L’illiceità del provvedimento

L’illiceità del provvedimento

Il provvedimento, invece, non è soggetto, in quanto tale, a una valutazione di liceità: l'illiceità, infatti, deriva dalla violazione di norme impositive di doveri e non di norme attributive di poteri. Peraltro, l'emanazione (o la mancata emanazione) di un provvedimento può costituire un illecito e dare luogo a responsabilità civile dell'amministrazione nei confronti del danneggiato, ma ciò non attiene al regime giuridico del provvedimento, quanto a quello della responsabilità. Il fatto illecito è fonte costitutiva di obbligazione (nuova), rientra tra le cause di obbligazione. Ai sensi dell’art.1173 c.c. sono fonti delle obbligazioni, il contratto e il fatto illecito.
Nel precedente sistema (rispetto alla giurisdizione per blocchi di materie) la cognizione dei diritti patrimoniali consequenziali all’annullamento, era devoluta al giudice ordinario.

L’attribuzione della cognizione del risarcimento al giudice amministrativo (prima con DLgs.n. 80 del 1998 e poi con la L. n. 205 del 2000, transitando per il formante giurisprudenziale storico della sentenza n. 500 del 1999 della Cassazione sez. Un.), consente di superare la vecchia dicotomia secondo la quale al giudice amministrativo compete il solo annullamento, mentre al giudice ordinario spettano residualmente tutte le pretese diverse dall’annullamento.
L’azione di annullamento trova la sua causa petendi nell’affermazione della illegittimità dell’atto, mentre la richiesta di illecito la trova nell’affermata illiceità del fatto (di cu l’atto illegittimo costituisce un segmento).
Dalla sentenza della corte costituzionale n. 204 del 2004 trova conferma la tesi della c.d. giurisdizione piena, più che esclusiva del giudice amministrativo, in quanto munito della cognizione sulla pretesa risarcitoria, ma deve pur sempre impugnarsi l’atto nei termini di decadenza e nei termini di prescrizione l’azione di risarcimento deve essere iniziata .

In mertio alla differenza di natura e di ratio degli istituti della decadenza e della prescrizione, la prima, nella specie di sessanta giorni dalla conoscenza dell’atto da impugnare, a salvaguardia della impugnabilità e del rispetto della regola della perentorietà dei termini, e la seconda, quinquennale in caso di fatto illecito (art. 2947 c.c.) a garanzia della certezza dei rapporti giuridici e diretta all’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto. Anche la decadenza risponde alla logica di garantire la certezza dei rapporti giuridici, ma essa di solito si differenza dalla prescrizione per la maggiore brevità dei termini, perché puo’ avere le piu’ svariate finalità, anche di tipo superiore, nel quale è sottratta alla disponibilità delle parti (art. 2969 c.c.). La decadenza pubblicistica ha la finalità superiore di garantire la legittimità dell’agire amministrativo, la certezza dei rapporti giuridici, il rispetto della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, il rispetto dell’esigenza di continuità dell’azione amministrativa, e infine di consentire alla pubblica amministrazione fallace di restaurare il privato leso anche nel rispetto dell’interesse pubblico che vuole agire legittimamente. In presenza dell’interesse pubblico alla legittimità, o alla certezza dei rapporti giuridici di tipo amministrativo, non sembri assurda l’imposizione dell’onere a carico del privato che si ritiene leso di agire nel termine di decadenza.

I principi complessivamente enunciati dalla Corte costituzionale hanno delineato un sistema di riparto nel quale la giurisdizione del G.A. - sia in sede di legittimità sia (in particolare) in sede esclusiva - risulta strettamente connessa alla veste autoritativa assunta dalla P.A.. 
Tale veste è facilmente identificabile allorquando la P.A. esplichi la sua attività attraverso atti e provvedimenti formali; più problematica è invece l'identificazione della veste autoritativa allorquando l'attività amministrativa si esplichi attraverso comportamenti: in tale ipotesi “deve ritenersi conforme alla Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G.A. delle controversie relative a comportamenti collegati all'esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere” (c.d. comportamenti amministrativi); mentre “deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di comportamenti posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto” (c.d. comportamenti meri) .


La giurisdizione esclusiva del G.A. alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale (di Vincenza Raganato, in httpss://www.iusexplorer.it/Publica/FascicoloDossier/La_giurisdizione_esclusiva_del_G_A__alla_luce_della_giurisprudenza_della_Corte_Costituzionale/). la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 33 del D. Lgs. n. 80/1998, non solo per il riferimento ad una materia - quella dei servizi pubblici - dai confini estremamente opachi, ma anche per il riferimento indistinto a “tutte le controversie” ricadenti in tale settore, atteso che tale previsione è totalmente svincolata dalla natura delle posizioni giuridiche coinvolte, facendo rientrare nell'ambito della giurisdizione esclusiva del G.A. controversie in cui non vi è alcun inestricabile legame con posizioni di interessi legittimo e nelle quali, quindi, la P.A. non agisce in alcun modo in veste di Autorità. 
Le argomentazioni contenute nella sentenza analizzata sono state poi riprese dalla stessa Consulta nella sentenza n. 191/2006, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, co. 1, del D.P.R. n. 327/2001 nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie in materia di espropriazioni anche relativamente ai “comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparate”, non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediamente, all'esercizio di un pubblico potere.

 

L'ampliamento delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva che il legislatore ordinario ha realizzato nel biennio 1998-2000, con l'attribuzione al G.A. di un sindacato esteso anche ai diritti soggettivi nell'ambito dei servizi pubblici, dell'urbanistica e dell'edilizia, aveva inizialmente fatto pensare ad un sistema di riparto della giurisdizione tra G.O. e G.A. fondato sui “blocchi di materie”. Si diceva, in sostanza, che per ragioni di semplificazione e concentrazione di giurisdizione, il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, potesse attribuire alla giurisdizione esclusiva del G.A. intere materie, indipendentemente dal tipo di situazione giuridica soggettiva coinvolta, così superando il tradizionale criterio di riparto fondato sulla causa petendi e la visione della giurisdizione esclusiva quale criterio eccezionale di riparto.

A tale concezione estensiva del modello di giurisdizione esclusiva ha posto un limite la Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004 che, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale degli artt. 33 e 34 del D. Lgs. n. 80/1998, ha ribadito il ruolo primario del criterio di riparto fondato sulla consistenza delle posizioni giuridiche azionate in giudizio, individuando l'esistenza di determinati limiti costituzionali alla discrezionalità del legislatore nell'individuazione delle materie oggetto di giurisdizione esclusiva. Detti limiti, a giudizio della Corte, sono da rinvenire nel concetto di “particolari materie” di cui all'art. 103, co. 1, Cost.: in sostanza, questa norma, nello stabilire che le materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A. devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità, intende affermare che esse devono partecipare alla loro medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la P.A. agisca come Autorità. Queste particolari materie, dunque, si debbono caratterizzare per la compresenza di interessi legittimi e diritti soggettivi strettamente connessi tra loro, ossia, a voler riprendere esplicitamente quanto detto dalla Corte, per “la inscindibilità delle questioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo, e per la

prevalenza delle prime”.  In tal senso, la Corte costituzionale, rimarcando come il criterio principale fondato sulla causa petendi sia tutt'altro che superato, ha rammentato che il legislatore ben potrebbe ampliare l'area della giurisdizione esclusiva, ma a condizione che ciò avvenga “con riguardo a materie (in tal senso particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità”. 
Da ciò consegue che sia la mera partecipazione della P.A. al giudizio, sia il generico coinvolgimento nella controversia di un interesse pubblico non siano sufficienti a radicare la giurisdizione esclusiva del G.A., che resta comunque strettamente collegata con l'esercizio del potere pubblico. 


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