Corte edu, 18 maggio 2017, Jóhannesson ed altri c. Islanda- Ne bis in idem

L'art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo sancisce il divieto di bis in idem per procedimenti basati “sugli stessi fatti o su fatti sostanzialmente identici”.

L'art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, sottoscritto il 22.XI. 1984, e rubricato "Diritto di non essere giudicato o punito due volte", afferma che:

1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato.

2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.

3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione


Fondamentale è la valutazione dell’ idem, integrato da fatti temporalmente, oggettivamente o sostanzialmente assimilabili, e del bis, che afferisce, invece, alla duplicazione dei procedimenti.

La norma in questione, allo stesso modo, non sancisce l’illegittimità di procedimenti paralleli, tra loro complementari, laddove questi siano in grado di meglio tutelare la Collettività rispetto a comportamenti offensivi di plurime realtà giuridiche.
Graverà, in questo caso, sullo Stato l’onere di dimostrare che i procedimenti suddetti siano strettamente connessi sotto il profilo sostanziale e temporale alla luce della complementarietà degli scopi perseguiti da ciascuno di essi, finalizzati a sanzionare esaustivamente il complessivo disvalore della condotta oggetto delle regiudicande. Quel che occorre è, infatti, evitare duplicazioni quanto alla raccolta e alla valutazione delle prove, assicurando, altresì un contemperamento tra le sanzioni irrogate. [tali principi sono stati disattesi dalle autorità islandesi quanto al perseguimento ad opera della giustizia tanto penale quanto tributaria dei medesimi fatti di evasione fiscale: i diversi procedimenti avevano, infatti, dato luogo tanto a pene detentive e pecuniarie, quanto a maggiorazioni fiscali di matrice tributaria, ma aventi natura squisitamente penale stando ai c.d. criteri Engel].

Criteri Engel , elaborati in una vecchia decisione del 1976 e progressivamente affinati (da ultimo, con la decisione Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014). idem

Il primo problema che si è posto agli interpreti è stato quello della delimitazione della materia penale, quando, cioè, attribuire carattere penale ad un sanzione, ai fini dell'applicazione dell'articolo in questione. Sul punto la Corte di Giustizia di Strasburgo ha ritenuto applicabili i c.d. criteri Engel , elaborati in una vecchia decisione del 1976 e progressivamente affinati (da ultimo, con la decisione Grande Stevens contro Italia del 4 marzo 2014). Al riguardo ha chiarito la CEDU che Al fine di verificare se un procedimento ha ad oggetto “accuse in materia penale” ai sensi della Convenzione stessa si devono considerare tre diversi fattori. Principalmente la qualificazione data dal sistema giuridico dello Stato convenuto all'illecito contestato. Tale indicazione tuttavia ha solo un valore formale e relativo poiché la Corte deve supervisionare sulla correttezza di tale qualificazione alla luce degli altri fattori indicativi del carattere “penale” dell'accusa.

Secondariamente infatti, va considerata la natura sostanziale dell'illecito commesso vale a dire se si è di fronte ad una condotta in violazione di una norma che protegge il funzionamento di una determinata formazione sociale o se è invece preposta alla tutela erga omnes di beni giuridici della collettività, anche alla luce del denominatore comune delle rispettive legislazioni dei diversi Stati contraenti.

Va infine considerato il grado di severità della pena che rischia la persona interessata poichè in una società di diritto appartengono alla sfera "penale" le privazioni della libertà personale suscettibili di essere imposte quali punizioni, eccezione fatta per quelle la cui natura, durata o modalità di esecuzione non possano causare un apprezzabile danno.

La CEDU ritiene, dunque, che si debba considerare di natura penale la sanzione che sia qualificata tale dalla norma che la prevede e che, in mancanza, si debba tener conto della natura della violazione o della natura, scopo e gravità della sanzione (sul tema, CEDU sent. causa C-199/92 del 1999 Huls/Commissione; sentenza, già citata, del 8 giugno 1976 Engel ed altri contro Paesi Bassi, serie A n. 22, par. 82; sentenza 21 febbraio 1984 Ozturk c. Germania, serie A n. 73, par.53; sentenza Lutz contro Germania, serie A n. 123, par. 54); criteri, questi ultimi, tra loro alternativi ma che possono essere utilizzati anche cumulativamente, se l'analisi separata di ognuno di essi non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di un'accusa in materia penale (Iussila contro Finlandia n. 73053/2001) (sent. Grande Stevens c. Italia cit)

Aggiunge la Corte che il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel ed altri sopra citata) e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (ancora sent Grande Stevens cit).

Sempre in ordine alla questione sulla identità delle fattispecie al fine dell'applicazione dell'istituto in esame, la CEDU, con la sentenza Rosenquist contro Svezia del 2004 aveva escluso, dichiarando inammissibile il relativo ricorso, tale identintà nel caso di illeciti penali e illeciti amministrativi tributari, sulla base di una valutazione delle fattispecie astratte (legal characterisation) di tali illeciti; gli illeciti penali e quelli amministrativi tributari non solo divergevano, secondo tale decisione, per gli elementi costituitivi di essi ma anche per il diverso elemento psicologico previsto.

Tale orientamento che portava ad escludere anche per l'ordinamento italiano il pericolo della violazione del ne bis in idem, veniva bruscamente mutato dalla CEDU all'inizio del 2009, in particolare con la sentenza Sergey Zolotukin contro Russia del 10 febbraio 2009. Con tale decisione, resa dalla Grande Camera della CEDU, quest'ultima, ai fini dell'individuazione della stessa offesa (same offence), cioè dell'identità del fatto, non ritiene più che si debbano equiparare le fattispecie (penale e amministrativa ) astratte, ma che occorra fare riferimento al fatto storico-naturalistico, a prescindere dagli altri elementi costitutivi delle fattispecie.

Infine, con le recenti sentenze Grande Stevens contro Italia del 4.03.2014, Nikanen c. Finlandia del 20 maggio 2014 e Luky Dev contro Svezia del 27 novembre 2014, la Corte di Strasburgo ha precisato:

1) che la sovratassa in materia fiscale ha, in linea generale, natura penale (sent. Luky Dev c. Svezia, Janosevic c. Svezia, Gotkan c. Francia, Nikanen c. Finlandia);

2) che l'art.4 del protocollo 7, non vieta la contemporanea apertura e svolgimento di procedimenti parallaleli per lo stesso fatto, sanzionando soltanto la mancata interruzione degli altri nel momento in cui uno di essi è divenuto definitivo (sent, Luky Dev c. Svezia);

3) che il divieto del ne bis in idem convenzionale non trova applicazione nelle ipotesi di sanzioni inflitte da autorità diverse nell'ambito di procedimenti strettamente collegati dal punto di vista sostanziale e temporale (per es. ritiro della patente e, per il medesimo fatto, condanna penale sospesa condizionalmente per guida in stato di ebbrezza, così sent. Nilsson c. Svezia)

4) che il nuovo orientamento dalla CEDU assunto nella materia è applicabile anche ai procedimenti nazionali svoltisi in epoca anteriore alla data della sentenza Zolotukhin c. Russia, cioè prima del 10 febbraio 2009 ( sempre sent. Luky Dev c. Svezia). Al riguardo, va evidenziato, che su quest'ultimo punto esaminato dalla sentenza appena citata, i giudici Villinger, Nussberger e De Gaetano, nella concurring opinion, hanno espresso il loro dissenso sostenendo che un cambiamento radicale nella giurisprudenza della Corte - come nel presente caso - pregiudica la certezza del diritto e, più specificamente l'interazione tra le corti nazionali e le Corti. Per le corti nazionali è dirompente seguire fedelmente la giurisprudenza della Corte per trovarsi - senza alcun preavviso - accusati di una violazione della Convenzione.

 

La norma dell'art. 4 del protocollo 7 è stata anche recepita dall'art. 50 della Carta di Nizza ( alla quale, con il trattato di Lisbona del 2007, è stato attribuito lo stesso valore dei trattati dell'UE), il quale afferma che Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.

Tale sorta di recepimento pone subito la questione se, a questo punto il giudice italiano possa – per come stabilito dalla sent. Corte Cost. 170 del 1984 riguardo alle direttive auto esecutive e ai regolamenti comunitari – direttamente disapplicare le norme in contrasto con l’art. 4 del protocollo 7 della CEDU, oppure debba continuare a rispettare il procedimento previsto dalla stessa Corte con la sent. 348 del 2008, con la quale, premesso che la CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. .... e che essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale ...da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico in un sistema più vasto , da cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti ... per tutte le autorità interne degli Stati membri, ha affermato che, nel caso di contrasto tra la norma interna e quella della CEDU, tale asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma della Costituzione – il quale impone al legislatore il rispetto, nell’attività di produzione legislativa, degli obblighi internazionali -di esclusiva competenza del giudice delle leggi.

Orbene, sempre secondo la Consulta, tale assetto non è stato modificato dall’art.50 della Carta di Nizza , non avendo il Trattato di Lisbona, di adozione della Carta di Nizza, comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione di norme interposte, con la conseguenza che il giudice non può ritenersi abilitato a disapplicare le norme interne ritenute incompatibili con la CEDU stessa (così Corte Cost. 11.03.2011, n. 80).

Sul punto occorre ancora aggiungere che la CEDU non ha ritenuto valida la riserva, ai sensi dell'art.57 della Convenzione (ogni Stato, al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del suo strumento di ratifica, può formulare una riserva riguardo a una determinata disposizione della Convenzione, nella misura in cui una legge in quel momento in vigore sul suo territorio non sia conforme a tale disposizione. Le riserve di carattere generale non sono autorizzate ai sensi dell presente articolo), espressa dall'Italia sugli artt. 2 e 4 del protocollo 7, in sede di ratifica dello stesso, secondo la quale le norme di tali articoli avrebbero dovuto trovare applicazione, nel proprio ordinamento interno, solo per gli illeciti che la legge italiana definisce penali. La CEDU ha ritenuto nulla tale riserva per violazione del citato art 57, § 2 della Convenzione e cioè per mancanza di precisione e chiarezza della stessa (sent Grande Stevens cit.).

Ciò chiarito e cioè ritenuto, per come chiaramente detto dalla sentenza Grande Stevens c. Italia, che, in presenza di norme di natura penale, comunque denominate, vige il divieto convenzionale del ne bis in idem , il quale non comporta l'impossibilità che, per lo stesso fatto, vengano iniziati due procedimenti, ma solo che entrambi vengano conlcusi con un provvedimento definitivo, occorre vedere i riflessi di tale istituto nell'ambito delle sanzioni di natura tributaria. In tale materia, il cumulo di sanzioni penali e amministrative era stato previsto dall'art. 10 del DL 429/82, conv. nella legge 7 agosto 1982, n. 516 ( c.d. legge "manette agli evasori"), il quale disponeva che le pene previste nel presente decreto non esclude l'applicazione delle pene pecuniarie previste dalle disposizioni vigenti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Tale quadro è cambiato completamente con l'emanazione del DLGS 74/2000, il quale, con il recepimento all'art.19 del principio di specialità nell'ambito tributario ha previsto che1. Quando uno stesso fatto e' punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. Quest'ultima disposizione, unita a quella di cui all'art.21, II comma stesso DLGS , il quale dispone che le sanzioni amministrative di cui al DLGS 471/97 non sono eseguibili nei confronti dei soggetti diversi da quelli indicali dall'articolo 19, comma 2, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto, sembrerebbe scongiurare il pericolo del verificarsi del bis in idem in tale ambito. Ma non sempre è così. Partendo dalle problematiche più rilevanti, occorre evidenziare che la costante giurisprudenza della Cassazione ha affermato che il principio di specialità non trova applicazione per le sanzioni amministrative e penali previste, rispettivamente, dall'art. 13 primo comma del DLGS 471/97 e 10 bis (omesso versamento di ritenute certificate ) e 10 ter (omesso versamento IVA) del Dlgs 74/2000, dovendosi, in tali ipotesi ritenere, piuttosto, la sussistenza di una progressione criminosa (così Cass. SS.UU. 37425/2013 e 40526/2014: la fattispecie penale costituisce in sostanza una violazione molto più grave di quella amministrativa e,pur contenendo necessariamente quest'ultima, la arrichisce di elementi essenziali che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità, in quanto creano decisivi segmenti comportamentali ... che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell'illecito amministrativo. Di conseguenza .... illecito penale e illecito amministrativo concorrono e andranno applicate sia la sanzione penale sia quella amministrativa, così la sentenza da ultimo cit. riguardo il rapporto tra art. 10bis dlgs 74/2000 e art. 13 dlgs 471/97, ma analogo dicscorso puà farsi per il rapporto tra la norma appena menzionata e quello di cui all'art. 10 ter dlgs 74/2000, in tema di omesso versamento d'IVA). Qualificato in tal modo il rapporto tra le norme in esame e ritenuto applicabile il cumulo delle sanzioni,penali e amministrative, la Cassazione si è trovata a dover affrontare la questione del ne bis in idem convenzionale; la Suprema Corte, sempre con le sentenze appena citate, ha ritenuto che la sua ricostruzione delle fattispecie, penale e amministrativa - ma, comunque, appartente alla materia penale, per come intesa dalla CEDU - non cozzasse con il divieto di cui all'art. 4 del protocollo 7 perchè l'illecito amministrativo costituito dall'omesso versamento delle ritenute di cui all'art. 13, comma 1, del dlgs 18 dicembre 1997 n 471, e il nuovo illecito penale di cui all'art. 10 bis del dlgs 10 marzo 2000 n. 74, hann ad oggetto comportamenti diversi e sono integrati da fatti diversi. Ha chiarito, ancora la Corte che, pur nella comunanza di una parte dei presupposti e della condotta, gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti essenziali; di qui la ricostruzione degli stessi illeciti in termini , non di specialità, ma di progressione. Sennonchè più di un dubbio sembra sussistere sulla ricostruzione così operata dalla Cassazione, atteso che, proprio la sentenza Zolotukhin c. Russia, ripresa da ultimo da quelle Lucki Dev c. Svezia e Grande Stevens c. Italia, afferma che ciò che conta ai fini dell'applicazione del divieto del ne bis in idem convenzionale è l'identità del fatto, naturalisticamente inteso, al di là di eventuali diversità degli altri elementi costitutivi della fattispecie penale e di quella amministrativa: ebbene, non sembra che sussistano molto dubbi sul fatto che la condotta, nelle fattispecie in esame, sia la stessa: l'omesso versamento delle ritenute o dell'imposta dovuta.

La questione potrebbe essere superata dalla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario,prevista dall'art. 8, comma 1 della legge sulla delega fiscale (Legge 23/2014); prevedendo tale norma la configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa, ne dovrebbe derivare la espunzione dal campo degli illeciti penali delle fattispecie di omesso versamento, non configurando queste ipotesi ipotesi di frode o simulazione, ma semplicemente di condotte omissive.

Oltre agli esempi appena citati di probabile violazione del ne bis in idem convenzionale, ve ne possono essere altri: si pensi a quella del pagamento volontario delle sanzioni amministrative, in corso di processo penale, magari per godere della circostanza attenuante di cui all'art. 13 del DLGS 74/2000 o per poter accedere al c.d. "patteggiamento". Ebbene, anche in queste ipotesi sussistono forti dubbi sulla compatibilità con l'art. 4 del prot. 7 della prosecuzione del processo penale.

Infine, vediamo quali potrebbe, o dovrebbe, essere il percorso per dare esecuzione ad una sentenza - definitiva a norma dell'art. 44 della Convenzione - della CEDU che constatasse la violazione del ne bis in idem da parte delle istituzioni, amministrative o giurisdizionali, dello Stato Italiano.

Al riguardo la stessa CEDU ha precisato che, essendo le sue sentenze essenzialmente di natura dichiaratoria, è lo Stato in causa a dover scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, i mezzi da utilizzare nel proprio ordinamento giuridico interno per adempiere al proprio obbligo rispetto all'art. 46 della Convenzione, purchè tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (sent. Grande Stevens c. Italia cit.).

Sul punto, atteso la qualificazione, per come sopra detto, delle norme della CEDU, e dei relativi protocolli, quai norme interposte ex art. 117, primo comma della Costituzione, l'unico rimedio è quello di adire la Corte Costituzionale per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma interna in contrasto con la norma convenzionale, semprechè non sia possibile una interpretazione convenzionalmente orientata della norma interna. In concreto, appurata la impercorribilità in concreto di quest'ultima via, si possono denunciare di illegittimità costituzionale o la norma amministrativa - sostanzialmente penale per la CEDU- o quella penale, quando entrambe puniscono lo stesso fatto. Nel caso della sentenza Grande Stevens c. Italia è accaduto addirittura che sia la norma amministrativa, sia quella penale siano state sottoposte al vaglio della Consulta. La Corte di Cassazione,infatti, con ordinanza n. 1782/2015, della V sezione penale, depositata il 15.01.2015, ritenuta, al contrario della sentenza del Tribunale di Brindisi del 17.10.2014, non praticabile una interpretazione convenzionalmente orientata dell'art. 649 c.p.p. (il quale, nel prevedere le ipotesi tassative di divieto di secondo giudizio, non contempla il caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali e dei relativi protocolli, così l'ord. cit.) ne ha, se pure in via subordinata, denunciata la possibile incostituzionalità. La Sezione Tributaria Civile, a sua volta, con l'ord. 950/2015, depositata il 21.01.2015, ha denunciato di illegittimità costituzionale delle norme del TUF che avevano, nel caso Grande Stevens c. Italia, portato all'applicazione delle sanzioni amministrative.

Nel caso, poi, di sentenza penale di condanna divenuta definitiva, già oggi è percorribile la strada della revisione della stessa, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 7.4.2011 n. 113 (decisione che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 630 del CPP - che individua le ipotesi di revisione delle sentenze di condanna, o del decreto penale di condanna o dell'applicazione dela pena su richiesta- nella parte in cui non prevede la diversa ipotesi di riapertura del processo di revisione quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art.46, par.1 della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte di Giustizia). Tale ultima soluzione non è invece praticabile nel caso di sentenza definitiva del giudice tributario o civile, atteso che le norme sulla revocazione della sentenza non prevedono tra le ipotesi dalle stesse contemplate, quella appena menzionata; anche se, al riguardo, la recentissima ordinanza n. 2dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, depositata il 4.03.2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli art. 106 del CPA e 395 e 396 cpc, in relazione agli artt. 117, co. 1, 111 e 24 della Costituzione nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par.1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell'Uomo.

In conclusione, la materia, attesa la sua stringente attualità, meriterebbe un intervento organico del legislatore, magari approfittando della legge di delega fiscale per e questioni con questa risolvibili, evitando che la stessa diventi oggetto di rimedi parziali da parte della giurisdizione di merito, di legittimità e costituzionale.

 

 

 

Il caso sottoposto all’esame della Corte. Corte EDU (I Sezione), sentenza 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda

La Prima Sezione della Corte EDU si è trovata a fare per la prima volta applicazione dei “criteri-guida” forniti dalla Grande Camera della Corte EDU nella nota sentenza A. e B. c. Norvegia del 15 novembre 2016 in materia di ne bis in idem (art. 4, Protocollo 7 alla CEDU).

La pronuncia risulta di particolare interesse, sia perché riguarda una materia – quella tributaria – che anche nell’ordinamento nazionale presta il fianco a spinosi interrogativi circa la compatibilità con il principio convenzionale del ne bis in idem, sia perché sembra indicare agli interpreti i limiti entro i quali va ricondotto il criterio della connessione sostanziale e temporale sufficientemente strettadi cui alla sentenza A. e B. c. Norvegia.

La Prima Sezione della Corte, infatti, fa una scrupolosa applicazione dei criteri elaborati dalla Grande Camera, chiarendone e definendone la portata e l’ambito di applicazione.

1. Il caso sottoposto all’esame della Corte.

I ricorrenti, i signori Jóhannesson e Jónsson e una società ad essi riconducibile, avevano omesso di dichiarare elementi attivi consistenti con riferimento a diverse annualità (dal 1999 al 2002).

All’esito dei procedimenti tributari – conclusisi rispettivamente in grado di appello nell’agosto e nel settembre 2007 e divenuti definitivi sei mesi dopo, a febbraio e marzo 2008 – veniva pertanto imposta una sovrattassa del 25% ai signori Jóhannesson e Jónsson, ed una del 10% alla società.

Al contempo, nel novembre 2004 l’amministrazione finanziaria trasmetteva gli atti all’autorità di polizia, che, a sua volta, apriva un procedimento penale per reati fiscali nei confronti dei signori Jóhannesson e Jónsson. Tuttavia, soltanto nel dicembre 2008 – circa nove mesi dopo la conclusione con sentenza definitiva del procedimento tributario – veniva formulata l’imputazione nei confronti dei ricorrenti.

Anche il procedimento penale si concludeva in seguito, nel febbraio 2013, con una sentenza di condanna della Corte Suprema islandese, con la quale ai due ricorrenti veniva irrogata, rispettivamente, la pena detentiva di 12 e 18 mesi (pena sospesa) e una multa corrispondente a circa Euro 360,000 e 186,000.

2. La valutazione della “connessione sostanziale e temporale” dei due procedimenti alla luce dei “criteri-guida”.

La Corte si è pronunciata solo con riferimento alle persone fisiche, avendo la società dimostrato di non avere interesse a mantenere il ricorso (cfr. l’art. 37, § 1 CEDU).

In via preliminare, la Corte ha riconosciuto che entrambi i procedimenti svoltisi nei confronti dei ricorrenti fossero riconducibili alla matière pénale, secondo la nozione autonoma elaborata dalla giurisprudenza europea e rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 4, Protocollo 7 alla CEDU. (§ 44 della sentenza in commento).

Rilevata altresì l’identità dei fatti oggetto dei due procedimenti (§§ 45-47), la Corte si è quindi concentrata nel verificare se le due risposte sanzionatorie – quella tributaria e quella penale – presentassero una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”, tale da consentire di ritenere rispettato il principio del ne bis in idem.

Prendendo le mosse dai criteri indicati dalla Grande Camera nella pronuncia A. e B. c. Norvegia, la Corte ha quindi esaminato la connessione sostanziale tra i due procedimenti, rilevando innanzitutto che essi perseguivano scopi tra loro complementari (§ 51).

Inoltre, la duplicazione dei procedimenti e la conseguente possibilità di una combinazione tra le diverse sanzioni era prevedibile per i ricorrenti (§ 51).

La condanna inflitta all’esito del processo penale, infine, aveva tenuto sufficientemente in conto la sanzione già imposta nel procedimento tributario (§ 52).

La conclusione della Corte è stata tuttavia nel senso di ritenere violato l’art. 4, Protocollo 7 alla CEDU, lasciando intendere che, nonostante il positivo riscontro di alcuni tra gli indicatori forniti dalla pronuncia A. e B. c. Norvegia, si debba comunque portare a termine la verifica, esaminando tutti i criteri singolarmente.

Tale approdo della Corte si è basato in particolare su due profili.

In primo luogo, la Corte ha rilevato una duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove: l’autorità di polizia aveva infatti condotto una propria indagine indipendente, pur avendo ricevuto copia dei rapporti investigativi dell’amministrazione finanziari. A giudizio della Corte, quindi, “the applicants’ conduct and their liability under the different provisions of tax and criminal law were thus examined by different authorities and courts in proceedings that were largely independent of each other” (§ 53).

In secondo luogo, la Corte ha constatato che non fosse sussistente il requisito della connessione temporale, che deve comunque essere soddisfatto affinché il test della “sufficiently close connection” possa dirsi superato positivamente (cfr. in proposito §§ 114 e 134 della sentenza A. e B. c. Norvegia).

I due procedimenti in effetti si erano svolti in parellelo soltanto per un breve periodo, di poco più di un anno, mentre il procedimento penale era proseguito per diversi anni dopo la definizione di quello tributario (§ 54). Non solo, nel suo complesso la durata dei due procedimenti – dall’inizio dell’indagine tributaria fino alla decisione della Suprema Corte nel processo penale – si era prolungata, senza alcuna colpa dei ricorrenti, per oltre nove anni (§ 50 e § 54).

 

 

 

Questa volta però – in un caso concernente l’Islanda – la prima sezione della Corte ravvisa, all’unanimità, la violazione della garanzia convenzionale, sottolineando le differenze tra il caso di specie all’esame e quello deciso dalla Grande Camera, sotto lo specifico profilo dell’assenza di una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra i due procedimenti sanzionatori.

2. Ricorrenti nel caso di specie erano due persone fisiche, le quali esponevano di essere state sanzionate dall’amministrazione fiscale nel 2004 e nel 2005 con sovrattasse pari al 25% dei tributi evasi per avere omesso di denunciare significative voci di reddito negli anni fiscali precedenti.

Le sanzioni in questione erano state in gran parte confermate nel 2007 in esito ad altrettanti ricorsi in via gerarchica, e non erano quindi state impugnate avanti all’autorità giudiziaria nel termine legale, divenendo così definitive all’inizio del 2008.

Sin dal 2004, peraltro, l’amministrazione fiscale aveva denunciato i ricorrenti alla polizia specializzata in frodi tributarie. La polizia li aveva per la prima volta interrogati nel 2006 e, quindi, li aveva rinviati a giudizio nel dicembre 2008 per vari reati reati fiscali.

Nel giugno 2010 la Corte distrettuale di Reykjavik dichiarava di non doversi procedere nei confronti dei ricorrenti in applicazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU, così come interpretato dalla Grande Camera in Zolotukhin c. Russia, ritenendo che i fatti dei quali erano accusati fossero sostanzialmente i medesimi per i quali erano già stati sanzionati in via definitiva dall’amministrazione tributaria, ma in esito a un procedimento di natura sostanzialmente penale.

La pubblica accusa impugnava tuttavia la decisione avanti alla Corte Suprema, la quale nel settembre 2010 accoglieva il ricorso e ordinava alla Corte distrettuale di esaminare il merito delle accuse. I giudici supremi islandesi osservavano da un lato come la giurisprudenza di Strasburgo in materia di ne bis in idem e sovrattasse non fosse ancora ben chiara, e dall’altro come l’eventuale contrasto tra il diritto convenzionale e il diritto nazionale (che indubbiamente prevedeva la possibilità di un ‘doppio binario’ di sanzioni penali e amministrative in caso di violazioni tributarie) dovesse essere risolto dal legislatore islandese, non già dalla magistratura.

Con sentenza del dicembre 2011, la Corte distrettuale riconosceva la penale responsabilità dei due imputati, sospendendo tuttavia per un anno la determinazione della pena relativa in considerazione dell’eccessiva lunghezza del processo, nonché della già avvenuta irrogazione a loro carico di una sovrattassa del 25%.

Nel febbraio 2013, la Corte Suprema confermava le condanne e determinava essa stessa le pene a carico degli imputati (rispettivamente, dodici e diciotto mesi di reclusione condizionalmente sospesa, più 360.000 e 180.000 euro circa di multa), tenendo conto tanto della lunghezza del processo, quanto delle sovrattasse già irrogate nei loro confronti.

I condannati si rivolgevano dunque alla Corte di Strasburgo, dolendosi della violazione del loro diritto al ne bis in idem ai sensi dellìart. 4 Prot. 7 Cedu.

3. La prima sezione della Corte si allinea anzitutto, anzitutto, alla sentenza A e B della Grande Camera nel ritenere che i procedimenti amministrativi che avevano condotto all’irrogazione delle sovrattasse da parte dell’amministrazione tributaria avessero natura sostanzialmente penale, anche ai fini di cui all’art. 4 Prot. 7 Cedu.

Parimenti sussistente è ritenuto il requisito dell’idem factum, del resto pacifico tra le parti: i fatti per i quali i ricorrenti erano stati sanzionati dall’amministrazione tributaria erano sostanzialmente i medesimi per i quali erano poi stati processati, e condannati, in sede penale, le accuse formulate in quest’ultima sede concernendo i medesimi importi di tasse evase negli stessi periodi di tempo.

Il problema in discussione in questo caso era, piuttosto, se potesse ravvisarsi tra i due procedimenti sanzionatori (tributario e penale) quella “connessione sostanziale o temporale sufficientemente stretta” da far considerare i due procedimenti, secondo i principi enunciati dalla Grande Camera in A e B c. Norvegia, come parti di un unico procedimento sanzionatorio integrato.

4. Quanto alla connessione “sostanziale”, la Corte riconosce che i procedimenti e le sanzioni applicate nel caso di specie perseguissero scopi complementari, e che l’imposizione tanto di sovrattasse ‘amministrative’ quanto di pene fossero in concreto prevedibili per i ricorrenti sulla base della legislazione nazionale vigente all’epoca dei fatti (§ 51); e parimenti sottolinea come la Corte Suprema islandese, nel determinare la pena per i due imputati, abbia tenuto in conto non solo dell’eccessiva durata del procedimento, ma anche della già avvenuta irrogazione delle sovrattasse da parte dell’amministrazione tributaria (§ 52). Tuttavia, la Corte europea evidenzia come l’indagine compiuta dalla polizia sia proceduta in modo indipendente dalla verifica fiscale, e sia sfociata nella condanna dei ricorrenti a distanza di più di otto anni dal momento in cui l’amministrazione tributaria aveva per la prima volta denunciato i fatti alla polizia (§ 53).

5. Quanto poi alla connessione “temporale” tra i due procedimenti, la Corte osserva come essi si siano dispiegati in un arco temporale di oltre nove anni, durante i quali le attività compiute in parallelo furono estremamente ridotte: i ricorrenti furono interrogati per la prima volta dalla polizia nel 2006; ma già nel 2007 il procedimento amministrativo nei loro confronti si era chiuso, mediante la conferma delle sanzioni amministrative divenute poi definitive all’inizio del 2008; solo successivamente, nel dicembre 2008, essi furono rinviati a giudizio, per essere infine condannati in via definitiva cinque anni più tardi dalla Corte Suprema.

Una situazione questa, sottolineano i giudici europei, molto diversa da quella esaminata dalla Grande Camera in A e B, in cui la lunghezza totale dei due procedimenti era stata pari a circa cinque anni, e i procedimenti penali erano continuati soltanto per due anni dopo che la sanzione tributaria era diventata definitiva (§ 54).

6. La Corte conclude, dunque, che – avuto riguardo in particolare alla limitata sovrapposizione nel tempo dei due procedimenti, e alla circostanza che la raccolta e la valutazione delle prove nei procedimenti medesimi era stata largamente indipendente – non possa essere ravvisata nella specie quella connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta necessaria per rendere la presenza di un doppio binario sanzionatorio compatibile con il diritto al ne bis in idem (§ 55); e che, pertanto, i ricorrenti abbiano sofferto un pregiudizio sproporzionato per essere stati processati e puniti per la medesima condotta da autorità diverse, in due diversi procedimenti che difettavano della necessaria connessione (§ 56).

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7. Dunque: nessuna novità, in diritto, rispetto ai principi enunciati in A e B; i criteri per la valutazione restano quelli enunciati dalla Grande Camera, miranti in particolare a stabilire se i due procedimenti sanzionatori possano definirsi sufficientemente connessi.

Ciò che disorienta l’osservatore è tuttavia che la valutazione sulla connessione sia compiuta qui dalla Corte sulla base esclusiva dello svolgersi concreto dei due procedimenti, e in particolare delle loro scansioni temporali, senza alcun riferimento da parte della Corte – quanto meno nella parte motiva sulla sussistenza della violazione – al quadro normativo che regola i procedimenti medesimi e le loro eventuali connessioni. Il dato che determina la decisione della Corte pare essere qui esclusivamente il fatto che i due procedimenti abbiano avuto in concreto uno svolgimento parallelo per un lasso di tempo molto limitato, e che il processo penale si sia protratto per circa cinque anni dopo la conclusione del procedimento amministrativo.

Un simileitinerario argomentativo, all’evidenza, non aiuta granché i giudici nazionali a comprendere se le situazioni di doppio binario presenti in un po’ tutti gli ordinamenti siano o meno compatibili in linea di principio con il diritto al ne bis in idem, a meno di non pensare che la soluzione al quesito debba risultare volta a volta diversa in relazione alla maggiore o minore celerità dei procedimenti (amministrativo e penale) celebrati nei confronti di un unico interessato per la medesima violazione. Ciò che trasformerebbe però la garanzia del ne bis in idem in un improprio rimedio contro l’eccessiva durata del procedimento che ‘sopravvive’ alla definizione del primo.

V’è dunque da sperare che la Corte possa fornire in futuro indicazioni un po’ meno generiche e casuistiche, sì da consentire agli Stati – tra cui l’Italia – di approntare eventualmente misure correttive a livello normativo per assicurare il rispetto, nel proprio ordinamento, dell’art. 4 Prot. 7 Cedu.

8. Indicazioni importanti dovrebbero, peraltro, presto provenire dalla Corte di giustizia UE, che dovrà rispondere a tre questioni pregiudiziali ancora pendenti formulate da vari giudici italiani sui regimi di doppio binario in materia di violazioni tributarie e di abusi di mercato (in cause Menci, proveniente dal tribunale di Bergamo, Garlsson e Di Puma, queste ultime provenienti dalla seconda sezione civile della Cassazione): questioni che sono state nel frattempo riunite in un unico procedimento, che verrà discusso – alla luce della sentenza A e B c. Norvegia – proprio questa settimana a Lussemburgo

 

 

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