BUONA FEDE

 

INTRODUZIONE

La “buona fede” è un istituto che appare diverse volte nel codice, pur designando istituti che rispondono a ratio profondamente diverse.

L’autonomia e la libertà contrattuale che permea il nostro sistema non svincola i contraenti dall’osservanza del dovere di correttezza(1175 cc) e del principio di buona fede oggettiva che informa tanto l’interpretazione del contratto (1366 cc) quanto l’esecuzione dello stesso (1375 cc).
Ciò è quanto emerge dalla decisione adottata dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza 3775/94 con la quale i giudici sottolineano come il ruolo della buona fede in senso oggettivo concorra a creare la regola iuris del caso concreto in forza del valore cogente che le norme le assegnano.
La buona fede è quindi un principio cardine dell’ordinamento che concorre al rispetto del dovere costituzionale di solidarietà (art. 2 cost.). Si può affermare come con questa sentenza i giudici abbiano fatto un primo passo verso l’enunciazione di un più concreto principio che verrà compiutamente acclarato in una sentenza della medesima corte pubblicata il 24 settembre 1999.
Nella stessa, la corte di legittimità in materia di riducibilità ex officio della clausola penale riprende quanto precedentemente sancito nel 1994 e, mutando un suo precedente e consolidato orientamento sul punto stabilisce che il giudice possa diminuire equamente la penale laddove la ritenga manifestamente eccessiva indipendentemente dall’istanza di parte.
Questa pronuncia tiene conto del ruolo della buona fede come aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata. Tale controllo implica un bilanciamento fra due valori tutelati a livello costituzionale: da un lato l’iniziativa economica privata che si esprime attraverso lo strumento contrattuale dall’altro il dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi.
La sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
La buona fede serve, in sostanza, a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.

A tal fine occorre distinguere in primis tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva.

La prima (BUONA FEDE SOGGETTIVA) è definita quale stato di coscienza che esclude la malafede; applicazioni se ne possono vedere in tema di apparentia iuris come nel caso di ignoranza di ledere l’altrui diritto.

La seconda (BUONA FEDE OGGETTIVA) , invece, viene intesa quale regola di condotta tra le parti del contratto, capace di avvolgere tutte le fasi di esso; è canone generale di condotta (art 1175) che opera sia nella fase precontrattuale (art 1337) che in quella esecutiva (art 1375).

Inizialmente la buona fede non era una nozione valorizzata: si pensava che le fonti di integrazione del contratto fossero solo quelle enunciate dall’art. 1374 cc, (legge, usi ed equità), mentre l’art. 1375 c.c. rilevasse esclusivamente nella fase dell’esecuzione la quale doveva avvenire secondo buona fede.

Questa idea è venuta meno negli anni successivi, che hanno portato a una lunga evoluzione del concetto di buona fede, valorizzandone l’importanza fino a giungere alle più recenti pronunce giurisprudenziale. In un primo momento, la buona fede venne intesa come mero strumento di integrazione suppletiva del contratto sennonché questo modo di intenderla si svelò certamente riduttivo.

All’integrazione del contratto il codice civile vigente dedica il solo articolo 1374 c.c., che non ne dà una definizione, ma si limita ad indicarne la funzione. Ai sensi del suddetto articolo, il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o in mancanza secondo gli usi e l’equità.

Uno dei punti cruciali cui è bene fare riferimento attiene all’ambito di operatività della predetta norma e, in particolare, alla corretta attribuzione dell’integrazione al contenuto del contratto ovvero ai suoi effetti.

Una prima tesi è infatti proprio quella che limita l’operatività della norma al solo ambito degli effetti e trova il suo fondamento nella collocazione sistematica dell’art. 1374; infatti mentre il titolo secondo del libro quarto del codice civile disciplina il contenuto del contratto, il capo quinto, in cui tale norma è inserita, si occupa specificamente dei suoi effetti. In senso opposto, si sostiene che la collocazione sistematica scelta dal legislatore non è vincolante. Secondo tale posizione dottrinale l’art. 1374 c.c. costituirebbe il dato normativo in cui il legislatore indica le fonti regolamentari del contratto, ricomprendendo in tale espressione, largamente intesa, sia i precetti assoggettati al consenso delle parti, sia quelli stabiliti dalla legge e dalle altre fonti eteronome, con la conseguenza che le varie vicende convergono in una realtà unitaria in cui il contenuto e gli effetti del contratto non possono scindersi. Le clausole integrative sarebbero, quindi pattuizioni contrattuali, come tali esposte ai normali rimedi in tema di inadempimento e comunque previsti a tutela del contratto; conseguentemente l’inadempimento dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede in senso oggettivo darebbe luogo a responsabilità contrattuale, ancorchè la fonte di tale obbligazione sia legale.

In secondo luogo si può affermare che, pur dovendo conoscere carattere di tassatività all’elencazione nell’art. 1374 c.c., questo non esclude la possibilità di individuare altre norme di legge, contenenti ulteriori indicazioni relative all’integrazione, tra le quali certamente l’art. 1375 c.c. il quale prevede che il contratto debba essere eseguito secondo buona fede.

Appare poi particolarmente critica la relazione tra la regola di buona fede e il regime stabilito dagli stessi contraenti nella convenzione. Per cui si tratta di definire i termini di compatibilità tra il rispetto dell’autonomia contrattuale, la salvaguardia delle aspettative di ciascuna delle parti all’attuazione del programma negoziale dalle stesse definito, da un lato, e, dall’altro, l’intervento regolamentare del giudice fondato sulla buona fede, il quale pare destinato ad assolvere una funzione genuinamente determinativa; si tratta quindi di indagare circa la compatibilità tra le regole convenzionali e quelle costruibili dal giudice alla stregua della buona fede. L’interrelazione così stabilita tra le predette norme ( art. 1374 e 1375 c.c.) non implica, però, che l’integrazione del contratto alla stregua della buona fede sia assimilabile all’integrazione mediante puntuali previsioni normative, tenuto conto che la natura di clausola generale della buona fede e il ruolo svolto dal giudice implicano innegabilmente peculiari modalità di attuazione del precetto, dando luogo ad “un’operazione integrativa giudiziale”, fondata sulla legge e comunque orientata da criteri desumibili dal contesto normativo al quale la clausola inerisce. Tale interpretazione consente di archiviare anche tutte le discussioni sorte sull’”infelice” formulazione dell’art. 1374 c.c. che letteralmente non include tra le fonti di integrazione del contratto la buona fede, inserita nell’articolo successivo relativo alla fase esecutiva del contratto. In realtà l’orientamento più risalente, prevalente fino agli anni ‘80, basandosi sul dato normativo, negava alla buona fede la natura di fonte di integrazione nel contratto e ne limitava l’operatività alla fase esecutiva come regola di valutazione a posteriori delle condotte dei contraenti; si riteneva, quindi, che la buona fede intervenisse in un momento successivo a quello dell’individuazione del contenuto del contratto. In seguito è stata superata la concezione che separava nettamente l’integrazione dall’esecuzione del contratto e si è diffuso l’indirizzo che riconosce alla buona fede oggettiva il ruolo di fonte di integrazione del contratto che, raccordato direttamente con il principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., costituisce una clausola generale cui le parti del contratto devono attenersi. Trattasi, quindi, di clausola generale che, a differenza delle altre fonti di integrazione previste dall’art. 1374 cod. civ., é uno strumento di portata molto più ampia proprio nella misura in cui il carattere indeterminato del precetto consente al giudice notevoli margini di azione per adeguare le pattuizioni contrattuali in modo da individuare in concreto i comportamenti esigibili in base ai canoni di lealtà e salvaguardia. Tale clausola si sostanzia, in particolare, nel generale dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e si pone come limite di ogni situazione negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto.

In un’ottica ancor più ampia, nella buona fede é stato ravvisato, oltre che un criterio di integrazione del contratto, anche un limite generale all’esercizio dell’autonomia privata, e, quindi, uno strumento di controllo della ragionevolezza e dell’equilibrio del contenuto contrattuale. Si é quindi sostenuto da parte di alcuni che la violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede, nel caso in cui si risolva nell’imposizione da parte di un contraente, a danno dell’altro, di un contenuto visibilmente squilibrato, in contrasto con il dovere di solidarietà sociale di cui la buona fede è espressione potrebbe comportare, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., la nullità del contratto o di singole sue clausole.

La dottrina prevalente ritiene sussistente una sostanziale identità concettuale tra il principio di correttezza di cui all’art. 1175 e quello di buona fede oggettiva di cui all’art. 1375, che si distingue dalla buona fede in senso soggettivo, quale fatto psicologico definito dall’articolo 1145 come ignoranza di ledere il diritto altrui. Possiamo dire che il criterio di correttezza si specifica in due direzioni: “come criterio idoneo a consentire la formazione di una norma contrattuale tale da rendere possibile la realizzazione completa dell’operazione economica perseguita dalle parti; come criterio che, compatibilmente con il tipo di interessi perseguito dalle parti, consente la formazione di una norma contrattuale adeguata alle finalità di ordine sociale perseguite dall’ordinamento”.

Infatti, superata questa fase, la buona fede ha acquisito un valore cogente quale appunto regola precettiva e quindi come fonte dei c.d. obblighi di protezione. Tali obblighi possono essere definiti come quelli il cui contenuto va individuato nel generale dovere di salvaguardare la sfera giuridica dei soggetti con i quali venga instaurato un rapporto, in modo tale da evitare che dal proprio comportamento derivi un pregiudizio per questi ultimi. In definitiva si può quindi affermare che il principio di buona fede assume il ruolo di simbolo del nuovo volto del contratto nella società moderna e va considerato come regola di responsabilità del singolo contraente e di governo del rapporto, il cui contenuto deve indurre a optare per l’equilibrio contrattuale.

Buona fede come clausola aperta e generale: sviluppi


La correttezza e la buona fede sono espressione del medesimo principio
per il quale nell’ambito delle obbligazioni e dei contratti sulle parti incombe il dovere di solidarietà sociale, in quanto le parti stesse appartengono ad una comunità. L’art. 1175 c.c. prevede che il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza nello svolgimento del rapporto obbligatorio. La norma rappresenta una clausola aperta e generale del sistema ed e` ribadita da diverse previsioni normative che ne costituiscono diretta applicazione: in relazione alle trattative (art. 1337 c.c.), all’interpretazione (art. 1366 c.c.) ed all’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), con riferimento ad un ambito che copre sia la fase statica, quanto la fase dinamica del rapporto obbligatorio.

La buona fede contrattuale può quindi considerarsi come una species del più generale concetto di correttezza.

La buona fede impone al giudice il compito di predeterminare la regola dalla quale valutare il comportamento in concreto tenuto. In questo il giudice dovrà attenersi non al proprio personale senso di correttezza, bensì attingere alle caratteristiche del settore economico in cui l’affare si svolge. Risulta evidente , dunque, la natura elastica della regola che permette di considerare diversamente la buona fede a seconda dei protagonisti del rapporto e delle circostanze oggettive connaturate al rapporto privatistico. In presenza di una clausola generale e` determinante l’analisi del modo di produzione della regula iuris, risultando essenziali gli elementi che vengono utilizzati per formarla ed il sistema di valori di cui si fa portavoce il processo creativo. Una volta assodato che entrambi i concetti (buona fede e correttezza) vanno letti alla stregua di clausole generali, la loro applicazione presuppone il vaglio comparativo di interessi contrapposti: la posizione dei soggetti del rapporto obbligatorio non può infatti prescindere da una completa valutazione dell’economia dell’affare, compresa quindi la posizione della controparte. Con questa clausola il giudice può sindacare l’operato dei contraenti, anche se in apparenza questo si pone come corretta esecuzione del regolato fra loro. Il principio costituzionale di solidarietà, di cui la buona fede e` specificazione, si pone come valore nel sistema dei rapporti umani ed anche in quello dei rapporti patrimoniali, sicché l’intero sistema delle relazioni deve essere governato dalla lealtà dei soggetti interessati; la solidarietà si può allora considerare una regola di chiusura nella misura in cui garantisce da un lato la realizzazione completa dell’operazione economica perseguita dalle parti e dall’altro l’allineamento del regolamento contrattuale alle finalità d’ordine sociale perseguite dall’ordinamento. Debitore e creditore sono allora accomunati da disposizioni di carattere generale che impongono loro di comportarsi secondo le regole della correttezza e della buona fede, specificandosi nell’obbligo di salvaguardia che impone ad entrambe le parti di salvaguardare l’utilità della controparte nei limiti di un apprezzabile sacrificio. La buona fede concerne quindi non solo i comportamenti tenuti dal debitore, ma anche quelli ascrivibili al creditore. D’altronde, dalla lettura dell’art. 1175 c.c., il quale predica la correttezza di entrambe le parti nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, già si evince tale caratteristica ; la buona fede integra dunque il contratto non solo nel senso di imporre al debitore prestazioni e doveri di protezione ulteriori e anche nell’interesse di terzi, ma anche nel senso di coinvolgere il creditore alla luce del fascio di obbligazioni connaturato alla complessità del rapporto obbligatorio. Ci si rende conto, dunque, del fatto che un rapporto obbligatorio non e` mai semplice in quanto, in base alla buona fede integrativa, ha un’anima necessariamente bilaterale, con il precipitato che, anche se gli obblighi prestazionali incombono solo su di una parte (come nel caso citato dell’art. 1333 c.c.), gli obblighi di correttezza comportamentale si riferiscono sempre ad entrambe le parti; il principio solidaristico costituzionale, letto anche alla luce del richiamo alla solidarietà contenuto nella Carta Europea dei diritti fondamentali, richiede infatti che anche il creditore, nei limiti di un sacrificio che non sia eccessivo, non può attendere passivamente la prestazione ma deve tenere comportamenti anche attivi tesi a facilitarla evitando l’inadempimento nonché ove pure inadempimento colpevole ci sia stato, ad evitare o a limitare, in base al comma 2 dell’art. 1227 c.c., il perimetro del danno risarcibile. Un’applicazione della natura bilaterale del rapporto obbligatorio concerne la nota questione se un creditore di un’obbligazione pecuniaria possa rifiutarsi di ricevere in sostituzione del denaro, oggetto dell’obbligazione pecuniaria ex art. 1277 c.c., un assegno circolare. La giurisprudenza più sensibile ha affermato che il principio di buona fede consente di reputare equipollente la consegna dell’assegno circolare a quella della somma di denaro, considerando che, aldilà del dato formalistico, sulla base dei presupposti normativi sopra evidenziati, ciò che rileva è l’assoluta sicurezza del realizzo del credito che l’assegno circolare garantisce; a ciò va aggiunto che ovviamente la consegna dell’assegno in sostituzione del denaro si intende sempre pro solvendo e quindi l’estinzione dell’obbligazione avviene con il realizzo, ovvero con l’incasso in senso favorevole, e non con la consegna dell’assegno circolare. Quindi la sicurezza del mezzo di pagamento e` rafforzata dalla circostanza che l’obbligazione pecuniaria si estingue non all’atto della ricezione, ma all’atto del saldo e quindi del soddisfo reale del credito. Si considera , dunque, contrario a buona fede il comportamento del creditore che rifiuti l’assegno circolare e che più in generale non tiene quei comportamenti collaborativi che servono a facilitare la liberazione del debitore senza mettere significativamente a rischio la propria sfera di interesse. Al riguardo si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 26617/2007), evidenziando che l’art. 1277 c.c. non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale e la necessità che i mezzi monetari impiegati si riferiscano ad esso. Da ciò ne discende che la moneta avente corso legale non è l’oggetto del pagamento, bensì il valore, il quantum debeatur, e che risultano ammissibili altri mezzi di pagamento, sempre che questi garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento in contanti. A differenza dell’assegno bancario, l’assegno di traenza risulta essere infatti connotato dalla precostituzione della provvista presso la banca, assicurando pertanto la disponibilità della somma dovuta. La dottrina prevalente (Bianca, Betti, Di Majo, Breccia) individuando una funzione integrativa della buona fede destinata ad incidere sul contenuto del rapporto obbligatorio quale fenomeno giuridico caratterizzato da una struttura complessa, la considera conseguentemente fonte di doveri ulteriori che vincolano le parti ancorché non risultino dal titolo del rapporto obbligatorio. Questa qualificazione e` stata accolta anche dalla giurisprudenza maggioritaria,la quale ha sfruttato la versatilità della clausola generale per temperare le interpretazioni eccessivamente rigide della disciplina positiva. Ai fini di un riordino della classificazione degli obblighi riconducibili alla buona fede parte della dottrina ha adottato uno schema di studio proteso ad enucleare delle macrocategorie in cui incasellare una serie di condotte, più o meno articolate, conformi o contrarie alla buona fede.

Sulla base di uno degli schemi più noti ed autorevoli si possono individuare alcune specifiche categorie di obblighi di buona fede:
a) la parte può essere tenuta ad eseguire prestazioni non previste da ciò che è stato regolato esplicitamente ai fini della salvaguardia della utilità altrui;
b) la parte può essere tenuta a modificare il proprio comportamento in sede di esecuzione;
c) il creditore deve tollerare il ricevimento di una prestazione non esattamente conforme a quella pattuita se non sia compromessa l’utilità sostanziale della stessa;
d) in sede di attuazione del rapporto obbligatorio, vi sono doveri di avviso e di informazione che il creditore è tenuto ad osservare nell’interesse proprio ed anche del debitore;
e) la parte e` tenuta ad un corretto esercizio dei poteri discrezionali dei quali dispone in fase di esecuzione della prestazione.


La prima categoria concerne l’esecuzione di prestazioni non previste. Tale obbligo si sostanzia nel compimento di atti che risultino utili per salvaguardare le ragioni e l’utilità della controparte e che non comportino per chi li pone in essere un apprezzabile sacrificio economico. In questa categoria sembrano sussumibili anche i c.d. « obblighi di protezione », ovvero quegli obblighi aggiuntivi che sono finalizzati a garantire la sfera personale della controparte ed a prevenire quei danni che possono verificarsi nello svolgimento del rapporto obbligatorio originario( si pensi all’obbligo della banca di assicurare la salvaguardia e l’incolumità psico-fisica dei dipendenti in caso di rapina). C’è chi ritiene però che la tutela delle reciproche ragioni delle parti sia riconducibile alla diligenza o comunque ad una corretta interpretazione del contenuto dell’operazione economica perseguita dalle parti con l’atto negoziale, piuttosto che al canone della buona fede-correttezza. Nonostante le critiche esposte, in seno a questa specificazione della buona fede è emersa tuttavia l’ulteriore vis expansiva capace di attribuire agli obblighi di protezione la cura persino di interessi di soggetti terzi rispetto al contratto( si pensi al contratto stipulato con il medico della donna in stato di gravidanza: : questo contratto è con effetti protettivi per il terzo, in quanto gli obblighi terapeutici sono finalizzati non solo alla protezione della sfera della controparte, cioè della donna in attesa, ma anche nei confronti del nascituro che verrà alla luce per effetto della corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali.

La seconda categoria di obblighi di buona fede concerne la possibilità di modificare le prestazioni o le modalità di esercizio di diritti, allorquando l’adempimento dell’obbligo o l’esercizio del diritto rigorosamente conforme alle previsioni legali o pattizie arrechi un nocumento alle altrui ragioni senza recare vantaggio alla parte, oppure quando detta modifica arrechi un vantaggio alla controparte senza corrispondenti svantaggi per chi la attua (in tema di contratti di telefonia non si può attendere la fine del periodo di fatturazione per avvisare l’utente dell’andamento anomalo del rapporto sì da pretendere il pagamento dell’intera bolletta, ma, più correttamente, inviare anticipatamente la bolletta telefonica con gli effettivi consumi o in alternativa sospendere precauzionalmente il servizio.

Terza categoria di obblighi nascenti dalla buona fede è costituita dalla tolleranza delle modifiche della prestazione di controparte ove non sia compromessa l’utilità sostanziale del contratto. Si consideri il caso di un pagamento a mezzo assegno o vaglia postale e non in contanti quando tale prassi sia già stata seguita in precedenza dal debitore ed accettata dal creditore. Con riferimento a questa ipotesi si deve rilevare più in generale che il creditore non e` obbligato ad essere tollerante, ma che la sua intolleranza può diventare una causa di inesigibilità della sua pretesa, specialmente dopo che, per lungo tempo abbia consentito all’altra parte di comportarsi in modo difforme dal regolato.

La quarta categoria concerne i doveri di avviso e di informazione della controparte in ordine a quelle circostanze che sono rilevanti per l’esecuzione del contratto. L’obbligo di comunicare informazioni ha una valenza specifica nel caso in cui il debitore necessiti di direttive per adempiere l’obbligazione: si pensi ai contratti di appalto, ove tenuto conto delle circostanze e dell’interesse del creditore alla prestazione, la buona fede consente di evitare che il committente che si sia disinteressato completamente dei progressi dei lavori possa al termine degli stessi contestare l’opera eseguita, sebbene formalmente non potrebbe essergli rimproverato alcunché. Un altro specifico obbligo di informazione è stato ravvisato in capo al medico per ottenere il c.d. « consenso informato » all’intervento chirurgico: il paziente deve essere edotto sul tipo di trattamento, sulle probabilità di successo, sui rischi, sull’entità della sofferenza e sulle conseguenze dell’intervento ragionevolmente prevedibili. Gli obblighi di avviso e di informazione possono quindi assumere rilievo come doveri di prestazione e come doveri di protezione. La buona fede diviene lo strumento per attribuire all’obbligo di informazione un rilievo autonomo, laddove questo non sia espressamente previsto. Lo sviluppo della legislazione degli anni Novanta, sotto la spinta della disciplina di derivazione comunitaria, ha reso obbligatori doveri informativi che in precedenza potevano essere ricondotti soltanto al dovere di buona fede dei contraenti (si pensi alla negoziazione di prodotti finanziari, alla trasparenza bancaria, ai contratti dei consumatori, alla legge sulla privacy). In questa prospettiva il diritto all’informazione trova terreno fertile in tutte quelle ipotesi di c.d. asimmetria contrattuale in cui versa il contraente debole

 

 

L’ultima fase dell’evoluzione del principio di buona fede è quella nella quale ci si è interrogati circa la possibilità che la stessa assurga a regola di validità del contratto, la cui violazione avrebbe comportato la nullità del contratto.

 

L’impostazione tradizionale era nel senso di escludere che la buona fede potesse essere considerata una regola di validità. A tal fine, le Sezioni Unite hanno chiaramente affermato il principio della sostanziale differenza tra norme di validità e norme di comportamento, queste ultime idonee a integrare solo il risarcimento del danno e mai la nullità del contratto (Cfr. Sez. U n. 19 dicembre 2007, n. 26725).

A questa tesi, si opponeva parte della dottrina che riteneva di dover considerare la buona fede come strumento di controllo dell’autonomia contrattuale e quindi di sindacato sulla conformità del contratto al principio in esame. Aderendo a questa concezione, la violazione della buona fede avrebbe comportato la nullità virtuale della stipulazione ex art. 1418 c.c. per violazione della norma imperativa che impone condotte corrette tra le parti. Tuttavia, secondo la Corte, questo fenomeno di trascinamento delle regole di comportamento nelle regole di validità va arrestato: è una mera tendenza non un’acquisizione. Infatti, le regole di validità ci sono sull’atto e non sul rapporto mentre le regole di comportamento attengono al sinallagma (intervengono proprio sul rapporto). Le regole di buona fede, dunque, sono troppo immancabilmente legate alle circostanze del caso concreto per poter assurgere a requisiti di validità; validità che va invece verificata secondo regole predefinite (ex ante).

Il ruolo del giudice.

Parte della dottrina afferma che il contenuto del rapporto contrattuale è il risultato di un concorso di fonti diverse, delle quali la determinazione volitiva delle parti è una soltanto. I principi costituzionali, ed in particolare l’art 2 Cost, impongono di considerare l’autonomia privata non più come un valore in sé, ma come uno strumento per perseguire interessi conformi a valori di fondo del nostro ordinamento. I principi di correttezza e buona fede intesi in senso costituzionalmente orientato consentono al giudice di intervenire sempre più incisivamente sul contratto, sindacando l’assetto degli interessi definito dai contraenti.

Con la sentenza 10511/99 in tema di riduzione d’ufficio della penale manifestamente eccessiva, la S.C. ha affermato che l’intervento modificativo del giudice sul contratto non deve essere considerato eccezionale, ma, anzi, un “semplice aspetto del normale controllo che l’ordinamento si è riservato sugli atti di autonomia privata”.

L’orientamento della giurisprudenza, che dalla sent 3775/94 ha riconosciuto pienamente alla buona fede il ruolo di integrazione del contenuto contrattuale, ha però sollevato delle obiezioni in dottrina: il timore è che l’indeterminatezza dello strumento integrativo messo a disposizione del giudice abbia risvolti negativi sulla neutralità ed obiettività del giudizio. A tutto ciò replica Morelli ( relatore consigliere della sent 10511/99), che precisa che nell'applicazione della clausola di buona fede il giudice segue “una partitura quasi a rima obbligata” e che egli nella realtà delle singole fattispecie contrattuali deve individuare un minimo di cooperazione e solidarietà per evitare lo sbilanciamento degli interessi in contatto. L’apprezzamento del giudice non muove dalla presupposizione di regole astratte di correttezza, ma investe la concreta considerazione dei singoli conflitti di interesse, ed è connesso alla interpretazione del contratto e alla ricostruzione dell’assetto economico del rapporto.

Con la sent. 180947/2005 nasce la prospettiva dell’uso della buona fede come criterio generale di valutazione della validità del contratto. È una prospettiva a cui parte della dottrina si oppone, sia in quanto comporterebbe il rischio di attribuire al giudice ampi poteri di valutazione e di trattamento degli interessi delle parti (che sono di prerogativa legislativa),sia perché si dilaterebbe il novero delle ipotesi di nullità, mettendo in crisi il principio di tassatività e introducendo gravi incertezze nelle contrattazioni stesse.

A ridimensionare il tutto intervengono le S.U. nel 2007,con 2 sentenze (26724 e 26725) che negano che la violazione di regole comportamentali possa determinare la nullità del contratto se ciò non è previsto esplicitamente dalla norma. In dottrina ci si chiede se nell’applicare la buona fede il giudice debba riferirsi a modelli corrispondenti a vedute correnti o se possa ricorrere a vedute più avanzate. Nel primo senso si orienta chi parte da posizioni più conservatrici e ritiene che il giudice debba rimettersi alle vedute accolte dalla maggioranza; nel secondo senso chi invece riconosce al diritto una funzione direttiva del comportamento sociale (che può essere assolta sia dal legislatore che dalla dottrina e dalla giurisprudenza) attuata contemperando il principio della autonomia privata con quelli della uguaglianza e solidarietà. La Cassazione stessa nella sent 15275/2007 ha espresso perplessità circa l’intervento del giudice sul regolamento contrattuale nel settore lavoristico, poiché un intervento sul contratto collettivo lo abiliterebbe a sostituirsi alle parti sociali e gli consentirebbe, in base alle sue personali valutazioni, di rompere l’equilibrio che esse avevano raggiunto. Si può ormai ritenere consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il criterio della buona fede è per il giudice uno strumento atto a controllare, modificare ed integrare lo statuto negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli interessi. Ciò è riconosciuto dalla stessa legislazione più recente che per esempio valorizza il ruolo attivo del giudice nella normativa in tema di diritti dei consumatori, ma su questa traiettoria si pongono anche i Principi del Diritto Europeo dei Contratti ed il progetto preliminare di Codice europeo dei contratti.

ABUSO DEL DIRITTO

Proprio facendo uso di questi principi la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, la Corte di Cassazione con sentenza 20106 del 2009 introduce la figura dell’abuso del diritto, criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva.

 

 

 

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