono considerarsi abusive e non integrano per ciò solo abuso di diritto. L'argomento è anche al centro degli aspetti organizzativi della giustizia tributaria se è vero che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, alla luce dell'entrata in vigore anche degli altri decreti attuativi della delega fiscale, ha raccomandato le commissioni tributarie, che nel 2016 dovranno costituire al loro interno sezioni specializzate, di individuare per ciascuna sezione udienze periodiche dedicate alla trattazione delle controversie sull'applicazione dell'art. 10 bis della legge 212 del 2000, in modo da affrontare rapidamente le questioni che si presentino sulla nuova normativa, creare orientamenti uniformi in materia e fornire quella certezza del diritto che una parte della dottrina riteneva messa in discussione dalla costruzione per via solo giurisprudenziale del principio generale. 271 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE Sarà quindi interessante notare gli sviluppi nei prossimi mesi ricordando che, come detto sopra, l'importanza dell'argomento va probabilmente al di là del campo giuridico ed attiene in qualche misura allo sviluppo economico del Paese. Si tratterà, quindi, di trovare il giusto equilibrio tra il non penalizzare operazioni economiche, anche originali, che, senza essere dettate da scopi elusivi, possano permettere alle imprese, anche attraverso risparmi leciti di imposta, di risollevarsi dalla crisi di questi anni, ed assicurare il principio, su cui in sostanza si fonda il patto sociale che regge gli Stati moderni, secondo cui il pagamento delle imposte in misura proporzionata alla propria capacità contributiva è un dovere non solo giuridico, ma anche morale per l'altrettanto fondamentale sviluppo, sotto ogni punto di vista, della società in cui viviamo. 272 CAP. XV - GLI ORIENTAMENTI E LE APPLICAZIONI PIÙ RECENTI IN TEMA DI ELUSIONE FISCALE Bibliografia FALSITTA, L'interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Giur., 3/2009, pag. 293 MANZON, Note a margine del fallimento del primo "vero" tentativo di codificazione in materia di abuso del diritto/elusione fiscale, in Corr. Giur., n.2/2013, pag. 225 LUPI, STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. Trib., 6/2009, pag. 403 LOVISOLO, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. Dir. Trib., 1/2009, pag. 49 BEGHIN, Evoluzione e stato della giurisprudenza tributaria: dalla nullità negoziale all'abuso del diritto nel sistema impositivo nazionale, in Quaderni della Rivista di dir. Trib., Elusione ed abuso nel diritto tributario, a cura di G. Maisto, 2009, pag. 23 273 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE CAPITOLO XVI IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE (di Francesca Picardi) SOMMARIO: 1. I trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. – 1.1. I trasferimenti immobiliari integranti condizioni di separazione e divorzio. – 1.2. I trasferimenti immobiliari integranti meri patti accessori. – 2. L'art. 19 della legge n. 74 del 1987 e la sua evoluzione. – 3. La persistente vigenza dell'esenzione riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. – 4. Il prelievo fiscale oggetto di esenzione. – 5. I trasferimenti immobiliari esenti. – 6. La decadenza dall'agevolazione prima casa. 1. I trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. In sede di separazione consensuale o divorzio congiunto è frequente che i coniugi prevedano o programmino trasferimenti immobiliari, che possono integrare: vere e proprie condizioni del ricorso congiunto, ove siano strumentali alla definizione delle obbligazioni derivanti dal rapporto di coniugio o dal ruolo di genitore; meri patti accessori, qualora siano relativi a rapporti autonomi rispetto a quelli familiari che possono, tuttavia, essere definiti in questo contesto, essendo meritevole di tutela l'interesse delle parti a scindere ogni precedente legame patrimoniale al fine di trovare un più sereno equilibrio. In entrambi i casi si pone il problema della forma e della trascrivibilità di detti accordi. In proposito può osservarsi che il ricorso congiunto introduttivo dei relativi procedimenti, sottoscritto dai coniugi, integra un contratto con forma scritta ed è, quindi, astrattamente idoneo a produrre immediati effetti traslativi tra le parti ai sensi dell'art. 1350 n. 1 c.c., ma non è titolo per la trascrizione, che, in virtù dell'art. 2657 c.c., si può eseguire solo in forza di sentenza, atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata o accertata giudizialmente. Occorre, piuttosto, verificare se possa qualificarsi atto pubblico o scrittura privata autenticata, suscettibile di trascrizione, il verbale di udienza in cui confluisce l'accordo processuale di separazione consensuale e se possa ricomprendersi nei provvedimenti suscettibili di trascrizione, ritenuti un numerus clausus, la sentenza di divorzio congiunto che recepisce il trasferimento immobiliare pattuito dai coniugi. L'esistenza di tali dubbi e 274 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE soprattutto di prassi ed orientamenti diversi negli uffici giudiziari e nelle conservatorie, unitamente all'avvertita necessità di un più approfondito controllo sulla regolarità urbanistica, catastale e sulla sussistenza dei requisiti necessari alla circolazione dei beni, comporta che spesso i coniugi ripetano l'accordo con rogito notarile oppure si limitino, in sede di separazione e divorzio, ad assumere un mero impegno, realizzando successivamente il trasferimento immobiliare dinanzi al notaio. 1.1. I trasferimenti immobiliari integranti condizioni di separazione o divorzio. Il trasferimento immobiliare integra una condizione della separazione consensuale o del divorzio congiunto quando è strumentale all'adempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio nei confronti dell'altro coniuge o dei figli (ad esempio, quando assume funzione solutoria rispetto all'obbligo di mantenimento o a quello di corrispondere l'assegno divorzile o quando assicura il godimento della casa familiare). Invero la possibilità di un adempimento in un'unica soluzione delle obbligazioni de quibus, che presentano, per loro natura, un carattere continuativo e periodico, essendo connesse alla soddisfazione di esigenze costanti nel tempo, è espressamente prevista dal legislatore solo relativamente all'assegno divorzile. Ciò ha indotto una parte della dottrina e della giurisprudenza a dubitare dell'ammissibilità di eventuali condizioni della separazione o del divorzio che prevedano l'adempimento dell'obbligo di mantenimento del coniuge o dei figli tramite un trasferimento immobiliare (o anche mobiliare), attesa, da un lato, la possibilità che tale attribuzione patrimoniale non si traduca in una costante fonte di reddito, necessaria ai fini del soddisfacimento dei bisogni quotidiani, e, dall'altro lato, la tendenziale incompatibilità dei trasferimenti immobiliari con la clausola rebus sic stantibus, che, in virtù degli artt. 337 quinquies (già 155 ter) c.c., 710 c.p.c. e dell'art. 9 l. divorzio, integra la regola generale del regime della famiglia in crisi. In particolare appare problematico configurare, in caso d'impoverimento dell'obbligato o di arricchimento del beneficiario, la risoluzione totale o parziale del contratto traslativo avente funzione solutoria dell'obbligo di mantenimento. Difatti, secondo Sez. 2, n. 11342/2004, Fiore, Rv. 573684, la pattuizione, intervenuta in sede di separazione consensuale, contenente l'impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in favore di quest'ultimo, la piena proprietà di un bene immobile, non è soggetta né alla risoluzione per inadempimento, né 275 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE all'eccezione d'inadempimento, non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, alcun rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni, poichè il mantenimento della prole è un obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall'accordo di separazione tra i coniugi, che può solo regolarne le concrete modalità di adempimento. Ad ogni modo, la giurisprudenza di legittimità è propensa ad ammettere, alla luce del ruolo fondamentale ormai riconosciuto all'autonomia negoziale dei coniugi e dei genitori in ordine ai profili economici connessi alle posizioni familiari, l'accordo con cui si preveda l'adempimento dell'obbligazione di mantenimento in un'unica soluzione, tramite l'attribuzione di beni immobili o mobili (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 21736/2013, Falaschi, Rv. 627773, secondo cui la convenzione intervenuta tra i coniugi in sede di separazione consensuale, con la quale si pattuisce un trasferimento patrimoniale ai figli, a titolo gratuito e in funzione di adempimento dell'obbligo genitoriale di mantenimento, non è nulla, qualora garantisca il risultato solutorio, non essendo in contrasto con norme imperative, né con diritti indisponibili; Sez. 2, n. 03747/2006, Oddo, Rv. 594127, secondo cui l'obbligo di mantenimento dei figli minori ovvero maggiorenni non autosufficienti può essere legittimamente adempiuto dai genitori mediante un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio, attribuisca direttamente - o impegni il promittente ad attribuire - la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale pattuizione integri gli estremi della liberalità donativa, assolvendo, di converso, ad una funzione solutorio-compensativa dell'obbligo di mantenimento; Sez. 2, n. 11342/2004, Fiore, Rv. 573683, secondo cui è di per sè valida la clausola dell'accordo di separazione che contenga l'impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in suo favore, la piena proprietà di un bene immobile, trattandosi di pattuizione che dà vita ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ai sensi dell'art. 1322 c.c.). Del resto, l'assenza di un'espressa disciplina preclude l'applicabilità della regola dettata dall'art. 5, comma 8, della legge n. 898 del 1970 secondo cui, in caso di corresponsione in unica soluzione dell'assegno divorzile, non può più essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico, ma non esclude la liceità degli accordi diretti a realizzare interessi meritevoli e 276 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE compatibili con la tutela dei figli e del coniuge economicamente più debole, ivi compresi quelli aventi ad oggetto l'attribuzione di uno o più beni con funzione solutoria degli obblighi di mantenimento. Né può ritenersi, in re ipsa, tale operazione contraria alla salvaguardia delle posizioni dei figli e del coniuge in assenza di un meccanismo di adeguamento automatico del valore della prestazione, astrattamente compatibile solo con una prestazione pecuniaria di carattere periodico, tenuto conto della possibilità che il valore dei beni, definitivamente attribuiti in un'unica soluzione, non diminuisca, ma, al contrario, aumenti con il trascorrere del tempo e non risenta del problema della svalutazione monetaria. Piuttosto, all'adempimento in un'unica soluzione non può attribuirsi, in assenza di un'espressa previsione in tal senso, l'effetto di estinguere, in modo definitivo ed integrale, l'obbligazione di mantenimento nei confronti del coniuge o dei figli, stante la sottoposizione delle condizioni di separazione e divorzio al principio generale rebus sic stantibus e la conseguente impossibilità di estendere in via analogica la regola, di carattere eccezionale, dell'art. 5, comma 8, della legge l. n. 898 del 1970. Un suggerimento in tal senso si può desumere da Sez. 1, n. 02088/2005, Luccioli, Rv. 583543, secondo cui la pattuizione conclusa in sede di separazione personale dei coniugi non esime il giudice del divorzio dal verificare se essa abbia avuto ad oggetto la sola pretesa azionata nella causa di separazione ovvero se sia stata conclusa a tacitazione di ogni pretesa successiva, e, in tale seconda ipotesi, dall'accertare se, nella sua concreta attuazione, essa abbia lasciato anche solo in parte inadempiuto l'obbligo di mantenimento nei confronti della prole, di cui si deve sempre assicurare la piena realizzazione con l'adozione di idonei provvedimenti. Sarà, pertanto, sempre possibile la richiesta di un'integrazione della prestazione, mentre appare preclusa, in caso d'impoverimento del coniuge obbligato o di arricchimento di quello beneficiario, la richiesta di una sua diminuzione, atteso che non sembrano configurabili i presupposti della risoluzione rispetto all'obbligazione di mantenimento. Potrebbe, però, farsi discendere dalla stessa volontà dei coniugi, liberamente formatasi, la rinuncia, da parte dell'obbligato, al diritto di adeguare la prestazione al peggioramento delle proprie condizioni economiche: rinuncia che è funzionale alle esigenze di tutela del coniuge debole e dei figli. 1.2. I trasferimenti immobiliari integranti meri patti accessori. I trasferimenti immobiliari non assurgono a condizioni della separazione o del divorzio ove la loro causa non presenti alcun 277 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE collegamento con i rapporti familiari, da cui restano del tutto autonomi e sganciati. In sede di separazione e divorzio, i coniugi possono, difatti, nell'ottica di una riorganizzazione e sistemazione complessiva del loro assetto patrimoniale, concludere delle vere e proprie vendite, donazioni, divisioni o semplicemente adeguare alla realtà sostanziale pregresse intestazioni fiduciarie, in passato giustificate dall'affectio coniugalis. In tale ipotesi, il trasferimento immobiliare non interferisce sui rapporti familiari, a cui semplicemente si aggiunge, sicché non esclude l'adempimento, nei modi tradizionali, degli obblighi di mantenimento, così come può riguardare immobili diversi dalla casa familiare. Non mancano opinioni contrarie all'ammissibilità, in sede di separazione o divorzio, di simili pattuzioni, semplicemente occasionate e non funzionalmente collegate alla soluzione della crisi familiare. Si è, tuttavia, osservato che il vero problema non concerne la validità di tali accordi, che, comunque, ricadono nell'esplicazione dell'autonomia negoziale dei coniugi, per cui non vi è ragione di negarne l'inserimento nel ricorso congiunto di separazione o divorzio, ma piuttosto riguarda l'individazione della loro disciplina. In particolare ci si chiede se la loro efficacia sia subordinata al controllo del giudice e, dunque, all'omologazione della separazione consensuale o alla pronuncia del divorzio congiunto o piuttosto ne prescinda, e soprattutto quale, sia rispetto ad essi, il ruolo dell'organo giudicante. Invero, relativamente al trasferimento immobiliare con funzione solutoria, che confluisce nel contenuto necessario delle condizioni di separazione e divorzio, il giudice deve necessariamente verificare il rispetto dei diritti e doveri inderogabili che derivano dal matrimonio e la funzionalità dell'accordo rispetto agli interessi tutelati, il cui esito dipende dalle possibilità reddittuali e patrimoniali dei coniugi e dalle caratteristiche del bene trasferito. Invece, relativamente ai patti accessori non appare attribuito al giudice alcun potere di controllo, non scaturendo dal vincolo matrimoniale o dalla crisi familiare alcuna limitazione alla libertà negoziale dei coniugi. Dovrebbe, dunque, concludersi che gli effetti di quegli accordi patrimoniali dei coniugi, che sono meri patti accessori alla separazione o al divorzio, non sono subordinati al provvedimento giudiziario, sia esso decreto di omologa o sentenza di divorzio, dovendo anzi l'autorità giudiziaria, che non può introdurre vincoli non previsti dalla legge, limitarsi ad un non luogo a provvedere o ad una mera presa d'atto. 278 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE 2. L'art. 19 della legge n. 74 del 1987 e la sua evoluzione. Occorre ora individuare il regime tributario dei trasferimenti immobiliari che, come visto, possono confluire nel ricorso congiunto di separazione, di divorzio o di modifica delle relative condizioni e, dunque, essere recepiti rispettivamente nell'accordo processuale, sottoposto all'omologa del Tribunale, nella sentenza o nel decreto che concludono il procedimento. L'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, in modo analogo a quanto previsto dall'art. 82 della legge 4 maggio 1983, n. 184 relativamente alle procedure di affidamento e di adozione del minore di età, dispone che sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898. La terminologia utilizzata - più precisamente l'espressione atto, in aggiunta ai documenti e provvedimenti, e il collegamento al procedimento in termini di relazione e non di appartenenza - ha indotto a ricomprendere, sin da subito, nell'esenzione anche gli accordi traslativi dei coniugi. Prima di verificare entro che limiti ciò possa avvenire, però, occorre brevemente soffermarsi sull'ambito applicativo di tale disciplina, che è stato progressivamente ampliato, in considerazione della stessa ratio del beneficio, per effetto di tre pronunce additive d'incostituzionalità. Più precisamente Corte cost., 15 aprile 1992, n. 176 e Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154 hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 prima nella parte in cui non estende l'esenzione anche alle iscrizioni d'ipoteca effettuate a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge in sede di separazione e successivamente nella parte in cui non estende l'esenzione a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi. Difatti, l'esigenza di agevolare l'accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del procedimento di divorzio, è ancor più accentuata nel giudizio di separazione, ove la situazione di contrasto tra i coniugi, cui occorre dare uno sbocco, presenta, di regola, toni di ben maggiore asprezza e drammaticità, sicchè risulterebbe irragionevole e, quindi, in contrasto con l'art. 3 Cost. diversificare il profilo tributario delle due procedure. In questo 279 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE modo si è, dunque, pervenuti all'integrale abrogazione dell'art. 8, lettera f), della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, che assoggettava all'imposta fissa di registro gli atti dell'autorità giudiziaria in materia di separazione e divorzio, ancorché recanti condanne al pagamento di assegni o attribuzione di beni patrimoniali già facenti parte di comunione fra i coniugi. Infine, Corte cost. 11 giugno 2003, n. 202 ha dichiato l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, lettera b), della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, n. 131, ove non esenta dall'imposta di registro i provvedimenti emessi in applicazione dell'art. 148 c.c. nell'ambito dei rapporti fra genitori e figli, atteso che il trattamento di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 tutela il figlio minore per il cui mantenimento è disposto il contributo a carico di un genitore ed a favore dell'altro, sicché la sua omessa previsione relativamente alla prole naturale, oltre ad essere irragionevole, con violazione dell'art. 3 Cost., si risolve in un trattamento deteriore dei figli naturali rispetto ai figli legittimi, in contrasto con l'art. 30 Cost. Va, tuttavia, sottolineato che tale pronuncia si riferisce esclusivamente ai provvedimenti dell'autorità giudiziaria e non anche agli atti ed ai documenti, per cui non sembra ancora raggiunta un'integrale equiparazione tributaria della crisi della famiglia legittima e di quella di fatto, che sarebbe alquanto auspicabile, anche alla luce del principio di uguaglianza [GIUNCHI, 2012, 7]. Oggi si pone, inoltre, il problema dell'applicazione dell'esenzione in esame agli eventuali trasferimenti immobiliari confluiti o programmati nella convenzione di negoziazione assistita di cui all'art. 6, comma 2, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in legge 10 novembre 2014, n. 162. Rassicura in tale senso la risoluzione n. 65/E del 16 luglio 2015, con cui l'Agenzia delle Entrate, data la parificazione degli effetti della convenzione di negoziazione assistita ai provvedimenti giudiziali di separazione e divorzio, ha affermato l'applicabiità dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 ai trasferimenti immobiliari ivi previsti, sempreché dal testo dell'accordo medesimo, la cui regolarità sia stata vagliata dal Procuratore della Repubblica, emerga che le disposizioni patrimoniali siano funzionali e indispensabili ai fini della risoluzione della crisi coniugale. Ad ogni modo, bisogna chiedersi se il trattamento di favore di cui all'art. 19 della legge n. 77 del 1987 sia sopravvissuto all'art. 10, comma 4, del d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 che ha sopresso, a decorrere dal 1° gennaio 2014, tutte le esenzioni ed agevolazioni 280 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE tributarie, anche se previste in leggi speciali, in relazione agli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili ed agli atti traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari di godimento, salva una serie di eccezioni, in cui, però, non vi è alcuna menzione della disposizione in esame. 3. La persistente vigenza dell'esenzione riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio. Ad avviso dell'Agenzia delle Entrate (par. 9.2 della circolare n.2/E del 21 febbraio 2014), qualora nell'ambito della separazione e del divorzio vengano posti in essere dei trasferimenti immobiliari continua ad applicarsi, anche successivamente al 1° gennaio 2014, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che non ricade nell'abrogazione disposta dall'art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2011. A fronte di tale atteggiamento dell'Agenzia delle Entrate non dovrebbe esservi sul punto occasione di contenzioso e, quindi, di un chiarimento della Suprema Corte. In dottrina, la sopravvivenza dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 riguardo ai trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio, nonostante l'entrata in vigore dell'art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 23 del 2011, è stata sostenuta in considerazione: della difficoltà di attribuire a tali negozi natura onerosa; del carattere generale dell'esenzione, che non riguarda solo i trasferimenti a titolo oneroso, ma tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi a separazione e divorzio, traducendosi, dunque, non in un'agevolazione, ma piuttosto nel trattamento tributario specifico delle crisi familiari [FORMICA - GIUNCHI, 1999, 8; Glendi, 2014, 734; sono state espresse, però, anche posizioni di compromesso: v. ANSELMI, 2013, 1335, secondo cui l'esenzione continuerà ad applicarsi solo a quei trasferimenti di cui non emerga con sicurezza la natura onerosa]. Peraltro, può osservarsi che la crisi familiare comporta sempre un impoverimento dei componenti l'originario nucleo, che prima beneficiava del risparmio di spesa collegato alla comune organizzazione, sicchè nessuno degli atti, documenti o provvedimenti relativi a separazione o dovorzio sono idonei ad esprimere un'effettiva capacità contributiva. Pertanto, l'abrogazione, anche solo parziale, dell'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che ha un fondamento costituzionale, in quanto fondata sull'assenza di capacità contributiva degli atti relativi a separazione e divorzio, comporterebbe dubbi di conformità rispetto all'art. 53 Cost. 281 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE 4. Il prelievo fiscale oggetto di esenzione. L' esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa, contemplata dall'art. 19 della legge n. 74 del 1987, si estende ad ogni tipo di tributo, indipendentemente dalla natura d'imposta (diretta o indiretta) o tassa in senso proprio, posto che il riferimento, presente nella norma, ad ogni altra tassa, subito dopo l'indicazione di due imposte, è sintomatica di un uso atecnico del termine, che è, dunque, idoneo a ricomprendere le imposte ipotecarie e catastali, l'imposta sul valore aggiunto, l'imposta sull'incremento di valore degli immobili. Così, ad esempio, Sez. T, n. 06065/2000, Graziadei, Rv. 536422 e Sez. T, n. 15212/2000, Sotgiu, Rv. 542156 hanno ritenuto ricadere nell'ambito applicativo della disposizione in esame anche l'INVIM. Successivamente Sez. T, n. 02347/2001, Sotgiu, Rv. 543934 ha confermato la decisione di merito, che aveva ritenuto esente da INVIM il conguaglio in denaro a fronte di un trasferimento immobiliare attribuito ad uno dei coniugi in sede di conciliazione giudiziale sullo scioglimento della comunione dei beni, nell'ambito del giudizio di divorzio. 5. I trasferimenti immobiliari esenti. Più incerta e complessa risulta l'individuazione degli atti negoziali relativi a separazione e divorzio e, dunque, ricompresi nell'ambito applicativo dell'esenzione in esame. Dal punto vista testuale, l'aggettivo relativi allude ad un rapporto di connessione, senza, tuttavia, chiarire se sia richiesto un collegamento funzionale o se sia sufficiente un collegamento meramente occasionale. La prima interpretazione circoscrive il regime di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 esclusivamente ai trasferimenti immobiliari dipendenti da separazione e divorzio e, cioè, posti in essere per adempiere agli obblighi di mantenimento da essi derivanti o per assicurare il godimento della casa familiare, sottolineando la natura oggettiva e non meramente soggettiva dell'agevolazione in esame, che non può, dunque, investire qualsiasi accordo solo perché posto in essere dai separandi o divorziandi Secondo l'altra tesi, invece, l'esenzione si estende anche alle vicende traslative che, sebbene del tutto autonome dai rapporti familiari, sono originate dalla crisi familiare, in considerazione dell'esigenza avvertita dai coniugi di sistemare la reciproca situazione economica, recidendo gli eventuali legami e sostegni 282 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE passati, atteso che, comunque, la frammentazione del patrimonio familiare, unitamente alla perdita del risparmio fondato sulla pregressa organizzazione comune, elimina una reale ed effettiva capacità contributiva. Ad ogni modo, secondo entrambe le proposte ermeneutiche, non è indispensabile che l'atto traslativo sia realizzato in sede di separazione e divorzio, per cui beneficiano dell'esenzione anche i contratti stipulati per atto pubblico notarile o scrittura privata autenticata da notaio, ove relativi ai procedimenti di separazione o divorzio. Peraltro, l'interpretazione dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 non può prescindere dall'orientamento di molti uffici giudiziari, che escludono la possibilità d'inserire nelle condizioni della separazione consensuale o del divorzio congiunto un accordo immediatamente traslativo, ammettendo esclusivamente l'assunzione, da parte dei coniugi, di eventuali obblighi a trasferire. In questo senso appare, del resto, orientata la giurisprudenza di legittimità, che riconosce l'esenzione ex art. 19 della legge n. 74 del 1987 anche ai trasferimenti immobiliari realizzati fuori dalla sede giudiziaria in ottemperanza ad un'obbligazione assunta in sede di separazione consensuale o divorzio congiunto (v., ad esempio, Sez. T, n. 11458/2005, Meloncelli, Rv. 581955). La realizzazione dell'effetto traslativo in sede extra- processuale rende, però, necessario che, in qualche modo, emerga il collegamento con i procedimenti giudiziari di separazione e divorzio. Per coloro che limitano l'esenzione alle sole vicende traslative dipendenti da separazione e divorzio, il collegamento non può che risultare dalle condizioni di separazione e divorzio, in cui l'accordo necessariamente confluisce, eventualmente in forma programmatica, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi di mantenimento o il godimento della casa familiare ed essendo, pertanto, soggetto al controllo giudiziario. Per coloro che, invece, ritengono sufficiente, ai fini dell'esenzione, un collegamento anche solo occasionale con i procedimenti di separazione e divorzio, tale aspetto è più complesso. Sicuramente l'inserimento nel ricorso congiunto dei coniugi del trasferimento immobiliare o dell'obbligo di realizzarlo costituisce un indizio grave, preciso e concordante, da cui deriva una presunzione che, in sede contenziosa, incombe all'Amministrazione finanziaria rovesciare, mentre l'assenza di una qualsivoglia previsione nelle condizioni di separazione e divorzio pone in capo al contribuente l'onere probatorio, secondo la regola generale per cui chi vuole usufruire di 283 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE un regime agevolato, in caso di contestazione, deve dimostrarne i presupposti (Sez. T, n. 21406/2012, Valitutti, Rv. 624363). La giurisprudenza di legittimità sembra orientata verso un'interpretazione restrittiva che esige, ai fini dell'esenzione, un collegamento di tipo funzionale del trasferimento immobiliare con la separazione o il divorzio, la cui esistenza viene riconosciuta, però, anche nell'ipotesi della divisione di un bene originariamente acquistato in regime di comunione legale. Così, ad esempio, secondo Sez. T, n. 15213/2001, Cicala, Rv. 550764, l'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 opera con esclusivo riferimento a quegli atti che integrano il naturale contenuto patrimoniale della separazione o del divorzio, mentre non si estende a quelli che ne sono solo occasionalmente generati, per cui va esclusa riguardo alla divisione, confluita nel verbale di udienza, di un immobile acquistato dai coniugi in regime di separazione dei beni, potendo la comunione ordinaria, in questo modo sciolta, persistere nonostante la separazione. Anche Sez. T, n. 07493/2002, Merone, Rv. 554630, sia pure a livello di mero obiter, nega l'operatività dell'esenzione relativamente a quei trasferimenti immobiliari che siano solo occasionalmente generati da separazione e divorzio, richiedendo la sussistenza di un rapporto di causalità necessaria (ritenuto, nella specie, insito nello scioglimento della comunione ordinaria derivante, all'esito della separazione, da quella legale). Non sembrano porsi in contrasto con tali precedenti Sez. T, n. 14157/2013, Bruschetta, Rv. 627108 e Sez. T, n. 02347/2001, Sotgiu, Rv. 543934 che applicano l'agevolazione sempre alla divisione giudiziale dell'immobile originariamente acquistato in regime di comunione legale, scioltasi proprio per effetto della separazione. Piuttosto, va evidenziato che nel più recente provvedimento del 2013 è stato riconosciuto il collegamento del trasferimento immobiliare alla separazione ed al divorzio, nonostante la domanda giudiziale di scioglimento della comunione fosse stata proposta in autonomo procedimento giudiziario, in quanto, comunque, strumentale alla regolamentazione dei rapporti economici insorti a cagione della lite matrimoniale. Ancora in Sez. T, n. 06065/2000, Graziadei, Rv. 536422, che cassa con rinvio il provvedimento di merito, si legge che il problema dell'applicabilità dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987, sollevato dai contribuenti, potrebbe essere rilevante ove i trasferimenti immobiliari tra i coniugi (aventi ad oggetto quote di appartamento 284 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE ad uso abitativo, due appezzamenti di terreno e due cantine), recepiti nella sentenza di divorzio, fossero riconducibili alle disposizioni impartite dall'organo giudicante per riequilibrare le posizioni economiche dei coniugi dopo lo scioglimento del matrimonio o per regolare in unica soluzione l'obbligo di corrispondere l'assegno mensile. Parimenti la Corte costituzionale non appare propensa ad una lettura onnicomprensiva dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987, idonea a ricomprendere ogni trasferimento immobiliare posto in essere dai separati o divorziati. In particolare, Corte cost., 15 dicembre 1995, n. 538 ha rigettato per manifesta inammissibilità la questione sollevata riguardo alla mancata estensione dell'art. 19 alla separazione, ritenendo carente la motivazione circa la rilevanza, proprio perché il giudice a quo aveva assunto come certa l'applicazione dell'esenzione (ove il trasferimento immobiliare fosse stato posto in essere nel giudizio di divorzio) in base ad una lettura latissima, ma per nulla pacifica della disposizione in esame. Deve, tuttavia, segnalarsi che un approccio più estensivo sembra sotteso a Sez. T, n. 11458/2005, Meloncelli, Rv. 581955 e Sez. T, n. 16348/2013, Sambito, Rv. 627198, secondo cui l'art. 19 della legge n. 74 del 1987 ricomprende tutti gli atti relativi ai procedimenti di separazione o divorzio strumentali all'adempimento, da parte dei coniugi, delle obbligazioni assunte per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche quelli i cui effetti siano favorevoli ai figli (più precisamente, l'esenzione è stata applicata ai trasferimenti gratuiti di quote immobiliari da parte di uno o di entrambi i genitori ai figli, ritenendosi l'art. 19 norma speciale rispetto alla presunzione di gratuità degli atti tra parenti, posta dall'art. 26 del d.P.R. n. 131 del 1986). In tali pronunce, difatti, non si allude, in maniera esplicita, al necessario collegamento funzionale tra il trasferimento immobiliare ed il contenuto di separazione o divorzio, facendosi riferimento, in modo più generico, alla volontà dei coniugi di conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, che possono essere estranei rispetto ai rapporti familiari veri e propri. Ad ogni modo, l'apertura della giurisprudenza di legittimità relativamente ai trasferimenti immobiliari a favore della prole sembra del tutto giustificata, in quanto i figli non restano estranei, ma sono coinvolti nei procedimenti di separazione e divorzio ed alla loro tutela, secondo la Corte costituzionale, è diretta la stessa esenzione. Questa posizione è stata di recente recepita dall'Agenzia delle Entrate che, con le circolari n. 27 del 21 giugno 2012 e n. 285 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE 18/E del 18 maggio 2013, ha riconosciuto l'applicabilità dell'esenzione anche nell'ipotesi di trasferimenti immobiliari a favore dei figli, a condizione che, nel testo dell'accordo omologato dal Tribunale (o recepito nel provvedimento del Tribunale), l'attribuzione patrimoniale a favore della prole sia configurata come condizione essenziale ed indipensabile ai fini della risoluzione della crisi familiare. L'applicazione dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 si ritiene, invece, preclusa in caso di trasferimenti immobiliari in cui siano coinvolti terzi estranei, in considerazione: sia del tenore letterale della disposizione, la quale, nel riferirsi a patti assunti in sede di separazione o divorzio, sembra riguardare le prestazioni esecutive rese tra le stesse parti dei procedimenti de quibus, sia della ratio della disciplina, che mira a promuovere una soluzione idonea a garantire un nuovo equilibrio, anche economico, per i coniugi, rispetto a cui non assumono rilievo i terzi, il cui coinvolgimento nell'esenzione si presterebbe facilmente ad intenti elusivi; sia il principio di stretta interpretazione che ispira l'esegesi delle disposizioni tributarie agevolative. In questo senso si è espressamente pronunciata Sez. T, n. 00860/2014, Sambito, Rv. 629247, secondo cui l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 spetta solo se i soggetti che li pongano in essere siano gli stessi coniugi e non anche terzi, per cui ne ha escluso l'applicazione all'atto di costituzione di usufrutto vitalizio su un immobile, posto in essere a favore della moglie da una società semplice, di cui è legale rappresentante il marito. 6. La decadenza dall'agevolazione prima casa. La nota II – bis) all'articolo 1 Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 dispone, al comma 4, la decadenza dalle agevolazioni prima casa qualora si proceda al trasferimento, a titolo oneroso o gratuito, degli immobili acquistati con i benefici prima del decorso del termine di cinque anni dalla data della compravendita. In tale ipotesi, l'Agenzia delle entrate provvede al recupero della differenza fra l'imposta calcolata in assenza di agevolazioni e quella risultante dall'applicazione dell'aliquota agevolata, nonché all'irrogazione della sanzione amministrativa pari al 30 per cento e degli interessi di mora. Tuttavia, la decadenza dall'agevolazione può essere evitata se, entro un anno dall'alienazione, si proceda all'acquisto di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale. 286 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE In sede di separazione consensuale o divorzio congiunto è possibile che i coniugi pattuiscano il trasferimento, da un coniuge all'altro, di una quota di un immobile comune o di quello adibito ad abitazione familiare o di altro ancora di proprietà esclusiva di uno dei due in epoca anteriore al quinquennio dall'acquisto. In tale ipotesi non appare sostenibile che l'atto traslativo possa configurarsi alla stregua di un atto coatto e non negoziale o imposto da forza maggiore e, quindi, irrilevante ai fini della decadenza. Occorre, piuttosto, verificare se l'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, oltre a comportare l'inapplicabilità dei tributi a cui l'atto sarebbe in astratto soggetto, escluda la decadenza dall'agevolazione prima casa, di cui l'alienante abbia fruito, e consguentemente impedisca il recupero della differenza impositiva, della sanzione e degli interessi di mora, anche a prescindere dall'acquisto, da parte del cedente, di un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale entro l'anno. L'argomento è stato più volte affrontato dalla Suprema Corte. Sez. T, n. 02263/2014, Sambito, Rv. 629392 ha affermato che il trasferimento di un immobile in favore del coniuge per effetto degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale è riconducibile alla volontà del cedente e non al provvedimento giudiziale di omologazione, per cui determina la revoca delle agevolazioni prima casa ove intervenga nei cinque anni successivi al suo acquisto e non sia seguito, entro l'anno, dall'acquisto di altro appartamento da adibire a propria abitazione principale, con conseguente legittimo recupero delle ordinarie imposte di registro, ipotecarie e catastali da parte dell'Amministrazione finanziaria. Già in epoca meno recente Sez. T, n. 02552/2003, Oddo (non massimata sul punto) aveva ritenuto del tutto inconferente, oltre che nuovo in sede di legittimità, il richiamo della contribuente alle agevolazioni di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 al fine di escludere la decadenza dalle agevolazioni prima casa riguardo ad un trasferimento immobiliare programmato in sede di separazione consensuale, posto che il legislatore si limita a consentire l'esenzione dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa anche degli atti e convenzioni destinati a regolare, sotto il controllo del giudice, i rapporti patrimoniali in conseguenza della separazione legale dei coniugi mediante l'eventuale riconoscimento o trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili od immobili all'uno od all'altro di essi. 287 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE Successivamente, però, Sez. 6-T, n. 03753/2014, Cicala, Rv. 629984, e Sez. T, n. 23225/2015, Napolitano, Rv. 637409, hanno dato al problema un'opposta soluzione, ritenendo che l'attribuzione al coniuge della proprietà della casa coniugale in adempimento di una condizione inserita nell'atto di separazione consensuale non costituisce una forma di alienazione dell'immobile rilevante ai fini della decadenza dai benefici cosiddetta prima casa, bensì una modalità di utilizzazione dello stesso per la migliore sistemazione dei rapporti fra i coniugi in vista della cessazione della loro convivenza. In proposito occorre ricordare la posizione espressa dall'Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 27 del 21 giugno 2012, secondo cui, qualora, in adempimento di un obbligo assunto in sede di separazione o divorzio, uno dei coniugi ceda all'altro la quota di un immobile, prima del decorso del termine quinquennale, l'art. 19 della legge n. 74 del 1987 impedisce la decadenza dalle agevolazioni prima casa, fruite in sede di acquisto, a prescindere dalla circostanza che il cedente compri, entro l'anno, un nuovo immobile. Questa stessa soluzione deve necessariamente valere anche per il trasferimento dell'immobile di proprietà esclusiva di un coniuge a favore dell'altro, non giustificandosi un diverso trattamento tributario in ragione della maggiore o minore estensione dell'oggetto contrattuale. Del resto, secondo l'Amministrazione finanziaria, addirittura anche nel caso in cui, in base alla separazione consensuale, omologata dal Tribunale, entrambi i coniugi alienino a terzi la proprietà di un immobile, con rinuncia del corrispettivo da parte di uno dei due a favore dell'altro, il contribuente che non incassa alcuna somma non può incorrere in alcuna decadenza dalle agevolazioni prima casa, atteso che non realizza, di fatto, alcun arricchimento dalla vendita dell'immobile, di cui si priva nell'interesse della famiglia, per cui non può essere tenuto ad acquistare un nuovo immobile, a differenza dell'altro, per il quale resta fermo, al fine della conservazione del beneficio fiscale, l'onere di procedere, entro l'anno, all'acquisto di un altro immobile, da adibire ad abitazione principale. In definitiva, la decadenza dalle agevolazioni prima casa, traducendosi in un prelievo fiscale (di entità, peraltro, maggiore rispetto a quella ordinaria, tenuto conto della sanzione e degli interessi di mora), sembra dover essere inclusa nell'esenzione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987, che, al fine di facilitare l'accesso alla tutela giurisdizionale dei coniugi e di garantire la tutela della 288 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE prole, ricomprende ogni tipo di tributo, a prescindere dalla tipologia e classificazione, assicurando che il regime tributario non ostacoli il conseguimento del nuovo status ed il raggiungimento dell'assetto più conveniente per la famiglia. Il collegamento con la separazione o il divorzio elimina, peraltro, ogni dubbio circa la sussistenza di un intento speculativo. Il trasferimento immobiliare avviene, difatti, non per realizzare un profitto, ma per regolare i rapporti familiari e non è, di regola, accompagnato dall'arricchimento di nessuno dei soggetti coinvolti, dato l'impoverimento ingenerato dalla crisi familiare, che disperde i risparmi fondati sulla comune organizzazione. Né pare poter assumere rilevanza la circostanza che il trasferimento sia riconducibile alla volontà del cedente e non del giudice, atteso che il presupposto del regime in esame è costituito dal fatto che l'atto sia relativo al procedimento di separazione o divorzio e non che sia imposto da un provvedimento giudiziario. Più problematica l'ipotesi del trasferimento dell'immobile dei coniugi ad un estraneo, tenuto conto dell'orientamento secondo cui l'agevolazione di cui all'art. 19 della legge n. 74 del 1987 spetta solo se i soggetti che pongano in essere gli atti con effetti traslativi siano gli stessi coniugi che hanno concluso gli accordi in sede di separazione o divorzio e non anche terzi (così Sez. T, n. 00860/2014, Sambito, Rv. 629247). Tuttavia, dal punto di vista economico, la fattispecie prospettata dall'Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27 del 21 giugno 2012 si risolve non in un'unica, bensì in una duplice operazione e, cioè, nel trasferimento della propria quota, da parte del coniuge che rinuncia al corrispettivo, all'altro e nella successiva alienazione dell'intero immobile al terzo. Tale valutazione economica dovrebbe assumere rilevanza nella ricerca della causa reale e concreta e nella conseguente qualificazione ed interpretazione dell'atto, ex art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ai fini impositivi. Ad ogni modo, ove l'accordo fosse strutturato anche dal punto di vista giuridico nei termini di un doppio trasferimento immobiliare (il primo da un coniuge a favore dell'altro ed il secondo da quest'ultimo al terzo), si renderebbe ineccepibile l'applicazione al primo negozio dell'esenzione dalle imposte e, dunque, anche dalla decadenza dalle agevolazioni prima casa, dispensando il coniuge che ha rinunciato al corrispettivo dalla necessità di un nuovo acquisto entro l'anno. Va, peraltro, ricordato che una parte della dottrina [GIUNCHI, 2012, 4; GLENDI, 2014, 736] è critica relativamente alla frammentazione dell'operazione negoziale, che viene considerata 289 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE unica in considerazione della sua causa, consistente nella sistemazione degli interessi patrimoniali scaturenti dalla crisi familiare. Si è sostenuta, pertanto, l'esisgenza di riconoscere l'esenzione dai tributi e dalla decadenza dalle agevolazioni prima casa, a prescindere dal nuovo acquisto entro l'anno, ad entrambi i coniugi (sia a quello che rinuncia alla sua parte sia a quello che incassa l'intero corrispettivo), attesa l'assenza di ogni intento speculativo: la vendita al terzo avviene, difatti, per affrontare l'impoverimento determinato dalla frattura coniugale e per soddisfare l'esigenza di reperire autonome soluzioni abitative, non sempre realizzabili con un nuovo acquisto. Invero, la riconducibilità del trasferimento immobiliare al terzo nell'ambito applicativo dell'art. 19 della legge n. 74 del 1987 dipende dalla delimitazione della categoria degli atti relativi ai procedimenti di separazione e divorzio, i cui confini continuano ad essere incerti ed in evoluzione, come dimostrato dalla recente inclusione delle attribuzioni a favore della prole. Occorre, perciò, verificare se il requisto soggettivo sia imprescindibile ai fini del trattamento tributario di favore e se, quindi, parti degli atti relativi ai procedimenti di separazione o divorzio debbano essere i coniugi o altri componenti del nucleo familiare, come i figli, essendo necessario che la ricchezza, di cui è espressione il bene immobile trasferito, resti in tale contesto, o se, al contrario, ciò che rileva, in un'ottica oggettiva, è la strumentalità dell'atto alla sistemazione degli interessi familiari, essendo sufficiente una ridistribuzione della sostanze familiari, originariamente integranti un unico patrimonio, realizzabile anche tramite la vendita a terzi. Ulteriori problemi che possono porsi concernono l'accesso alle agevolazioni prima casa del coniuge separato o divorziato, ma comproprietario con l'altro di un immobile o beneficiario del provvedimento di assegnazione della casa familiare. Si tratta, però, di tematiche che non sono direttamente pertinenti coi trasferimenti immobiliari relativi a separazione e divorzio, per cui, in questa sede, ci si limita ad un breve cenno. In particolare, quanto alla prima ipotesi (coniuge separato o divorziato comproprietario di un immobile con l'altro), è sufficiente ricordare che: la comunione tra i coniugi esclude l'impossidenza e la conseguente possibilità di usufruire dell'agevolazione prima casa nell'acquisto di un ulteriore cespite, a differenza della comunione con altri soggetti, nel cui ambito, in assenza del rapporto di 290 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE coniugio, la facoltà di usare il bene comune, senza impedire a ciascuno degli altri comunisti di farne parimenti uso, ai sensi dell'art. 1102 c.c., non consente di destinare la casa comune ad abitazione di uno solo dei comproprietari, per cui la titolarità della quota è simile a quella di immobile inidoneo a soddisfare le esigenze abitative dell'acquirente ed è compatibile con il beneficio fiscale de quo (Sez. 1, n. 09647/1999, Forte, Rv. 529831, Sez. T, n. 10984/2007, Napolitano, Rv. 599236; Sez. 6-T, n. 21289/2014, Conti, Rv. 632662); al verificarsi della separazione legale, la comunione tra coniugi di un diritto reale su un immobile, sebbene originariamente acquistato in regime di comunione legale, va equiparata alla contitolarità indivisa tra estranei, che è compatibile con le agevolazioni prima casa (Sez. T, n. 03931/2014, Sambito, Rv. 629628, che non risulta smentita da Sez. T, n. 07069/2014, Sambito, Rv. 629941, secondo cui non assume, invece, rilevanza la mera separazione di fatto al fine di consentire al coniuge, comproprietario con l'altro di un immobile, di fruire dell'agevolazione prima casa nell'acquisto di un nuovo cespite). Per quanto concerne, invece, l'accesso alle agevolazioni prima casa del genitore beneficiario dell'assegnazione della casa familiare che intenda procedere all'acquisto di un immobile, va tenuto presente, che, secondo l'orientamento consolidato della Suprema Corte (v., tra le tante, Sez. 1, n. 04719/2006, Magno, Rv. 590752), tale provvedimento giudiziale comporta la nascita di un diritto di godimento di natura personale e non di un diritto reale, attesa la tassatività dei modi di costituzione dei diritti reali e l'incompatibilità con la loro struttura dell'incertezza del beneficiario e della durata di tale posizione giuridica, sicché non può precludere i benefici fiscali prima casa che, a norma dell'art 1 della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nota II bis, lett. b) e c), sono esclusi solo se l'acquirente ha la disponibilità di altro immobile a titolo di proprietà o altro diritto reale (così Sez. T, n. 02273/2014, Sambito, Rv. 629512). Analogamente l'adozione di tale provvedimento o la pattuizione di una condizone di separazione in tal senso, sebbene intervenuti nel quinquennio dall'acquisto, non possono rilevare, in danno del genitore non assegnatario, ma esclusivo proprietario dell'immobile, quale causa di decadenza dalle agevolazioni fruite, non derivandone alcun effetto trasaltivo, come già osservato in dottrina. 291 CAP. XVI - IL REGIME TRIBUTARIO DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI RELATIVI ALLA CRISI FAMILIARE Bibliografia L. ANSELMI, La nuova tassazione dei trasferimenti immobiliari: le novità dal 1° gennaio 2014, in Dir. prat. Trib., 2013, I, 1327; F. FORMICA – P. GIUNCHI, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 67, 1999, P. GIUNCHI, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 128, 2012; G. GLENDI, La separazione ed il divorzio nel diritto tributario, in Famiglia e diritto, 2014, 727. 292 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO CAPITOLO XVII RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO (di Paolo Porreca) SOMMARIO: 1. L'arresto delle Sezioni Unite sul cd. estratto di ruolo tributario e il contrasto nella precedente giurisprudenza della Corte di cassazione. 1.1. Analisi dell'orientamento affermativo. 1.2. Analisi dell'orientamento negativo. 2. La ricostruzione risolutiva. 3. La discussione nella dottrina: analisi della tesi espansiva. 3.1. Analisi della tesi restrittiva. 4. Implicazioni dell'arresto del 2015: atti impugnabili davanti al giudice tributario e natura del processo. Premessa. 4.1. La riforma del 2001. 4.2. Dilatazione del catalogo. 4.3. L'impugnazione facoltativa anticipata. 1. L'arresto delle Sezioni Unite sul cd. estratto di ruolo tributario e il contrasto nella precedente giurisprudenza della Corte di cassazione. Le Sezioni Unite civili, con sentenza n. 19704/2015, Di Iasi, Rv. 636309, hanno risolto un contrasto emerso nella giurisprudenza della Corte sull'autonoma impugnabilità del cd. estratto di ruolo tributario. Lo hanno fatto affermando il principio di diritto secondo cui il contribuente può impugnare la cartella di pagamento della quale, a causa dell'invalidità della relativa notifica, sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario della riscossione. A ciò non ostando la norma che stabilisce, all'art. 19, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, l'impugnabilità dell'atto precedente non notificato unitamente all'atto successivo notificato, in quanto una lettura costituzionalmente orientata impone di ritenere che quella prevista non costituisca l'unica possibilità di far valere l'invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque venuto legittimamente a conoscenza e, quindi, non escluda la possibilità di far valere l'invalidità stessa anche prima, giacché l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non può essere compromesso, ritardato, reso più difficile o gravoso, qualora non ricorra la stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo, rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione. La Corte aveva avuto obiettivamente un atteggiamento ondivago sul punto. In particolare, Sez. T, n. 00724/2010, Polichetti, Rv. 611259, Sez. T, n. 15946/2010, Carleo, e Sez. 6-T, n. 02248/2014, Di Blasi, Rv. 629731, avevano optato per l'impugnabilità. In senso difforme erano invece Sez. T, n. 01837/2010, Bernardi, Rv. 611591, specie in motivazione, Sez. T, n. 293 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO 00661/2013, Bruschetta, Rv. 625889, Sez. T, n. 06906/2013, Bruschetta, e Sez. T, n. 06395/2014, Valitutti, Rv. 630819, in particolare al punto 2.4.1.1. della motivazione. 1.1. Analisi dell'orientamento affermativo. Gli arresti affermativi dell'impugnabilità facevano leva sostanzialmente sulla lettura del rapporto di esazione quale instaurato già con la formazione del ruolo, atto esplicitamente impugnabile in quanto identificativo del debito d'imposta e, quindi, della pretesa opponibile, laddove la successiva cartella assume in questa prospettiva una funzione "meramente" partecipativa. Gli studi hanno evidenziato che nel caso della prima decisione del 2010, tra quelle sopra menzionate, l'estratto di ruolo era stato in realtà notificato al contribuente: la conoscenza era quindi "legale" non "occasionale", sicché la Corte era stata indotta a sottolineare la natura riproduttiva parziale dell'estratto. In buona sostanza, si trattava dell'impugnazione del ruolo ex art. 19, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 546 del 1992. La seconda decisione del 2010, diversamente, aveva all'attenzione il caso che, nella prassi, ha fatto emergere la criticità ricostruttiva: due contribuenti chiedevano di impugnare in realtà le cartelle di cui affermavano di essere venuti a conoscenza a seguito di visure effettuate presso il locale concessionario del servizio di riscossione dei tributi. Si trattava, dunque, di una conoscenza "occasionale" della pretesa tributaria. Differenza su cui si dovrà tornare ma cui una parte della dottrina annette significative conseguenze. Risulta più comprensibile come, qui, la Corte era stata per così dire spinta a supportare la conclusione positiva riallacciandosi a un'affermazione più generale e rinvenibile altrove, ossia quella secondo cui è possibile ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall'ente impositore che, con l'esplicitazione delle concrete ragioni, fattuali e giuridiche, a supporto, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria. Senza cioè necessità di attendere che la stessa si vesta della forma e dinamica autoritative tipiche di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dalla legge, atteso "l'indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, dell'interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, a invocare una tutela giurisdizionale (ormai allo stato esclusiva del giudice tributario), di controllo della legittimità sostanziale della 294 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall'ente pubblico". Principio che si correla a quello che si esamininerà essere un progressivo ampliamento, legislativo ed ermeneutico, della giurisdizione tributaria. L'arresto n. 02248/2014 si colloca in quest'ultima cornice interpretativa, che gli studi assumono essere quella propriamente contrastante con la negatoria dell'impugnabilità. Anche in questa ipotesi la conoscenza era occasionale perché il contribuente aveva saputo dell'iscrizione del carico tributario direttamente da un dipendente addetto all'ufficio con la consegna di un estratto dei ruoli "piuttosto che attraverso la notifica della cartella". 1.2. Analisi dell'orientamento negativo. Anche nelle fattispecie sottese alle decisioni "negative" del 2013 il contribuente era venuto a conoscenza "occasionalmente" del ruolo. E la Corte, in questo contesto fattuale, rimarca come il processo tributario sia nato e ancora rimanga connotato da una struttura oppositiva rispetto a manifestazioni di volontà fiscali esternate al destinatario, senza perciò lasciare spazio, per scelta normativa, a preventive azioni di accertamento negativo del tributo. Dunque l'opzione era basata non solo e non tanto sulla natura di atto interno dell'estratto di ruolo, quanto e soprattutto sulla carenza di interesse concreto e attuale a impugnare prima della notifica della pretesa. Il binomio era notifica/impugnabilità, mancata notifica/non impugnabilità, ovvero, come traducono gli studi, nella correlazione tra conoscenza legale e impugnabilità implicata dalla dinamica di opposizione se non proprio impugnatoria del processo tributario. È doveroso sottolineare che la sentenza n. 01837/2010 sottendeva un caso in cui, a premessa di un'azione esecutiva del concessionario dei tributi, l'estratto di ruolo era stato notificato ma dopo la notifica della cartella contro cui era agevole rilevare che avrebbero dovuto sollevarsi tempestivamente le contestazioni. Dunque in questo caso si era di fronte a una conoscenza legale ma successiva ad altra altrettanto legale che aveva fatto decorrere logicamente i termini per l'impugnazione con conseguente consolidamento della pretesa amministrativa. A ben vedere, cioè, siamo al di fuori del contrasto vero e proprio, sebbene nella motivazione si leghi l'inimpugnabilità dell'estratto di ruolo alla lettura congiunta dell'elencazione degli atti impugnbabili acclusa nell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 alla luce dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. Con argomento usualmente utilizzato dal côté epistemico qui analizzato. 295 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO Quanto all'arresto del 2014, in esso si sottolineava che i ruoli sono atti interni dell'amministrazione, i cui vizi, infatti, solo eccezionalmente "si riverberano sul rapporto tributario individuale", in base a norme specifiche, quale ad esempio l'art. 17 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, che stabiliva – prima dell'abrogazione operata dall'art. 1, comma 5-ter, lett. a), n. 1), del decreto-legge 17 giugno 2005 n. 106, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 156 – i termini di decadenza per l'esecutività dei ruoli; ovvero "quando i relativi estratti siano notificati al contribuente in luogo della cartella, ed assumano, quindi, la natura di atti impositivi...impugnabili". In questa chiave la cartella esattoriale costituisce, per converso, l'atto impositivo attraverso il quale il contribuente assume contezza dell'iscrizione a ruolo e i cui vizi, diretti o derivati, comportano l'illegittimità della pretesa tributaria, con la conseguenza che è avverso di essa che va rivolta, di regola, l'impugnazione, senza che residui lesione del diritto costituzionale di difesa. Ecco perché, si legge nella motivazione, "in via di principio...l'estratto di ruolo, che è atto interno all'Amministrazione, non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato unitamente all'atto impositivo, notificato di regola con la cartella nella quale il ruolo viene trasfuso, in difetto non sussistendo un interesse concreto e attuale del contribuente, ex art. 100 c.p.c., ad instaurare una lite tributaria, che non ammette azioni di accertamento negativo del tributo". Altro esempio normativo sui vizi propri del ruolo, espressamente aggredibili come tali, è usualmente indicato in quello regolato dall'art. 10 del d.P.R. 28 novembre 1980 n. 787, sui ruoli dei centri di servizio del Ministero dell'economia e delle finanze. Norma con finalità deflattive e infatti attributiva al centro di uno spatium deliberandi per aderire all'impugnativa del contribuente. Ma anche questa è un'ipotesi superata perché, sebbene fatta salva dall'art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, è stata abrogata dall'art. 23 del d.P.R. 26 marzo 2001 n. 107. Dal che può certamente trarsi la conclusione che l'impugnativa del ruolo per vizi propri ha natura eccezionale nella storia legislativa, con la consapevolezza, però, che ciò non ha una conclusiva ricaduta sull'ammissibilità o meno dell'impugnazione della pretesa contenuta nel ruolo prima di una sua conoscenza legale ovvero comunque, in tesi, da ritenere "effettiva" ed equipollente. L'analisi del contrasto affrontato dalle Sezioni unite segnalava, cioè, che la distinzione tra vizi della cartella e vizi del 296 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO ruolo eccezionalmente deducibili era ed è questione distinta da quella dell'ammissibilità o meno dell'impugnazione del ruolo prima della sua partecipazione attraverso la notifica della stessa cartella o attraverso altro procedimento legalmente riconoscibile come manifestazione di quella volontà impositiva. Così come il contrasto evidenziava che il tema dell'impugnabilità del cd. estratto di ruolo era ed è tema distinto da quello dell'individuazione del momento in cui il contribuente è abilitato a esercitare la tutela giurisdizionale avverso la pretesa fiscale, per i vizi che tempo per tempo e caso per caso assuma essere possibile individuare. 2. La ricostruzione risolutiva. La fattispecie che le Sezioni Unite avevano all'esame era, ancora una volta, quella di una conoscenza occasionale del ruolo, tramite visura di un contribuente che assumeva di non aver avuto notifica della cartella oggetto d'impugnativa. La Corte prende quindi le mosse dalla distinzione tra estratto di ruolo, quale documento riproduttivo del ruolo, e quest'ultimo quale atto amministrativo impositivo. In un certo senso può dirsi che negando l'impugnabilità autonoma – e per vizi propri – del primo, la cui conoscenza come tale non può riaprire alcun termine eventualmente spirato per aggredire la pretesa dell'erario, e ammettendo quella del secondo, s'innerva quest'ultima azione di funzione recuperatoria, laddove, prendendo spunto dal caso, si permetta così di far subito e utilmente valere il vizio della mancata o invalida notifica dell'atto partecipativo terminale. In realtà l'impostazione della soluzione affermata tende, almeno in prima battuta, a depotenziare la questione del tipo di atto aggredito, posto che ciò che rileva è il vizio che invalida la pretesa. Dal che lo spostamento del baricentro ricostuttivo sul momento a partire dal quale debba valutarsi possibile far valere l'invalidità. E qui si aggiunge altro depotenziamento: quello del principio dell'impugnativa dell'atto successivo notificato, stabilito dall'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, che, in un'ottica anche costituzionalmente orientata, viene letto come facoltà ma non onere che possa comprimere irragionevolmente l'accesso alla tutela giurisdizionale. Con la conseguenza che la pretesa diviene impugnabile ma, fino a quando non vi sia la legale conoscenza nelle forme notificatorie predeterminate, non possono decorrere i termini che una volta spirati farebbero cristallizzare l'atto in questione. La decisione opera alcuni passaggi in cui il dialogo con la dottrina è evidente. 297 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO In primo luogo si correla l'orientamento che ammette l'impugnabilità di ogni atto tributario comunque conosciuto anche senza che sia espresso in forma autoritativa (Sez. U, n. 16293/2007, Cicala, Rv. 598266, quanto a un avviso di pagamento della tassa rifiuti solidi urbani, e soprattutto Sez. U, n. 03773/2014, Virgilio, Rv. 629606, sull'accertamento ex art. 548 c.p.c. del credito d'imposta del debitore esecutato) a quello che vede nella notificazione una condizione di efficacia dell'atto impositivo e non un suo elemento costitutivo costruendo la recettizietà, a mente dell'art. 1334, c.c., quale guarentigia per il destinatario. I precedenti di riferimento sono, in questo caso, Sez. U, n. 08374/2015, Bielli, Rv. 635171, riferita al ritiro da parte del contribuente di avvisi di accertamento mal notificati dall'amministrazione; Sez. U, n. 00654/2014, Terrusi, Rv. 629235, in cui, con logica risalente a Sez. U, n. 19854/2004, Altieri, Rv. 577521, se ne fa premessa per concludere che la nullità o inesistenza della notifica resta irrilevante quando l'atto impositivo raggiunge lo scopo. Scopo partecipativo in quel caso raggiunto posto che l'atto era risultato formalmente impugnato prima della scadenza del termine di legge per la sua adozione. Va subito evidenziato, come accennano anche le Sezioni unite, che questo profilo ora si giova della conferma enucleabile dall'art. 21-bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, quale introdotto dall'art. 14 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, secondo cui (di regola e salve ipotesi sanzionatorie con clausola di immediata efficacia ovvero cautelari o urgenti) il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti del destinatario con la "comunicazione allo stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile". Sembrando peraltro alludere a una legale, e non occasionale, conoscenza in ogni caso su scelta dell'amministrazione, così da aver indotto negli studi diffusamente ad osservare che la previsione potrebbe aver posto le premesse per una crisi dell'idea di equipollenza tra conoscenza legale e conoscenza occasionale anche quando effettiva. La giurisprudenza amministrativa (Cons. di Stato, 17 maggio 2012 n. 2849) è solita poi affermare che la notificazione di un atto amministrativo al suo destinatario non incide sull'esistenza o validità dello stesso, e quindi che anche dopo la novella di cui all'art. 21-bis "deve continuare a distinguersi tra la fase della esistenza e legittimità del provvedimento (che dipende dalla sussistenza degli elementi essenziali soggettivi e oggettivi e dei relativi requisiti di validità) e la fase integrativa dell'efficacia (pubblicazioni, notificazioni, 298 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO comunicazioni, controlli ove previsti, e simili) che non attiene né alla perfezione dell'atto, e neppure alla sua validità, ma che incide esclusivamente sull'efficacia del provvedimento nonché, sul piano processuale, sul decorso dei termini per l'impugnativa. In altre parole proprio l'art. 21-bis della legge n. 241 del 1990 conferma che la mancata comunicazione integrale da parte dell'autorità emanante al soggetto interessato impedisce la compiuta esplicazione degli effetti, ma non rende l'atto nullo né illegittimo" e dunque totalmente inefficace. Né può omettersi di riflettere sul fatto che, tuttavia, il principio andrebbe coordinato con le altre modifiche apportate al riguardo alla legge n. 241 del 1990 dalla legge n. 15 del 2005. Come, ad esempio, la ben più significativa novella contenuta nell'art. 21- octies che, di fatto, ha dequotato i vizi formali del procedimento amministrativo in caso di attività vincolata, sancendo anzi l'irrilevanza della mancata comunicazione di avvio dello stesso quando l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. Da questo coordinamento emerge in modo netto il continuo bilanciamento, in prima e tipica istanza legislativo, tra esigenze dell'amministrazione ed esigenze dei cittadini. Il richiamo operato da Sez. U., n. 19704/2015 a queste prescrizioni, ne segnala l'estensibilità, almeno nelle rationes ricostruttive, all'ambito sia pure speciale del diritto tributario. In questo snodo implicato dalla soluzione radicata nel 2015 torna rilevante la natura se proprio la tipologia dell'atto, perché sono le ricadute della sua recettizietà a fare da discrimen. Ricadute che, peraltro, hanno sollevato nuovamente alcune critiche da parte di quella dottrina che contesta almeno la portata generale dell'assunto di base, e cioè la degradazione della recettizietà a elemento non costitutivo della fattispecie provvedimentale, perché destinato a perpetuare il ricordato orientamento che ritiene applicabile il principio del raggiungimento dello scopo al caso di ricorso proposto prima dei termini decadenziali per l'azione esecutiva esattoriale [BRUZZONE, 2015, 4377]. Ciò che comporterebbe una delegittimazione degli uffici amministrativi rispetto a un corretto operare. Indurrebbe cioè il contribuente a non impugnare subito la cartella mal ricevuta per attendere atti successivi (quali il fermo o l'iscrizione), con irragionevole pregiudizio sia al buon andamento amministrativo che alla tutela giurisdizionale. 299 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO L'ultimo passaggio della Corte fa leva sulla luce costituzionale per concludere che – seppure la recettizietà dell'atto tributario si possa pensare sia posta, anche in termini di costi pubblici, pure a tutela dell'amministrazione che, procedendo alla notifica, scelga quando esporsi esternando la volontà impositiva aggredibile – sarebbe arbitrario rimettere alla parte pubblica la scelta del momento a partire dal quale il contribuente, già controparte di un rapporto sperequato, possa reagire, laddove l'iter procedimentale di quella pretesa sia (come nella specie delibata) compiutamente terminato, tranne, va detto, il formale momento partecipativo a valle. Ciò in particolar modo quando si pensi che, procedendo oltre, il contribuente potrebbe vedersi ridotto il rimedio alle sole istanze risarcitorie, giungendo alla fase esecutiva caratterizzata dalle limitazioni alle opposizioni proponibili. Limitazioni stabilite come noto dall'art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 a mente del quale le opposizioni all'esecuzione non sono ammesse tranne quelle sulla pignorabilità dei beni, e sono escluse quelle ex art. 617 c.p.c. relative alla regolarità formale e alla notificazione del titolo esecutivo. Si tratta di argomento molto forte in chiave di garanzia, che peraltro, in ottica differente, potrebbe indurre a tornare a mettere in dubbio la ragionevolezza delle sperequazioni così normate tra amministrazione e contribuente la cui tutela, in fase di espropriazione forzata tributaria, rasenta il carattere simbolico. Tanto più se si pensi che non può essere certo l'occasionale conoscenza di un ruolo, pur ritenuto impugnabile preventivamente rispetto alla sua notifica in uno alla cartella, a risolvere il dubbio di legittimità dell'assetto ordinamentale. 3. La discussione nella dottrina: analisi della tesi espansiva. Una parte della dottrina ha sempre mostrato addirittura di non comprendere il ragionamento di chi negava e nega l'impugnabilità del ruolo anteriormente alla notifica formale. Le più semplici ma lucide voci in tal senso [ANNECCHINO, 2014, 2162] osservano che il concetto dovrebbe essere chiaro: prima che abbia corso la procedura esecutiva il contribuente acquista (o dovrebbe acquistare) conoscenza, mediante notifica della cartella di pagamento, dell'estratto di ruolo ossia della parte del ruolo che lo riguarda, i.e. dei debiti che l'ente impositore intende riscuotere a suo carico. Per evitare che la questione si svaluti sul piano definitorio oscillando tra ruolo e suo estratto, questa lettura esclude vi possano essere dubbi sulla possibilità del contribuente di contestare le risultanze di quest'ultimo qualora sia mancata la notifica della 300 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO cartella, vuoi perché non andata a buon fine, vuoi perché non è stato (ancora) attivato il procedimento. E non perché vi sia un interesse ad un azione di accertamento negativo a fronte di una pretesa sebbene non manifestata ma comunque compiutamente formata, bensì perché l'azione sarebbe direttamente costitutiva in quanto volta all'annullamento dell'atto impositivo idoneo a incidere sulla sua sfera giuridica, ossia il ruolo quale titolo esecutivo. In altri termini, sebbene vi possano essere dubbi sul fatto che dal ruolo possa derivare una lesione "immediata" (in ragione della preclusione a una legittima azione esecutiva quale conseguenza della mancata notifica della cartella), non potrebbe contestarsi che la "lesione" sia già individuabile con quanto ne consegue. Questo approccio, però, solo apparentemente supera il tema della natura dell'atto, perché nella sostanza, e spesso anche nella forma [CARINCI, 2013, 587], lega l'ammissibilità dell'impugnazione in realtà al ruolo, quale atto nominato che nessuna norma definirebbe recettizio a forma vincolata. Così come solo apparentemente supera il tema dell'interesse ad agire e quindi della natura del processo tributario, atteso che dell'azione costitutiva di annullamento viene ammessa l'anticipazione in buona sostanza perché, diversamente, si vulnera la tutela del contribuente quante volte l'agente della riscossione, procedendo ad esecuzione forzata senza una previa e rituale notifica della cartella e senza prodromi impugnabili quali l'iscrizione di ipoteca e il fermo amministrativo, lascia il cittadino senza piena tutela stanti i visti limiti delle opposizioni esecutive. 3.1. Analisi della tesi restrittiva. Di certo la dottrina più dubbiosa in ordine alla tendenza giurisprudenziale espansiva dei confini della giurisdizione tributaria ha trovato un riconoscimento nell'arresto del 2015. L'estratto di ruolo è nozione in qualche modo atecnica non solo e non tanto perché il diritto positivo non ne fornisce alcuna definizione essendo invece il prodotto della prassi, quanto perché costituisce documento ricognitivo del ruolo, un "non atto". A fronte dell'atto pretensivo vero e proprio costituito dal ruolo. Altro punto di convergenza si può individuare nella verificata recettizietà del ruolo. Come accennato esistono voci discordi negli studi, ma l'opinione largamente maggioritaria è in questo senso. Una recettizietà non intesa quale condizione di perfezionamento e neppure di efficacia, atteso che il ruolo diviene titolo esecutivo con la sua sottoscrizione (art. 12 del d.P.R. n. 602 301 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO del 1973), ma quale condizione per la cristallizzazione nei confronti del destinatario. Ecco perché la notifica della cartella assume su di sé il doppio valore di atto autonomio che condiziona, nella sequenza predeterminata dalla legge (Sez. U, n. 16412/2007, Botta, Rv. 598269), la legittimità dell'azione esecutiva, in questo non surrogabile dalla conoscenza occasionale dell'estratto di ruolo, e, insieme, veicolo per l'impugnazione del ruolo. È pertanto solo da questa conoscenza, in questa forma predeterminata, che possono decorrere i termini che preludono alla sua definitività per mancata impugnazione. Anche a tutela delle certezze del contribuente. [RASI, 2014, 1012]. Di questa funzione della cartella di pagamento, atto terminale esterno, a forma vincolata e funzione partecipativa, si ha conferma nella evoluzione del formante legislativo che, dopo una tormentata storia anche costituzionale (Corte cost., 18 luglio 2005, n. 280) ha individuato nella sua notifica l'atto che impedisce la decadenza dell'amministrazione dalla possibilità di riscuotere le somme dovute a seguito di accertamenti definitivi o atti equipollenti (art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973). L'ermeneutica dottrinale in parola valorizza quanto sopra per farne derivare però conclusioni diverse da quelle delle Sezioni Unite sulla possibilità d'impugnazione anticipata (e facoltativa) del ruolo: si osserva come solo della cartella è stata normato l'iter partecipativo esterno, e solo a fronte di questo si prevede che s'inneschi l'impugnabilità (art. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992). Non ci sarebbe spazio per equiparazioni. E quest'ottica si vedrà come sia rilevante per valutare le conseguenze della sentenza del 2015 sulla sistematica degli atti impugnabili davanti al giudice tributario. Il perno dell'analisi, come si anticipava, è costituito dalla distinzione tra conoscenza occasionale e conoscenza legale della pretesa tributaria. L'assetto che correla l'impugnazione alla notifica viene cioè letto nel senso di attribuire alla recettizietà funzione di conferma della natura oppositiva del processo tributario, sia dal punto di vista delle garanzie del contribuente, la cui sfera per regola non può essere legittimamente incisa senza sua previa partecipazione, sia dell'amministrazione, che non può vedersi esposta a contestazioni giurisdizionali senza aver prima avviato un procedimento partecipativo legale. Così che anche il principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c. può ritenersi operante in materia tributaria solo quando si sia nel quadro 302 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO di un'attività della parte interessata alla notifica nei confronti del destinatario. In questo senso si può dire vi sarebbe una conformazione dell'interesse ad agire mirata a sintetizzare un bilanciamento tra gli interessi e i costi dell'amministrazione e quelli del cittadino. Interesse che proprio per questo non potrebbe avere latitudine paragonabile, come pure si è alluso negli studi, a quello che ha indotto, in ambito non a caso puramente privatistico, ad ammettere e ricostruire la reazione giurisdizionale contro la segnalazione alla centrale rischi della Banca d'Italia sullo scarso affidamento del soggetto in particolare imprenditoriale (v. ad esempio, Sez. 1, n. 15609/2014, Nazzicone, Rv. 631843). 4. Implicazioni dell'arresto del 2015: atti impugnabili davanti al giudice tributario e natura del processo. Premessa. È facile prevedere che il quadro dialettico sintetizzato sia destinato a persistere, proprio perché finisce inevitabilmente per riflettere la lettura del processo tributario nel suo insieme talora con accenti sineddotici rispetto ai rapporti tra fisco e contribuente. La decisione del 2015 ha un'importanza centrale perché prosegue il cammino giurisprudenziale teso a: 1) dequotare la tipologia dell'atto impugnato incentrandosi sulla pretesa dell'erario quando si possa ritenere definita; 2) allargare l'area dell'impugnabilità anticipata rispetto alla manifestazione esterna e formalmente tipica della volontà fiscale. L'impostazione qualificabile come classica [TESAURO, 2007, 10] vede nel combinato disposto tra l'art. 19, specie comma 3, e l'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 una tripartizione del perimetro dell'impugnabilità propria della giurisdizione tributaria: atti nominati soggetti al principio di tassatività, necessariamente impugnabili in via immediata; atti innominati lesivi, impugnabili in via differita, in uno cioè all'atto tipico che segue nella sequenza di legge; e atti innominati non lesivi, quali gli atti interni, mai impugnabili. La giurisprudenza, come si è già accennato, ha da tempo reagito a quello che è parso un pericoloso eccesso di rigidità nelle tutele configurabili, riconoscendo al contribuente la facoltà di aggredire immediatamente l'atto innominato qualora lo renda compiutamente edotto di una definita pretesa tributaria facendo così sorgere il suo interesse al controllo della legittimità sostanziale della stessa senza attendere ulteriori pregiudizi e con pari utilità per la pubblica amministrazione a non procedere con andamento dalle basi viziate (Sez. T, n. 21045/2007, D'Alonzo, Rv. 600886). 303 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO Questo ha dato l'avvio a una metamorfosi almeno parziale del processo tributario, da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto d'imposta. Matemorfosi di cui il grande arresto del 2015 costituisce in un certo senso un approdo ma che non necessariamente è correlata a quella della giurisdizione tributaria da oppositiva a propriamente generale, ossia legata, o meno, alla manifestazione legale ed esterna della pretesa fiscale. Come dimostra la successiva giurisprudenza (Sez. U, n. 06315/2009, D'Alonzo, Rv. 607548) secondo cui la giurisdizione del giudice tributario pur avendo carattere pieno ed esclusivo, estendendosi non solo all'impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del procedimento a seguito dei quali l'attività di accertamento inizia, manitiene una struttura tale per cui i vizi deli atti in cui si traduce la sequenza procedimentale possono essere dedotti soltanto nel momento in cui si impugni il provvedimento che conclude l'iter di accertamento. Si esaminavano gli atti di verifica ipoteticamente lesivi dei diritti soggettivi del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, con connesse compressioni di valenze costituzionali piene (in particolare, libertà di domicilio, di corrispondenza, di iniziativa economica), riservando la cognizione, quindi, al giudice ordinario. Con ciò avvertendo per un verso l'esigenza di una tutela propriamente generale, e per altro verso l'insufficienza, al riguardo, delle nervature oppositive della giurisdizione tributaria. 4.1. La riforma del 2001. La decisione del 2009 prendeva le mosse dalla modifica introdotta dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001 n. 448, all'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546. Con questa riforma il principio della tassatività degli atti impugnabili nel processo tributario, scolpito nel testo originario dell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992, è stato scardinato perché è stata abbandonata la regola secondo cui il giudice tributario aveva giurisdizione solo in ordine ad un elenco tassativo e chiuso di imposte che il fisco accertava e riscuoteva attraverso atti a loro volta tassativamente e nominativamente indicati. Oggi infatti "appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale" dunque tutte le controversie "aventi ad oggetto tributi" e non solo quelle relative "agli atti di cui all'art. 19 relativi a tributi". 304 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO Rimane ovviamente ferma l'esigenza che la controversia abbia come specifico oggetto "tributi" e non atti che non abbiano (ancora) dato luogo a un interesse di natura tributaria. Interesse che, com'è stato detto, non sussiste in ordine a un sopralluogo o una richiesta di dati bancari, che ancora non abbiano sollevato una problematica "avente ad oggetto tributi" né una qualche pretesa fiscale. Di ciò si trova conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione che: 1) pur continuando a escludere azioni di accertamento negativo del debito d'imposta (Sez. U, n. 27209/2009, D'Alonzo, Rv. 610763) e simmetricamente 2) confermando la natura strutturalmente oppositiva e processualmente impugnatoria del giudizio (Sez. T, n. 19337/2011, Olivieri, Rv. 619083) 3) hanno concluso – sin dalle prime ricostruzioni (riferite alla individuazione del perimetro reciproco con la giurisdizione amministrativa) – che, dopo il 2001, «la stretta tipicità degli atti impugnabili ... va adeguata al nuovo assetto della giurisdizione tributaria generale, con riferimento alla varietà dei nuovi tributi e alla evoluzione dei diritti del contribuente, sempre, però, nell'alveo di rapporti tributari concreti» (Sez. U, n. 20318/2006, Merone, Rv. 591498). Ciò che è puntualmente avvenuto facendo ricorso, sul piano motivazionale, alla possibilità di interpretazione estensiva anche in aree dominate dalla tassatività, e alla natura espansiva degli strumenti ermeneutici dell'interesse ad agire e del buon andamento della pubblica amministrazione. 4.2. Dilatazione del catalogo. E dunque sono stati considerati impugnabili anche le "fatture" ossia gli atti con cui il concessionario del servizio raccolta rifiuti solidi urbani richiede il tributo paracommutativo costituito dalla tassa d'igiene ambientale (TIA) (Sez. T, n. 17526/2007, Cicala, Rv. 600544). E inoltre: l'invito al pagamento della tasse per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) (Sez. T, n. 21045/2007, cit.); la visura per la consultazione della partita catastale, attraverso cui il contribuente apprende l'entità della rendita (di un immobile nel caso acquisito da un fallimento: Sez. T, n. 27385/2008, Bernardi, Rv. 605441); il preavviso di fermo amministrativo di beni mobili ex art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, emesso con riguardo a crediti di natura tributaria, anche all'ipotesi di domanda proposta in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 25-quinquies, del decreto- 305 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006 n. 248, che, incidendo sull'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha esplicitamente incluso il fermo tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario (Sez. U, n. 10672/2009, Botta, Rv. 608134); l'avviso di pagamento previsto, in materia di accise, dall'art. 14 del d.lgs. 26 ottobre del 1995 n. 504, che precede la procedura di riscossione ai sensi del d.P.R. 28 gennaio 1988 n. 43, trattandosi di atto impoaccertativo del tributo, inclusivo di tutti gli elementi necessari a individuare la pretesa fiscale (Sez. T, n. 18731/2009, Scuffi, Rv. 609299); secondo Sez. U, n. 01625/2010, D'Alessandro, Rv. 611393 è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario "ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546" l'impugnazione del provvedimento, di competenza dell'Agenzia delle Entrate, di cancellazione (o rifiuto di iscrizione) dall'anagrafe delle Onlus prevista dall'art. 11 del d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, "trattandosi di un atto che, oltre a rispondere a finalità di carattere prettamente fiscale, avuto riguardo alle agevolazioni tributarie che la legge ricollega all'iscrizione nell'anagrafe, non presenta alcun margine di discrezionalità, in quanto l'iscrizione è subordinata alla verifica dei requisiti prescritti dalla legge, e non modifica lo status dell'ente, il quale non costituisce un tipo particolare di compagine sociale, con la conseguenza che la controversia esula sia dalla giurisdizione amministrativa che da quella ordinaria"; impugnabile anche il bollettino di conto corrente postale relativo al versamento dell'imposta sulla pubblicità, che sia l'unico atto ricevuto dal contribuente (Sez. T, n. 25591/2010, Polichetti, Rv. 615371); la comunicazione di irregolarità ex art. 36-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (Sez. T, n. 07344/2012, Chindemi, Rv. 622891) o l'avviso bonario ex art. 36-ter, comma 4, dello stesso d.P.R. (Sez. 6-T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 636113); l'atto di variazione della categoria relativa alla tassa rifiuti solidi urbani (TARSU) con la cui notifica il ruolo era stato portato a conoscenza, la cui omessa impugnazione però, trattandosi di atto innominato, non preclude il ricorso avvero il successivo avviso di pagamento (Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281). Diversa resta l'ipotesi in cui un atto, di dubbia qualificazione, venga ricondotto a uno o più atti tipici autonomamente e necessariamente impugnabili. Ad esempio: il provvedimento di rimborso parziale che costituisce rifiuto, sia pure implicito, per la parte non restituita, assimilabile agli atti ex art. 19, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 546 del 1992, dovendosi escludere che il contribuente possa, successivamente a quello e senza addurre 306 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO elementi idonei a rilevarne la natura interlocutoria, proseguire la controversia introdotta con l'impugnazione originaria del silenzio- rifiuto cui non sia seguita analoga inziativa per contrastare l'accoglimento non integrare della richiesta di restituzione (Sez. T, n. 14846/2008, Di Iasi, Rv. 603944); o l'atto con cui la cancelleria di un ufficio giudiziario richiede l'integrazione del contributo unificato, contenente a ben vedere un avviso di accertamento che se non impugnato rende inammissibile la successiva impugnazione della cartella (Sez. 6-T, n. 16188/2014, Cicala); ovvero, in tema d'imposta di registro, l'invito al pagamento di cui all'art. 212 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, che – quale unico atto liquidatorio dell'imposta prenotata a debito con cui viene comunicata al contribuente una pretesa tributaria ormai definita – a prescindere dalla denominazione va qualificato come avviso di accertamento o di liquidazione, la cui impugnazione perciò non è facoltativa, ma necessaria, pena la cristallizzazione dell'obbligazione, che non può più essere contestata nel successivo giudizio avente ad oggetto la cartella di pagamento (Sez. T, n. 23061/2015, Terrusi, Rv. 637154); e altresì, senza dubbio, l'avviso di recupero di un credito d'imposta indebitamente compensato (Sez. T, n. 16006/2015, Napolitano, Rv. 636119, che riprende Sez. T, n. 28543/2013, Ferro, Rv. 626514). Come sopra si è notato è stata ritenuta la giurisdizione tributaria anche sulla dichiarazione negativa resa dall'Agenzia delle entrate, terzo pignorato, in merito alla sussistenza del credito fiscale (Sez. U, n. 03773/2014, cit.), "dovendosi ritenere – in virtù di una doverosa interpretazione estensiva del catalogo degli atti impugnabili di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) – che [anch'essa] costituisca espressione del potere impositivo". E ancora, Sez. U, n. 12759/2015, Ragonesi, Rv. 635918, e Sez. U, n. 12760/2015, Ragonesi, hanno ritenuto impugnabile davanti alla giustizia tributaria la nota con cui il Ministero dell'economia e delle finanze comunichi al contribuente di avere respinto la sua istanza di dare corso alla procedura amichevole, prevista dalla Convenzione europea di arbitrato del 23 luglio 1990, ratificata con legge 22 marzo 1993, n. 99, conclusa per risolvere i casi di doppia imposizione internazionale economica, connessi al settore tributario, dei prezzi di trasferimento, trattandosi di questione afferente alla fase prodromica della procedura (e relativa alla presentazione dell'istanza di apertura della procedura 307 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO amichevole e alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità), che si svolge integralmente, ex artt. 6 e 7 della citata Convenzione, nell'ambito del diritto interno, «sicché non può essere aprioristicamente sottratta alla valutazione giurisdizionale ad opera del competente organo giudiziario dello Stato dove l'istanza è presentata». Il tutto mentre, nella giurisprudenza di merito e nella dottrina, seppure infine escludendola, si è arrivati a discutere dell'impugnabilità dell'avviso di presa in carico, che fa seguito all'introduzione dell'accertamento esecutivo ad opera dell'art. 29 del decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010 n. 122. Accertamento che, seppure limitatamente alle imposte sui redditi iva e irap (con certe decorrenze temporali), nonché alle sanzioni connesse, supera la dinamica del ruolo e della cartella, perché l'agente della riscossione può procedere all'esecuzione esattoriale in ragione dell'avviso in questione senza attendere la formazione del ruolo o la conseguente partecipazione della cartella di pagamento. Ciò perché è l'accertamento (impoesattivo) che integra, oltre che l'atto di imposizione, anche il titolo esecutivo e l'intimazione ad adempiere. Senza che il contribuente riceva nulla dopo l'avviso di accertamento e prima dell'inizio dell'esecuzione. Al che la prassi, recepita poi dall'art. 8, comma 12, lettera a), n. 1), del decreto-legge 2 marzo 2012 n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012 n. 44, introduttivo della lettera b) al comma 1 dell'art. 29 sopra menzionato, quale poi modificato dal d.lgs. 24 settembre 2015 n. 159, ha implementato un atto diretto a temperare il rigore di questa sequenza contratta, con l'obbligo per l'agente di informare il contribuente, con raccomandata semplice o posta elettronica, dell'avvenuta presa in carico dell'atto impoesattivo notificatogli dall'Agenzia delle entrate. Un "passaggio del testimone" interno che non porta a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria nuova e diversa da quella contenuta nell'avviso di accertamento. Fermo che la mancata comunicazione non condiziona, come nel caso dell'avviso di mora ex art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973, la procedibilità esecutiva. Mentre potrebbe forse, secondo la ricordata dottrina, legittimare un'azione risarcitoria qualora si provi di non aver potuto per questo presentare tempestivamente istanza di rateizzo. 4.3. L'impugnazione facoltativa anticipata. Nelle riflessioni più autorevoli si nota che forse fin maggiore è la dilatazione (anzi il sostanziale superamento) dell'art. 19 nella finora 308 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. T, n. 17010/2012, Virgilio, Rv. 623917, Sez. T, n. 11929/2014, Crucitti) secondo cui le determinazioni, in senso negativo, del direttore regionale delle entrate sull'istanza del contribuente volta ad ottenere le disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973, non costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale. Perciò non rientrano nelle categorie enunciate dall'art. 19, e il contribuente che non le impugni non perde il diritto di contestare la pretesa tributaria. Fermo però che l'atto in questione può essere impugnato avanti alla giurisdizione tributaria in quanto provvedimento con cui l'Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine a un determinato rapporto tributario. Orientamento che ha superato quello di Sez. T, n. 08663/2011, Parmeggiani, Rv. 617560, replicato da Sez. 6-T, n. 20394/2012, Cicala, secondo cui che il diniego in parola è un atto amministrativo definitivo (così indicato espressamente dal d.m. Finanze 19 giugno 1998 n. 259, attuativo della procedura di cui al comma 8 del citato art. 37-bis) oltre che recettizio con immediata rilevanza esterna, con la conseguenza che «la mancata impugnazione in termini di tale atto tipico comporta l'intangibilità dello stesso, con esclusione di contestabilità successiva, ponendosi come fatto di per sè preclusivo della pretesa del contribuente nell'ambito del giudizio sul rifiuto espresso o tacito di rimborso». Nel caso, potrebbe pensarsi che il contribuente può disattendere l'opinione del direttore regionale e porre ugualmente in essere l'operazione economica "sospetta". Deducendosene che solo se e quando l'Agenzia contesterà l'abuso del diritto con un avviso di accertamento si concretizzerà una lesione attuale e diretta al patrimonio del contribuente, tale da rendere effettivo e attuale interesse a promuovere un giudizio. Ma la Corte, appunto, ha ritenuto prevalente il diritto dell'operatore economico a "ottenere chiarezza" attraverso una sentenza del giudice tributario. Analogamente è agevole rilevare che anche la nota – di cui prima si è fatto cenno – con cui il Ministero competente comunica al contribuente di avere respinto la sua istanza di attivazione della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull'arbitrato non arreca un diretto pregiudizio al contribuente, che perde solo la possibilità di giovarsi dell'eventuale accordo fra le Amministrazioni dei due Stati e che comunque conserva il pieno diritto di difesa in sede processuale. Ma anche qui l'interesse 309 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO all'accertamento ha prevalso espandendo in pieno, al di là della terminologia, la giurisdizione tributaria. Questo contesto rende chiara l'inevitabilità dell'approdo reso con l'arresto n. 19704/2015. E la sua prevedibile stabilità. Anche in punto di lettura evolutiva per così dire della recettizietà intesa, si ripete, quale guarentigia del cittadino: piena conoscenza della compiuta pretesa come dato che libera l'interesse all'accertamento, e conoscenza legale tipizzata come unico presupposto per la decorrenza dei termini spirati i quali l'imposizione diviene immodificabile. Lettura che risponde infatti alla consapevolezza anche della storia dell'omologo diritto amministrativo, che, con illuministico candore, ignorava l'evenienza che il provvedimento invasivo potesse non essere comunicato, disponendo all'art. 9, comma 1, della legge 31 marzo 1889 n. 5992, che il termine di sessanta giorni per l'impugnativa decorresse dalla notifica "nelle forme e nei modi" stabiliti dal regolamento attuativo. Mentre fu la pubblica amministrazione, nella prassi, a discostarsi da questa lineare disciplina, omettendo le notifiche o mal eseguendole e negando anche il rilascio delle copie del provvedimento di cui si mirava a ostacolare il controllo giurisdizionale tempestivo. Sicché, come si è chiarito negli studi, il criterio della decorrenza del termine anche dalla conoscenza effettiva, infine recepito nell'art. 36 del r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 e nell'art. 21 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 (che ancora risuona nelle decisioni della giurisprudenza amministrativa: v. ad esempio Cons. di Stato, 5 giugno 2013 n. 3101), fu, nella sostanza, accondiscendenza legislativa a comportamenti nient'affatto esemplari. Va peraltro preso atto della indicazione in controtendenza che risulta contenuta nell'art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre 2015 n. 156, recante misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in cui si prevede che avverso «le risposte alle istanze presentate ai sensi del comma 2 dell'articolo 11 della legge 27 luglio 2000 n. 212, recante lo Statuto del contribuente, può essere proposto ricorso [solo] unitamente all'atto impositivo». E quindi parrebbe coinvolgere anche gli interpelli previsti dall'art. 10-bis, sull'abuso di diritto posto che l'art. 10-bis rinvia espressamente all'art. 11. Si tratta di una tutela differita [COMMITTERI, SCIFONI, 2015, 4270] senza dubbio significativa che ambisce a riflettere le aspirazioni e gli orientamenti dell'amministrazione fiscale. Anche se non si è immediatamente mancato di dubitare della sua conformità alla legge delega 11 marzo 2014 n. 23, che aveva come obbiettivo «il 310 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente» (art. 10), in questa prospettiva sembrando dovesse perseguire «una maggiore omogeneità della disciplina degli interpelli, anche ai fini della tutela giurisdizionale» (art. 6, comma 6) semmai ampliando e non restringendo le ipotesi in cui è consentito il ricorso giurisdizionale. Norma che peraltro segna la mancata occasione di fare chiarezza sui limiti specie esterni della giurisdizione tributaria. 311 CAP. XVII - RUOLO, ESTRATTO DI RUOLO E ATTI IMPUGNABILI DAVANTI AL GIUDICE TRIBUTARIO Bibliografia TESAURO, Gli atti impugnabili ed i limiti della giurisdizione tributaria, in Giust. trib., 2007, 10 CARINCI, Impugnazione del ruolo: l'interesse ad agire torna (inspiegabilmente) ad essere ancorato all'idoneità dell'atto a definire effetti pregiudizievoli per il contribuente, Riv. giur. trib., 2013, 587 ANNECCHINO, Natura e impugnabilità degli estratti di ruolo, Foro it., 2014, I, 2162 RASI, La conoscenza occasionale e legale dell'estratto di ruolo nella giurisprudenza della Cassazione: effetti in tema di impugnabilità, Dir. e pratica trib., 2014, I, 1012 BRUZZONE, Le Sezioni Unite ammettono l'impugnazione di cartella e/o ruolo sulla base dell'estratto di ruolo, in Corr. trib., 2015, 4377 COMMITTERI, SCIFONI, Il nuovo interpello tra tempi di risposta accelerati e tutela giurisdizionale differita, in Corr. trib., 2015, I, 4270 312 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ CAPITOLO XVIII LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ (di Eduardo Campese) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Domanda nuova ed emendatio libelli nel significato tradizionale. - 3. L'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato. - 4. L'ammissibilità della mutatio libelli: le condizioni oggi poste dalle Sezioni Unite. 1. Premessa. Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con un ulteriore (dopo quelli di Sez. U, n. 26242/2014, Travaglino, Rv. 633502-633509, e n. 26243/2014, Travaglino, Rv. 633558-633565, che hanno dilatato il limite cronologico per la proposizione della domanda di accertamento incidentale, nonché di Sez. U, n. 00642/2015, Di Iasi, Rv. 634091, a tenore della quale riprodurre in una sentenza civile il contenuto di un atto di parte o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, senza aggiungervi niente, non determina la nullità della decisione se dalla motivazione emergono in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni che sono alla base della decisione e se le stesse sono chiaramente attribuibili all'organo giudicante) intervento in ambito procesuale, sebbene con ampie ricadute sull'effettività della tutela della parte, hanno affrontato il tema dell'ammissibilità di una mutatio libelli che consista nella proposizione, entro la prima memoria ex 183 c.p.c., di una domanda che le stesse hanno definito "alternativa", giungendo alla conclusione che una siffatta domanda "diversa" (per petitum, causa petendi, o entrambi) non è sempre e comunque inammissibile. Trattasi di una pronuncia senz'altro innovativa rispetto ai comuni modi di vedere non solo di una lunga giurisprudenza, ma anche di una finora quasi monolitica dottrina, che semmai talora, specie in epoche recenti, ha spesso tentato di ampliare il perimetro della singola domanda e così di allargare the compass of claim [CONSOLO, 2015, 961]. Sembra opportuno, pertanto, ancor prima di esaminare il contenuto di tale interessante statuizione, fare un passo indietro per ricordare il contesto dottrinale e giurisprudenziale sul quale la stessa sarebbe poi andata ad incidere. 2. Domanda nuova ed emendatio libelli nel significato tradizionale. Il legislatore, anche nel novellato art. 183 c.p.c., ha utilizzato con disinvoltura i concetti di "precisazione" e 313 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ "modificazione" delle domande e delle eccezioni, senza tuttavia specificarne i rispettivi confini. Cominciando dalle domande, è anzitutto il caso di sottolineare che, in astratto, tenuto conto che il concetto di "modifica" non differisce, sul piano logico e lessicale, da quello di "mutamento" (di cui il citato articolo non fa menzione), nulla impedirebbe di qualificare come "modificazione" qualunque mutamento di alcuno degli elementi (causa petendi o petitum) che identificano, sul piano oggettivo, la domanda stessa; con la sola condizione, magari, che la diversa domanda che ne risulta conservi un qualche nesso (cioè l'identità di almeno uno dei predetti elementi) rispetto a quella originaria. Non può escludersi (essendo anzi probabile) che il codice del 1940 - che limitava l'esercizio di tale potere processuale alla prima udienza - intendesse, per l'appunto, in tal senso la possibilità di modificazione della domanda. Dopo la riforma del 1950, però, si venne consolidando l'orientamento - senz'altro dominante al momento della decisione delle Sezioni Unite cui si è accennato nel paragrafo precedente - per il quale deve distinguersi nettamente, in linea di principio, tra la cd. mutatio libelli, corrispondente al mutamento (cioè alla trasformazione radicale) della domanda, precluso in ogni caso ed in qualunque momento, e la emendatio libelli, consistente nella mera modifica (non sostanziale) della stessa, che invece è consentita, seppure a talune condizioni ed entro certi limiti temporali. La parte più autorevole della letteratura giuridica fondava la distinzione tra le due fattispecie sulla variazione, o meno, del fatto costitutivo posto a base della domanda, fermi restando i soggetti del rapporto processuale. Si erano, invero, affermate due impostazioni al riguardo. La prima, detta della "individuazione", richiedeva, allo scopo identificativo, la sola indicazione del fondamento e della ragione dell'azione, ossia l'indicazione del rapporto giuridico affermato dall'attore, con la conseguenza che il mutare dei fatti non comportava cambiamento della causa petendi; la seconda, definita della "sostanziazione", postulava l'indicazione del fatto costitutivo del diritto che si fa valere. Ciò che rilevava, in questo caso, era quindi l'allegazione dei fatti costitutivi, con la conseguenza che il mutare del rapporto giuridico non determinava cambiamento della domanda. La dottrina più avvertita, tuttavia, ha correlato la possibilità di mutatio alla azionabilità di diritti cosiddetti eterodeterminati e, d'altro 314 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ canto, la possibilità di emendatio alla tutela di diritti cosiddetti autodeterminati. Questi ultimi si caratterizzano per l'incentrarsi della causa petendi non già sul fatto costitutivo, bensì sul fatto lesivo, e per il polarizzarsi dell'azione sostanzialmente nel petitum. Così, l'azione di rivendica del diritto di proprietà su di un bene immobile non muterà le sue caratteristiche in dipendenza del titolo di proprietà dedotto dalla parte, ad esempio usucapione o accessione, essendo il diritto fatto valere, per natura unico ed irripetibile (res amplius quam semel mea esse non potest). Per i diritti eterodeterminati, invece, il collegamento col fatto costitutivo rappresenta l'elemento indispensabile per l'identificazione dell'azione: una parte potrebbe, in tesi, essere titolare di diversi rapporti di credito nei confronti della controparte, e ciascuno di essi dovrebbe essere individuato in base al titolo, ad esempio mutuo o corrispettivo di forniture e così via. In presenza di diritti autodeterminati, dove, quindi, il fatto costitutivo è collocato al di fuori del processo identificativo dell'azione, e dove, di conseguenza, la situazione sostanziale dedotta si prospetta come unica ed irripetibile, indipendentemente dai fatti storici dedotti, l'allegazione di un fatto costitutivo diverso da quello prospettato all'origine della causa non rappresenta un elemento di novità, ma si attesta nell'ambito della mera modifica della domanda (si pensi alla deduzione successiva di diversi titoli di proprietà, o di diversi titoli, derivativo - per contratto - e, successivamente, originario - per usucapione - del diritto di servitù). Che, poi, nell'ambito di un medesimo grado di giudizio, la modifica del titolo di diritti autodeterminati implichi una emendatio lo si comprende ove si tenga presente che emendare vuol dire non allargare l'oggetto del giudizio e, quindi, non introdurre elementi di novità, ma lasciare invariati gli elementi identificativi dell'azione, ossia petitum e causa petendi, rettificandosene solo alcuni aspetti. Pertanto, la mutatio libelli corrisponde alla modificazione della domanda giudiziale, mentre l'emendatio libelli concerne la sua mera correzione o diversificazione. Occorre, poi, distinguere a seconda che le variazioni riguardino i soggetti, il petitum o la causa petendi. Circa i primi, è difficile ipotizzare dei cambiamenti, dal lato attivo o passivo, che non incidano sull'identità della domanda. Può accadere, semmai, che l'attore o il convenuto siano stati indicati in modo inesatto o incompleto: ma, in questo caso, la conseguenza 315 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ sarà data dalla nullità, peraltro sanabile, della citazione, ai sensi dell'art. 164, comma 1, c.p.c.. Quanto all'oggetto, poi, la giurisprudenza mostra[va] più rigidità in relazione all'identità del bene giuridico perseguito dall'attore, cioè del petitum cd. mediato, mentre appare in qualche misura più flessibile rispetto al tipo di provvedimento concretamente richiesto al giudice (cd. petitum immediato), le cui variazioni vengono talora ricondotte nell'ambito della mera emendatio libelli. Problemi ed incertezze maggiori, invece, si registra[va]no con riferimento alla causa petendi, generalmente affermandosi che se ne ha mutamento - e, conseguentemente, un'inammissibile mutatio libelli - ogni qualvolta sono dedotti in corso di causa fatti costitutivi nuovi e diversi da quelli originariamente allegati, così da ampliare in misura sostanziale il tema dell'indagine, sicchè, sebbene implicitamente, sembra ammettersi che possa aversi una mera emendatio allorquando i fatti costitutivi vengano modificati in misura marginale. Tenuto conto, però, che il legislatore utilizza a questo riguardo anche il diverso concetto di "precisazione" della domanda, sembra[va] preferibile ascrivere a quest'ultimo le modificazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi, e limitare l'emendatio libelli, invece, alla sole variazioni dei fatti costitutivi di diritto autodeterminati. Passando, quindi, a considerare proprio la "precisazione" della domanda, è evidente che il suo ambito dovrebbe ricavarsi da quanto appena esposto a proposito della "modificazione". Ad esempio, può ritenersi che costituisca una mera precisazione del petitum, relativamente alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di una somma di danaro, l'indicazione del quantum della domanda, inizialmente omesso (ciò che spesso avviene, in particolare, nelle azioni risarcitorie in cui l'attore attende magari l'esito della fase istruttoria per quantificare il danno), oppure la sua variazione (anche) in aumento; fermi restando, naturalmente, i fatti costitutivi e le causali inizialmente indicati. Quanto alla causa petendi, invece, la "precisazione" potrà consistere nella variazione di elementi di diritto della domanda (che implichi, ad esempio, una diversa qualificazione giuridica dei fatti costitutivi, o comunque, il loro collegamento ad una diversa norma), oppure nella specificazione o modificazione di circostanze marginali relative ai fatti principali, che siano tali da far ritenere sostanzialmente immutati i fatti medesimi, naturalmente non 316 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ potendosi negare che, in tal modo, residui un notevole margine di incertezza nell'apprezzamento della "misura" della variazione del fatto costitutivo: ma ciò rappresenta un inconveniente inevitabile dell'impostazione da cui tradizionalmente si muove circa la distinzione tra mutatio ed emendatio libelli. Deve aggiungersi, per completezza, che dovrebbe rimanere affatto estraneo alla precisazione della domanda la variazione o l'allegazione di nuovi fatti secondari, intendendosi questi ultimi come "qualitativamente" diversi dai fatti principali e operanti, a differenza di essi, sul terreno meramente probatorio. Analoghi problemi di reciproca delimitazione si pongono, a ben riflettere, con riguardo alla "modificazione" ed alla "precisazione" delle eccezioni. Per un'ovvia esigenza di simmetria rispetto alle soluzioni appena prospettate in rapporto alle domande, si può pensare che il precisare consiste, ad esempio, nella specificazione o variazione di circostanze marginali relative ad un fatto (estintivo, impeditivo o modificativo) già allegato, oppure nella deduzione di un diverso effetto giuridico del fatto medesimo. La modifica, invece, può riflettersi alle ipotesi in cui, avendo opposto il convenuto, in via di eccezione (cd. riconvenzionale), un proprio diritto autodeterminato, l'allegazione di un nuovo fatto costitutivo di tale diritto non incida sull'identificazione di quest'ultimo: si pensi, ad esempio, al convenuto che, nel resistere all'azione promossa dal proprietario del fondo confinante per ottenere la eliminazione di un'apertura realizzata a distanza inferiore a quella legale, dapprima eccepisca che la veduta è oggetto di servitù acquistata per destinazione del padre di famiglia, ed in seguito deduca di aver comunque usucapito la servitù stessa. Giova, infine, rammentare che, secondo la giurisprudenza, si ha domanda nuova quando i nuovi elementi dedotti comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella originariamente fatta valere, verificandosi in tale ipotesi una mutatio libelli e non una mera emendatio. In particolare, si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini 317 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla "causa petendi", sicché risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul "petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere. 3. L'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato. Nel contesto dottrinale e giurisprudenziale di cui si è detto, l'ordinanza interlocutoria resa da Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato, aveva sollecitato l'intervento delle Sezioni Unite al fine di stabilire se - ove l'attore abbia chiesto, con l'atto di citazione, una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. sulla base di una scrittura privata da lui qualificata come preliminare di vendita immobiliare - costituisse domanda nuova o, mera emendatio libelli, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita. Si era rilevato, invero, che, sulla corrispondente questione, esisteva, nella giurisprudenza di legittimità, un contrasto di orientamenti: un primo indirizzo interpretativo, infatti, aveva ritenuto che «ove l'attore abbia chiesto con l'atto di citazione una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., fondata sull'esistenza di una scrittura privata da lui erroneamente qualificata come preliminare di vendita immobiliare, costituisce mera emendatio libelli, consentita anche in appello, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita, trattandosi di semplice specificazione della pretesa originaria e restando in tal caso il thema decidendum circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento di proprietà, sicché resta immutato nella sostanza il bene effettivamente richiesto ed identica la causa petendi, costituita dal contratto del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica» (cfr., Sez. 2, n. 11840/1991, Marotta, Rv. 474520; Sez. 2, n. 14643/1999, Rv. Annunziata, 532576; Sez. 2, n. 07383/2001, Mazziotti di Celso, Rv. 547144); un altro (ed invero predominante), ad avviso del quale, invece, «costituisce domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituisce nell'atto di riassunzione a seguito di interruzione o nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con 318 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ una successiva, con la quale chieda una sentenza che accerti l'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata. Si tratta, infatti, di domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi, atteso che, nella prima ipotesi, l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato». In tal senso, anche se con riguardo al regime processuale previgente, si era già pronunciata anche Sez. U, n. 01731, Carbone, Rv. 496140, seguita, poi, anche in ordine alla disciplina processuale successivamente novellata, da: Sez. 2, n. 15541/2000, Goldoni, Rv. 542539; Sez. 2, n. 01740/2008, Piccininni, Rv. 601301; Sez. 2, n. 23708/2009, Bursese, Rv. 610648; Sez. 2, n. 12039/2010, Elefante, Rv. 612939. In particolare, con quest'ultima pronuncia era stato ribadito che costituisse domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituiva nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva, con la quale chiedesse una sentenza accertativa dell'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata, poiché trattavasi di domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi atteso che, - come già evidenziato - nella prima ipotesi, l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato. Giova segnalare, peraltro, che la giurisprudenza - assolutamente prevalente - della Suprema Corte (cfr. Sez. 2, n. 15859/2002, Settimj, Rv. 558422; Sez. 2, n. 13420/2003, Fiore, Rv. 566804; Sez. 2, n. 02723/2010, Giusti, Rv. 611736) aveva seguito l'indirizzo da ultimo riportato anche nell'eventualità processuale della modificazione in senso inverso delle due domande in esame, risultando stabilito che «costituisce domanda nuova - come tale vietata e, perciò, inammissibile sia in primo grado che in appello - quella conseguente al 319 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ sopravvenuto mutamento della pretesa di accertamento del contratto di compravendita del diritto di proprietà in quella di esecuzione coattiva di un contratto preliminare ai sensi dell'art. 2932 c.c., essendo le due domande diverse per petitum e causa petendi: infatti, mentre la prima è diretta ad ottenere una sentenza dichiarativa, fondata su un negozio con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà per effetto del consenso legittimamente manifestato, la seconda mira ad una pronuncia costitutiva, fondata su un contratto con effetti meramente obbligatori come il preliminare, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata». In un siffatto contesto, era sopravvenuta Sez. 6-3, n. 20177/2013, Lanzillo, Rv. 627632, la quale, riprendendo l'indirizzo minoritario (e maggiormente risalente nel tempo), aveva riaffermato che ove l'attore, dopo aver domandato con l'atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. sulla base di un contratto da lui qualificato come preliminare di vendita immobiliare, formuli, rispettando le decadenze processuali previste, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile oggetto del contratto, qualificato come contratto definitivo di compravendita, era configurabile non una mutatio, ma una semplice emendatio libelli, poiché il thema decidendum restava circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, restando così identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto ed uguale la causa petendi costituita dal contratto, del quale veniva prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica. Quale argomentazione di contorno, inoltre, era stato evidenziato che sul giudice incombesse l'obbligo di motivare specificamente - nel dichiarare una domanda inammissibile perché nuova - quali fatti nuovi od estranei alla materia oggetto del contraddittorio fra le parti, si richiedeva di esaminare, rispetto a quelli inizialmente prospettati e discussi nel corso del giudizio. Tutto ciò aveva, allora, indotto la già citata Sez. 2, n. 02096/2014, Carrato, a sollecitare l'ulteriore intervento delle Sezioni Unite per risolvere il contrasto fin qui descritto. 4. L'ammissibilità della mutatio libelli: le condizioni condizioni oggi poste dalle Sezioni Unite. Così interpellate, le Sezioni Unite non si sono lasciate sfuggire l'occasione per un nuovo intervento a più largo raggio sistematico chiarificatore, non solo provvedendo a dirimere quel contrasto (sancendo l'ammissibilità 320 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo), ma, soprattutto, affrontandone direttamente ed ex professo la questione implicitamente presupposta: vale a dire in cosa consista la "modificazione" della domanda consentita dall'art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.: il quesito, quindi, è divenuto se la domanda "diversa" (per petitum, causa petendi, o entrambi questi elementi identificatori) sia sempre, e necessariamente, domanda "nuova" consentita solo in casi tassativamente previsti (ad esempio, la cd. reconventio reconventionis di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c., o la domanda di risoluzione per inadempimento proposta nel corso del giudizio di condanna ad adempiere, ex art. 1453, comma 2, c.c., o la domanda di accertamento incidentale secondo la teorica di Sez. U, Travaglino, n. 26242/2014 e n. 26243/2014). La prospettiva assunta dalla Suprema Corte non è stata, come meglio si vedrà oltre, il ricondurre nuove causae petendi e nuovi petita nell'ambito di quelli puntualmente caratterizzanti la domanda originaria, ma si è detto chiaramente che se si cambia il petitum e/o la causa petendi la domanda non è la stessa: è sicuramente domanda diversa, ma - a date condizioni - ammissibile ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.. La res in iudicium deducta, dunque, non deve essere concepita come totalmente statica neppure nel processo italiano, sempre che si tratti di domanda che le Sezioni Unite definiscono "alternativa", laddove autorevole dottrina preferisce utilizzare (non da oggi) la dicitura (ammissibile poiché) "complanare" [CONSOLO, 2015, 961 e SS.]. Ossia domanda concorrente, che viaggia complanarmente verso una meta sostanzialmente unitaria, seppur - come oggetto del giudicato - tutt'altro che identica, e che condivide, quindi, con la prima l'identità dell'episodio socio-economico di fondo (ed ovviamente l'identità dei soggetti), e che assai spesso origina da concorsi di pretese ad un unico petitum, o - come nella fattispecie de qua - da diversi petita conseguenti a diverse qualificazioni della causa petendi. Questa domanda, ancorché frutto di una vera e propria mutatio libelli (intesa come "cambiamento" di uno o più degli elementi identificatori della domanda sul piano oggettivo), è dunque ammissibile, secondo le Sezioni Unite, se proposta nel rispetto delle preclusioni intermedie dell'art. 183 c.p.c.. Tanto premesso, e passando ad esaminare le ragioni che hanno indotto la Suprema Corte a cambiare orientamento rispetto 321 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ al proprio citato precedente del 1996, non può che muoversi dalla ricognizione più generale dalla stessa effettuata sul rapporto tra mutatio ed emendatio libelli. In particolare, si è rilevato che, sul punto vige, in linea generale, il principio, più che consolidato, secondo il quale è ammissibile solo la modificazione della domanda introduttiva che costituisce semplice "emendatio libelli", ravvisabile quando non si incide nè sulla causa petendi (ma solo sull'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto), nè sul petitum (se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere). Al contrario, è assolutamente inammissibile quella modificazione della domanda che si risolve in una "mutatio libelli", ricorrente quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d'indagine e spostando i termini della controversia. La situazione, apparentemente univoca, ha generato nella realtà una situazione ben più complessa, atteso che finora, in molti singoli casi, pur non contravvenendo espressamente al descritto principio, si è giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano invece mutamenti in ordine ai suddetti elementi modificativi (ad esempio, la modifica della iniziale domanda di risoluzione del contratto per inadempimento con l'aggiunta di una domanda subordinata di adempimento del contratto, ritenuta una emendatio libelli). C'è, in altre parole, un contrasto in tale crocevia processuale più consistente di quanto non appaia ad un primo esame della giurisprudenza. Le Sezioni Unite hanno, pertanto, voluto operare, in primo luogo, una ricognizione della struttura dell'udienza di comparizione, disciplinata dall'art. 183 c.p.c.: secondo la pronuncia in esame, la non ammissibilità della proposizione di domande nuove nel corso dell'udienza di cui alla citata norma, considerando come "nuove" le domande che differiscono da quella iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo, è solo una consolidata ma immotivata convinzione. Nell'art. 183 c.p.c. non si rinviene, infatti, alcun esplicito divieto di domande nuove (come invece, ad esempio, nell'art. 345 c.p.c.). 322 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ Non solo: l'art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio - laddove afferma che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183 c.p.c.» - lascia intendere che, in realtà, le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell'atto introduttivo, anche in modo apprezzabile. Effettuata tale precisazione, si è pertanto proceduto a definire i tre tipi di domande previste dall'art. 183 c.p.c.: le "nuove", le "precisate" e, infine, le "modificate". Con riguardo alle domande "nuove", pur non riscontrandosi un espresso divieto, le Sezioni Unite le hanno ritenute implicitamente vietate ad eccezione di quelle che per l'attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto. Le domande "precisate" sono, invece, le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni ma semplici precisazioni, finalizzate a definirle, puntualizzarle, circostanziarle meglio. Quanto alle domande "modificate", è stato giustamente rilevato che la norma non prevede alcun limite, nè quantitativo nè qualitativo, alla modificazione ammessa. Da una siffatta analisi esegetica, sembra potersi chiaramente desumere che la netta contrapposizione emendatio/mutatio, generalmente assunta a principio indiscutibile, tende a sovrapporre e far coincidere queste due ultime categorie: se domanda "precisata" è la stessa domanda originaria, che ha subito solo lievi "rimaneggiamenti" e non nei suoi elementi identificatori; e se è inammissibile il mutamento radicale e non "in parallelo" di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda, quando si sarà in presenza di una domanda "modificata" e non solo "precisata"? Mai, così sostanzialmente svuotandosi la norma di uno dei suoi significati [CONSOLO, 2015, 961 e SS.]. Occorre, quindi, ritenere che, essendo la domanda "modificata" espressamente prevista e qualificata ammissibile (se formulata entro la prima memoria ex 183 c.p.c.), le sue caratteristiche devono individuarsi per differenza rispetto alle domande nuove ed a quelle precisate. E dunque: da un lato, la domanda modificata sarà diversa per petitum e/o causa petendi dalla domanda originaria (perché, fermi quegli elementi, sarebbe domanda solo precisata); dall'altro, la prima non potrà avere la caratteristica che è il minimo comune denominatore delle domande nuove contemplate dal comma 5 dell'art. 183 c.p.c., e che per le Sezioni Unite sta in ciò, che si tratta 323 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ di domande che si aggiungono a quella originaria e che possono convivere con quella (e così essere accolte insieme a quella, attribuendo un duplice bene della vita, un doppio risultato anche funzionale, e non solo una diversa ma concorrente res iudicata). Ne deriva che sono domande modificate, ammissibili ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., quelle domande «...diverse [per petitum, causa petendi o entrambi] che però non si aggiungono a quelle originarie ma le sostituiscono e si pongono, pertanto, rispetto a queste, in rapporto di alternatività...» (cfr. parag. 3 della sentenza in esame), altresì precisandosi che, «...oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l'elemento soggettivo delle persone, la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio...» In altri termini, la modificazione delle domande ex art. 183 c.p.c. è ammissibile senza limiti, anche con riferimento al petitum ed alla causa petendi. E tale circostanza si evincerebbe non solo dalla previsione di ben tre termini, per formularle, replicare ad esse e provarle, ma anche perché, trattandosi di udienza di prima comparizione, la trattazione della causa non è ancora sostanzialmente iniziata e, conseguentemente, una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe alcun pregiudizio all'ordinato svolgimento del processo. Peraltro, da tale interpretazione non deriva - ad avviso delle Sezioni Unite - una degenerazione del processo, giacchè la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata o posta in alternativa. E nemmeno si rischierebbe un allungamento dei tempi processuali, atteso che la domanda modificata sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa, interviene nella fase iniziale del giudizio e non comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c.. Neppure, infine, può ritenersi, secondo la Suprema Corte, che una simile interpretazione possa "sorprendere" la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perchè «l'eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire, sicchè non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale" ed, infine, "alla suddetta parte è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio». 324 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ Ad avviso di chi scrive, però, proprio con riguardo alla completezza dell'esplicazione del diritto di difesa della parte nei cui confronti sia diretta una modificazione della domanda nei termini fin qui esaminati, sembra che sia rimasto in ombra un aspetto: a fronte di una siffatta modificazione effettuata entro il primo dei tre termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la controparte, avvalendosi del secondo termine previsto dalla medesima norma, potrà senz'altro «...replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte...», ovvero «.. proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime...». Ma potrà anche formulare domande che siano conseguenza di quella modificazione ? Il tenore letterale della disposizione da ultimo citata non sembrerebbe consentirlo, per cui, qualora non si voglia fare ricorso al meccanismo, ormai generalizzato (cfr. art. 153, comma 2, c.p.c., introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69), della rimessione in termini, dovrebbe individuarsi, in via interpretativa, - al fine di scongiurare potenziali lesioni del diritto di difesa - un meccanismo che (magari sulla falsariga di quanto sancito dall'art. 183, comma 5, c.p.c., in favore dell'attore) renda comunque proponibili tali domande (per così dire, ulteriormente) conseguenziali. Da ultimo, le Sezioni Unite hanno ritenuto che i risultati ermeneutici così raggiunti appaiono in completa consonanza sia con l'esigenza - ripetutamente perseguita nel codice di rito, talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza - di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione e riunione dei procedimenti), sia, più in generale, con i valori funzionali del processo come via via enucleati, nel corso degli ultimi anni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza - soprattutto a Sezioni Unite - di legittimità. E proprio questo ha indotto autorevole dottrina [CONSOLO, 2015, 961 e SS.] a ribadire che l'aver individuato nell'esordio del processo il momento per l'esercizio dello ius poenitendi, e nel contempo - e giustamente - l'escludere (come fatto dal legislatore del '90, e poi ancora del 2006) con il massimo rigore successive nuove allegazioni (siano esse mere precisazioni o pregnanti modificazioni), consente assai probabilmente di abbandonare in larga parte l'intero dibattito su mutatio ed emendatio. 325 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ In quel momento, infatti, si dovrebbe avere - e da oggi anche per le Sezioni Unite si ha - la massima (e, però, ragionevole) libertà anche di mutatio, ovviamente nei limiti plausibili dati appunto dall'identità (non solo delle parti, ma pure) dell'episodio socio- economico di fondo. Dopo quel momento, dovrà subentrare il massimo rigore, tanto da rendere ormai l'udienza di precisazione delle conclusioni (in passato destinata a segnare l'ultimo momento utile per nuove attività di allegazione) snodo pressoché sempre superfluo. 326 CAP. XVIII - LA MUTATIO LIBELLI ED I SUOI LIMITI DI AMMISSIBILITÀ Bibliografia CONSOLO, Le S.U. aprono alle domande "complanari": ammissibili in primo grado ancorchè (chiaramente ed irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Corr. giur. 2015, 7, 961 e ss.. 327 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. CAPITOLO XIX IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. (di Rosaria Giordano) SOMMARIO: 1. Il sistema precedente. – 2. La nuova formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. - 3. Ambito d'applicazione ratione temporis. – 4. Competenza sui procedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale. - 5. Pendenza del giudizio sulla crisi coniugale e del procedimento de potestate tra le stesse parti. – 6. Giudizio di separazione o divorzio "in corso" al momento della proposizione del ricorso dinanzi al tribunale minorile. – 7. Individuazione del giudice ordinario competente se il procedimento sulla crisi coniugale pende in grado d'appello. – 8. Proposizione della domanda dinanzi al tribunale ordinario successivamente all'inizio del procedimento de potestate di fronte al tribunale per i minorenni. 1. Il sistema precedente. L'art. 38 disp. att. c.c., nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 3 della legge 20 dicembre 2012, n. 219, demandava alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei «provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 171, 194, comma secondo, 250, 252, 262, 264, 326, 317-bis, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, nonché nel caso di minori dall'articolo 269, primo comma, del codice civile». Nel comma 2 si precisava che rientravano, invece, nella competenza del tribunale ordinario i provvedimenti non attribuiti espressamente alla competenza di una diversa autorità giudiziaria. Nella vigenza di tale previsione normativa, si riteneva che quando nell'esercizio della potestà genitoriale si realizzava un pregiudizio all'interesse del minore, la competenza ai sensi dell'art. 333 c.c. si radicava in capo al tribunale per i minorenni. In particolare, Sez. 1, n. 03765/2001, Adamo, Rv. 546179, aveva affermato che, poiché il discrimine tra la competenza del tribunale ordinario e quella del tribunale per i minorenni deve essere individuato in riferimento al petitum ed alla causa petendi, rientrano, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 cc. e 38 disp. att. c.c., nella competenza del tribunale per i minorenni le domande finalizzate ad ottenere provvedimenti cautelari e temporanei idonei ad ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore, anche se non di gravità tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla potestà genitoriale, di cui all'art. 330 c.c., mentre appartengono alla competenza del tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di divorzio, le 328 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. pronunzie di affidamento dei minori che mirino solo ad individuare quale dei due genitori sia più idoneo a prendersi cura del figlio. Tuttavia, anche nell'assetto normativo delineato dalla pregressa formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c., era problematica l'individuazione dell'autorità giudiziaria competente a decidere in ordine all'esercizio della potestà sul minore, in pendenza di un procedimento di separazione personale tra i genitori. Invero, la questione si correlava al disposto dell'art. 155, comma 3, c.c., che, già nel testo introdotto dall'art. 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151, stabiliva che il coniuge separato non collocatario potesse ricorrere al tribunale ordinario nell'ipotesi in cui assumesse l'adozione da parte del coniuge esercente la potestà di decisioni pregiudizievoli al figlio. In effetti, se non sussistevano dubbi in ordine alla "riserva" di competenza del tribunale per i minorenni ai fini dell'assunzione dei provvedimenti ablativi, ci si interrogava sull'attribuzione, da parte dell'art. 155, comma 3, c.c., di una competenza concorrente al tribunale ordinario per l'adozione dei "provvedimenti convenienti" ex art. 333 c.c. Sulla questione, già prima della riforma di cui alla legge 8 febbraio 2006, n. 54, Sez. 1, n. 03159/1997, Bibolini, Rv. 503655, aveva chiarito che la tutela della prole rispetto ad una condotta pregiudizievole dei genitori non costituiva ragione esclusiva per radicare la competenza del tribunale per i minorenni ex art. 333 c.c., potendo, per vero, la stessa essere demandata alla competenza del tribunale ordinario, come causa di adozione dei provvedimenti relativi all'esercizio della potestà nella sentenza di separazione o nei provvedimenti assunti ai sensi dell'art. 155, ultimo comma, c.c. La problematica è stata, in seguito, oggetto di peculiare attenzione da parte di Sez. 1, n. 20352/2011, Dogliotti, Rv. 619890, la quale – considerando i poteri di intervento del tribunale ordinario in pendenza di un procedimento di separazione coniugale tra i gentori ai sensi dell'art. 155 c.c. (anche nella formulazione successiva alla legge n. 54 del 2006), al disposto dell'art. 6, comma 8, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in tema di divorzio ed ai poteri del giudice ordinario adito ex art. 709 ter c.p.c. – ha statuito che non sussiste alcun limite alla competenza del giudice ordinario correlato alla tipologia dei provvedimenti da assumere nei confronti dei minori. In particolare, la S.C. ha sottolineato che tanto il giudice specializzato (nel caso di coppie non coniugate o tra le quali comunque non penda un procedimento di separazione) che il giudice della separazione e del divorzio, a fronte di una situazione di 329 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. pregiudizio per i minori, possono assumere i provvedimenti volti alla tutela degli stessi. Non trascurabile, nell'argomentare della Corte, è il rilievo per il quale «è assai difficile, se non impossibile, distinguere una domanda di modifica pura e semplice da quella fondata appunto sul comportamento pregiudizievole (o, magari, sul grave abuso) del genitore: la competenza (in questo caso) speciale del Tribunale ordinario, trattandosi di genitori separati, prevarrebbe su quella generale dell'organo giudiziario minorile in materia di limitazione della potestà». Il principio fondamentale, nella prospettiva assunta dalla Corte nella richiamata decisione, è quello della concentrazione della tutela del minore dinanzi ad un'unica autorità giudiziaria, enunciato a partire da Sez. 1, n. 08362/2007, Giusti, Rv. 595912, ferma la competenza residuale del tribunale per i minorenni nei procedimenti di cui all'art. 333 c.c. proponibili ad iniziativa dei parenti o del Pubblico Ministero. 2. La nuova formulazione dell'art. 38 disp. att c.c. Il quadro normativo del riparto di competenze tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario è radicalmente mutato a seguito delle modifiche apportate all'art. 38 disp. att. dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219. Nell'attuale formulazione, invero, la norma stabilisce che «sono di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli articoli 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371, ultimo comma, del codice civile. Per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316, del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario». Peraltro, non può trascurarsi, per la ricostruzione del complessivo quadro normativo, che l'art. 96 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto al richiamato comma 1 dell'art. 38 disp. att. c.c. un altro periodo che demanda alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei provvedimenti previsti dagli articoli 251 e 317 bis c.c. Il testo novellato dall'art. 38 disp. att. c.c. continua quindi ad attribuire alla competenza del tribunale minorile i procedimenti de potestate ed a pronunciare i decreti limitativi o ablativi della potestà genitoriale ove ricorrano i presupposti indicati dagli artt. 330–335 c.c., competenza che subisce, tuttavia, una significativa deroga in favore del tribunale ordinario quando sia in corso, tra le stesse parti, 330 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. un giudizio di separazione o divorzio o penda un giudizio sull'esercizio della responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 316 c.c. La riforma ha la propria ratio nella concentrazione della tutela, ai fini dell'effettività della stessa, dinanzi ad un unico giudice. Il legislatore, perseguendo tale obiettivo, piuttosto che incidere sui criteri di competenza, ha previsto, al ricorrere di determinate condizioni, una vis attractiva tra un procedimento "pilota" ed un procedimento "vicario" [DANOVI, 2013, 620]. Il novellato art. 38 disp. att. c.c. sembra non attribuire, per converso, alcuna competenza per attrazione del tribunale ordinario di fronte al quale sia in corso un procedimento relativo all'affidamento ovvero all'esercizio della responsabilità genitoriale sui figli di genitori non coniugati ai sensi dell'art. 317 bis, ora art. 337 ter c.c. Secondo alcuni tale lacuna non sarebbe superabile in via interpretativa, in ragione del principio per il quale le norme sulla competenza sono di stretta interpretazione [TOMMASEO, 2013, 560]. E' stato tuttavia evidenziato, in senso diverso, che andrebbe considerata la finalità normativa di evitare qualsivoglia discriminazione, peraltro con evidenti profili di incostituzionalità, tra i figli correlata allo status giuridico dei genitori [LUPOI, 2013, 1293]. Molteplici sono, in realtà, gli interrogativi suscitati dalla novellata formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. Nella giurisprudenza della Corte si segnalano, soprattutto nell'ultimo anno, significative pronunce che hanno reso importanti precisazioni sul quadro normativo novellato. 3. Ambito d'applicazione ratione temporis. Peraltro, la prima decisione che, all'interno della giurisprudenza della Corte, si è occupata della portata del nuovo art. 38 disp. att. c.c. è Sez. 6-1, 21633/2014, Bisogni, Rv. 632847, la quale, nel delinearne l'ambito d'applicazione ratione temporis, ha precisato che la competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, introdotta prima della modifica del testo dell'art. 38 disp. att. c.c. da parte della legge n. 219 del 2012, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni anche se nel corso del giudizio sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della perpetuatio jurisdictionis. Ne deriva che l'art. 38 disp. att. c.c., nella formulazione successiva alla legge n. 219 del 2012, trova applicazione, in 331 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. conformità anche alla disciplina transitoria dettata dalla predetta legge, soltanto con riferimento ai procedimenti de potestate introdotti dopo la data del 1° gennaio 2013. 4. Competenza sui procedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c. Particolarmente complessa è subito apparsa, a seguito della novellazione dell'art. 38 disp. att. c.c. ad opera della legge n. 219 del 2012, l'interpretazione del secondo periodo del comma 1 della predetta disposizione laddove stabilisce che «per i procedimenti di cui all'articolo 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell'ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell'articolo 316, del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario». Invero, avuto riguardo alla formulazione letterale di tale previsione, ai fini dell'indivudazione del giudice competente alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c., potevano prospettarsi due soluzioni antitetiche. In particolare, i dubbi derivano dall'utilizzo dell'espressione «nelle disposizioni richiamate nel primo periodo», con riguardo ai provvedimenti devoluti alla competenza del giudice ordinario, in quanto la stessa può essere alternativamente riferita sia al primo periodo della norma, i.e. all'incipit generale della medesima, nel quale è ricompresa l'azione di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui all'art. 330 c.c., sia al primo periodo della seconda parte della disposizione che invece limita alle domande ex art. 333 c.c. la deroga alla competenza del tribunale per i minorenni. Sulla spinosa questione interpretativa (e su altre correlate) è intervenuta Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, statuendo che l'art. 38, comma 1, disp. att. c.c., come modificato dall'art. 3, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, si interpreta nel senso che, per i procedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale dei minorenni, ma, quando sia pendente un giudizio di separazione, di divorzio o ex art. 316 c.c. e fino alla sua definitiva conclusione, in deroga a questa attribuzione, le azioni dirette ad ottenere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, proposte successivamente e richieste con unico atto introduttivo dalle parti (così determinandosi un'ipotesi di connessione oggettiva e soggettiva), spettano al giudice del conflitto familiare, individuabile nel tribunale ordinario, se sia ancora in corso il giudizio di primo grado, ovvero nella corte 332 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. d'appello in composizione ordinaria, se penda il termine per l'impugnazione o sia stato interposto appello. Più in particolare, la Corte, premessa la difficoltà di distinguere tra provvedimenti de potestate di tipo limitativo e provvedimenti incidenti sull'esercizio della responsabilità genitoriale, conferma, in primo luogo, in ordine alle misure "convenienti" ex art. 333 c.c., la tesi, dominante in dottrina e nella prassi applicativa, per la quale il giudice ordinario del "conflitto familiare", in pendenza del processo, può assumere qualsivoglia provvedimento di limitazione della responsabilità genitoriale ai sensi della predetta disposizione normativa. La Corte ha affrontato, poi, nella medesima pronuncia, anche la più complessa questione afferente la possibilità per il tribunale ordinario di emanare un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell'art. 330 c.c. Nell'esaminare siffatta problematica, la S.C., ritenuta inappagante la formulazione letterale del secondo periodo dell'art. 38 disp. att. c.c. (suscettibile, come rilevato, di prestarsi almeno ad una duplice ed opposta interpretazione), ha optato per un'interpretazione teleologica del novellato sistema normativo finalizzata al principio di concentrazione delle tutele che garantisce in modo più pregnante il minore nel superiore interesse del quale devono essere assunte le relative decisioni. In tale prospettiva, pertanto, la Corte afferma che il tribunale ordinario può emettere pronunce di tipo ablatorio della potestà genitoriale, anche al fine di evitare che, mentre si svolge il procedimento di separazione coniugale o di divorzio dinanzi al giudice ordinario, vengano proposte azioni "di disturbo" dinanzi al tribunale per i minorenni. Peraltro, la Corte non trascura di osservare che è frequente che vengono chieste congiuntamente sia la misura maggiore della decadenza sia quella minore della limitazione della potestà genitoriale, sicché la proposizione contestuale delle due domande impone «il simultaneus processus presso il giudice del conflitto genitoriale, ostando alla ratio ispiratrice della norma di modifica della competenza una loro scissione, con l'attribuzione dell'una (art. 330 c.c.) al tribunale specializzato e dell'altra (art. 333 c.c.) invece al tribunale ordinario». 5. Pendenza del giudizio sulla crisi coniugale e del procedimento de potestate tra le "stesse parti". L'art. 38 disp. att. c.c. correla l'operare della vis attractiva dinanzi al giudice ordinario adito con la domanda di separazione o di divorzio ovvero con un ricorso ex art. 316 c.c. alla circostanza che le parti di tale 333 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. procedimento e di quello promosso di fronte al tribunale minorile siano le stesse. Sul punto, Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, ha precisato che la vis attractiva in favore del tribunale ordinario opera anche quando l'istanza relativa alla limitazione o alla decadenza dalla potestà genitoriale sia stata formulata dal Pubblico Ministero dinanzi al tribunale per i minorenni. In altri termini, la S.C. ha chiarito che non viene meno il presupposto dell'attribuzione della competenza al tribunale ordinario cui è demandata la risoluzione del conflitto coniugale costituito dalla necessaria pendenza del procedimento de potestate "tra le stesse parti" rispetto alla posizione del Pubblico Ministero. La soluzione assunta dalla Corte, nella già indicata prospettiva teleologica della concentrazione delle tutele nel superiore interesse del minore, non era scontata, in ragione del differente ruolo del Pubblico Ministero nel processo minorile de potestate ed in quello di separazione e divorzio. È opportuno ricordare, invero, che nei procedimenti per la limitazione o la decadenza dalla potestà genitoriale che si svolgono dinanzi al tribunale per i minorenni, il Pubblico Ministero può assumere (alla medesima stregua dei parenti) la veste processuale di attore, mentre nei giudizi di attenuazione o scioglimento del vincolo coniugale è soltanto interveniente necessario ex art. 70 c.p.c. [TOMMASEO, 2013, 562]. Nondimeno, si è anche osservato che, superata la fase iniziale del procedimento, i poteri del Pubblico Ministero interveniente necessario finiscono con il non differire da quelli del Pubblico Ministero al quale è riservato eccezionalmente l'esercizio dell'azione [DANOVI, 2013, 623]. La scelta della Corte è argomentata ponendo in rilievo, da un lato, che gli uffici del Pubblico Ministero possono porre in essere meccanismi di raccordo e trasmissione degli atti laddove il procedimento di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale sia stato promosso dagli stessi e, da un altro, che «il regime dell'affidamento del figlio minore risulterà fortemente condizionato dall'adozione di misure volte a escludere o limitare la responsabilità genitoriale». Appare per converso difficilmente ipotizzabile che possa argomentarsi la sussistenza del presupposto della pendenza dei procedimenti "tra le stesse parti" nell'ipotesi di proposizione del giudizio de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni da parte dei parenti [PROTO PISANI, 2012, 128], considerato che gli stessi neppure sono legittimati ad intervenire ad adiuvandum nel procedimento sulla crisi coniugale di fronte al tribunale ordinario 334 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. come affermato, con riguardo ai nonni, da Sez. 1, n. 22081/2009, Dogliotti, Rv. 610639. 6. Giudizio di separazione o divorzio "in corso" al momento della proposizione del ricorso dinanzi al tribunale minorile. Nella medesima decisione Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, la Corte ha chiarito, nell'individuare la portata della vis attractiva in favore del tribunale ordinario chiamato a decidere sulla crisi coniugale, in primo luogo, che la stessa opera per i giudizi che siano già incardinati al momento della proposizione della domanda limitativa o ablativa della potestà genitoriale, dovendo invero intendersi in tal senso il riferimento operato, sebbene con terminologia atecnica, dall'odierno art. 38 disp. att. c.c. ai "giudizi in corso". La S.C. ha evidenziato, inoltre, che la predetta norma, laddove dispone, invece, che detta vis attractiva in favore del giudice del conflitto coniugale resta ferma "per tutta la durata del processo" va interpretata nel senso che la stessa indica un continuum che si interrompe soltanto con il passaggio in giudicato. Ne deriva che, ad esempio, il giudizio deve ritenersi ancora in corso durante la decorrenza dei termini per impugnare, nello svolgimento dei procedimenti in sede di gravame, e laddove si verifichino vicende c.d. anomale come la sospensione o l'interruzione del procedimento. Sotto quest'ultimo profilo la Corte si è quindi discostata dalla posizione per la quale, valorizzando il termine "in corso" in luogo di quello "pendente" utilizzato dal legislatore con riguardo al giudizio c.d. attraente nell'ipotesi di quiescenza (o litispendenza c.d. attenuata) dello stesso dovrebbe riespandersi la competenza del tribunale per i minorenni [SCARSELLI, 2013, 676]. La Corte non si è, invece, pronunciata sull'operare della competenza per attrazione del tribunale ordinario anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o di divorzio nell'ipotesi in cui vengano incarinati i giudizi cameral-contenziosi di revisione previsti dagli art. 710 c.p.c. e dall'art. 9 della legge n. 898 del 1970. La dottrina, pur nella consapevolezza che la formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. potrebbe indurre ad una differente soluzione, appare orientata in senso affermativo in ragione della ratio ispiratrice della riforma [TOMMASEO, 2013, 562]. 7. Individuazione del giudice ordinario competente se il procedimento sulla crisi coniugale pende in grado d'appello. 335 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. Nella vicenda processuale oggetto del regolamento di competenza d'ufficio deciso da Sez. 1, n. 01349/2015, Acierno, Rv. 633988, veniva in rilievo specifico il correlato problema dell'individuazione del giudice ordinario competente a decidere sulla domanda de potestate proposta nella pendenza del giudizio di separazione tra i genitori in appello, i.e. se detta competenza spettasse al tribunale ovvero alla corte d'appello. La Corte si è pronunciata nel senso della sussistenza della competenza, in detta ipotesi, della corte d'appello, evidenziando la tollerabilità della perdita di un grado di giudizio, sia per la mancanza di un principio costituzionale che sancisca il doppio grado di giurisdizione, sia per l'ampiezza di poteri istruttori e delle parti e dell'autorità giudiziaria nel procedimento d'appello nei giudizi in tema di crisi coniguale che segue le forme camerali. Peraltro, l'attrazione della domanda de potestate nel giudizio ordinario di separazione o divorzio, potrebbe comportare, per altro verso, un accrescimento delle garanzie. Invero, il cumulo tra domande assoggettate a riti differenti implica, ex art. 40 c.p.c., che trovi applicazione la disciplina processuale prevista per i giudizi di separazione e di divorzio, sottraendo i procedimenti sulla potestà all'applicazione del rito camerale di cui all'art. 336, comma 2, c.c. Ne deriva che i capi de potestate eventualmente contenuti nella sentenza pronunciata dal giudice della separazione e del divorzio sono assoggettati al medesimo regime impugnatorio della stessa, ossia all'appello o al ricorso per cassazione [TOMMASEO, 2013, 562]. È invero risalente la critica alla giurisprudenza di legittimità che nega la ricorribilità per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., dei provvedimenti in tema di potestate in ragione del carattere personalissimo dei diritti sui quali gli stessi incidono e che potrebbe giustificare, come autorevolmente sostenuto, una deroga ai criteri generali in punto di individuazione della c.d. sentenza in senso sostanziale ai fini dell'ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione [PROTO PISANI, 2013, 74]. Tuttavia, anche di recente, Sez.1, 15341/2012, San Giorgio, Rv. 624333, ha ribadito che l'inammissibilità del ricorso straordinario nella materia in esame si correla alla non definitività dei provvedimenti che, proprio nel superiore interesse dei minori, possono essere oggetto di revisione al mutare delle circostanze di fatto che ne avevano giustificato l'emanazione. Rimane invece aperta la questione, peraltro oggetto di differenti interpretazioni in dottrina, avente ad oggetto l'individuazione al giudice ordinario competente a decidere sul 336 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. ricorso in tema di limitazione e/o decadenza dalla potestà genitoriale proposto nella decorrenza del termine per impugnare la sentenza di primo grado di separazione o divorzio. 8. Proposizione della domanda dinanzi al tribunale ordinario successivamente all'inizio del procedimento de potestate di fronte al tribunale per i minorenni. Altra questione problematica derivante dalla novellata formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. è quella che attiene all'operatività della competenza "per attrazione" del tribunale ordinario del conflitto coniugale anche nell'ipotesi in cui il procedimento di fronte al tribunale per i minorenni fosse già pendente alla data dell'introduzione della domanda di separazione personale o di scioglimento del vincolo coniugale di fronte al tribunale ordinario. Sulla specifica questione è intervenuta Sez. 1, n. 02833/2015, Bisogni, Rv. 634420, la quale ha chiarito che, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.c., come novellato dall'art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, il tribunale per i minorenni resta competente a conoscere della domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori ancorché, nel corso del giudizio, sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, trattandosi di interpretazione aderente al dato letterale della norma, rispettosa del principio della perpetuatio jurisdictionis di cui all'art. 5 c.p.c., nonché coerente con ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, che trovano fondamento nell'art. 111 Cost., nell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e nell'art. 24 della Carta di Nizza. Diversamente, una parte della dottrina, nel valorizzare l'utilizzo del termine "in corso", senza invece alcun riferimento alla necessaria prevenzione del giudizio dinanzi al tribunale ordinario da parte dell'art. 38 disp. att. c.c., ha evidenziato che la competenza del giudice della crisi coniugale deve ritenersi sussistente, in deroga al generale principio della perpetuatio jurisdictionis, anche qualora, al momento dell'introduzione della domanda de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni non sia stato ancora proposto il giudizio di separazione o divorzio. Si è osservato che siffatta soluzione neppure si sarebbe posta in contrasto con il principio di economia processuale, in ragione della possibilità di tener conto dell'attività istruttoria compiuta dinanzi al giudice specializzato a seguito della 337 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. riassunzione del procedimento di fronte al giudice ordinario in ossequio al disposto dell'art. 50 c.p.c. [LUPOI, 2013, 1301]. Alla luce dell'orientamento assunto, invece, dalla Corte nella richiamata decisione, resta aperto il problema della possibilità per il giudice ordinario della crisi coniugale investito anche della domanda sull'affidamento della prole di decidere della stessa prima della definizione del procedimento de potestate dinanzi al tribunale per i minorenni. La pregiudizialità ex art. 295 c.p.c. di quest'ultimo giudizio rispetto alla domanda pregiudicata di affidamento dei minori dovrebbe comportare una sospensione della decisione sull'affidamento [DANOVI, 2013, 623]. 9. Autorizzazione al riconoscimento dei figli da parte dei minori infrasedicenni. Come evidenziato, l'art. 96 del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, aggiungendo un altro periodo al comma 1 dell'art. 38 disp. att. c.c., ha precisato che è demandata alla competenza del tribunale per i minorenni l'emanazione dei provvedimenti di cui agli articoli 251 e 317 bis c.c. Sulla portata della previsione è intervenuta Sez. 1, 16103/2015, Cristiano, Rv. 636601, la quale ha affermato che la competenza a provvedere sull'autorizzazione al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio richiesta, ex art. 250, comma 5, c.c., dal genitore non ancora sedicenne, appartiene al tribunale ordinario. La Corte ha premesso, invero, che le modifiche dell'art. 38 disp. att. c.c. realizzate dalla legge n. 219 del 2012 e dal d.lgs. n. 154 del 2013 hanno attuato nel nostro ordinamento il principio di civilità giuridica in forza del quale i figli sono tali senza distinzioni derivanti dallo status dei loro genitori. In tale prospettiva, l'art. 38 disp. att. c.c. attribuisce ora alla competenza generale del tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali, come nell'ipotesi di quelli assunti ai sensi dell'art. 250 c.c., non è stabilita la competenza di altro giudice ed, in particolare, di quello specializzato minorile. Pertanto, ritiene la Corte che non possa sostenersi la tesi secondo cui, invece, l'autorizzazione al riconoscimento del figlio da parte del minore infrasedicenne di cui al comma 5 dell'art. 250 c.c. debba essere richiesta al tribunale per i minorenni in ragione del disposto del novellato art. 251 c.c. che, sebbene nel comma 1 faccia riferimento al riconoscimento del figlio nato da persone aventi un vincolo di parentela, nel comma successivo precisa che «il riconoscimento di una persona minore di età è autorizzato dal giudice». 338 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. Nel risolvere la complessa problematica interpretativa la Corte effettua rilevanti considerazioni di carattere sistematico. In primo luogo, si sottolinea che l'attribuzione al tribunale ordinario della competenza a provvedere sulla domanda di riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio è volta ad eliminare ogni forma di discriminazione tra i figli correlata allo status dei loro genitori e che a tale finalità non si sottrae la fattispecie contemplata dal comma 5, ossia quella del riconoscimento del figlio da parte del minore infrasedicenne, poiché l'ammissione, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, dello stesso, in precedenza non consentito, denota che le esigenze di tutela del genitore «non possano più ritenersi prevalenti rispetto a quelle del figli». Differente, ed idonea a giustificare la competenza del tribunale per i minorenni (anche per la composizione dell'organo giudicante), è l'ipotesi del riconoscimento del figlio nato da persone legate da un vincolo di parentela nella quale, come specificato dallo stesso art. 251 c.c., proprio nell'interesse superiore del figlio che potrebbe esserne pregiudicato, il riconoscimento è subordinato in ogni caso, ossia a prescindere dall'età dei genitori, all'autorizzazione del tribunale. 339 CAP. XIX - IL RIPARTO DI COMPETENZA TRA TRIBUNALE ORDINARIO E TRIBUNALE PER I MINORENNI AI SENSI DEL NUOVO ART. 38 DISP. ATT. C.C. Bibliografia DANOVI, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, in Famiglia e Diritto, 2013, n. 6, 620; LUPOI, Il procedimento della crisi tra genitori non coniugati avanti al tribunale ordinario, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2013, n. 4, 1293; PROTO PISANI, Note sul nuovo art. 38 disp. att. c.c. e sui problemi che esso determina, in Il Foro italiano, 2012, V, 128; PROTO PISANI, La giurisdizionalizzazione dei processi minorili c.d. de potestate, in Il Foro italiano, 2013, V, 74; SCARSELLI, La recente riforma in materia di filiazione: gli aspetti processuali, in Il giusto processo civile, 2013, 667; TOMMASEO, I procedimenti de potestate e la nuova legge sulla filiazione, in Rivista di diritto processuale, 2013, n. 3, 560. 340 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE CAPITOLO XX DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE (di Gian Andrea Chiesi) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. L'orientamento tradizionale. - 3. La fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c. - 4. Conseguenze derivanti dalla natura di mera difesa. - 5. Il comportamento dello pseudo-rappresentato. - 6. Conclusioni. 1. Premessa. Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, nel rimeditare il consolidato orientamento di legittimità in tema di rilevabilità dell'inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli (per cui essa poteva formare oggetto solo di eccezione di parte e, essendo volta a tutelare il falso rappresentato, poteva essere fatta valere solo da quest'ultimo - o dai suoi eredi - mentre non era invocabile dal terzo contraente che, ai sensi dell'art. 1398 c.c., poteva unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato, senza propria colpa, nell'operatività del contratto - cfr., ex multis, Sez. 2, n. 00410/2000, Cioffi, Rv. 532879, Sez. 2, n. 14618/2010, Settimj, Rv. 613398 e Sez. 2, n. 24133/2013, Giusti, Rv. 628199), ha affermato il principio così massimato: ‹‹in tema di contratto stipulato da falsus procurator, la deduzione del difetto o del superamento del potere rappresentativo e della conseguente inefficacia del contratto, da parte dello pseudo rappresentato, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice deve tener conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte››. 2. L'orientamento tradizionale. Il fondamento dell'inquadramento dell'eccezione di inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator tra quelle in senso stretto veniva tradizionalmente ricondotto alla duplice considerazione per cui (a) non solo non si verte in ipotesi di nullità - sicché non trova applicazione l'art. 1421 c.c. - ma (b) si è di fronte ad un'inefficacia cd. asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), giustificata dal rilievo per cui l'improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera 341 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito. La dottrina maggioritaria ha a lungo concordato con tale impostazione, da un lato, sostenendo che l'inefficacia del contratto, tutelando il falso rappresentato, può essere fatta valere solo da questi (escludendone, dunque, non solo il rilievo ufficioso, ma anche la eccepibilità da parte del terzo contraente); dall'altro, evidenziando che lo pseudo-rappresentato si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo ratificare il negozio, come farne, al contrario, dichiarare la definitiva inidoneità operativa. In sostanza, il dominus - e solo lui - sarebbe titolare di un diritto potestativo di contenuto "complesso" consistente non solo nella ratifica - che attribuisce efficacia al contratto - ma anche nella proposizione dell'eccezione d'inefficacia - che preclude proprio la possibilità ratifica e rende definitiva ed assoluta l'inefficacia originariamente solo temporanea e relativa. 3. La fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c. Il revirement condotto da Sez. U, n. 11377/2015, Giusti, Rv. 635537, [condiviso, in dottrina, da CONSOLO, 2014, 19-20], affonda le proprie radici proprio nel diritto sostanziale e, precisamente, nel diverso ruolo riconosciuto dall'organo di nomofilachia al potere rappresentativo, la cui sussistenza, rendendo possibile - nei limiti con cui esso è conferito - la produzione di effetti diretti nei confronti del rappresentato, assurge ad elemento strutturale della fattispecie complessa disciplinata dall'art. 1388 c.c.. In sostanza - osserva in motivazione la Corte - la presenza del potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell'interessato) si pone ‹‹come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato››. Inevitabilmente, allora, non integrando un fatto impeditivo della domanda quanto, piuttosto, una deficienza strutturale della fattispecie complessa azionata dal terzo contraente nei confronti del rappresentato (volta a fare valere, nei confronti di costui, i diritti nascenti dal contratto concluso con il rappresentante), va da dé che la (deduzione interente la) carenza di legittimazione rappresentativa si sottrae al regime delle eccezioni (e, in specie, di quelle cd. in senso stretto) per essere attratta, piuttosto, nell'orbita delle mere difese, il cui rilievo, come noto, non estende l'oggetto del processo al di là del 342 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE diritto fatto valere dall'attore né, tampoco, allarga l'insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio. Soluzione, peraltro, perfettamente in linea con quanto affermato dalla Corte in tema di riparto dell'onere della prova (Sez. 3, n. 03961/1978, Lo Surdo, Rv. 393565, nonché Sez. 3, n. 02694/1963, Sparvieri, Rv. 264161), laddove è stato chiarito che, nel contratto concluso dal rappresentante senza poteri, grava sul terzo contraente l'onere di provare l'esistenza dei poteri rappresentativi contestati dal dominus negotii e, cioè, l'esistenza ed i limiti della procura o la ratifica: una soluzione, con tutta evidenza, difficilmente compatibile con l'inquadramento dell'inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator nella categoria dell'eccezione, peraltro, in senso stretto, cui dovrebbe corrispondere, ai sensi dell'art. 2697 c.c., l'onere, in capo alla parte che se ne avvale (nella specie, dunque, lo pseudo-rappresentato), di allegare e provare il fatto impeditivo invocato, costituito dall'assenza della procura e della ratifica. 4. Conseguenze derivanti dalla natura di mera difesa. Dalla qualificazione, in termini di mera difesa, della deduzione di carenza di potere rappresentativo in capo al falsus procurator, il Supremo Consesso trae alcune inevitabili conseguenze di carattere processuale, sinteticamente racchiuse nel principio di diritto affermato dalla pronunzia in esame (così esposto in motivazione, al § 8:‹‹poiché la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa››) e la cui analitica disamina porta ad evidenziare che: 1) la formulazione di detta deduzione difensiva non soggiace ad alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. 3, n. 10280/2002, Finocchiaro, Rv. 555780, Sez. L., n. 21073/2007, Stile, Rv. 599496 e Sez. 3, n. 25415/2013, Carluccio, Rv. 629166); 2) la mancata contestazione, ad opera dello pseudo-rappresentato, circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dal terzo a sostegno della propria domanda costituisce un comportamento processuale significativo determinando, ex art. 115, comma 1, c.p.c., una relevatio ab onere probandi a favore di quest'ultimo; 3) la non contestazione non è, 343 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE tuttavia, assolutamente vincolante per il giudice, nel senso che questi può sempre rilevare l'inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. L, n. 22829/2004, De Matteis, Rv. 578168; Sez. L, n. 05363/2012, Coletti De Cesare, Rv. 621793); 4) inevitabile corollario di quanto precede è la considerazione per cui, alloquando la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, in quanto la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d'ufficio (cfr. Sez. 3, n. 15375/2010, Federico, Rv. 613795) - conclusione, quest'ultima, conforme a quanto già affermato da Sez. 2, n. 01141/1977, Valente, Rv. 384799, secondo cui il giudice del merito può rilevare d'ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione del contratto per difetto d'incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell'inesistenza di un elemento costitutivo del diritto dedotto in giudizio e non già dell'accertamento di un contro-diritto (e, quindi, di un'eccezione in senso proprio). 5. Il comportamento dello pseudo-rappresentato. Diviene allora assolutamente centrale, nella ricostruzione dell'istituto ed al di là del caso - pure espressamente esaminato in motivazione (al § 6.1) - di procura (a monte) nulla, la valorizzazione del comportamento dello pseudo-rappresentato, la cui ‹‹condotta colpevole...funge da fattispecie alternativa ad una vera legittimazione in quanto autonomizza, nel senso di renderla indipendente da quella del falsus procurator, la condizione del terzo incolpevole...›› [PAGLIANTINI, 2015, 652]. In altre parole, la situazione di apparenza colpevolemente creata dal dominus, il quale nulla ha fatto per non ingenerare nel terzo (incolpevole) il convincimento circa l'efficacia del contratto nei suoi confronti, conduce al riconoscimento di una legittimazione in capo al procurator preclusiva dell'operatività della regola della inefficacia; una situazione che, a ben vedere, va esaminata fundituus soprattutto nelle ipotesi di procura tacita ovvero di sua modifica o revoca non adeguatamente pubblicizzate, laddove il discrimen tra apparenza colpevole (idonea ad integrare, come detto, gli estremi richiesti dall'art. 1398 c.c. onde consentire al contratto la produzione di effetti diretti nei confronti del dominus) e solamente "tollerata" (siccome tale, abilitante, a contrario, il rilievo - anche officioso - dell'inefficacia del contratto) non è sempre agevole: ‹‹pur se è esatto che 344 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE una ratifica tacita non si può desumere dalla semplice conoscenza che il c.d. dominus abbia avuto di una certa attività svolta in suo nome...è innegabile che un inutile temporeggiare si mostra nel contempo proclive all'imputazione di un effetto appropriativo non voluto per la via dell'apparenza›› (Pagliantini, 2015, 652. In particolare, l'Autore chiarisce la valenza esemplificativa del caso concreto esamniato dalla Corte, laddove era emerso - in punto di fatto - che la procura "travalicata" era stata rilasciata dal padre in favore dei figli, con la conseguente labilità del confine tra apparenza colpevole e meramente tollerata dallo speudo rappresentato). Certamente è da escludere, invece, la rilevabilità d'ufficio dell'inefficacia del contratto nei confronti dello pseudo- rappresentato allorquando sia questi ad agire in giudizio con una domanda (di adempimento o, simmetricamente, di risoluzione per inadempimento) che presuppone l'efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri, come nell'ipotesi in cui lo stesso dominus, convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento donde emerga, in maniera chiara e univoca, la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator: casi - entrambi - in cui il comportamento tenuto (questa volta) nel processo dal dominus riverbera i propri effetti anche sul piano del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l'originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator. 6. Conclusioni. La conclusione più evidente che emerge dalla pronunzia in esame, la quale si pone in perfetta linea con i più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità in tema di poteri ufficiosi del giudice, è che questa ha il grande pregio di evitare che, in conseguenza della condotta processuale di una controparte poco accorta (perché la costituzione in giudizio avvenga allorquando sono già spirati i termini per la proposizione delle eccezioni in senso stretto), il terzo, anche nelle ipotesi "limite" in cui non sia incolpevole, si ritrovi ad essere destinatario di una tutela giuridica piena ai danni di un contraente (lo pseudo-rappresentato, per l'appunto) ignaro, che finirebbe per vedersi legato ad un contratto, quando non voluto, addirittura neppure conosciuto fino alla proposizione dell'azione giudiziaria. 345 CAP. XX - DIFETTO DI POTERE RAPPRESENTATIVO, INEFFICACIA DEL CONTRATTO E RILEVABILITÀ D'UFFICIO: IL CONTRATTO CONCLUSO DAL FALSUS PROCURATOR AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE Bibliografia C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume III - Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2014, 19- 20; S. PAGLIANTINI, La riconcettualizzazione processuale del contratto: le Sezioni Unite sulla rappresentanza senza potere nel dualismo tra tutela obbligatoria e reale dell'affidamento, in I contratti, 7/2015, Milano, 652. 346 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE CAPITOLO XXI IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE (di Antonio Scarpa) SOMMARIO: 1. Sez. U, n. 14475/2015. – 2. Unitarietà dei procedimenti bifasici ai fini dell'acquisizione probatoria. - 3. Disponibilità ed immanenza della prova documentale. - 4. Irreversibilità dell'acquisizione documentale – 5. Produzione documentale e processo civile telematico. 1. Sez. U, n. 14475/2015. Risolvendo il contrasto di decisioni rilevato da Sez. 3, n. 24408/2014, Frasca, Sez. U, n. 14475/2015, Curzio, Rv. 635758, ha affermato che i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo e rimasti a disposizione dell'intimato, agli effetti dell'art. 638, comma 3, c.p.c., seppur non prodotti nuovamente nella fase di opposizione, permangono nella sfera di cognizione del giudice di tale fase, in forza del principio "di non dispersione della prova" ormai acquisita al processo; essi, pertanto, non possono essere considerati nuovi, e, ove siano in seguito allegati all'atto di appello contro la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, devono ritenersi ammissibili secondo il criterio contenuto nell'art. 345, comma 3, c.p.c. (nel testo introdotto dall'art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353). Nel dichiarare di condividere la ricostruzione contenuta in Sez. 2, n. 11817/2011, Scalisi, Rv. 618092, le Sezioni Unite hanno sostenuto che la stessa formula normativa adottata nell'art. 345, comma 3, c.p.c. induce a ritenere che i documenti possano intendersi come nuovi soltanto ove ciò siano ‹‹rispetto all'intero processo››, e che, per essere tali, essi ‹‹non devono mai essere stati prodotti in precedenza››. Sono persino i canoni costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata, avverte Sez. U, n. 14475/2015, ad implicare che le prove acquisite al processo lo siano in via definitiva e che non vadano disperse. Siffatto principio ‹‹di non dispersione della prova›› comporta, con specifico riferimento al procedimento per decreto ingiuntivo, che i documenti prodotti a sostegno della domanda d'ingiunzione possano essere valutati dal giudice anche nell'eventuale fase di opposizione, la quale completa il giudizio di primo grado. Neppure l'art. 638, comma 3, c.p.c. (il quale fa divieto di ritirare i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo fino alla scadenza del termine stabilito a norma dell'art. 641 c.p.c.) sottintende che la documentazione esibita nella fase monitoria possa essere liberamente ritirata nella fase oppositiva a cognizione piena, 347 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE occorrendo a tal fine comunque l'autorizzazione dal giudice ex art. 169 c.p.c. 2. Unitarietà dei procedimenti bifasici ai fini dell'acquisizione probatoria. La ricostruzione operata dalle Sezioni Unite supera, così, le critiche che colpivano l'orientamento secondo cui i documenti allegati al ricorso per decreto ingiuntivo dovessero restare soggetti, una volta intrapreso il giudizio di opposizione, in primo grado alle preclusioni istruttorie di cui all'art. 183 c.p.c., e in appello al divieto di "novità" posto dall'art. 345, comma 3, c.p.c. Viene piuttosto ribadito che il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto di ingiunzione non costituisce un processo autonomo rispetto a quello poi aperto dall'opposizione. Il procedimento a cognizione piena, avverte Sez. U, n. 14475/2015, prosegue dinanzi allo stesso ufficio giudiziario ed giudice dell'opposizione ‹‹dovrà›› disporre di tutto il materiale istruttorio (ovvero, di quello prodotto con il ricorso per decreto, nonché di quello che opponente ed opposto abbiano allegato eventualmente), a ciò non ostando la mancanza di una norma che espliciti la necessità della trasmissione integrale del fascicolo della fase monitoria. Poiché i documenti prodotti in sede monitoria, in base al principio di acquisizione probatoria, devono intendersi già prodotti nel processo, non potrebbe proprio porsi, del resto, un problema di violazione del diritto di difesa dell'opponente a causa della loro esibizione nel giudizio di primo grado pur dopo la maturazione delle preclusioni, giacché il medesimo opponente ha già avuto modo di conoscere quei documenti proprio al fine di proporre opposizione (art. 638, comma 3, c.p.c.). L'atto di opposizione attua un procedimento a contraddittorio differito, il quale ha origine nel decreto ingiuntivo, e prosegue mediante una fase ulteriore di quello già iniziato, configurandosi come "risposta" del debitore intimato, dopo che questi sia stato messo in grado di esaminare i documenti depositati in cancelleria e posti a fondamento dell'istanza e del provvedimento di ingiunzione. Basti qui ricordare, ad esempio, come Sez. 3, n. 19680/2008, Travaglino, Rv. 604986, intendesse l'atto di opposizione a decreto ingiuntivo come la "prima risposta", agli effetti dell'art. 215, comma 1, n. 2, c.p.c., per disconoscere i documenti esibiti dall'intimante a fondamento dell'istanza monitoria, così reputandoli, evidentemente, già acquisiti in via definitiva pure agli atti del giudizio di opposizione. 348 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE Gli studiosi, allora, ravvisano nell'accezione data da Sez. U, n. 14475/2015 al principio di acquisizione processuale un criterio operativo utile per tutti i procedimenti bifasici, e quindi pure per i giudizi di accertamento del passivo fallimentare, nel senso che gli atti e i documenti della fase sommaria possano poi ritenersi allegati altresì al processo di opposizione allo stato passivo del fallimento, senza la necessità di alcuna ulteriore formale produzione, di tal che il tribunale debba prendere in esame dal fascicolo fallimentare tutto ciò che nella fase di verificazione sia stato oggetto di discussione e di produzione [BACCAGLINI, 2015, 1262; in senso contrario, invece, Sez. 6-1, n. 00493/2012, Ceccherini, Rv. 620930]. 3. Disponibilità ed immanenza della prova documentale. Sia in dottrina che in giurisprudenza non è controverso il punto di partenza secondo cui anche le prove documentali sono soggette al principio di acquisizione processuale. Ancora di recente, peraltro, Sez. U, n. 03033/2013, Piccialli, Rv. 625141, ha ribadito che l'appellante, il quale censuri l'erronea valutazione, da parte del giudice di primo grado, di documenti prodotti dalla controparte in quella sede e non ridepositati dalla stessa in appello, ha l'onere di estrarne copia ai sensi dell'art. 76 disp. att. c.p.c. e di allegarli nel giudizio di gravame. Questa soluzione è legata da un nesso di continuità con Sez. U, n. 28498/2015, Carbone, Rv. 586371 e 586372, la quale, com'è noto, affermava pure che il canone costituzionale del giusto processo ed il principio di acquisizione della prova, negando ogni facoltà di sottrarre alla valutazione del giudice un elemento probatorio comunque introdotto in giudizio, indipendentemente dalla provenienza dello stesso dall'uno o dall'altro dei soggetti della lite, comportassero altresì che la parte, all'atto del ritiro del proprio fascicolo nel corso del procedimento, abbia sempre l'onere di depositare copia dei documenti in esso inseriti, in maniera da non precluderne all'avversario la successiva esibizione in caso di mancata restituzione di quello. Il tema in esame si ricollega, quindi, anche alla questione relativa alla facoltà di ritiro del fascicolo di parte, riconosciuta dall'art. 169 c.p.c. sia durante la fase della trattazione e dell'istruzione della causa (subordinatamente ad un'autorizzazione da parte del giudice istruttore e fin quando questi non ne disponga il rideposito), sia al momento del passaggio alla fase decisoria. Questa disposizione deve contemperare le esigenze, proprie del sistema delle prove, attinenti ai poteri della parte, della controparte e del 349 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE giudice, sicché, in forza del principio dispositivo, il fascicolo potrebbe dirsi soggetto alla volontà di ciascuno dei contendenti, mentre, per effetto del principio di acquisizione, il contenuto del fascicolo dovrebbe rimanere soggetto ad un vincolo di destinazione, che limita la disponibilità delle parti sul materiale documentale: le formalità di formazione, ritiro e restituzione del fascicolo di parte sono deputate, pertanto, a garantire la tutela del contraddittorio quanto ai documenti prodotti, nonché del diritto di difesa, poiché, conseguentemente alla produzione avversaria, sorge l'interesse dei litiganti ad avvalersi di una prova contraria, ovvero anche dello stesso documento esibito dalla controparte. Tutta la disciplina relativa alla produzione di documenti è essenzialmente finalizzata a garantire il diritto di difesa della parte contro cui la medesima produzione abbia luogo, tant'è che la conseguita conoscenza dei documenti in favore della controparte costituisce il metro secondo cui orientare la verifica dell'avvenuto rispetto del bisogno di tutela del contraddittorio. Quindi, una volta prodotto in una fase o in un grado di un processo unitario un documento, lo stesso, in quanto "conosciuto" e perciò definitivamente acquisito alla causa, se sia successivamente ritirato e poi ancora allegato, dalla stessa parte che se ne fosse originaria avvalsa o da altra parte, non dovrebbe mai considerarsi "nuovo" né in primo grado, agli effetti dell'art. 183, comma 6, c.p.c., né in appello, ai sensi dell'art. 345, comma 3, c.p.c., né nel giudizio in cassazione, agli effetti del divieto di cui all'art. 372 c.p.c. Il principio di immanenza della prova documentale implica, in sostanza, che l'efficacia istruttoria di essa, una volta che sia stata prodotta in una fase del giudizio, non rivesta caratteri di "novità" in ipotesi di successiva allegazione nelle fasi seguenti. 4. Irreversibilità dell'acquisizione documentale. Il maturato convincimento giurisprudenziale della definititivà dell'acquisizione probatoria dei documenti prodotti in una fase o in un grado anteriori di un unico giudizio non ha, tuttavia, ancora comportato l'esplicita negazione dell'onere per la parte interessata di attivarsi per procurarne la disponibilità al giudice della fase o del grado successivi. Allorché al giudice non sia stato possibile recuperare al proprio esame i documenti prodotti e non restituiti, la decisione viene così affidata alla regola di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., intesa quale criterio da contemperare con i principi di acquisizione processuale e di disponibilità delle prove, decretandosi la soccombenza della parte onerata di estrarne copia e riprodurli (si 350 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE vedano, indicativamente, Sez. L, n. 21909/2013, Tria, Rv. 627711; Sez. L, n. 01462/2013, Manna, Rv. 625045; Sez. 2, n. 15660/2007, Goldoni, Rv. 598753). Le sentenze, infatti, sono state solitamente avverse all'elaborazione di una regola di "irreversibilità dell'acquisizione documentale", la quale sarebbe però, secondo alcuni autori, conseguenza inevitabile del principio di acquisizione, dovendo esso operare similmente sia per le prove costituende (argomentando, ad esempio, dall'art. 245, comma 2, c.p.c.) che per le prove costituite. La dottrina esprime la propria insoddisfazione per l'orientamento dei giudici che rimette il concreto funzionamento del principio di acquisizione della prova documentale al diritto di ottenere copia ex art. art. 76 disp. att. c.p.c. (riponendo nella solerzia della controparte il rimedio dell'abuso dell'altra), in quanto il mancato esercizio di tale facoltà (così trasformata in onere) implicherebbe comunque la sottrazione della prova al processo, rischio che si avvera ogni qual volta la parte non ottemperi all'ordine di restituire il fascicolo dopo averlo ritirato, come quando l'appellato non riproduca in appello i documenti prodotti in primo grado. Il principio di irreversibilità applicato alle prove documentali induce, allora, a negare ai contendenti la piena disponibilità del rispettivo fascicolo di parte (come dei singoli documenti in esso contenuti), invocando, semmai, in danno di chi abbia ritirato la produzione una decisione sfavorevole per violazione del dovere di lealtà e di probità, dal quale trarre argomenti di prova, in forza dell'art. 116 c.p.c. Gli studi dottrinali si adoperano per individuare i mezzi utilizzabili dal giudice allo scopo di conseguire in ogni modo e con pienezza degli effetti il recupero della disponibilità dei documenti dapprima prodotti e poi ritirati, enunciando un "best evidence principle", nel senso che il magistrato, pur nel rispetto del canone di imparzialità e del divieto di utilizzo della scienza privata, sarebbe sempre tenuto ad acquisire pure d'ufficio la "prova migliore". Il giudice dovrebbe, allora, valutare le copie della documentazione prodotta dalla controparte, se reperite nei fascicoli dei gradi precedenti, come la trascrizione del testo ad essa pertinente operata in un provvedimento, in un atto difensivo, o in una relazione peritale, o nel verbale dell'udienza. In caso di contumacia dell'appellato, ancora, il giudice potrebbe acquisire d'ufficio il fascicolo di parte di primo grado (non rinvenendosi un rilievo ostativo nel dato testuale del comma 3 dell'art. 347 c.p.c., il quale prevede la trasmissione del solo fascicolo di ufficio, ed, anzi, valorizzando la portata dell'art. 123-bis disp. att. c.p.c., il quale 351 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE accorda al giudice di appello il potere di «ordinare alla parte interessata di produrre copia di determinati atti»). Si auspica altrimenti il ricorso all'art. 213 c.p.c., sicché il giudice potrebbe richiedere alla cancelleria i documenti non riprodotti, o al sequestro giudiziario ex art. 670, n. 2, c.p.c. 5. Produzione documentale e processo civile telematico. Com'è noto, ai sensi dell'art. 16-bis, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge 17 dicembre 2012, n. 221, a decorrere dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili innanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Per effetto del comma 1-bis di tale norma, introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, nell'ambito dei medesimi procedimenti innanzi ai tribunali e, a decorrere dal 30 giugno 2015, innanzi alle corti di appello, è sempre ammesso il deposito telematico dei documenti che si offrono in comunicazione, da parte del difensore o del dipendente di cui si avvale la pubblica amministrazione per stare in giudizio personalmente. In tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con le prescritte modalità telematiche. La modifica introdotta nel 2015 implica, pertanto, che il deposito dei documenti con modalità telematiche possa avvenire sin dall'atto di costituzione in giudizio anche davanti agli uffici giudiziari sprovvisti del provvedimento dirigenziale di accertamento dell'installazione, dell'idoneità delle attrezzature informatiche e della funzionalità dei servizi di comunicazione di cui all'art. 35 del Decreto del Ministero della Giustizia del 21 febbraio 2011, n. 44. Il comma 7 del citato art. 16-bis precisa, peraltro, come il deposito dei documenti con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia. Si assume, allora, che quando sarà ultimato l'integrale passaggio al processo civile digitale il problema dell'acquisizione probatoria delle prove documentali sia destinato a tramontare, in quanto l'invio telematico del documento lascia intatta al giudice ed alla controparte la definitiva disponibilità dello stesso: ‹‹i documenti saranno prodotti in formato elettronico e per via telematica, quindi rimarranno 352 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE stabilmente custoditi nell'apposito database della cancelleria; in più, la produzione di nuovi documenti seguirà una procedura obbligata atta ad assicurare l'ordinata formazione del fascicolo. Ciò garantirà al giudice e alle parti la costante e ordinata visibilità "in rete" degli atti e dei documenti trasmessi›› [TURRONI, 2011, 194]. In realtà, altri e forse più complicati interrogativi sull'utilizzabilità della prova documentale si pongono all'orizzonte proprio in conseguenza dell'avvento del processo civile telematico. L'art. 4, comma 1, del d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, imponeva l'adozione, a mezzo di decreti del Ministro della giustizia, delle regole tecniche per l'adozione nel processo civile delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (cosiddetto Codice dell'amministrazione digitale). Gli artt. 43 e 44 del Codice dell'amministrazione digitale, e il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 3 dicembre 2013, dettano, quindi, i criteri nonché i requisiti e le relative regole tecniche relativi alla riproduzione e conservazione dei documenti informatici degli archivi. Soltanto, allora, la compiuta realizzazione di un meccanismo di archiviazione dei documenti informatici prodotti nel corso di un processo civile (si veda al riguardo il sistema di gestione del fascicolo informatico dettata dall'art. 11 del provvedimento 16 aprile 2014 della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia) consentirà la trasmissione integrale dei fascicoli digitali al giudice d'appello, ai sensi dell'art. 347, comma 3, c.p.c., come anche la trasmissione al giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo dei documenti allegati nella fase monitoria alla richiesta di decreto ingiuntivo (secondo quanto supposto dalla stessa Sez. U, n. 14475/2015 a garanzia del cosiddetto principio di non dispersione della prova). Andranno inoltre chiarite le conseguenze, ai fini della ritualità della produzione in giudizio, dell'eventuale inosservanza delle regole tecniche di trasmissione dei documenti informatici indicate dal Capo III del provvedimento 16 aprile 2014 DGSIA. Si tratterà di verificare, cioè, se le previsioni di una tale fonte secondaria dettino nuove prescrizioni inderogabili in tema di forma degli atti e dei documenti del processo. Sfuma, ancora, alla luce delle necessaria forma digitale del documento da produrre in giudizio, la distinzione tra «originale» e «copia» su cui poggia la tradizionale disciplina codicistica della prova documentale. 353 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE Le regole tecniche, peraltro, postulano che il documento informatico, da depositare telematicamente all'ufficio giudiziario, sia necessariamente versato in formato PDF; il che però suppone che il documento da produrre sia in origine cartaceo, mentre preclude, per assurdo, l'allegazione in giudizio di materiale (come, ad esempio, i files video o audio) che non sia convertibile in PDF. Viepiù, nel sistema del processo civile telematico sembrerebbe venir meno in radice la stessa facoltà di ritiro dei fascicoli di parte assentita dall'art. 169 c.p.c. Questa norma era certamente funzionale al bisogno dei difensori di poter consultare nel corso del giudizio i documenti prodotti dei quali non avessero estratto copia; ma, in ipotesi di inosservanza dell'ordine di restituzione del fascicolo intimato dal giudice, la disciplina dell'art. 169 c.p.c. si poneva altresì, come visto, quale veicolo della volontà della parte di non avvalersi più dei documenti in precedenza allegati, imponendo al giudice di rendere la sua decisione a prescindere da questi. Nel funzionamento del processo telematico, la facoltà di ritiro del fascicolo di parte varrebbe però, in pratica, come un'istanza (evidentemente inaccoglibile) volta a non rendere più visibile lo stesso alla controparte ed al giudice. Perciò in dottrina si conclude che «l'inapplicabilità delle norme in tema di ritiro del fascicolo di parte paiono in grado di configurare il principio di acquisizione come assoluto e non più relativo; sembra, quindi, possibile ritenere che all'interno del processo telematico i documenti, se ritualmente acquisiti, siano sempre nella reale ed effettiva disponibilità del giudice e di tutte le parti, a prescindere dal successivo comportamento della parte che li ha prodotti» [COMOGLIO, 2015, 953]. 354 CAP. XXI - IL PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA DOCUMENTALE Bibliografia BACCAGLINI, Giudizi bifasici oppositorii e principio di acquisizione processuale (senza onere di ri-produzione dei documenti): dalla opposizione monitoria a quella fallimentare, in Corr. giur. 2015, 1262 ss. RUFFINI, Produzione ed esibizione dei documenti, in Riv. dir. proc. 2011, 433 ss. COMOGLIO, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 953 ss. 355 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 CAPITOLO XXII L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 (di Salvatore Saija) SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La vicenda processuale. – 3. La motivazione di Sez. 3, n. 04228/2015. – 4. I primi commenti. – 5. Il consolidarsi dell'orientamento. – 6. Considerazioni di sintesi. L'interesse ad agire in executivis. - 7. Conclusioni. 1. Introduzione. Nell'ambito delle decisioni annualmente esitate dalla Suprema Corte, accade periodicamente che si stagli una pronuncia volutamente di rottura, o se si vuole scomoda, atta insomma a costringere l'interprete a rimeditare assiomi intoccabili e a verificarne la tenuta alla luce delle mutate esigenze e sensibilità provenienti dalla società. E magari ad indurre il legislatore ad intervenire, per meglio regolare la materia e per fornire quelle risposte che la società attende. E' quello che, certamente, può dirsi della sentenza Sez. 3, n. 04228/2015, Salmè, Rv. 634704, così massimata: «In tema di procedimento esecutivo, qualora il credito, di natura esclusivamente patrimoniale, sia di entità economica oggettivamente minima, difetta, ex art. 100 c.p.c., l'interesse a promuovere l'espropriazione forzata, dovendosi escludere che ne derivi la violazione dell'art. 24 Cost. in quanto la tutela del diritto di azione va contemperata, per esplicita od anche implicita disposizione di legge, con le regole di correttezza e buona fede, nonché con i principi del giusto processo e della durata ragionevole dei giudizi ex art. 111 Cost. e 6 CEDU. (Nella specie, il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto, pari ad euro 17.854,94, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di euro 12,00 a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento)». 2. La vicenda processuale. S.E.F., munita di regolare titolo esecutivo, in data 1 marzo 2007 notificava alla I.A. s.p.a. (società assicuratrice) atto di precetto per il pagamento della somma di € 17.854,94. La debitrice spediva assegno circolare per il detto esatto importo il successivo 15 marzo, e la precettante lo riceveva il 26 marzo, successivamente negoziandolo. Tuttavia, S.E.F. procedeva egualmente a pignoramento (presso terzi) con atto del 9 maggio 2007, per l'intero importo 356 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 precettato (aumentato della metà, ex art. 546 c.p.c.). La società debitrice proponeva quindi opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c., eccependo l'intervenuto pagamento e, quindi, l'insussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Il Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, dopo aver qualificato l'azione come opposizione all'esecuzione e ritenuta pacifica la circostanza del pagamento, la accoglieva, ad un tempo negando che fossero dovute le somme pretese dal creditore per ulteriori costi e spese relativi ad altra procedura esecutiva avviata per lo stesso credito e conclusasi negativamente, e affermando ancora che la pretesa per le spese di notifica del precetto, diritto di disamina della relata, c.p.a. e IVA, formulata solo nelle conclusioni del procedimento, avrebbe dovuto essere in realtà azionata con il precetto stesso, sia per consentire al debitore di prenderne cognizione, sia per il divieto di frazionabilità del credito. Ma soprattutto, ai fini che qui maggiormente interessano, il Tribunale evidenziava che – a seguito del pagamento dell'importo precettato – il residuo credito per interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data di emissione dell'assegno circolare (€ 12,71) o di ricezione dello stesso da parte del creditore (€ 21,68) era di importo oggettivamente simbolico e comunque, in ossequio ai principi di correttezza e proporzionalità, non idoneo a giustificare l'avvio di una procedura esecutiva per il pagamento dell'intero credito. Per la cassazione di detta sentenza (inappellabile in relazione al testo dell'art. 616 c.p.c. applicabile ratione temporis), S.E.F. proponeva cinque motivi di ricorso. Con il secondo e il terzo, in particolare, la ricorrente, deducendo la violazione dell'art. 1218 c.c., contestava l'affermazione del giudice di merito circa la mera simbolicità del proprio credito per interessi, nessuna norma autorizzando il giudice ad eliminare un credito, qualunque ne sia l'entità, pena la violazione dell'art. 24 Cost., e fermo restando che l'onere della prova dell'esatto adempimento non può che gravare sul debitore; ancora, S.E.F. deduceva la violazione degli artt. 496 e 546 c.p.c., censurando l'impugnata sentenza laddove s'era ritenuto che la pedissequa trascrizione del precetto nell'atto di pignoramento presso terzi equivalesse a richiedere il pagamento dell'intera somma e non già soltanto del residuo credito per interessi legali sul capitale, oltre alle spese di notifica del precetto stesso e conseguenti accessori. In ogni caso, secondo la ricorrente, era onere del debitore chiedere la riduzione del pignoramento, ove avesse ritenuto che esso concernesse l'intero credito indicato nel precetto. 357 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 3. La motivazione di Sez. 3, n. 04228/2015. La pronuncia in commento, dopo aver sgombrato il campo dalle questioni di contorno (da un lato ribadendo che il credito azionato non poteva che essere, per l'intero, quello precettato, e dall'altro confermando che le spese di notifica del precetto e accessori, essendo determinabili prima della stessa notifica, dovevano essere indicate nel precetto e non essere richieste nelle conclusioni rassegnate nel giudizio di opposizione), si sofferma sull'affermazione del Tribunale – condividendola - secondo cui il credito per interessi sul capitale per il periodo tra la notifica del precetto (1 marzo 2007) e la spedizione dell'assegno circolare (15 marzo 2007) o la ricezione (26 marzo 2007), nella prima ipotesi pari ad € 12,71 e nella seconda ad € 21,68, fosse oggettivamente simbolico. La Corte, in particolare, opera un parallelismo tra l'interesse ad agire in sede di cognizione, ex art. 100 c.p.c., e quello ad agire in sede esecutiva, affermando che in entrambi i casi, quando l'azione abbia ad oggetto crediti di natura esclusivamente patrimoniale, la tutela giurisdizionale non è esigibile «se l'entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso». Né può dirsi – prosegue la Corte - che tale lettura si ponga in contrasto con l'art. 24 Cost., che, pur garantendo il diritto di azione, non esclude tuttavia che la legge (esplicitamente o implicitamente) possa richiedere, in controversie di natura meramente patrimoniale, che il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, anzitutto economica, e quindi anche giuridica. Ciò anche perché la giurisdizione è una risorsa statuale limitata, sicchè il numero di azioni giudiziarie non può non influire sulla ragionevole durata dei giudizi, che è bene protetto sia dall'art. 111 Cost. che dall'art. 6 della CEDU. Con altro argomento, la Corte evidenzia poi che già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha elaborato la nozione di abuso del processo, richiamando in particolare l'insegnamento di Sez. U, n. 23726/2007, Morelli, Rv. 599316, sul divieto di frazionamento, per il creditore, di una determinata somma di denaro dovuta in forza di unico rapporto obbligatorio, in forza di due principi: a) la regola di correttezza e buona fede, con i conseguenti inderogabili doveri di solidarietà ex art. 2 Cost., che viene violata quando la scelta del creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore; b) la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole, ai sensi dell'art. 111 Cost.: non può dirsi "giusto" il processo che si dispieghi in 358 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, mentre la ragionevole durata finisce con l'essere esclusa dalla proliferazione ingiustificata dei processi, ove non impedita. La pronuncia in commento, infine, a sostegno di quanto precede, richiama anche due recenti arresti: Sez. 1, n. 09488/2014, Benini, Rv. 631153 (concernente ipotesi di frazionamento soggettivo di azioni giudiziarie), e Sez. L, n. 06664/2013, Arienzo, Rv. 625608. Quest'ultima pronuncia, in particolare, ha affermato sussistere un abuso del processo, idoneo a gravare sia lo Stato che le parti dell'aumento degli oneri processuali, nel caso in cui, intimato un primo precetto e ricevuto l'integrale pagamento della somma, si intimi successivamente un nuovo precetto per ulteriore somma, calcolata sulla base del medesimo titolo posto a fondamento del primo. Al rigetto del ricorso è seguita la condanna della creditrice soccombente alla rifusione delle spese di lite. 4. I primi commenti. Da quanto consta, ad oggi la sentenza risulta essere stata commentata da due soli Autori, entrambi con spunti fortemente critici. La prima [ASPRELLA, 2015, 457 e ss.], esprime perplessità sul principio di diritto affermato, non potendosi leggere l'art. 100 c.p.c. nel senso che esso possa escludere l'accesso alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost. ove non si superi una soglia minima di rilevanza economica. E ciò in quanto «l'interesse ad agire è una condizione dell'azione, espressione del bisogno della parte di ricorrere alla tutela giurisdizionale, a causa della lesione o della contestazione di un proprio diritto. Nel concetto di interesse ad agire si attualizza e diviene concreto il nesso che intercorre tra la lesione di un proprio diritto affermata e il provvedimento giurisdizionale domandato». Si evidenzia, ancora, che in tal guisa si viola l'esigenza, costituzionalmente tutelata, della giustizia sostanziale, che verrebbe negletta a seguire fino in fondo l'impostazione criticata. Su un piano più generale, poi, l'A. si interroga sul limite dell'attività interpretativa della Corte, «che non può spingersi fino al punto di creare le norme, o reinterpretare quelle esistenti, addirittura costituzionali, sino alle estreme conseguenze, ossia negazione della loro stessa ragion d'essere, quella di garantire puramente e semplicemente, a tutti, il diritto di agire e resistere in giudizio senza ulteriore limitazione». Non senza dire che «cedere alla tentazione di limitare l'accesso alla tutela giurisdizionale sulla base del valore economico del credito vantato, sarebbe, in fondo, come affermare che qualsiasi debitore può senz'altro rifiutarsi di adempiere ove il suo debito sia "irrilevante" da un punto di vista economico». Insomma, il rischio 359 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 concreto, per l'A., sarebbe quello di relegare un'ampia parte delle transazioni commerciali (quelle di scarso valore economico e nelle quali non si pone un problema di interessi non economicamente valutabili) al di fuori dell'area tutelabile in sede giudiziaria, e di far pagare il costo di ciò (sull'altare dell'esigenza di garantire una giustizia rapida per le questioni più rilevanti) ad un soggetto, il creditore, comunque titolare di un diritto soggettivo, a fronte della violazione di uno specifico obbligo da parte di colui, il debitore, che rifiuta pur sempre di adempiere la prestazione cui è tenuto. Ancora più pungenti sono le critiche alla sentenza mosse da altro Autore [COSTANTINO, 2015]. Muovendo dagli assunti che «le difficoltà relative all'attuazione del diritto o le conseguenze economiche o sociali dei provvedimenti giurisdizionali non possono costituire, di per sé, in un moderno Stato di diritto, un argomento per negare la tutela giurisdizionale» e che «il principio della durata ragionevole del processo non può essere considerato prevalente rispetto alle altre garanzie costituzionali del giusto processo, ma deve essere coordinato con queste ultime», l'A. passa in rassegna molteplici indici positivi, atti a negare - in tesi - la correttezza della ricostruzione criticata. In particolare: a) i criteri di competenza per valore, che attribuiscono al giudice di pace le controversie di minor valore economico ex art. 7 c.p.c.; b) la deroga alla difesa tecnica per talune controversie (giudizi dinanzi al giudice di pace, nei limiti di € 1.100,00, nelle controversie di lavoro nei limiti di € 129,11, nelle opposizioni a sanzioni amministrative e per violazione del codice della strada, nonché nelle controversie transfrontaliere di modesta entità), rispettivamente ai sensi degli artt. 82, comma 1, 417, comma 1, c.p.c., artt. 6, comma 9, e 7, comma 8, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 10 Reg. CE n. 861/2007; c) la previsione del giudizio secondo equità nei procedimenti dinanzi al giudice di pace, nei limiti di € 1.100,00, ex art. 113, comma 2, c.p.c.; d) l'art. 164 bis disp. att. c.p.c. sulla chiusura anticipata del processo esecutivo per antieconomicità; e) le corrispondenti norme dettate in sede fallimentare (artt. 118, n. 4, 102, comma 1, 104 ter, comma 8, 119), norme tutte che non precludono l'accesso alla tutela giurisdizionale, ma che consentono di escludere la prosecuzione della procedura esecutiva, individuale o concorsuale, sulla base di una valutazione prognostica e discrezionale circa la sua inutilità; f) le norme dettate in tema di riscossione coattiva che escludono o limitano l'azione esecutiva o l'iscrizione ipotecaria (art. 76, comma 1, lett. b, e comma 2, 77, comma 1 bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602), sulla base della medesima valutazione, compiuta stavolta dal legislatore; g) 360 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 l'art. 496 c.p.c., in tema di riduzione del pignoramento, la cui esistenza escluderebbe che l'eccesso di espropriazione possa di per sé comportare la negazione dell'accesso alla tutela giurisdizionale; h) le norme che escludono l'accesso alla tutela giurisdizionale per i crediti tributari e previdenziali di modesta entità (artt. 12 bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, 16 legge 18 maggio 1998, n. 146, 3 d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in legge 26 aprile 2012, n. 44, 38, comma 1, lett. a, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111), disposizioni tutte qualificabili come rinunce al credito, per diretta valutazione del legislatore. Né pare utilmente invocabile l'orientamento giurisprudenziale sul divieto di frazionamento del credito e sull'abuso del processo derivante da contenzioso seriale, pur richiamato da Sez. 3, n. 04228/2015, atteso che si tratta di questioni che attengono ai modi e alle forme dell'esercizio della tutela giurisdizionale (attenendo al potere del giudice di disporre o meno la riunione delle cause connesse, e più in generale al governo del processo), ma non ne escludono l'accesso. O, ancora, l'insegnamento delle Sezioni Unite sui cd. danni "bagatellari" (Sez. U, n. 26972/2008, Preden, Rv. 605493), che individua la gravità dell'offesa quale ulteriore requisito per l'ammissione al risarcimento del danno non patrimoniale alle persona, tale cioè da eccedere una certa soglia di offensività e da violare un grado minimo di tolleranza, esigibile da ogni consociato in ossequio al disposto dell'art. 2 Cost.. E ciò perché l'affermazione del principio non esclude, di per sé, la tutelabilità in sede giudiziaria dei crediti di minimo valore. Tanto più che, per insegnamento della stessa Corte, la pretesa diretta a far valere un diritto non può configurare atto emulativo (così, Sez. 3, n. 09714/2013, Scrima, Rv. 625989). E allora, conclude l'A., se il diritto di azione ha diretto fondamento nella Costituzione, sì da prevalere anche sulla sovranità dello Stato, esso non può restare obliterato dal principio, di pari rango, della ragionevole durata del processo, ma dev'essere con esso coordinato. Del resto, se con una controversia di modico valore si determina (ovviamente, su base sistemica) l'ingolfamento della giustizia, ciò dipende in primo luogo dalla resistenza del debitore, che è tenuto all'adempimento della prestazione, dalla fase stragiudiziale fino a quella esecutiva. Ma anche dal giudice del merito, che non ha ben esercitato i poteri attribuitigli dall'art. 185 c.p.c. per indurre le parti a conciliare la lite e per sanzionare la parte che rifiuti senza giustificati motivi. 361 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 In ogni caso, la Corte anche nel caso di specie avrebbe potuto limitarsi a condannare la ricorrente alle spese ai sensi dell'art. 92, comma 1, c.p.c., indipendentemente dalla soccombenza, per violazione del dovere di lealtà e di probità, ovvero liquidare le stesse in suo favore, seppur contenendole nei limiti del valore della lite mediante interpretazione sistematica dell'art. 91, comma 4, c.p.c.; o, ancora, segnalare il difensore della ricorrente al competente Consiglio dell'Ordine, a fini disciplinari, per violazione dell'art. 23, comma 4, del Codice deontologico forense, per il quale «l'avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose». Tutto, insomma, tranne che il principio affermato. 5. Il consolidarsi dell'orientamento. Il principio è stato ribadito da Sez. 3, n. 25224/2015, De Stefano. La pronuncia, nel dare continuità a Sez. 3, n. 04228/2015, e in un caso del tutto analogo (invio da parte del debitore di un assegno circolare di € 4.853,20, esattamente pari alla somma precettata, e successivo pignoramento avviato del creditore – dopo aver incassato detto assegno - per il soddisfacimento del residuo credito di € 8,58 per spese di notifica del precetto), ha affermato che, pur vero essendo che il creditore ha diritto di ottenere il pieno e completo soddisfacimento di ogni sua ragione, comprese le spese dell'esecuzione (e quelle ad esse prodromiche, come le spese di notifica del precetto), occorre tuttavia che lo stesso creditore «adduca specifiche circostanze che consiglino di non invitare prima il debitore a pagare spontaneamente l'importo dovuto, tanto da giustificare la declaratoria di non spettanza delle spese ulteriori, in applicazione analogica degli artt. 88 e 92 co. 2 c.p.c. (Cass., ord. 23 dicembre 2008, n. 30300)». Il che – prosegue Sez. 3, n. 25224/2015 – vale a maggior ragione: a) in presenza di un adempimento pressochè totale; b) in tempi che sostanzialmente coincidono con il normale sviluppo delle fasi preparatorie e iniziali dell'esecuzione; c) se la quota inevasa del dovuto è modestissima; d) se la parziale omissione di pagamento (ammesso che il debitore ne abbia potuto percepire l'esistenza e l'ammontare) non possa ritenersi pretestuosa o arbitraria. Sussiste quindi, «in un equo contemperamento dei contrapposti interessi (meglio esplicitati nella richiamata Cass. 4228/15, alla cui motivazione può qui bastare un integrale rinvio, per l'integrale condivisione che di essa va qui manifestata), un onere del creditore di sollecitare, prima di procedere o proseguire in via esecutiva, il debitore ad un adempimento spontaneo del modestissimo residuo: inadempiuto il quale, procedere o proseguire in via esecutiva è contrario 362 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 a buona fede o comunque non risponde ad un interesse giuridicamente tutelabile nell'attuale contesto». 6. Considerazioni di sintesi. L'interesse ad agire in executivis. Una serena lettura della sentenza in commento, opportunamente contestualizzata (e, più in generale, delle ragioni che stanno alla base dell'orientamento che va consolidandosi), consente di superare agevolmente, quantomeno, gli aspetti più critici evidenziati nei commenti riportati al § 4. Anzitutto, deve rilevarsi che si tratta di decisioni rese in ambito di opposizione esecutiva, ossia in un giudizio di cognizione innestatosi in una procedura di espropriazione forzata, evidentemente avviata sulla base di preesistente titolo esecutivo (e, quindi, "a giochi fatti"), almeno nella prospettazione del creditore. È quindi evidente che la Corte non ha voluto certo affermare (né poteva farlo, in relazione alla res in judicio deducta) che un'ordinaria azione di cognizione dinanzi al giudice competente, avente ad oggetto un credito di modesta entità (ad es., dinanzi al giudice di pace per la condanna al relativo pagamento, o anche per l'opposizione a sanzione amministrativa per divieto di sosta), non possa essere proposta! Il passaggio motivazionale di Sez. 3, n. 04228/2015 sull'interesse ad agire in sede esecutiva, laddove lo si lega all'interesse sotteso all'azione di cognizione ex art. 100 c.p.c., e si sottolinea che anche riguardo a quest'ultimo occorre sussista la sua rilevanza economica e, quindi, anche giuridica, è pertanto un'argomentazione resa ad abundantiam, ossia un obiter dictum. Ed è noto che la valenza del decisum di ogni pronuncia giurisdizionale, compresa quella della Corte, spiega efficacia vincolante nei limiti della materia del contendere, e non anche riguardo alle enunciazioni incidentali e prive di relazione causale col deciso (così, ex plurimis, Sez. 2, n. 01815/2012, Bursese, Rv. 621374). Non senza dire che, in un sistema come quello vigente, la stessa portata delle pronunce delle Sezioni Unite e dei principi da esse affermati in funzione nomofilattica non si estende fino a vincolare l'interpretazione dei giudici di merito, che pur possono discostarsene (v. da ultimo Sez. 6-5, n. 00174/2015, Conti, Rv. 634261). Sgombrato quindi il campo dall'equivoco di fondo, la vera portata innovativa della pronuncia in commento (e della successiva Sez. 3, n. 25224/2015, che la richiama, aderendovi), a ben vedere, si coglie nell'affermazione che anche nel processo esecutivo la parte che agisce dev'essere portatrice di interesse ex art. 100 c.p.c., 363 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 autonomamente individuabile anche sotto il profilo della rilevanza economica. L'argomento è dirompente perché è insegnamento assolutamente consolidato, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l'unica condizione (necessaria e sufficiente) dell'azione esecutiva è costituita dal titolo esecutivo, che in sé cumula ad un tempo a) il documento che lo rappresenta, anche con funzione probatoria, nonchè b) l'accertamento in esso contenuto. Il che significa, secondo tale ricevuta impostazione, che «l'interesse ad agire, come bisogno di tutela giurisdizionale esecutiva, è implicito (come anche la possibilità giuridica) nel fatto che il diritto è accertato come eseguibile» [MANDRIOLI– CARRATTA, 2015, 22]. Il titolo esecutivo, infatti, in quanto condizione necessaria del processo esecutivo, deve permanere per tutta la sua durata, dall'inizio alla fine del procedimento (tra le altre, Sez. 3, n. 10875/2012, Barreca, Rv. 623103). Da qui il potere/dovere del giudice dell'esecuzione di verificarne sempre la sussistenza in capo a colui che abbia avviato, eseguendo il pignoramento, l'espropriazione forzata contro il debitore (Sez. L, n. 16610/2011, La Terza, Rv. 618698; potere che permane anche nella fase distributiva: così Sez. 3, n. 07107/2015, De Stefano), ovvero – in caso di successiva caducazione del titolo del pignorante – in capo ad almeno uno dei creditori intervenuti (Sez. U, n. 00061/2014, Spirito, Rv. 628705). Proprio in applicazione dei superiori principi, e con riferimento alla portata del pagamento parziale, si è affermato in giurisprudenza che «Sussiste il diritto del creditore pignorante di proseguire il processo esecutivo fintantoché il debitore esecutato non abbia pagato per intero l'importo dovuto, in forza del titolo esecutivo posto a base dell'esecuzione, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese, con la conseguenza che il pagamento parziale di tale importo non osta a che il creditore se ne avvalga per ottenere il credito residuo, inclusi interessi e spese, nella medesima esecuzione iniziata in forza dello stesso unico titolo esecutivo» (Sez. 3, n. 23745/2011, Barreca, Rv. 620617). Nel caso così deciso, il debitore, ricevuto il precetto per l'importo di € 32.129,64, si era limitato a pagare la sola sorte capitale, pari ad € 29.300,00, così affermando di aver estinto l'obbligazione. Da qui l'enunciazione del principio sopra riportato. La portata di Sez. 3, n. 04228/2015 non si pone in contrasto col principio poc'anzi esaminato: nella fattispecie decisa con la sentenza in commento il debitore aveva pagato – integralmente – l'esatto importo intimato col precetto, comprensivo di capitale, interessi e spese (come richieste ed autoliquidate) in seno al precetto stesso e fino alla sua data di notifica. Solo in seguito, e nonostante il 364 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 pagamento integrale di quanto preteso, il precettante aveva proceduto comunque al pignoramento: le due fattispecie non sono dunque sovrapponibili. Tuttavia, l'affermazione di principio sulla necessità di accertamento dell'interesse ad agire in executivis, in capo a colui che ha già un (formalmente) valido titolo esecutivo (è indubbio che, nella specie, il residuo credito di € 21,68 vantato da S.E.F., in termini strettamente oggettivi, fosse coperto dalla portata del titolo esecutivo, trattandosi di interessi moratori sul capitale precettato e maturati prima del pagamento), implicando la necessità di una sua ricorrenza esterna (o, se si preferisce, aggiuntiva, o ulteriore) rispetto al titolo stesso, merita di essere opportunamente approfondita. La questione involge, anzitutto, il tema generale dell'interesse ad agire, ex art. 100 c.p.c., e con esso quello sulle teorie dell'azione. Non può certo essere questa la sede per affrontare funditus questi ultimi argomenti. Va comunque qui evidenziato che, tradizionalmente, l'interesse ad agire è considerato quale condizione dell'azione, ossia quale elemento il cui accertamento, unitamente alla legittimazione ad agire e alla possibilità giuridica di ottenere il provvedimento richiesto, è necessario onde giungere ad una pronuncia sul merito (di rigetto o di accoglimento che sia). Solo la compresenza di questi elementi, quindi, integra e completa l'azione. Più in dettaglio, circa l'autonomia del concetto di interesse ad agire rispetto all'azione, si contendono il campo, in dottrina, e sia pur con molteplici sfumature, due accezioni: una prima [REDENTI, 1995, 66 e ss.], secondo cui l'interesse ad agire fin dall'origine sarebbe elemento essenziale del diritto soggettivo primario sottostante, sicché non potrebbe esservi azione fondata senza interesse ad agire; una seconda, che invece riconosce portata precettiva all'art. 100 c.p.c., e costruisce l'interesse ad agire attribuendogli natura esclusivamente processuale, «secondario e strumentale rispetto all'interesse primario, ed ha per oggetto il provvedimento che si domanda al magistrato come mezzo per ottenere il soddisfacimento dell'interesse primario, rimasto leso dal comportamento della controparte (...). L'interesse ad agire sorge dalla necessità di ottenere dal processo la protezione dell'interesse sostanziale; presuppone perciò l'affermazione della lesione di questo interesse e l'idoneità del provvedimento domandato a proteggerlo e soddisfarlo (...). Tuttavia la portata generale della disposizione dell'art. 100 serve ad indicare il limite oltre il quale non è consentito impegnare gli organi giudiziari e vessare la controparte con questioni non attuali o non effettive, ma future e ipotetiche» [LIEBMAN, 2012, 146-148]. In quest'ottica, quindi, il diritto di azione «è un diritto autonomo dal diritto sostanziale, poiché si rivolge verso 365 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 un soggetto diverso dal soggetto passivo del diritto sostanziale (lo Stato in persona dei suoi organi giurisdizionali) e tende ad una prestazione diversa da quella alla quale tende il diritto sostanziale: la tutela giurisdizionale» [MANDRIOLI–CARRATTA, 2015, 24]. L'ambito elettivo dell'interesse ad agire è tradizionalmente riservato dalla dottrina all'azione di accertamento, costituendo la ricerca di tale elemento la cartina al tornasole circa l'ammissibilità di detta azione, com'è noto non espressamente prevista dall'ordinamento. Numerosi studi si soffermano, in generale, sul diverso modo di atteggiarsi dell'interesse rispetto alle singole tipologie di azioni, ma pressochè tutti convengono, come già evidenziato, sul fatto che non sia necessario uno specifico accertamento dell'interesse ad agire riguardo all'azione esecutiva, proprio perché esso s'intende già ricompreso nel titolo esecutivo, senza il quale non è possibile avviare l'esecuzione forzata, ai sensi dell'art. 474 c.p.c. 7. Conclusioni. Ora, in situazioni come quelle decise dalla S.C. con la sentenza in commento (seguita da Sez. 3, n. 25224/2015) occorre evidenziare che, prim'ancora che l'interesse ad agire, sembrerebbe difettare proprio l'interesse sostanziale, e segnatamente l'interesse che la prestazione deve pur sempre realizzare ai sensi dell'art. 1174 c.c.. Infatti, se l'interesse del creditore, quale elemento funzionale del rapporto obbligatorio e costitutivo dell'obbligazione, «è l'interesse che la prestazione è diretta a soddisfare», e costituisce quindi anche criterio di valutazione della prestazione eseguita, ne deriva che la prestazione dovrà «considerarsi liberatoria quando essa abbia comunque conseguito il soddisfacimento dell'interesse creditorio, pur non essendo esattamente conforme al previsto. Inesattezze qualitative e quantitative non escludono infatti la liberazione del debitore se si tratta di inesattezze irrilevanti ai fini del sostanziale soddisfacimento dell'interesse creditorio» [BIANCA, 1992, 41 e ss.]. Il che, sotto speculare profilo, equivale a dire che – specie nell'attuale contesto economico-sociale - l'esatto adempimento dell'obbligazione, ai sensi dell'art. 1218 c.c., non va indefettibilmente commisurato alla rigida corrispondenza tra preteso e corrisposto, ove la prestazione effettuata dal debitore abbia, in sostanza, comunque realizzato l'interesse del creditore. Ciò anche alla luce dei doveri inderogabili di solidarietà ex art. 2 Cost. (che ben possono giustificare, per il creditore, il dovere di tollerare, ove si tratti di prestazioni a contenuto esclusivamente patrimoniale, minimi scostamenti rispetto al programma obbligatorio, non 366 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 diversamente da quanto evidenziato dall'insegnamento delle Sezioni Unite sui cd. danni "bagatellari" sopra richiamato) e del principio di buona fede di cui all'art. 1175 c.c., in esso ricompreso l'obbligo di cooperazione del creditore stesso; non senza rimarcare che il diritto del creditore di rifiutare l'inesatto adempimento, ai sensi dell'art. 1181 c.c., dev'essere sempre commisurato all'obbligo di correttezza e buona fede (Sez. 3, n. 10182/2009, Vivaldi, Rv. 608010). Questa lettura, del resto, trova il suo contraltare - sul piano della tutela giurisdizionale – nel principio di economia processuale e di durata ragionevole del processo (da ultimo ribadito da Sez. 5, n. 21968/2015, Cappabianca, Rv. 637019), che consente di escludere la "giustiziabilità" di una vicenda che ha già avuto, nella sua fase pregressa, piena esplicazione dal punto di vista sostanziale, il processo essendo una risorsa per definizione limitata, da destinarsi – nell'interesse pubblico – ai soli casi in cui ciò sia necessario o anche solo utile, non diversamente da quanto accade per ogni altro bene pubblico. Il diritto di azione sancito dall'art. 24 Cost. non può essere letto come un diritto di natura illimitata, trovando esso un limite sistematico negli altri principii sanciti dall'ordinamento, con i quali dev'essere coordinato. Proprio in tal senso si spiega, pertanto, l'affermazione della sentenza in commento laddove si esclude la limitabilità del diritto di agire qualora vengano in gioco situazioni di natura non esclusivamente patrimoniale, e di rango evidentemente costituzionale. Da questa duplice prospettiva, quindi, non sembra sostenibile che, nel caso deciso da Sez. 3, n. 04228/2015, l'interesse del creditore precettante, una volta ricevuta l'intera somma intimata (€ 17.854,94), fosse rimasto insoddisfatto perché, alla data del pagamento, erano maturati ulteriori interessi per soli € 21,68 (lo 0,12% del credito), sì da meritare tutela in sede esecutiva. La prestazione resa dalla società assicuratrice era nella sostanza liberatoria per aver essa esattamente adempiuto la propria obbligazione. Analoghe considerazioni possono spendersi in relazione alla fattispecie decisa da Sez. 3, n. 25224/2015. In ogni caso, è assai sintomatico che la decisione in commento sia implicitamente ritenuta "giusta" anche da quei commentatori assai critici, nel momento in cui propongono – in alternativa alla soluzione prescelta dalla Corte – di sanzionare processualmente la ricorrente, o anche di segnalare la violazione del codice deontologico da parte del suo procuratore (v. supra, § 4): segno assai evidente che, prima di ogni altra valutazione, si avverte la sussistenza dell'abuso (o della strumentalizzazione immeritevole) 367 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 dell'accesso alla giurisdizione perpetrato nella fattispecie. Ma ciò spiega anche il perché la Corte ha preferito affermare con forza una sorta di denegatio actionis, quasi riecheggiando il processo per formulas di età classica, anziché applicare una sanzione tutta interna al processo, quale appunto la responsabilità aggravata. Ciò che è in linea, peraltro, con un idem sentire della stessa giurisprudenza della S.C.: «L'esigenza di individuare un limite agli abusi si estende dunque dal diritto sostanziale al processo, trascende le peculiari connotazioni dei vari sistemi, trovando ampio riscontro negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovranazionali e venendo univocamente risolta, sia a livello normativo che interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, volto alla realizzazione di un vantaggio diverso e/o contrario allo scopo per cui il diritto o la facoltà processuale sono riconosciuti, non ammette tutela» (così Sez. U, n. 16628/2014, Di Iasi, richiamata anche da Sez. 3, n. 25224/2015). Non è comunque inesatto sostenere, come ha fatto Sez. 3, n. 04228/2015, che, nella vicenda in questione, difettasse l'interesse ad agire, e ciò sia in una prospettiva "redentiana", che anche in una "libmaniana": nella prima visuale, perché l'interesse ad agire è fin dall'origine elemento strutturale del diritto soggettivo e dell'interesse ad esso sotteso, sicchè, in mancanza di quest'ultimo, non c'è né diritto, né azione, né (quindi) interesse ad agire; nella seconda visuale, perché il titolo esecutivo azionato, pur formalmente esistente, non giustificava l'accesso all'esecuzione forzata, essendo stata estinta, nella sostanza, l'obbligazione da esso portata e non sussistendo quindi il diritto di agire in executivis. Quale che sia la più corretta ricostruzione, comunque, non può che ribadirsi come, a fronte della specifica vicenda processuale, non può che avvertirsi la "giustezza" della decisione, e dell'orientamento che, con Sez. 3, n. 25224/2015, va consolidandosi. 368 CAP. XXII - L'INTERESSE AD AGIRE IN VIA ESECUTIVA. BREVI CONSIDERAZIONI SU CASS. SEZ. 3, 3 MARZO 2015, N. 04228 Bibliografia C. ASPRELLA, Frazionamento del credito, abuso del processo e interesse a proporre l'azione esecutiva, in REF, n. 3/2015, 457 e ss.. C.M. BIANCA, Diritto Civile, IV, Milano, 1992, 41 e ss.. G. COSTANTINO, L'interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo (Note a margine di Cass. 3 marzo 2015, n. 4228), di prossima pubblicazione su Il giusto processo civile. E.T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, 2012, Milano, 146- 148. C. MANDRIOLI–A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, IV, XXIV Ed., Torino, 2015, 22-24. E. REDENTI, Diritto processuale civile, I, Nozioni e regole generali, IV ed. a cura di M. Vellani, Milano, 1995, 66 e ss.. 369 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI CAPITOLO XXIII I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI (di Paolo Spaziani) SOMMARIO: 1. Posizione del problema. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito. – 2.1. Le tesi "processualiste": tempus regit actum e tempus regit processum. – 2.2. La tesi "sostanzialista". – 3. I principi affermati dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015. 1. Posizione del problema. La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati, contenuta nella legge 27 febbraio 2015, n.18, è stata introdotta, come è noto, per adeguare l'ordinamento interno a quello dell'Unione europea e chiudere la procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea con lettera di messa in mora del 27 febbraio 2013. Precisamente, avuto riguardo ai principi generali desumibili dalla consolidata giurisprudenza della Corte di g iustizia in tema di responsabilità dello Stato membro nei confronti del singolo per le violazioni del diritto comunitario poste in essere dai suoi organi (Corte di giustizia, 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90; Corte di giustizia, 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93; Corte di giustizia, 30 settembre 2003, C-224/01), nonché alle specifiche statuizioni contenute nelle pronunce emesse nei confronti dello Stato italiano in tema di responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito di violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado (Corte di giustizia, 13 giugno 2006, C-173/03; Corte di giustizia, 24 novembre 2011, C-379/10), erano state ritenute lesive del diritto dell'Unione le limitazioni contenute nell'originario art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, il quale, da un lato (commi 1 e 3), circoscriveva la responsabilità dello Stato, per i pregiudizi derivanti dal cattivo esercizio dell'attività giurisdizionale, ai casi di dolo o colpa grave (tipizzando quest'ultima in fattispecie che richiedevano la necessaria presenza dell'elemento subiettivo della negligenza inescusabile, così escludendo ogni responsabilità in tutte le ipotesi in cui, pur non ricorrendo tale elemento, fosse stata tuttavia posta in essere una violazione manifesta e sufficientemente caratterizzata del diritto dell'Unione) e, dall'altro lato (comma 2), individuava un'esimente generale, non compatibile con le esigenze riparatorie connesse con la lesione del diritto del singolo, 370 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI nell'attività di interpretazione delle norme del diritto e di valutazione del fatto e delle prove (cd. clausola di salvaguardia). Con la legge n. 18 del 2015, il legislatore ha dunque modificato il citato art. 2 della legge n.117 del 1988, per un verso ampliando le fattispecie di responsabilità a tutte le ipotesi di oggettiva violazione manifesta della legge e del diritto europeo, a prescindere dalla sussistenza dell'elemento subiettivo della negligenza inescusabile; per altro verso limitando la funzione esimente dell'attività interpretativa e valutativa al di fuori dei casi di di colpa grave di nuova tipizzazione ("nuovi" commi 2, 3 e 3 bis, nella formulazione introdotta dall'art. 2 legge n. 18 del 2015). L'intervento legislativo, peraltro, non si è limitato a tale operazione di "ampliamento" delle fattispecie sostanziali di responsabilità dello Stato per i danni conseguenti a comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, sebbene soltanto in tale ambito fosse ravvisabile un contrasto del diritto interno con quello comunitario. La nuova legge, infatti, benché nessuna istanza in tal senso fosse rinvenibile nelle citate pronunce della Corte di giustizia, ha inteso apportare modifiche anche alle regole processuali che governano l'esercizio dell'azione risarcitoria, incidendo sia sul termine entro il quale può essere proposta la domanda contro lo Stato (art. 4 legge n. 117 del 1988, come modificato dall'art. 3, comma 1, legge n. 18 del 2015) sia sui presupposti, il contenuto e gli effetti del giudizio di rivalsa dello Stato contro il magistrato (artt. 7 e 8 legge n. 117 del 1988, come modificati, rispettivamente, dagli artt. 4 e 5 della legge n. 18 del 2015) sia, soprattutto, sulla struttura del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato, in relazione al quale l'abrogazione espressa dell'art. 5 legge n. 117 del 1998 (operata dall'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) ha determinato il venir meno del giudizio di ammissibilità della domanda (cd. filtro di ammissibilità), disciplinato dal predetto art. 5 ed avente ad oggetto la preliminare verifica, da parte del collegio (previa rimessione della causa da parte del giudice istruttore alla prima udienza), del rispetto dei termini e dei presupposti di proponibilità dell'azione risarcitoria, nonché della sua non manifesta infondatezza. Le modifiche della normativa processuale posta dalla legge n. 117 del 1988 - non necessarie in funzione dell'adeguamento del diritto interno a quello europeo - sono state inoltre disposte senza la predisposizione di una norma di diritto transitorio che operasse il raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina. 371 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Si pone dunque il problema se le nuove norme (ed in particolare quella che ha disposto la soppressione del filtro preliminare di ammissibilità, attraverso l'abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 1988: art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) trovino applicazione immediata ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge (19 marzo 2015) oppure se esse siano applicabili ai soli giudizi introdotti successivamente a tale data. Qualora si propendesse per questa seconda soluzione, dovrebbe poi ulteriormente chiarirsi se ai fini dell'operatività della nuova disciplina sia sufficiente che l'azione risarcitoria venga esercitata successivamente all'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (anche se per fatti illeciti posti in essere dal magistrato prima di tale data, e dunque regolati dalla vecchia disciplina sostanziale) oppure se sia necessario che anche il fatto illecito dedotto in giudizio sia stato posto in essere successivamente all'entrata in vigore della nuova legge, conformemente a quanto già stabilito dalla disposizione di diritto transitorio contenuta nell'art. 19, comma 2, della legge n. 117 del 1988, che escludeva l'applicabilità della legge medesima ai fatti illeciti verificatisi prima della sua entrata in vigore. 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito. Nell'immediatezza dell'entrata in vigore della nuova legge, la questione è stata variamente risolta, come era naturale attendersi, dall giurisprudenza di merito. Un primo orientamento ha preso le mosse dalla natura "processuale" delle disposizioni interessate dalla novella legislativa, traendone le consequenziali implicazioni sul piano della successione della legge nel tempo. All'interno di questo orientamento, che può generalmente definirsi di marca processualista, si collocano tuttavia soluzioni specifiche tra loro eterogenee, in quanto in una pronuncia si è fatto piana applicazione del principio del tempus regit actum (che, come è noto, viene considerato, sul piano processuale, il tradizionale precipitato della regola dell'irretroattività della legge contenuta nell'art. 11 disp. prel. c.c.), mentre altre pronunce, sulla scia dell'insegnamento di una parte della dottrina e di un autorevole precedente della giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto che la rigorosa applicazione di tale principio fosse incompatibile con un'interpretazione costituzionalmente orientata del citato art.11, giungendo a propugnare una soluzione differente, fondata sul diverso principio del tempus regit processum. Un diverso orientamento, pur prendendo formalmente posizione sulla natura della disposizione abrogata (l'art. 5 legge n. 372 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI 117 del 1988) e di quella abrogatrice (l'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015) - entrambi ritenute di carattere "sostanziale" - ha peraltro, sia pure in maniera non del tutto esplicitata, tratto argomento, in concreto, dal fondamento della normativa differenziata che connota la responsabilità civile dei magistrati rispetto a quella di diritto comune. Movendo da questa premessa - che riconduce all'idea del rilievo costituzionale delle norme volte a porre condizioni e limiti alla possibilità di agire in giudizio contro lo Stato per il risarcimento del danno derivante dal cattivo esercizio dell'attività giurisdizionale (e, in particolare, di quella istitutiva del cd. filtro preliminare di ammissibilità) - l'orientamento in esame, che può generalmente definirsi di marca sostanzialista, ha ritenuto che le regole che disciplinano l'esercizio giudiziale dell'azione risarcitoria fanno parte, unitamente a quelle che stabiliscono i presupposti della responsabilità, di un complesso inscindibile di norme, il quale deve essere governato, anche sul piano della successione nel tempo, da un principio unico, senza che si possa distinguere, differenziandosene il dies a quo dell'operatività, tra norme sostanziali (destinate ad operare solo con riguardo ai fatti illeciti commessi dopo la loro entrata in vigore) e norme processuali (destinate ad essere immediatamente applicate nei processi in corso). 2.1. Le tesi "processualiste": tempus regit actum e tempus regit processum. All'interno dell'orientamento generale di marca processualista si è affermata anzitutto la tesi secondo cui deve farsi meccanica applicazione del principio del tempus regit actum. Come è noto, secondo l'insegnamento tradizionale [CHIOVENDA, 1965, 119; ANDRIOLI, 1979, 25], la regola generale stabilita dall'art.11 disp. prel. c.c. (secondo cui la legge non dipone che per l'avvenire) si applica anche alle norme processuali, di talché ogni atto del processo è tendenzialmente regolato dalla legge in vigore al tempo in cui viene posto in essere. In ossequio a questo insegnamento, si ritiene che, in ipotesi di successione di leggi processuali durante la pendenza di un processo ed in assenza di uno specifico regime transitorio, per un verso non venga toccata la validità e l'efficacia degli atti del processo (cd. facta praeterita) compiuti sotto la legge precedente (Sez. 3, n. 06099/2000, Amatucci, Rv. 536444; Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139; Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766); per altro verso, lo ius superveniens debba essere immediatamente applicato a tutti gli atti ancora da compiere [FAZZALARI, 1989, 889; MONTESANO, 1987, 16]. 373 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Questi principi, che concernono il tema generale della successione della legge processuale nel tempo, sono stati recepiti, con riguardo alla specifica questione della successione nel tempo delle regole processuali che governano l'esercizio dell'azione risarcitoria contro lo Stato per i danni conseguenti agli illeciti posti in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, da Trib. Trento, ord. 9 maggio 2015, che ha affermato l'immediata applicabilità, ai processi in corso, dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015. Nella fattispecie, la domanda risarcitoria era stata proposta prima dell'entrata in vigore della nuova legge ma la prima udienza era stata celebrata in data successiva. Ove avesse ritenuto ancora applicabile l'art. 5 legge n.117 del 1988, il giudice istruttore, in tale udienza, avrebbe dovuto rimettere le parti dinanzi al collegio e quest'ultimo avrebbe dovuto provvedere, nei quaranta giorni successivi, sull'ammissibilità della domanda, vagliandone la regolarità formale (sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei termini legislativamente previsti) e la non manifesta infondatezza. In seguito alla rimessione della causa, il collegio, in accoglimento della richiesta dell'attore, ha invece concesso i termini per il deposito delle memorie, ex art. 183, comma 6, c.p.c., reputando che la norma abrogatrice del citato art. 5, avendo natura processuale, fosse immediatamente applicabile nel giudizio in corso e che pertanto non vi fosse più spazio per il filtro preliminare di ammissibilità (soppresso con efficacia immediata), dovendosi ritenere che alla fase introduttiva seguisse direttamente quella di trattazione del merito, conformemente alla disciplina generale dell'ordinario processo di cognizione. In identiche fattispecie, altre decisioni di merito, pur accedendo all'orientamento generale "processualista", hanno tuttavia formulato una soluzione differente, fondata sull'applicazione del diverso principio tempus regit proccessum. L'operatività di questo principio, in luogo del più tradizionale tempus regit actum, è stata affermata, in generale, dalla dottrina che più recentemente ha indagato, con riferimento a tutte le sue diverse implicazioni, il fenomeno della successione delle leggi processuali nel tempo (CAPPONI, 2008, 637; CAPONI, 2006, 449). Secondo questa dottrina, precisamente, la ricostruzione dei principi di diritto intertemporale dovrebbe essere operata dall'interprete tenendo conto, per un verso, delle garanzie costituzionali del contraddittorio e dell'affidamento in materia 374 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI processuale e, per altro verso, del principio di irretroattività della legge stabilito dall'art. 11 disp. prel. c.c. Ogni processo, dunque, ove iniziato nella vigenza di un insieme di norme, dovrebbe concludersi in applicazione dello stesso insieme, in quanto, se si ammettesse un mutamento delle regole del processo durante la sua pendenza, risulterebbero lese sia le predette garanzie costituzionali (le nuove regole potrebbero pevedere preclusioni o decadenze di cui le parti non potevano tenere conto al momento dell'introduzione del giudizio) sia il principio di irretroattività della legge (anche per lo ius superveniens processuale vale il principio che la legge non dispone che per l'avvenire talché esso dovrebbe trovare applicazione solo con riguardo ai giudizi - o, almeno, ai gradi di giudizio - futuri). Facendo dunque applicazione di questo principio, Trib. Campobasso, decr. 27 aprile 2015, e Trib. Roma, decr. 5 maggio 2015, hanno ritenuto applicabili le norme processuali introdotte dalla legge n. 18 del 2015 ai soli giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore (19 marzo 2015) reputando che, invece, i giudizi instaurati anteriormente a tale data avrebbero dovuto essere regolati dall'insieme delle norme processuali sotto il cui imperio erano iniziati, con conseguente perdurante operatività delle regole abrogate e, tra queste, di quella contenuta nell'art. 5 legge n. 117 del 1988, sul cd. filtro di ammissibilità. Pur pronunciandosi successivamente alla data di entrata in vigore della nuova legge, il collegio, nelle due pronunce in rassegna, ha pertanto proceduto al vaglio preliminare di ammissibilità e, in applicazione del citato art. 5, ha emesso un decreto di inammissibilità, sul presupposto che la disposizione abrogatrice di questa norma, benché di natura processuale, non fosse tuttavia applicabile ai processi iniziati nella vigenza della vecchia disciplina. La tesi in esame, oltre che nelle surrichiamate riflessioni della dottrina, trova fondamento in un autorevole precedente della giurisprudenza di legittimità sul problema generale della successione delle norme processuali nel tempo. Secondo Sez. 3, n. 20811/2010, Amatucci, Rv. 615405, infatti, «in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del tempus regit actum, in forza del quale lo ius superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all'intero nuovo rito». In proposito, la pronuncia in parola ha precisato che, «posto che il "rito" è da intendersi come l'"insieme" delle regole 375 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, l'applicazione di un nuovo rito ad un processo già iniziato, in assenza di norme transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe in una non consentita applicazione retroattiva di quell'"insieme", invece vietata dal principio di irretroattività della legge contenuto nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è applicazione», traendone l'ulteriore conseguenza che la violazione di tale principio «dà luogo a nullità della sentenza in quanto si risolva in una compressione del diritto al contraddittorio». Va peraltro evidenziato che la soluzione interpretativa rinvenibile in questa sentenza, in quanto formulata in relazione all'ipotesi di mutamento dell'intero rito, non si discosta, a ben vedere, dall'orientamento tradizionale e prevalente della Suprema Corte, la quale, come si è sopra veduto, in numerose altre pronunce (in particolare, Sez. 3, n. 06099/2000, Amatucci, Rv. 536444; Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139; Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766) ha invece fatto rigorosa applicazione del principio per cui gli atti del processo sono regolati dalla legge in vigore al momento del loro compimento, con conseguente affermazione dell'immediata applicabilità dello ius superveniens a tutti gli atti ancora da compiere al momento della sua entrata in vigore, e con salvezza della validità e della efficacia degli atti posti in essere sotto l'imperio della legge processuale abrogata. La differenza tra le due soluzioni interpretative (quella che propugna l'immediata applicabilità dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 ai giudizi in corso sulla base del principio tempus regit actum; e quella che propugna l'applicabilità di tale norma solo con riguardo ai processi iniziati dopo la sua entrata in vigore, invocando il diverso principio tempus regit processum) emerge nitidamente ove si considerino le diverse specifiche fattispecie che la regola processuale è destinata a disciplinare. Nei giudizi introdotti dopo l'entrata in vigore della nuova legge, sia pure per fatti illeciti commessi dal magistrato nella vigenza della legge abrogata, la nuova disciplina è senz'altro applicabile per entrambe le tesi, atteso il comune riconoscimento della natura processuale della medesima (sicché il processo dovrebbe svolgersi senza filtro preliminare di ammissibilità, secondo la scansione propria del giudizio ordinario di cognizione), sebbene i presupposti sostanziali della responsabilità dello Stato per il cattivo esercizio della funzione giurisdizionale continuino ad essere fissati dalle norme precedenti. 376 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Diversamente, con riguardo ai giudizi introdotti nel vigore della vecchia legge in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova, non sia stata ancora celebrata la prima udienza (fattispecie esaminata dalle pronunce di merito surrichiamate), il processo seguirebbe la normale scansione del giudizio ordinario solo se si aderisse alla prima tesi, laddove invece l'adesione al secondo indirizzo comporterebbe la perdurante applicabilità del filtro di ammissibilità con conseguente necessità, per il giudice istruttore, di rimettere le parti al collegio. Con riguardo ai giudizi introdotti nel vigore della vecchia legge in cui, al momento dell'entrata in vigore della nuova, la prima udienza sia già stata celebrata e il giudice istruttore abbia rimesso le parti al collegio per la delibazione preliminare di ammissibilità, il collegio dovrebbe provvedere a tale incombente se si aderisse al secondo indirizzo, mentre dovrebbe restituire gli atti al giudice istruttore (perché proceda alla trattazione del merito) se si aderisse al primo. Infine, con riguardo ai processi in corso iniziati nella vigenza della legge abrogata ma in epoca più risalente (nei quali, al momento di entrata in vigore della nuova legge, il giudizio preliminare di ammissibilità sia in corso di svolgimento e si trovi in fase di impugnazione dinanzi alla Corte di appello o alla Corte di cassazione, per essere stati già pronunciati uno o più decreti di inammissibilità), mentre l'adesione alla seconda tesi comporterebbe la necessità di concludere la fase di impugnazione (con una decisione di rigetto del reclamo o del ricorso ovvero con una decisione di annullamento del decreto e di rimessione al tribunale in diversa composizione, previa declaratoria di ammissibilità della domanda, secondo i dettami dell'art. 5 legge n. 117 del 1988), l'adesione alla prima imporrebbe comunque una pronuncia del giudice dell'impugnazione, restando tuttavia dubbio se tale pronuncia debba limitarsi ad un provvedimento rescindente di annullamento del decreto di inammissibilità (lasciandosi poi piena libertà alla parte interessata di reintrodurre il processo dinanzi al giudice del merito) o debba estendersi ad un provvedimento rescissorio di declaratoria di ammissibilità della domanda, con conseguente rimessione al tribunale per il giudizio di merito. La necessità della pronuncia (quanto meno rescindente) del giudice dell'impugnazione si pone in quanto l'abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, quand'anche le si attribuisca operatività immediata nei processi in corso, non comporta la perdita di efficacia dei decreti di inammissibilità della domanda risarcitoria pronunciati 377 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI nella vigenza della norma e non ancora definitivi, stante il carattere non retroattivo dell'effetto abrogativo (arg. ex art. 11 disp. prel. c.c.). Sussiste dunque il perdurante interesse della parte alla proposizione del gravame avverso i decreti per i quali pende il termine per l'impugnazione (o alla delibazione della stessa da parte del giudice superiore se si tratta di provvedimenti già gravati), atteso che, in mancanza di impugnazione o di pronuncia sulla medesima, il provvedimento non potrebbe essere rimosso e sarebbe destinato a divenire definitivo. L'avvenuta abrogazione dell'art. 5, se da un lato lascia inalterato l'interesse all'impugnazione del decreto di inammissibilità pronunciato nella vigenza della disciplina anteriore, dall'altro lato potrebbe tuttavia incidere, ove ritenuta immediatamente operativa nei processi in corso, sulle altre condizioni dell'impugnazione, determinando il venir meno della possibilità giuridica di proporre l'impugnazione medesima. Infatti, poiché il diritto all'impugnazione trovava fondamento direttamente nella norma abrogata (la quale disciplinava tanto il reclamo in Corte di appello quanto il ricorso per cassazione), il riconoscimento del carattere di immediata operatività alla norma abrogatrice dovrebbe indurre a ritenere la sopravvenuta mancanza di tale diritto, essendo stata rimossa dall'ordinamento la norma attributiva del relativo potere. Nel contrasto tra il perdurante interesse all'impugnazione e il sopravvenuto venir meno del diritto di proporla potrebbe individuarsi un'abnorme implicazione dell'accoglimento della tesi che propugna la rigorosa applicazione del principio del tempus regit actum. Tale abnorme implicazione - per effetto della quale i decreti di inammissibilità emessi ai sensi dell'art. 5 legge n. 117 del 1988, non travolti per effetto dell'abrogazione di questa disposizione, sarebbero destinati a consolidarsi senza possibilità di essere rimossi - potrebbe essere evitata, per i soli provvedimenti per i quali pende il termine per l'impugnazione, ammettendone l'impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., da ritenersi esperibile in ragione del carattere definitivo acquisito dagli stessi (sulla cui natura decisoria non può esservi dubbio) in seguito all'abrogazione medesima. Analogamente, con riguardo ai decreti di inammissibilità già impugnati con ricorso ordinario per cassazione in seguito a rigetto del reclamo da parte della Corte di appello, potrebbe ipotizzarsi una conversione del mezzo di gravame in ricorso straordinario, mentre 378 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI maggiore incertezza deve nutrirsi sulla possibilità che una simile conversione possa aversi anche per i reclami in Corte di appello, con riguardo ai provvedimenti impugnati con questo mezzo. 2.2. La tesi "sostanzialista". La tesi "sostanzialista" - affermata da Trib. Genova, ord. 30 giugno 2015 - si distingue da quelle "processualiste" in quanto ritiene che l'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 trovi applicazione soltanto nei giudizi introdotti successivamente alla data di entrata in vigore della legge (19 marzo 2015) in cui si deducono fatti illeciti posti in essere dal magistrato dopo tale data. Ai fini dell'applicazione della nuova disciplina non è dunque sufficiente che l'azione risarcitoria sia esercitata dopo l'entrata in vigore della nuova legge (non essendo essa applicabile ai giudizi in corso) ma è necessario che anche i fatti posti a fondamento della domanda si siano verificati successivamente (non essendo essa applicabile ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato anteriormente alla sua entrata in vigore). Viene così ricondotto ad unità il dies a quo dell'operatività delle norme processuali che regolano l'esercizio dell'azione risarcitoria e quello delle norme sostanziali che fissano i presupposti della responsabilità dello Stato per il fatto del magistrato. Questa soluzione interpretativa trae argomento, come si è già accennato, non solo (e non tanto) dall'affermata natura sostanziale della normativa quanto piuttosto - sebbene ciò non sia analiticamente esplicitato nella pronuncia in esame - dal fondamento del complessivo statuto della responsabilità del magistrato quale disciplina differenziata che si caratterizza per la previsione di restrizioni e limiti rispetto a quella di diritto comune. Alla base delle peculiarità che connotano la disciplina della responsabilità dei magistrati si pone, secondo condivisa opinione, l'esigenza di realizzare il contemperamento tra confliggenti interessi costituzionali, sussistendo, da un lato, la necessità di tutelare il diritto dei singoli ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla violazione dei loro diritti soggettivi, anche quando posta in essere da funzionari dello Stato (artt. 24 e 28 Cost.); dall'altro lato, l'eguale necessità di preservare le garanzie costituzionali della giurisdizione, consistenti nella soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), nella autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104, comma 1, e 108, comma 2, Cost.) e nella terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, comma 2, Cost.). 379 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Il bilanciamento tra questi diversi interessi costituzionali, se per un verso esige che anche l'attività giurisdizionale (come tutte le attività compiute dai pubblici funzionari) non vada esente da responsabilità, per altro verso impone che la possibilità di chiamare a rispondere, oltre allo Stato, i singoli giudici sia sottoposta a specifiche condizioni, in funzione di evitare la proposizione di domande manifestamente infondate e temerarie, proposte strumentalmente al fine di intimidire il magistrato ed incidere sulla sua serenità e sulla sua imparzialità di giudizio ovvero al fine di creare dolosamente ragioni di astensione o ricusazione. A tale funzione concorrono non soltanto le norme stricto sensu sostanziali (che individuano, entro limiti più rigorosi di quelli di diritto comune, i presupposti della responsabilità per il cattivo esercizio della funzione giurisdizionale) ma anche le regole propriamente processuali e, tra queste, quella che prevedeva il cd. filtro preliminare di ammissibilità della domanda risarcitoria, il quale consentiva di escludere in limine litis le domande manifestamente infondate. Il "rilievo" costituzionale del filtro di ammissibilità, oltre che diffusamente riconosciuto in dottrina [per tutti cfr. AMOROSO, 2015, 182], è stato reiteramente ribadito dalla Corte Costituzionale, la quale già nelle pronunce emesse nel vigore della disciplina codicistica, aveva avvertito circa la necessità di un regime speciale della responsabilità dei magistrati fondato sulla singolarità della funzione giurisdizionale (cfr., ad es., Corte cost., 14 marzo 1968, n. 2, con cui era stata dichiarata non fondata la questione di legittimità degli artt. 55 e 74 del codice di procedura civile nella formulazione originaria, in riferimento all'art. 28 Cost.). Nelle pronunce emesse nel vigore della legge n. 117 del 1988, la Corte Costituzionale non solo ha affermato che «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 legge cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, che possono turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione» (Corte cost., 19 gennaio 1989, n.18), ma si è spinta a costruire «un filtro laddove mancava» [AMOROSO, 2015, 185], attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma transitoria contenuta nell'art. 19, comma 2, della legge n. 117 del 1988 (che stabiliva l'irretroattività della nuova legge), nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità civile relativamente ai fatti anteriori al 16 aprile 1988 (data di entrata in vigore della legge medesima) e proposti successivamente al 7 aprile 1988 (data in cui si erano verificati gli 380 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI effetti del referendum abrogativo degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.), non prevedeva che il tribunale competente verificasse preliminarmente la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità (Corte cost., 22 ottobre 1990, n.468). Il rilievo della funzione costituzionale del giudizio preliminare di ammissibilità ha consentito non soltanto di sospettare dell'illegittimità della sua soppressione, in ragione del sopravvenuto venir meno di uno degli istituti processuali che concorrevano all'equilibrato contemperamento dei contrastanti interessi costituzionali (sul problema, che è stato avvertito sia in dottrina che in giurisprudenza, v., per la prima, AMOROSO, 2015, 185 e, per la seconda, Trib. Treviso, ord. 8 maggio 2015 e Trib. Verona, ord. 12 maggio 2015, che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma abrogatrice contenuta nell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, per contrasto, oltre che con gli artt. 101 e ss. Cost., anche con gli artt. 3 e 25 Cost.), ma anche di inferire la stretta connessione tra tutte le norme contenute nella legge speciale, le quali concorrono, con identità di funzione, alla creazione di uno statuto unitario della responsabilità del magistrato, al quale non può riconoscersi un'operatività differenziata nel tempo secondo che vengano in considerazione le disposizioni volte a stabilire i presupposti della responsabilità o quelle deputate a regolare l'esercizio dell'azione risarcitoria. In questa prospettiva, la norma sul cd. filtro di ammissibilità è stata riguardata come costitutiva «di una guarentigia di carattere sostanziale», che si inserisce in una «disciplina complessa, con valore sostanziale e non meramente processuale, del nuovo statuto della responsabilità del magistrato: un nuovo statuto quanto alla colpa, ai limiti della cd. clausola di salvaguardia, agli aspetti disciplinari, ai termini», ecc. (Trib. Genova, ord. 30 giugno 2015, cit.) Si è pertanto ritenuto che le modifiche operate con la legge n.18 del 2015 incidono su un insieme organico e inscindibile di disposizioni con rilevanza sostanziale e costituzionale, applicabili, nella medesima misura, ai soli fatti verificatisi nella loro vigenza ed inapplicabili, invece, agli illeciti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore. Come già si è sopra veduto per le tesi "processualiste", anche quella "sostanzialista" ha ritenuto di trovare conforto in un precedente della giurisprudenza di legittimità, il quale, tra l'altro, diversamente da quelli invocati a sostegno delle tesi "processualiste", non riguarda il tema generale della successione delle leggi processuali nel tempo, ma quello specifico dell'ambito 381 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI temporale di applicazione delle norme introdotte dalla legge n. 18 del 2015. In effetti, in Sez. 6-3, n. 10121/2015, De Stefano, sembrebbe essere stata propugnata la tesi secondo cui la nuova legge dovrebbe trovare unitaria applicazione per i soli illeciti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, senza poter distinguere tra norme sostanziali e norme processuali. Il passaggio motivazionale è il seguente: «è superfluo annotare che non può trovare applicazione alla fattispecie la L. 27 febbraio 2015, n. 18, che ha modificato in più parti la L. 13 aprile 1988, n. 117, mediante - tra l'altro - la soppressione della fase preliminare di vaglio di ammissibilità e la rimodulazione dei termini di proposizione: in quanto essa, priva di disciplina transitoria, non può che regolare le fattispecie successive alla sua entrata in vigore (19.3.15), quale certamente non è quella odierna» (l'evidenziazione è nostra). Al riguardo va peraltro osservato che la pronuncia in esame si era occupata del problema degli effetti della proposizione della revocazione ex art. 391 bis c.p.c., sul decorso del termine di decadenza di cui all'art. 4, comma 2, secondo periodo, legge n. 117 del 1988 per modo che l'annotazione circa la non immediata applicabilità della nuova legge n. 18 del 2015 va considerata alla stregua di un obiter dictum. Soltanto con Sez. 3, n. 25216/2015, Barreca, in corso di massimazione, la Suprema Corte ha trattato ex professo le questioni di diritto intertemporale poste dalla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, componendo, come si sta per vedere, i contrasti interpretativi verificatisi nella giurisprudenza di merito. Deve, ancora, evidenziarsi che la tesi "sostanzialista" sembrerebbe trovare conferma nell'argomento storico, fondato sulla lettura del più volte citato art. 19, comma 2, legge n. 117 del 1988, il quale espressamente sanciva l'inapplicabilità della legge ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato anteriormente alla sua entrata in vigore. L'argomento tuttavia potrebbe essere invocato anche a sostegno della tesi contraria, in quanto, posta la distinzione dogmatica tra norme di diritto intertemporale (quali regole o principi generali di risoluzione del conflitto tra legge precedente e legge sopravvenuta: ad es., l'art.5 c.p.c. in tema di individuazione della legge determinativa della giurisdizione e della competenza) e norme di diritto transitorio (quali regole particolari di raccordo tra la vecchia e la nuova disci plina), l'agevole rilievo che l'art. 19, comma 2, rientrasse nella seconda categoria, individuando un regime 382 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI transitorio specifico funzionale al raccordo tra la vecchia disciplina codicistica e la nuova disciplina introdotta dalla legge speciale, induce a ritenere che, in assenza della previsione di tale specifico regime, avrebbe dovuto optarsi per una soluzione diversa, che tenesse conto della diversa natura (sostanziale o processuale) delle singole disposizioni. 3. I principi affermati dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015. Le questioni di diritto intertemporale che hanno affaticato la giurisprudenza di merito sono state recentemente risolte dalla Suprema Corte con Sez. 3, n. 25216/2015, Barreca, in corso di massimazione. Nella fattispecie esaminata dalla Corte, il giudizio di responsabilità contro lo Stato era stato introdotto nella vigenza dell'art. 5 legge n. 117 del 1988 e, al momento dell'entrata in vigore della norma abrogativa di cui all'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, il giudizio preliminare di ammissibilità della domanda si era svolto sia dinanzi al tribunale (che aveva pronunciato decreto di inammissibilità, ai sensi del comma 3 del citato art. 5) sia dinanzi alla Corte di appello, che aveva rigettato il reclamo avverso il predetto decreto, ai sensi del successivo comma 4. Anche il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte di appello era stato proposto nella vigenza della vecchia legge, essendo la nuova sopravvenuta tra il deposito del ricorso e l'udienza fissata per la sua trattazione. Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c., il ricorrente, sul presupposto dell'immediata applicabilità ai processi in corso della norma abrogatrice (alla quale, come a quella abrogata, avrebbe dovuto riconoscersi indubbio carattere processuale), aveva invocato un provvedimento rescindente, con il quale, prendendo atto della sopravvenuta soppressione del filtro di ammissibilità, la Corte provvedesse alla cassazione del provvedimento impugnato, con rinvio ad altro giudice di pari grado per l'annullamento del decreto di inammissibilità e rimessione al primo giudice, al fine di consentire lo svolgimento della fase di merito. Nell'esaminare la questione pregiudiziale, posta dal ricorrente, circa la portata applicativa del sopravvenuto art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, la Suprema Corte ha anzitutto preso le distanze dalla tesi "sostanzialista", l'accoglimento della quale avrebbe indotto ad escludere l'operatività della norma sopravvenuta, per essere essa parte di un insieme inscindibile di norme, applicabile, nel suo 383 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI complesso, ai soli fatti illeciti posti in essere dal magistrato dopo la sua entrata in vigore. Pur non scostandosi dalla consolidata opinione secondo cui la posizione di condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati risponde all'esigenza di contemperare contrapposti interessi costituzionali (identificati, da un lato, nell'«interesse generico a che la titolarità di un pubblico potere non sia immune da profili di responsabilità» e, dall'altro, nell'«interesse specifico a che la previsione di forme di responsabilità per i titolari del potere giurisdizionale non si traduca in un condizionamento idoneo ad incidere negativamente sull'equilibrato esercizio dello stesso o, peggio ancora, non si presti ad essere utilizzata strumentalmente come arma di pressione volta ad incrinare l'imparzialità del magistrato»), la Corte ha peraltro evidenziato che tale funzione costituzionale ben può essere assicurata «sul doppio piano della tutela sostanziale e di quella processuale», senza che tali due ordini di regole smarriscano la loro distinta natura. La tutela delle garanzie costituzionali della giurisdizione (artt. 101 e ss. Cost.) – è stato precisato nella pronuncia in esame – si attua, infatti, «sia con il riconoscimento al magistrato di guarentigie concernenti i detti limiti, che operano sostanzialmente nella definizione dei fatti costituenti illecito ..., sia con la previsione di norme processuali volte a regolare l'esercizio dell'azione di responsabilità civile». Tra queste ultime si poneva quella volta ad istituire e disciplinare il cd. filtro preliminare di ammissibilità della domanda risarcitoria, la quale, sebbene avesse un indubbio "rilievo" costituzionale (come reiteratamente ribadito dalla stessa Corte Costituzionale nelle pronunce sopra citate) - e sebbene pertanto concorresse con le norme sostanziali alla salvaguardia dei valori di indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale -, tuttavia, secondo la Suprema Corte, presentava pur sempre i caratteri di una norma processuale, destinati ad influenzarne la portata applicativa in ipotesi di successione di leggi nel tempo. Riconosciuto il carattere processuale tanto della norma abrogata quanto di quella abrogatrice, la Corte ha peraltro ritenuto di dissentire anche dalle tesi "processualiste", così come formulate nei surrichiamati precedenti della giurisprudenza di merito. È stata espressamente respinta la soluzione interpretativa fondata sul principio tempus regit processum, l'adesione alla quale pure avrebbe indotto ad escludere l'immediata applicazione dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015, in ragione della necessità di consentire che il processo fosse governato sino alla sua conclusione dallo stesso insieme di norme nella vigenza del quale era iniziato, 384 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI senza possibilità di attribuire rilevanza alla successione di legge processuale verificatasi durante la sua pendenza, in assenza di una diposizione di diritto transitorio che prevedesse diversamente. Al riguardo, la pronuncia in esame ha operato un integrale rinvio alla motivazione della citata Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766, la quale aveva esposto analiticamente le ragioni per le quali il principio tempus regit processum non troverebbe alcun fondamento nel diritto positivo. In questo precedente - traendo conferma anche da alcuni passaggi contenuti nella motivazione di Sez. U, n. 09940/2009, D'Alonzo, Rv. 607512 - era stato evidenziato che anche la successione nel tempo delle leggi processuali (come quella delle leggi sostanziali) è governata dall'art. 73 Cost. e dagli artt. 10 e 11 disp. prelim. c.c. Sul presupposto che queste regole escludono l'efficacia retroattiva della legge, disponendo che essa non dispone che per l'avvenire, era stato dunque osservato che, per potere attribuire un fondamento normativo al principio tempus regit processum, sarebbe stata necessaria «una metanorma (ulteriore rispetto all'art. 11 e che, dunque, allo stato non c'è)» la quale «prevedesse che l'efficacia della legge processuale non vada individuata con riferimento a quanto la legge "dispone" (per come assume l'art. 11), bensì con riguardo alla collocazione dell'oggetto del disporre in un processo già iniziato o non ancora iniziato». La norma processuale - era stato ulteriormente evidenziato - «non diversamente dalla norma di diritto sostanziale, assume come oggetto del suo "disporre" direttamente la fattispecie concreta idonea ad essere sussunta sotto l'ambito della fattispecie astratta che essa individua». Pertanto, «poiché la legge in materia processuale regola il processo, che è una sequenza di atti (del giudice, delle parti e di terzi, che vi assumano un ruolo ausiliario o altro ruolo previsto da specifiche norme), l'oggetto del "disporre" della legge processuale, salvo i casi nei quali essa stessa l'assuma proprio in un certo processo o in determinati processi (se del caso a far tempo da un certo atto relativo al suo svolgimento), si riferisce ad uno o più degli atti attraverso i quali il processo può avere corso». Si era quindi argomentato che, in quanto «la norma processuale "dispone" con riferimento ad un certo atto o a certi atti, né l'art. 11, né alcun'altra norma, consentono di leggere l'oggetto di tale "disporre" non già solo in tale modo, ma anche come se tale "disporre" possa riguardare l'atto esclusivamente in quanto compiuto da chi o da coloro che lo devono compiere nell'ambito di un processo non pendente», atteso che «il "disporre" della norma processuale ... è direttamente riferibile sia all'atto che verrà compiuto in 385 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI un processo iniziato ex novo, sia all'atto che verrà compiuto in un processo che sia già pendente». Il principio tempus regit processum – si era dunque concluso - non ha fondamento normativo in quanto «suppone che il "disporre" della norma processuale, anche quando essa non sia diretta a regolare il processo come tale o taluni processi come tali, sia individuato dando rilievo non alla sola fattispecie astratta espressa risultante dalla norma processuale, bensì ad una sorta di ulteriore fattispecie non scritta (e desumibile dalla stessa logica della norma processuale), secondo cui "la norma processuale non dispone che per l'avvenire e che per i processi introdotti successivamente alla sua entrata in vigore"». Richiamate le ragioni che indurrebbero ad escludere la compatibilità con il diritto positivo della tesi fondata sul principio tempus regit processum, la Suprema Corte, nella sentenza n. 25216/2015, ha ritenuto che i problemi di diritto intertemporale posti dall'entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 debbano essere invece risolti facendo applicazione del tradizionale orientamento fondato sul principio tempus regit actum. Peraltro, diversamente da quanto ritenuto dalla giurisprudenza di merito (e contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente), la Corte ha escluso che la rigorosa applicazione di questo principio comportasse l'applicabilità immediata della normativa sopravvenuta ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore. La regola del tempus regit actum (secondo cui lo ius superveniens processuale deve trovare applicazione a tutti gli atti processuali ancora da compiere, con salvezza di quelli già compiuti), comporta, secondo la pronuncia in esame, che «gli effetti di tutti gli atti processuali (delle parti e del giudice) sono quelli regolati dalla legge vigente nel momento in cui l'atto (di parte) è posto in essere o il provvedimento (del giudice) è pronunciato, e non possono essere, invece, effetti che la legge sopravvenuta ricollega all'uno o all'altro» (l'evidenziazione è nostra). Con tale affermazione, la pronuncia del 2015 si è posta in linea di perfetta continuità con le citate Sez. 1, n. 20414/2006, Salvato, Rv. 594139, e Sez. 3, n. 03688/2011, Frasca, Rv. 616766, le quali avevano entrambe affermato, in motivazione, che «un'indebita applicazione retroattiva della legge processuale», in difetto di una norma transitoria che disponga in tal senso, «si ha sia quando si pretenda di applicare la legge sopravvenuta ad atti posti in essere anteriormente all'entrata in vigore della legge nuova, sia quando si pretenda di associare a quegli atti effetti che non avevano in base alla legge del tempo in cui sono stati posti in essere». 386 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Ciò premesso, movendo dalla considerazione che l'oggetto della disciplina posta dall'abrogato art. 5 legge n. 117 del 1988 era l'atto processuale (di parte) costituito dalla domanda introduttiva della lite, assoggettata ad un sub-procedimento di ammissibilità - e che l'effetto dell'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 è l'abrogazione di tale sub-procedimento -, la pronuncia in esame ha ritenuto che «se la norma sopravvenuta si applicasse immediatamente si avrebbe che la domanda presentata nel vigore della discipina preesistente, verrebbe ammessa secondo la disciplina sopravvenuta. Pertanto si applicherebbe quest'ultima con effetto retroattivo, facendone la legge applicabile ad un atto processuale compiuto prima della sua entrata in vigore». Una tale indebita applicazione retroattiva, non autorizzata da alcuna disposizione transitoria, si tradurrebbe - ha aggiunto la Suprema Corte - in una palese violazione proprio del principio invocato dal ricorrente, «in quanto si avrebbe che un atto (di parte) del processo, quale è la domanda introduttiva della lite, pur essendo stato compiuto nel vigore di un'apposita norma, non sarebbe da questa disciplinato, nel senso che gli effetti di esso verrebbero regolati secondo la legge sopravvenuta». Nel caso di specie, dunque, la circostanza che il procedimento filtro di ammissibilità fosse in corso alla data di entrata in vigore della nuova norma, ancorché riferito ad un atto processuale posto in essere nel vigore della vecchia, esclude che esso potesse interrompersi, perdere efficacia o comunque "venire meno" in quanto sarebbero "venuti meno" «gli effetti ricollegati all'atto di parte (domanda giudiziale) dalla legge vigente nel momento in cui l'atto è stato compiuto». Invero, secondo la pronuncia in esame, «quando la legge prevede che una domanda sia soggetta a determinate condizioni di ammissibilità e disciplina il procedimento di verifica dell'ammissibilità nel contesto della stessa norma (come è per l'art. 5 della legge n. 117 del 1988), l'intervento di una norma che abroga quest'ultima in toto - per essere inteso nel senso del pieno rispetto del canone di successione delle leggi nel tempo per cui la legge nuova dispone, cioè regola il suo oggetto di disciplina, solo per l'avvenire - esige che l'efficacia di abrogazione si correli in primo luogo alle condizioni di ammissibilità: ne segue che, poiché esse connotavano la domanda al momento in cui venne proposta, l'efficacia abrogativa della norma sopravvenuta non può che dispiegarsi se non per le domande proposte successivamente all'entrata in vigore della novella». Sulla base di queste considerazioni, la Suprema Corte, con Sez. 3, n. 25216/2015, Barreca, in corso di massimazione, ha pertanto concluso che, non potendosi riconoscere effetto retroattivo alla sopravvenuta abrogazione dell'art. 5 legge n. 117 del 387 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI 1988, operata dall'art. 3, comma 2, legge n. 18 del 2015 (in mancanza di una norma transitoria che lo preveda), l'ammissibilità della domanda risarcitoria proposta contro lo Stato, per i danni derivanti dal cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, nella vigenza del predetto art. 5, deve essere delibata alla stregua delle regole poste da quest'ultima disposizione, trovando applicazione la normativa sopravvenuta solo alle domande proposte dopo la sua entrata in vigore, anche se - deve intendersi - per fatti illeciti posti in essere dal magistrato in epoca anteriore, e dunque regolati dalla vecchia disciplina sostanziale. 388 CAP. XXIII - I PROBLEMI DI DIRITTO PROCESSUALE INTERTEMPORALE POSTI DALLA NUOVA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI Bibliografia AMOROSO, Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell'eliminazione del filtro di ammissibilità dell'azione risarcitoria, in Questione Giustizia, n. 3 del 2015, 182 e ss. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 25 e ss. CAPONI, Tempus regit processum (un appunto sull'efficacia delle norme processuali nel tempo), in Rivista del diritto processuale, 2006, 449 e ss. CAPPONI, La legge processuale civile e il tempo del processo, in Il giusto processo civile, 2008, 637 e ss. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 119 e ss. FAZZALARI, Efficacia della legge processuale nel tempo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1989, 889 e ss. MONTESANO, Le disposizioni generali del codice di procedura civile, Roma, 1987, 16 e ss. 389 CAPITOLO XXIV IL SINDACATO DI LEGITTIMITÀ DELLE DELIBERE DEL C.S.M. IN TEMA DI CONFERIMENTO DEGLI INCARICHI DIRIGENZIALI: ECCESSO DI POTERE GIURISDIZIONALE E LIMITI ESTERNI DELLA GIURISDIZIONE (di Gianluca Grasso) SOMMARIO: 1. Premessa. – 1.1. Rilievo costituzionale del C.S.M. e conferimento degli incarichi dirigenziali. – 1.2. Provvedimenti consiliari e sindacato giurisdizionale. – 2. I fatti. – 3. I principi di diritto. – 3.1. Ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario avverso il medesimo atto amministrativo: insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale nella pronuncia di appello successiva all'ottemperanza. – 3.2. Impugnazione della delibera del C.S.M. nel caso di magistrato ricorrente collocato successivamente in quiescenza: ammissibilità del sindacato di legittimità ma superamento dei limiti esterni della giurisdizione in caso di ricorso in ottemperanza per ottenere l'ordine rivolto al C.S.M. di assegnare il posto "ora per allora". – 3.3. Limiti del sindacato di legittimità e valutazione di merito del contenuto della delibera e della sua ragionevolezza. 1. Premessa. Tra i grands arrêts dell'anno 2015 della Corte di cassazione si colloca senz'altro la pronuncia delle Sezioni Unite del 5 ottobre 2015, n. 19787. Si tratta di una sentenza importante, resa sulla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e sui limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, con particolare riferimento al sindacato sulle delibere di conferimento degli incarichi direttivi da parte del Consiglio superiore della magistratura. La pronuncia interviene in una materia delicata, caratterizzata dalla collocazione istituzionale del C.S.M., quale organo di rilievo costituzionale, e dalla peculiarità delle sue delibere. 1.1. Rilievo costituzionale del C.S.M. e conferimento degli incarichi dirigenziali. L'istituzione del C.S.M. risponde alla volontà del Costituente di rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia della magistratura, così da collocarla nella posizione di ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e conseguentemente sottrarla a interventi suscettibili di turbarne l'imparzialità e di compromettere l'applicazione del principio di cui all'art. 101 Cost., secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge (Corte cost. 30 aprile 1968, n. 44). Si è così provveduto a concentrare ogni provvedimento relativo al reclutamento e allo stato degli appartenenti all'ordine giudiziario nella competenza assoluta ed esclusiva del C.S.M., ivi comprese le nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari (artt. 105, 106, 107, 110 390 Cost.). [In dottrina, ex multis, SANTALUCIA, 45 ss.; N. ZANON, F. BIONDI, 23 ss.] Sul conferimento degli uffici direttivi, il Consiglio delibera su proposta della V Commissione referente, formata da sei dei suoi componenti, di cui quattro eletti dai magistrati e due dal Parlamento, previo concerto col Ministro della giustizia (art. 11 della l. 24 marzo 1958, n. 195 e art. 22 del Regolamento interno del C.S.M.). La Commissione, con apposita deliberazione, comunica al Ministro della giustizia l'elenco degli aspiranti, le proprie valutazioni e le conseguenti motivate conclusioni, allegando quelle dei dissenzienti che lo richiedono e procede al concerto (art. 22 del Regolamento interno del C.S.M.). Il Ministro esprime le sue motivate valutazioni solo in ordine alle attitudini del candidato relative alle capacità organizzative dei servizi (art. 11, comma 4, della l. n. 195 del 1958). Una volta sottoposte al vaglio dell'assemblea plenaria, le delibere riguardanti l'attribuzione di incarichi direttivi sono spesso l'esito del voto espresso a maggioranza dai componenti su proposte contrapposte, che vedono fronteggiarsi due o più candidati. La disciplina consiliare in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali è stata recentemente rivista con il nuovo testo unico della dirigenza giudiziaria (circolare n. P-14858-2015 del 28 luglio 2015 e succ. mod.), con cui si è provveduto alla riscrittura della circolare per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi nella prospettiva di garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni. In particolare, sono stati distinti e specificati i requisiti attitudinali in base alle tipologie di ufficio direttivo e si è inteso proporre criteri chiari e precisi per il giudizio di comparazione tra candidati, ponendo comunque la «massima attenzione alla necessità di preservare l'autonomia valutativa del C.S.M., evitando di introdurre nelle procedure selettive criteri tali da minare la discrezionalità propria di un Organo di rilevanza costituzionale». Secondo quanto specificato nella relazione introduttiva, «nel ridisegnare la disciplina del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si è cercato un giusto punto di equilibrio tra il principio di legalità e l'irrinunciabile esigenza di tutelare il potere di autodeterminazione consiliare, che deve sempre orientarsi alla scelta del migliore dirigente da preporre al posto da coprire, nel rispetto del superiore interesse pubblico. Ciò anche al fine di arrestare recenti tentativi di degradazione della discrezionalità consiliare a mera discrezionalità tecnica». 1.2. Provvedimenti consiliari e sindacato giurisdizionale. Pur nella peculiarità degli elementi che caratterizzano le 391 deliberazioni del C.S.M., distinguendosi senz'altro nel panorama della generalità degli atti sottoposti alla giurisdizione amministrativa, la legge istitutiva dell'organo di governo autonomo della magistratura, ricevendo l'avallo della Corte costituzionale (Corte cost. n. 44/1968), ha sottoposto al sindacato del giudice amministrativo la legittimità dei provvedimenti consiliari (art. 17, comma 2, della l. n. 195 del 1958), che nei riguardi dei magistrati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, vengono adottati con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro della giustizia (art. 17, comma 1). Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5205), le deliberazioni con cui il C.S.M. provvede al conferimento di incarichi direttivi, ancorché espressione di attività amministrativa discrezionale, non si sottraggono al sindacato giurisdizionale di legittimità sotto i profili dell'eccesso di potere, della violazione di legge, dell'illogicità, del travisamento dei fatti e della carenza di motivazione qualora i requisiti di merito e attitudini previsti dalla circolare, non siano adeguatamente apprezzati nella procedura comparativa. La normativa sull'impugnazione dei provvedimenti consiliari riguardanti i magistrati è stata oggetto di successivi interventi che hanno definito le modalità del sindacato giurisdizionale [FRANZONI, 2014, 3 ss.]. Da ultimo, l'art. 17, comma 2, secondo periodo, della l. n. 195 del 1958 – a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 2, comma 4, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114 – prevede, in materia di incarichi dirigenziali, che «per la tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si segue, per quanto applicabile, il rito abbreviato disciplinato dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». In caso di accoglimento del ricorso di ottemperanza, il giudice amministrativo assegna al C.S.M. un termine per provvedere. L'art. 17, comma 2, della l. n. 195 del 1958, tuttavia, specifica che non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell'art. 114 c.p.a., che attribuiscono al giudice amministrativo il potere di prescrivere le modalità dell'ottemperanza, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione (lett. a) e, nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di 392 altri provvedimenti, di determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano (lett. c). Il giudice amministrativo non può quindi sostituirsi al Consiglio nell'adozione della delibera, né può determinarne il contenuto. È venuta invece meno, in sede di conversione del d.l. n. 90 del 2014, l'introduzione di limiti più stringenti al sindacato sui provvedimenti consiliari, essendo stata espunta la previsione per cui «contro i provvedimenti concernenti il conferimento o la conferma degli incarichi direttivi e semi direttivi, il controllo del giudice amministrativo ha per oggetto i vizi di violazione di legge e di eccesso di potere manifesto». Il confine tra le prerogative del C.S.M., quale organo di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza dei magistrati, il rispetto del principio di legalità e la tutela delle posizioni soggettive delle persone coinvolte, rappresentano i delicati punti entro cui si muove la linea del sindacato del giudice amministrativo. L'approdo a cui giungono le Sezioni Unite con questa decisione, sistemando gli orientamenti succedutisi nel tempo, formerà senz'altro oggetto di dibattito in dottrina e in giurisprudenza. Al fine di poter compiutamente apprezzare i principi di diritto affermati dalla S.C. nella sentenza in esame appare opportuno riassumere brevemente i fatti oggetto del complesso contenzioso portato all'attenzione della Corte. 2. I fatti. La pronuncia giunge nel corso di una lunga vicenda giudiziaria riguardante il conferimento dell'ufficio di presidente aggiunto della Corte di cassazione, originata dalla delibera del 22 luglio 2010 con cui il C.S.M. nominava, a maggioranza, uno degli aspiranti. Il candidato soccombente interponeva ricorso avverso la nomina ma T.a.r. Lazio 8 giugno 2011, n. 5109 respingeva l'impugnazione, ritenendo la delibera immune da ogni profilo di illogicità. Cons. Stato, sez. IV, 1 febbraio 2012, n. 486, in sede di appello, accoglieva il gravame e annullava la delibera per difetto di motivazione. Il C.S.M., chiamato a ripetere la valutazione, riesaminava i profili dei due candidati e, con delibera del 18 aprile 2012, conferiva nuovamente l'incarico al medesimo magistrato. La delibera veniva impugnata sia in sede di ottemperanza sia in sede di legittimità. 393 Con sentenza del 21 novembre 2012, n. 5903 il Consiglio di Stato respingeva il ricorso per l'ottemperanza, sul presupposto che il C.S.M. aveva provveduto a rinnovare la valutazione comparativa. In sede di legittimità, il T.a.r. Lazio rigettava parimenti l'impugnazione con sentenza 11 aprile 2013, n. 3651. Proposto appello avverso quest'ultima pronuncia, Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2014, n. 3501 accoglieva il gravame e annullava la seconda deliberazione del C.S.M., affermando l'interesse a una decisione "ora per allora" nei confronti di magistrati a riposo, essendo stati entrambi gli aspiranti collocati in quiescenza durante il contenzioso. Il Consiglio di Stato, in particolare, riconosceva, in tema di conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi «l'interesse legittimo del magistrato, non limitato ai meri effetti economici della progressione in carriera, ma anche e soprattutto da consistenti interessi di natura morale ad acquisire l'atto di conferimento dell'incarico quale prova tangibile del riconoscimento dei propri meriti, derivandone ricadute positive in varie direzioni, anche al di fuori dell'ufficio, e persino in un futuro diverso ambito professionale». La decisione del giudice amministrativo è stata cassata dalla sentenza Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637136, con rinvio ad altra sezione del Consiglio di Stato, in base all'art. 382 c.p.c., avendo il giudice ecceduto i limiti della propria giurisdizione, invadendo lo spazio delle valutazioni discrezionali riservate dalla legge al C.S.M. Nel richiamare il precedente Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621165, la S.C. conferma che, ai sensi dell'art. 382 c.p.c., e a seguito dell'entrata in vigore delle norme che attuano il principio della translatio iudicii – segnatamente l'art. 59 della l. 18 giugno 2009, n. 69 e l'art. 11 c.p.a. – la cassazione senza rinvio deve essere disposta esclusivamente quando non solo il giudice adito, ma qualsiasi altro giudice sia privo di giurisdizione sulla domanda, sicché non può farsi luogo a tale tipo di pronuncia tutte le volte in cui il giudice che ha emesso la sentenza cassata sia dotato di potestas iudicandi e la motivazione della cassazione sia soltanto l'errata estensione dell'esercizio della giurisdizione stessa. 3. I principi di diritto. Nel decidere la controversia, le Sezioni Unite hanno affermato tre principi di diritto ai sensi dell'art. 384, comma 1, c.p.c., attinenti alla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e ai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. 394 3.1. Ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario avverso il medesimo atto amministrativo: insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale nella pronuncia di appello successiva all'ottemperanza. Il primo dei principi enucleati dalle Sezioni Unite afferma che «non sussiste eccesso di potere giurisdizionale ove - in caso di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza sia con ordinario ricorso in sede di legittimità - il Consiglio di Stato, dopo essersi pronunciato, rigettandolo, sul ricorso per ottemperanza, si pronunci nuovamente in sede di appello avverso la sentenza di primo grado del T.a.r. che abbia deciso il ricorso ordinario». Parte ricorrente denuncia, nella specie, la consumazione del potere giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato per averlo già esercitato attraverso il rigetto del ricorso in ottemperanza proposto nei confronti del medesimo atto amministrativo. La S.C., nel respingere il motivo di doglianza, evidenzia che, nel caso di specie, la stessa delibera del C.S.M. era oggetto di due distinti ricorsi, l'uno per l'ottemperanza alla prima sentenza del Consiglio di Stato, l'altro per la riforma, in sede di appello, della sentenza del Tar che aveva escluso i vizi dell'atto impugnato, in sede di ordinaria cognizione di legittimità. Pertanto, il giudice amministrativo non poteva che provvedere su entrambe le domande. La facoltà di proporre congiuntamente la domanda per ottemperanza del giudicato e la domanda di annullamento del provvedimento emanato dal C.S.M. dopo la sentenza è stata affermata da Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1625, confermando la giurisprudenza dall'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (15 gennaio 2013, n. 2), intervenuta sul tema della "doppia impugnazione cautelativa", in sede di ottemperanza e in sede di legittimità, dell'atto adempitivo del giudicato, asseritamente invalido in quanto nullo perché violativo o elusivo, ovvero "semplicemente" illegittimo. La doppia impugnazione, pertanto, non determina l'inammissibilità dei ricorsi con i quali siano state proposte distintamente le due domande avanti ai giudici rispettivamente competenti. 3.2. Impugnazione della delibera del C.S.M. nel caso di magistrato ricorrente collocato successivamente in quiescenza: ammissibilità del sindacato di legittimità ma superamento dei limiti esterni della giurisdizione in caso di ricorso in ottemperanza per ottenere l'ordine rivolto al C.S.M. di assegnare il posto "ora per allora". Il secondo principio di diritto – trasposto nella massima Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, 395 Rv. 637134 – riguarda il limite del potere giurisdizionale in caso di collocamento in quiescenza del magistrato ricorrente. Secondo le Sezioni Unite, «in caso di concorso bandito dal Consiglio superiore della magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario non travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, nell'esercizio dell'ordinaria cognizione di legittimità in grado d'appello avverso una sentenza del T.a.r., si pronunci sull'appello, e quindi anche sulla legittimità della delibera del C.S.M., quando il magistrato ricorrente non sia più nel ruolo della magistratura per sopravvenuto collocamento in quiescenza ancorché tale ultima circostanza non consenta successivamente, senza che risultino superati i limiti esterni della giurisdizione, al giudice amministrativo, adito in sede di ottemperanza, di ordinare al C.S.M. di assegnare il posto ora per allora al magistrato vittorioso nel giudizio amministrativo». La S.C., ripercorrendo la propria giurisprudenza sulla figura dell'eccesso di potere giurisdizionale, quale fattispecie del difetto di giurisdizione del giudice, nella specie amministrativo, per superamento dei limiti esterni della sua giurisdizione, distingue la diversa valenza che tale eccesso assume in sede di legittimità e in quella di ottemperanza. Nell'ambito della giurisdizione di legittimità, la Corte ravvisa il travalicamento dei limiti esterni quando il giudice amministrativo, esercitando apparentemente il suo sindacato di legittimità, nei fatti entra nel merito dell'atto impugnato, compiendo una scelta discrezionale propria dell'amministrazione (Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621164). Riguardo alla giurisdizione di ottemperanza, che attribuisce al giudice amministrativo un sindacato anche di merito, l'eccesso di potere giurisdizionale si riscontra in quei casi in cui il giudice amministrativo ritiene sussistenti i presupposti per provvedere sulla domanda quando in realtà essi non ricorrono affatto, in quanto non sussistono, nella specie, né la violazione, né l'elusione del giudicato (Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476). La Corte, in seguito, esamina le pronunce rese in sede di giudizio di ottemperanza, con particolare riguardo all'ipotesi in cui si sia chiesta l'esecuzione di una sentenza avente a oggetto l'annullamento del conferimento di un incarico giudiziario a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, per l'avvenuto pensionamento dei candidati concorrenti. Tale giurisprudenza esclude la possibilità di ordinare al C.S.M. di rinnovare "ora per allora" il procedimento di valutazione di magistrati concorrenti già in pensione (Sez. U, n. 23302/2011, 396 Rordorf, Rv. 619646; Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476; Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375). Le Sezioni Unite, peraltro, evidenziano che l'unica pronuncia che ha ritenuto effettivamente sussistente lo sconfinamento di giurisdizione è Sez. U, n. 23302/2011, Rordorf, Rv. 619646. Secondo quanto affermato dalla S.C., «la sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza di un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile (nella specie, per l'avvenuto pensionamento dei candidati concorrenti), ordina alla competente Amministrazione (nella specie, al C.S.M.) di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento "ora per allora", al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra Amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di cassazione in punto di giurisdizione». Sez. U, n. 00736/2012, Ceccherini, Rv. 620476, pur ritenendo che sia impugnabile per motivi di giurisdizione la decisione con la quale il Consiglio di Stato – in accoglimento di un ricorso presentato in sede di ottemperanza al giudicato di annullamento di una delibera del C.S.M. di conferimento di un incarico direttivo – abbia disposto la nomina "ora per allora" di un candidato nel frattempo collocato in pensione, ha tuttavia considerato la relativa questione coperta dal giudicato, non essendo stata proposta la relativa impugnazione. La questione, pertanto, è stata ritenuta non più esaminabile nel corso del giudizio promosso nei confronti della successiva decisione con la quale il Consiglio di Stato, nell'ambito della medesima procedura di ottemperanza, ha annullato l'ulteriore provvedimento del C.S.M. che aveva nominato per la seconda volta il candidato la cui nomina era stata in precedenza annullata. Successivamente, Sez. U, n. 01823/2015, Rordorf, Rv. 634375 ha escluso il verificarsi di un eccesso di potere giurisdizionale nella decisione che aveva ritenuto ammissibili i motivi aggiunti presentati dall'interessato, diretti ad accertare la natura elusiva del giudicato della successiva rinnovata deliberazione. Secondo la S.C., avendo il Consiglio di Stato negato la presenza di elementi significativi di novità, esercitando anche i conseguenti poteri sostitutivi, mediante designazione di un commissario ad acta (in fattispecie anteriore all'entrata in vigore delle modifiche apportate dall'art. 2, comma 4, d.l. n. 90 del 2014, convertito dalla l. n. 114 del 2014), veniva in questione solo il modo in cui la 397 giurisdizione era stata in concreto esercitata, senza che assumesse rilievo il fatto che uno dei candidati concorrenti all'incarico direttivo fosse prossimo al pensionamento. Nella pronuncia in esame, la Corte osserva che non vertendosi in sede di ottemperanza ma di appello - e quindi di legittimità - non è direttamente applicabile il principio affermato dalla pronuncia Sez. U, n. 23302/2011, Rordorf, Rv. 619646, sottolineando la permanenza dell'interesse a ottenere, in sede di legittimità, una pronuncia del giudice amministrativo che accerti la sussistenza dei vizi denunciati della delibera ed eventualmente conduca al suo annullamento. Se tale possibilità fosse preclusa in conseguenza del collocamento in quiescienza del magistrato che concorre per l'assegnazione dell'incarico dirigenziale, verrebbe vanificata la domanda di giustizia, consentendo il consolidarsi di una situazione di fatto, mera conseguenza di una circostanza contingente ed eventuale, quale il collocamento a riposo. Resta esclusa, inoltre, secondo le Sezioni Unite, la configurabilità di una cessazione della materia del contendere giacché non si è modificato l'oggetto del giudizio amministrativo, ovvero la legittimità o meno della delibera consiliare. Diversamente argomentando si finirebbe per cristallizzare la fattispecie nel momento in cui si registra la soccombenza della parte che vede annullato il conferimento dell'incarico, mentre l'altra parte non è effettivamente vittoriosa in quanto non ha ottenuto l'incarico giudiziario. In questo modo, si finirebbe per ledere sia la garanzia della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) sia il canone del buon andamento dell'amministrazione della giustizia (art. 97 Cost.), rimanendo precluso al Consiglio di provvedere ulteriormente, assegnando l'incarico al magistrato vittorioso in giudizio ma collocato a riposo. Nel caso in cui il magistrato ricorrente sia stato collocato a riposo, il C.S.M., a seguito dell'annullamento della delibera che lo aveva pretermesso, dovrà nuovamente provvedere, tenendo conto del giudicato, e confermare la precedente delibera annullata o disporre il non luogo a provvedere per mera acquiescienza al giudicato amministrativo. La prima decisione aprirà la strada a una nuova impugnazione in sede di legittimità mentre l'altra consentirà, in sede di giudizio amministrativo, il risarcimento del danno da perdita della chance di ricoprire l'incarico. Preclusa, invece, sulla base della giurisprudenza richiamata, è l'ottemperanza in forma specifica con l'assegnazione dell'incarico "ora per allora". 398 3.3. Limiti del sindacato di legittimità e valutazione di merito del contenuto della delibera e della sua ragionevolezza. Risolta positivamente la questione del dovere del giudice amministrativo di pronunciarsi sulla legittimità della delibera di conferimento dell'incarico, a seguito del collocamento in quiescenza degli aspiranti, pur escludendosi il successivo ricorso al giudizio di ottemperanza per conseguire l'assegnazione dell'incarico "ora per allora", col terzo principio – ripreso nella massima Sez. U, n. 19787/2015, Amoroso, Rv. 637135 – la S.C. interviene sul tema dei limiti del sindacato di legittimità sul contenuto della delibera: «in caso di concorso bandito dal Consiglio superiore della magistratura per l'attribuzione di un incarico giudiziario travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, adito in grado d'appello avverso una pronuncia di primo grado avente ad oggetto la legittimità, o no, della delibera del C.S.M. e quindi nell'esercizio dell'ordinaria cognizione di legittimità, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera stessa e ne apprezzi la ragionevolezza, così sovrapponendosi all'esercizio della discrezionalità del C.S.M., espressione del potere, garantito dall'art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura, invece di svolgere un sindacato di legittimità di secondo grado, anche a mezzo del canone parametrico dell'eccesso di potere quale possibile vizio della delibera stessa». Le Sezioni Unite giungono all'affermazione del principio richiamando i propri precedenti sui limiti esterni della giurisdizione di legittimità, evidenziando che il giudice amministrativo non può compiere una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e della convenienza dell'atto, con sconfinamento nella sfera del merito (Sez. U, n. 02312/2012, Macioce, Rv. 621164), risultando altrimenti censurabile tale apprezzamento mediante ricorso per cassazione ai sensi degli artt. 111, comma 8, Cost. e 362, comma 1, c.p.c. Preclusa, invece, è la deduzione dinanzi alla S.C. del superamento dei limiti interni della giurisdizione, ovverosia delle modalità mediante cui viene garantita la tutela giurisdizionale. In particolare, la pronuncia sottolinea che nei casi in cui l'ordinamento riconosce all'amministrazione un ampio margine di apprezzamento dei fatti, il sindacato del giudice amministrativo riguardante la motivazione dell'atto non può giungere a evidenziare una diretta "non condivisibilità" della valutazione, dovendo il suo giudizio essere mantenuto sul diverso piano del sindacato parametrico, ovverosia esterno, della valutazione compiuta. Secondo le Sezioni Unite, la discrezionalità riconosciuta al C.S.M. nel conferimento degli incarichi dirigenziali, in ragione del rilievo 399 costituzionale rivestito dal Consiglio (art. 105 Cost.), rientra nei casi in cui all'organo decidente è riconosciuto un ampio margine di apprezzamento nella valutazione di merito. Peraltro, i casi in cui viene in concreto riscontrato lo sconfinamento della giurisdizione da parte del giudice amministrativo costituiscono, come evidenziato dalla S.C., delle ipotesi eccezionali, ovvero dei "casi estremi" (Sez. U, n. 02403/2014, Giusti, Rv. 629620) Nel caso di specie, le Sezioni Unite ritengono che sussista la denunciata violazione dei limiti esterni della giurisdizione di legittimità. Il Consiglio di Stato, infatti, dopo aver esaminato i profili dei due candidati e aver escluso, in generale, un'equiparazione ex lege del servizio svolto presso l'avvocatura dello Stato e quello espletato nella magistratura, premessa riconducibile nei confini del sindacato di legittimità, ha poi ritenuto che, secondo un apprezzamento di "ragionevolezza", i due anni in più che il candidato prescelto vantava nelle funzioni di legittimità non potevano compensare un deficit di diciotto anni di attività complessiva in qualità di magistrato, escludendo l'equiparazione tra l'attività di magistrato ordinario e quella di avvocato dello Stato svolta dall'aspirante prescelto. In questo modo, tuttavia, secondo l'apprezzamento delle Sezioni Unite, il giudice amministrativo ha rifatto direttamente la valutazione comparativa e si è sovrapposto all'esercizio della discrezionalità riservata al C.S.M., finendo per compiere, quindi, una diretta valutazione di merito e non un sindacato sulla valutazione di merito effettuata dal Consiglio a mezzo del canone parametrico dell'eccesso di potere. Lo scrutinio della questione è rimesso nuovamente al Consiglio di Stato. 400 Bibliografia S. FRANZONI, I giudici del Consiglio superiore della Magistratura, Torino, 2014. G. SANTALUCIA, Il Consiglio Superiore della Magistratura, in E. ALBAMONTE, P. FILIPPI (a cura di), Ordinamento giudiziario. Leggi, regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 45-75. N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2014. 401 :

 

 

 

 

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