Corte conti Campania Par. n. 205  del 2014.

La cessione a titolo gratuito si deve presumere in linea di massima incompatibile con l’interesse pubblico, specie in assenza di una previa verifica della possibilità di alienazioni a titolo oneroso in cui il corrispettivo sia allineato con il reale valore patrimoniale del bene.

Ove l’attribuzione costituisca attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost, «l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo. A garanzia dell’utilitas publica, il sacrificio cui gli enti si espongono deve inserirsi in una logica commutativa, ovvero l’impoverimento deve essere compensato dalla realizzazione di un interesse ritenuto normativamente equivalente. Inoltre, occorre adottare la massima cautela sia sotto il profilo causale (mediante la verifica in concreto della sussistenza di significative circostanze soggettive e oggettive giustificative), sia sotto il profilo formale (adeguato percorso procedurale e motivazionale, nonché, adozione delle opportune formalità negoziali).

Per quanto attiene alla permuta, oltre al rispetto delle norme in materia di alienazioni, l'ente, onde evitare un surrettizio depauperamento del patrimonio pubblico, dovrà far precedere la stessa da un'adeguata stima degli immobili permutandi e da una rigorosa verifica della destinabilità dell'immobile sostitutivo alla pubblica utilità.

 

nelle camere di consiglio del 18 e del 25 settembre 2014

Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con il regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, e successive modificazioni;

Vista la legge 21 marzo 1953, n. 161;

Vista la legge 14 gennaio 1994, n. 20;
Vista la deliberazione delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 14 del 16 giugno 2000, che ha approvato il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, modificata con le deliberazioni delle Sezioni riunite n. 2 del 3 luglio 2003 e n. 1 del 17 dicembre 2004;

Visto il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUEL);

Vista la legge 5 giugno 2003, n. 131;

Vista la deliberazione n. 1/pareri/2004 del 3 novembre 2004 con la quale la Sezione ha stabilito i criteri sul procedimento e sulla formulazione dei pareri previsti dall’articolo 7, comma 8, della legge n. 131/2003;

Vista la nota n. 4126 del 30 luglio 2014, con la quale il Comune di Sessa Aurunca (CE) ha chiesto un parere a questa Sezione;

Vista l’ordinanza con la quale il Presidente ha convocato la Sezione per l’adunanza odierna per deliberare sulla prefata richiesta;

Udito il relatore, Francesco Sucameli.

OGGETTO DEL PARERE

Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco ha chiesto alla Sezione un parere in ordine alla conformità a diritto dell’operazione immobiliare come di seguito descritta.

Il Comune richiamato è titolare della proprietà della Chiesa dell'Annunziata, risalente al XV secolo, bene di notevole valenza artistico-architettonica nel circuito turistico-religioso e attiva sul piano delle funzioni di culto. Esso è inoltre il terzo per estensione territoriale dell'intera Regione Campania e sarebbe proprietario di cospicui altri beni immobili comunque bisognevoli di urgenti interventi. Conseguentemente urge un’efficiente ripartizione delle risorse finanziarie disponibili.

Nei mesi scorsi il legale rappresentante della Diocesi di Sessa Aurunca avrebbe chiesto di ottenere la cessione a titolo gratuito del prefato edificio di culto e di alcune sue pertinenze (immobile ex ECA) all'Ente Diocesi di Sessa Aurunca.

Detto immobile, secondo quanto riferito, non rappresenterebbe nell'attuale patrimonio disponibile un reddito fruttifero e, allo stato attuale, necessiterebbe di interventi di straordinaria ed ordinaria manutenzione atti a garantirne la piena fruibilità in condizioni ottimali.

In alternativa alla cessione a titolo gratuito, la Diocesi avrebbe proposto una permuta con «un bene di sua proprietà di notevole valore sociale per la collettività».

Le due alternative operazioni sarebbero prese in considerazione dall’Ente civico a causa delle restrizioni finanziarie legate alla Spending Review che legano la gestione del patrimonio a criteri di economicità ed efficienza.

L’Amministrazione, a mezzo del Sindaco pro tempore, chiede un parere sulla praticabilità dell’operazione secondo l’alternativa esposta.

PREMESSA

La funzione consultiva delle Sezioni regionali è inserita nel quadro delle competenze attribuite alla Corte dei conti dalla legge n. 131 del 2003 (recante la disciplina d’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).

Pertanto, la prima questione che si pone, riguardo al descritto quesito, è quella del rispetto delle condizioni di legge per accedere alla funzione consultiva della Corte. A tal fine si rammenta che ai sensi dell’art. 7, comma 8, della citata legge n. 131 del 2003, Regioni, Province e Comuni possono chiedere alle Sezioni regionali di norma tramite il Consiglio delle

autonomie locali, se istituito pareri in materia di contabilità pubblica, nonché ulteriori forme di collaborazione ai fini della regolare gestione finanziaria, dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.

AMMISSIBILITÀ SOGGETTIVA

Con particolare riguardo all’individuazione dell’organo legittimato a inoltrare le richieste di parere dei Comuni, si osserva che, per consolidata giurisprudenza, gli enti elencati dalla legge possono rivolgersi direttamente alla Corte in funzione consultiva, senza passare necessariamente dal Consiglio delle autonomie locali.

Poiché il sindaco è l’organo istituzionalmente legittimato a rappresentante l’ente, la richiesta di parere è proposta dall’organo legittimato a proporla ed è pertanto soggettivamente ammissibile.

AMMISSIBILITÀ OGGETTIVA

Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo di ammissibilità del quesito, in primo luogo occorre rammentare che la disposizione contenuta nell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003 deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.

Lo svolgimento delle funzioni è qualificato dallo stesso legislatore come una forma di controllo collaborativo.

Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma, rese esplicite, in particolare, con l’attribuzione agli enti della facoltà di chiedere pareri in materia di contabilità pubblica. In quest’ottica, appare chiaro che le Sezioni regionali della Corte dei conti non svolgono una funzione consultiva a carattere generale in favore degli enti locali, ma che anzi le attribuzioni consultive “in materia di contabilità pubblica” si ritagliano sulle funzioni sostanziali di controllo collaborativo ad esse conferite dalla legislazione positiva.

Secondo le Sezioni riunite della Corte dei conti – intervenute con una pronuncia in sede di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 17, comma 31 del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102 il concetto di contabilità pubblica deve essere incentrato sul “sistema di principi e di norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici” da intendersi in senso dinamico in relazione alle materie che incidono sulla gestione del bilancio e sui suoi equilibri (Deliberazione del 17 novembre 2010, n. 54).

Tuttavia, l’inerenza ad una materia di contabilità pubblica non esaurisce i presupposti di ammissibilità oggettiva di un quesito, presupposti che vanno ricavati, oltre che dalla lettera della legge, dalla natura della funzione consultiva. Essi vanno stabiliti in negativo, delineando il rapporto tra tale funzione e, da un lato, l’attività amministrativa, dall’altro, la funzione giurisdizionale civile, penale, amministrativa e contabile.

Rispetto all’attività amministrativa, questa Sezione, in più occasioni, ha riconosciuto che la funzione di cui al comma 8 dell’art. 7 della Legge n. 131/2003, è una facoltà conferita agli amministratori di Regioni ed enti locali per consentire loro di avvalersi, nello svolgimento delle funzioni loro intestate, di un organo neutrale e professionalmente qualificato, in grado di fornire gli elementi di valutazioni necessari ad assicurare la legalità della loro azione: è innegabile che i pareri e le altre forme di collaborazione si inseriscono nello svolgimento dei procedimenti degli enti territoriali consentendo, nelle tematiche in relazione alle quali la collaborazione viene esercitata, scelte adeguate e ponderate.

Peraltro, la stessa giurisprudenza contabile ha puntualmente rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l’organo di controllo esterno (cfr. ex multis SRC Lombardia, n. 36/2009/PAR). Quindi, i quesiti, oltre a riguardare una questione di contabilità pubblica, devono avere carattere generale ed essere astratti, cioè non direttamente funzionali all’adozione di specifici atti di gestione, che afferiscono alla sfera discrezionale della potestà amministrativa dell’ente.

In secondo luogo, oltre a non intervenire nell’attività amministrativa nei termini predetti, tale funzione consultiva non deve sovrapporsi con l’esercizio di altre funzioni di controllo della Corte, né tantomeno interferire con l’esercizio di funzioni giurisdizionali (in sede civile, penale, amministrativa o contabile).

Nel caso in esame, la richiesta di parere è inammissibile per quanto concerne i profili civilistici e l’analisi della concreta vicenda procedimentale, peraltro non esposta a questa Sezione; purtuttavia questa Corte la ritiene parzialmente ammissibile sotto il profilo oggettivo, esclusivamente nella misura in cui essa riguardi la disciplina contabile della gestione patrimoniale dei beni pubblici e i limiti finanziari alla discrezionalità negoziale, secondo i principi generali dell’ordinamento contabile.


MERITO
1. Come sopra riportato, l’istanza di parere concerne un bene immobile:

  • -  appartenente al patrimonio comunale;

  • -  che ha destinazione al culto

  • -  “di notevole valenza artistico-architettonica anche nel circuito turistico-religioso”.

La richiesta di parere verte, segnatamente, sulla percorribilità di due alternative opzioni di cessione di un immobile alla Diocesi locale, secondo una prima ipotesi a titolo gratuito, nel secondo caso, a titolo oneroso, attraverso una permuta.

In via preliminare, il Collegio rammenta che la funzione consultiva è diretta a fornire un ausilio all’Ente richiedente per le determinazioni che lo stesso è tenuto ad assumere nell’esercizio delle proprie funzioni, restando – dunque – ferma la discrezionalità e la correlativa responsabilità dell’Amministrazione in sede di esercizio delle proprie prerogative gestorie, la quale deve essere rigorosamente esercitata entro i limiti di legge.

Pertanto, dovendosi escludere qualunque valutazione circa la legittimità delle concrete opzioni gestionali prospettate dall'Ente, l'ambito della funzione consultiva va in questa sede limitata, senza pretesa di esaustività, al richiamo dei principi e dei più importanti dati normativi in materia di regime giuridico che caratterizza i beni del patrimonio pubblico consistenti in edifici destinati al culto pubblico (e relative pertinenze) di rilevanza storico, artistica e/o architettonica.

1.1. Come è noto, il regime dei beni pubblici risulta diversificato a seconda che i beni siano riconducibili al novero dei beni “demaniali” o del “patrimonio indisponibile” (beni pubblici strettamente intesi) ovvero a quello del patrimonio “disponibile”.

Tale regime di estende anche alle pertinenze (art. 817 c.c., cose destinate a servizio o ornamento della cosa principale, cui si estendono gli effetti di atti e rapporti della cosa principale, salvo sia diversamente disposto, art. 818 c.c.)

Invero, i beni destinati al culto pubblico cattolico, se appartenenti ad enti pubblici, hanno un regime giuridico del tutto simile a quello del patrimonio disponibile degli enti pubblici.

Segnatamente, occorre ricordare che le chiese, di norma, ricadono tra i beni destinati all’esercizio pubblico del culto ai sensi dell’art. 831 c.c. (a differenza di quelle a “culto privato”, chiesa regolarmente officiata, nella quale durante le ore in cui è aperta, chiunque può accedere, senza dover esibire o avere un particolare titolo di ammissione) beni che possono indifferentemente appartenere a privati e ad enti pubblici, e comunque soggetti ad un peculiare regime giuridico che di seguito si espone.

I beni destinati al culto, infatti, sono oggetto di una specifica disciplina legale, spesso – in attuazione degli artt. 7, 8 e 19 Cost. – di tipo consensuale o “concordataria” con le rispettive confessioni religiose.

Sul versante del diritto comune, il codice civile li inserisce tra i beni soggetti ad un particolare regime giuridico, in ragione dell’ente appartenenza e/o della loro funzione (Libro III, Titolo I, Capo II, artt. 822-331 c.c.).

Segnatamente, ai sensi dell’art. 831 c.c. «1. I beni degli enti ecclesiastici sono soggettialle norme del presente codice, in quanto non è diversamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano. 2. Gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano»

1.2. Tanto premesso, occorre evidenziare che il regime giuridico muta e diventa più rigoroso e restrittivo, tanto in termini di godimento che di alienabilità, nel caso in cui lo stesso bene destinato al culto, oltre ad appartenere ad un ente pubblico (elemento soggettivo), costituisca cosa d’interesse storico e/o artistico (elemento oggettivo).

La concorrenza di questi due elementi, determina la confluenza del bene nell’ambito del demanio accidentale, dello Stato o di altri enti pubblici (art. 822, comma 2°, art. 824, art. 830; art. 53 D.lgs n. 42/2004, cd. Codice dei beni culturali).

Come noto, i beni demaniali sono incommerciabili, inusucapibili, non assoggettabili ad esecuzione forzata e inespropriabili; pertanto non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 823 c.c.).

L'art. 829 c.c., inoltre, dispone che "il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall'Autorità amministrativa. Dell'atto deve essere dato annunzio nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica". Pertanto, la sdemanializzazione non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito da lungo tempo ad uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della Pubblica Amministrazione di sottrarre il bene a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino (cfr. Cass. Civ., sez. II, sentenza 30 agosto 2004, n. 17387; T.A.R. Abruzzo-Pescara, sentenza 17 ottobre 2005, n. 580), cfr. SRC Lombardia, n. 61/2013/PRSP).

Nel caso dei beni del demanio culturale, la sdemanializzazione passa attraverso specifiche procedure, disciplinate dal Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42/2004, che variano a seconda delle caratteristiche concrete del bene (art. 12 comma 5, art. 55).

1.3. In proposito, si rammenta che le modalità concrete di godimento e i limiti alla loro commerciabilità sono disciplinati dal Codice dei beni culturali.

Il Codice dei beni cultuali ha posto sotto la tutela dello Stato tutte le cose, mobili e immobili, aventi interesse artistico, storico, archeologico ed etnoantropogico (c.d. beni culturali, art. 10).

Tale tutela, infatti, sussiste anche quando le cose non appartengono ad enti pubblici e raggiunge la massima rigidità nel caso di confluenza nel demanio. Peraltro, il competente Ministro deve “concordare” l’emanazione di atti e/o provvedimenti amministrativi riguardanti beni culturali destinati al culto cattolico (art. 9 del Codice dei beni culturali che parla di “beni culturali di interesse religioso”; art. 12.1 Accordo di modificazione del Concordato lateranense firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121; art. 11 L. n. 241/90).

1.3.1. I beni culturali demaniali sono soggetti ad uno stretto regime sul piano delle alienazioni.

Alcuni di essi, aventi determinate caratteristiche sono dichiarati inalienabili (art. 54, comma 1). Segnatamente sono inalienabili in via assoluta: gli immobili e aree d’interesse archeologico; gli immobili riconosciuti monumenti nazionali; gli immobili appartenenti allo Stato o agli enti territoriali dichiarati d’interesse particolarmente importante per la testimonianza della storia.

Sono altresì inalienabili in via assoluta, sia pure a titolo provvisorio (art. 54, comma, comma 2, lett. a), i beni sottoposti alla procedura di verifica di “culturalità” ai sensi e per gli effetti degli artt. 12 e 13 del Codice (con iscrizione finale in appositi elenchi).
Segnatamente, per i beni immobili appartenenti agli enti pubblici territoriali con più di 50 anni di vetustà, fino all’esito della verifica dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico di cui all’art.12, comma 2, del ridetto Codice (in caso di esito negativo della procedura, è comunque necessaria un’apposita procedura di sdemanializzazione ai sensi dell’art. 12, comma 5, Dlgs. n. 42/2004 ) sussiste, infatti, una “presunzione di vincolo” assoluto.

Tutti gli altri beni, riconosciuti d’interesse culturale ma non ricadenti nel novero dell’art. 54, comma 1 del Codice, sono alienabili mediante negozi traslativi ovvero concessioni (art. 57- bis), solo su autorizzazione del Ministero/Soprintendenza (artt. 55, 56, 58) e salva la denuncia (art. 69) ed il correlato diritto di prelazione dello Stato (art. 60 e ss.).

L’autorizzazione costituisce il mezzo previsto dalla legge per procedere all a sdemanializzazione dei beni del demanio culturale non sottoposti a vincolo di inalienabilità assoluta. Inoltre, il contenuto dell’autorizzazione ministeriale, ove indicante limiti, obblighi e divieti, refluisce direttamente nel contenuto negoziale del titolo dispositivo, alla stregua di una clausola risolutiva espressa (art. 55-bis).

È sempre consentita, invece, l’alienazione tra enti pubblici, nei termini di legge (cfr. nel dettaglio art. 54, comma 3 e art. 57 Codice beni culturali).

1.4. Si aggiunga che, più in generale, gli atti di alienazione, secondo i principi generali della contabilità pubblica, sono tipiche ipotesi di contratti “attivi”: secondo la nota summa divisio finanziario-contabile dei contratti pubblici di cui all’art. 3 R.D. 2440/1923, i contratti della pubblica amministrazione possono essere attivi o passivi, ovvero comportare un entrata o un uscita; essi devono essere cioè caratterizzarsi per una bilateralità del sacrifico, a fronte di una prestazione resa o ricevuta; devono quindi inserirsi in una logica commutativa.

Non sembrano in linea generale trovare posto, in tale summa divisio, contratti liberali o a titolo gratuito sganciati da qualsiasi logica commutativa e che non rispondano, patrimonialmente, ad un interesse pubblico, se non nei casi previsti dalla legge.

2. In secondo luogo, si deve osservare che l’opzione per un atto di alienazione in forma di donazione, o comunque a titolo gratuito, mal si concilia con i principi giuscontabilistici di trasparenza, pubblicità e concorrenza, nonché di efficienza nella gestione del patrimonio pubblico (art. 3 R.D. 2440/1923; D.lgs. 163/2006), considerato il carattere infungibile del destinatario.

Tali principi sono ribaditi dall’art. 58, comma 7, del D.L. n. 112/2008, conv. L. n. 133/2008, secondo cui regioni, province e comuni, «possono in ogni caso individuare forme di valorizzazione alternative, nel rispetto dei principi di salvaguardia dell'interesse pubblico e mediante l'utilizzo di strumenti competitivi, anche per quanto attiene alla alienazione degli immobili di cui alla legge 24 dicembre 1993, n. 560».

I citati principi non sono derogabili nemmeno in forza dall’art. 12, comma 2, L. n. 127/1997, che pure consentiva a Comuni e Province di «procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla l. 24 dicembre 1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con R.D. 17 giugno 1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali».

Infatti, la facoltà di derogare alle disposizioni generali riguardanti l’alienazione dei beni dello Stato incontra comunque il limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico-contabile, in particolare quelli ricavabili dal R.D n. 2440/1923 sulla contabilità generale dello Stato e dal relativo regolamento di esecuzione approvato con R.D. n. 827/1924. A conferma di ciò, la prefata disposizione termina specificando «A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato».

Il carattere infungibile del destinatario degli atti a titolo gratuito, infatti, si ritiene implichi un’eccezione a tali principi, la quale deve trovare giustificazione nelle stesse ipotesi in cui l’ordinamento contabile ammette la trattativa privata. I presupposti normativi per il ricorso a tale modalità di scelta del contraente, si caratterizzano per la necessità di speciali ed eccezionali circostanze, previste dall’art. 41, R.D. 827/1924, tra cui si evidenziano:

« 1) Quando gl'incanti e le licitazioni siano andate deserte o si abbiano fondate prove per ritenere che ove si sperimentassero andrebbero deserte;
[...];

6) e in genere in ogni altro caso in cui ricorrono speciali ed eccezionali circostanze per le quali non possano essere utilmente seguite le forme degli artt. da 37 a 40 del presente regolamento».

Gli stessi principi valgono e devono essere richiamati per il caso della permuta, in cui sussiste un interesse alla scambio con uno specifico bene e ad uno specifico destinatario.

3. Tanto premesso, in generale, occorre tenere presente che tutti gli atti di disposizione del patrimonio pubblico, a prescindere dalla forma giuridica adottata non possono che essere funzionalizzati, in ogni caso, all’interesse pubblico.

Detto in altri termini, la perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un’“utilitas” di carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi). Ciò porta a presumere l’incompatibilità di atti di alienazione a titolo gratuito con l’interesse pubblico. Tale utilitas, infatti, solo eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di carattere non patrimoniale, in base a precipue ed espresse disposizioni di legge che tipizzano l’interesse tra gli scopi perseguibili dall’ente o che espressamente autorizzano l’alienazione gratuita. Sulla necessità che l’atto negoziale gratuito sia collegato all’interesse pubblico è sufficiente richiamare la consolidata e risalente giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di “donazione” da parte di enti pubblici (Cass. 22 gennaio 1953, n. 157, Cass. 17 novembre 1953, n. 3540, Cass. 5 luglio 1954, n. 2338, Cass. Sez. un. 18 febbraio 1955, n. 470, Cass. 16 giugno 1962, n.1525; 15 luglio 1964, n. 1906 e 17 marzo 1965, n.452; Cass. 7 dicembre 1970, n. 2589; Cass. 18 dicembre 1996, n.11311). Il principio fondamentalmente affermato dalla Cassazione è che pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l'incapacità a donare da parte di tutti gli enti, la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera “liberalità”. L’analisi della giurisprudenza richiamata infatti evidenzia:

  • -  per un verso, che le fattispecie concrete esaminate dalla giurisprudenza di legittimità interessano il diverso caso della donazione intervenuta tra enti pubblici, e non verso soggetti privati o verso soggetti ascrivibili ad un altro, distinto e sovrano ordinamento;
  • -  che “liberalità”, anche quando teoricamente ammessa, lo è soltanto in funzione dell’interesse pubblico con essa perseguito. Segnatamente, «Gli enti pubblici per i loro fini istituzionali sono incapaci di porre in essere atti di donazione e di liberalità che non costituiscono mezzi per l'attuazione di detti fini» (Cass. 7 dicembre 1970, n. 2589). Detto in altri termini, la causa liberale, funzione per la quale un soggetto dell’ordinamento arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti pubblici, in particolare degli enti locali, salvo vi sia un’espressa autorizzazione di legge o una chiara compatibilità con gli scopi istituzionali. Per altro verso, l’ammissibilità nel nostro ordinamento di atti dispositivi atipici a titolo gratuito è fortemente revocata in dubbio, vigendo nel nostro ordinamento il principio di causalità e il filtro di meritevolezza (cfr. sul tema C. Cass. sentenza 20 novembre 1992, n. 12401).

 

Tale ricostruzione ermeneutica trova conforto nei seguenti ulteriori argomenti. La capacità giuridica generale di diritto comune è pur sempre riconosciuta in funzione degli scopi e dei risultati cui tende il procedimento amministrativo (art. 1-bis L. 241/1990).

Per tale ragione, l’attribuzione negoziale a titolo gratuito, poiché espone gli enti ad un potenziale impoverimento, riducendone i mezzi patrimoniali, si presume incompatibile con gli scopi istituzionali, sia che si agisca con moduli di diritto pubblico che con strumenti di diritto comune. Come è stato affermato, infatti, il patrimonio degli enti pubblici, ed in particolare degli enti locali, non può non produrre reddito o utilità (SRC Sardegna, deliberazione n. 4/2008/PAR).

Del resto, le prestazioni gratuite e a “fondo perduto” devono avere un fondamento espresso nella legge (e negli scopi istituzionali dell’ente) e si realizzano di norma attraverso atti amministrativi, per i quali il Legislatore ha cura di fissare precisi limiti normativi e procedimentali (art. 12 della L. n. 241/1990), nel senso della trasparenza.

Ove tali benefici fossero attribuiti per mezzo di atti non autoritativi (art. 1-bis della L. n. 241/20), bisogna ugualmente verificare la compatibilità della causa giuridica dell’atto con gli scopi e le garanzie del procedimento amministrativo, nella fase pubblicistica che precede il compimento dell’atto (segnatamente nella fase della c.d. determinazione a contrarre, cfr. Ad. Plen. n. 10/2011 e SRC Lombardia n. 535/2012/PAR).

Sulla base alla stessa norma, si può facilmente ricavare come il perimetro della capacità giuridica degli enti pubblici non sia coincidente con quella degli altri soggetti di diritto comune, ma vada ritagliata sugli scopi e sui limiti che la legge stabilisce in relazione allo loro esistenza e al loro agire, pena l’integrazione di abusi ed elusione di limiti di legge (cfr. SRC Lombardia n. 513/2013/PRSP), con conseguenze tanto sul piano della validità degli atti che su quello della responsabilità dei soggetti agenti.

In ogni caso, a garanzia dell’utilitas publica, il sacrificio cui gli enti si espongono deve inserirsi in una logica commutativa, ovvero l’impoverimento deve essere compensato dalla realizzazione di un interesse ritenuto normativamente equivalente. Inoltre, occorre adottare la massima cautela sia sotto il profilo causale (mediante la verifica in concreto della sussistenza di significative circostanze soggettive e oggettive giustificative), sia sotto il profilo formale (adeguato percorso procedurale e motivazionale, nonché, adozione delle opportune formalità negoziali).

Detto in altri termini, la cessione a titolo gratuito si deve presumere in linea di massima incompatibile con l’interesse pubblico, specie in assenza di una previa verifica della possibilità di alienazioni a titolo oneroso in cui il corrispettivo sia allineato con il reale valore patrimoniale del bene.

Ed infatti, ove anche l’attribuzione costituisca attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost, «l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (cfr. SRC Lombardia 262/2012/PAR; cfr. anche deliberazione Sezione Lombardia n. 349/2011/PAR e SRC Piemonte n. 36/2014/PAR).

5. In disparte qualsiasi valutazione sulla concreta legittimità di qualsiasi operazione negoziale, con specifico riferimento agli aspetti giuscontabilistici della permuta si osserva quanto segue.

Ai sensi dell’art. 1552 c.c., “La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro”: di conseguenza, a seconda delle caratteristiche concrete dell’operazione, la permuta può costituire un’operazione finanziariamente neutra, un contratto attivo o un contratto passivo.

Nel richiamare ulteriormente quanto sopra precisato in ordine alla necessità del rispetto dei principio di trasparenza e concorsualità, si rammenta che oltre alla norme specifiche concernenti le alienazioni immobiliari degli enti locali, nel caso in cui l’operazione comporti un conguaglio in danaro a carico del comune, rileva il comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n. 98/2011, così come introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012, il quale dispone che «a decorrere dal 1 gennaio 2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente».

Peraltro, come precisato da costante giurisprudenza contabile, sotto il profilo dell’applicabilità dell’art. 12, comma 1-ter, occorre distinguere la fattispecie della permuta con conguaglio di prezzo da quella c.d. “pura”.

La ratio della richiamata norma, infatti, è conseguire risparmi di spesa; di conseguenza essa è applicabile a quei contratti che, comportando una modifica del patrimonio immobiliare dell’ente locale, importano una spesa per il bilancio dell’ente.

La permuta “pura”, pertanto, non ricade nell’alveo di applicazione dell’art. 1, comma 12-ter del D.L. n. 98/2011, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali afferenti a beni immobili e qualificandosi come un’operazione finanziariamente neutra (in termini, SRC Lombardia, nn. 97/2014/PAR, 162/2013/PAR, 164/2013/PAR e 193/2013/PAR; SRC Piemonte, n. 236/2013/PAR; SRC Liguria, n. 9/2013/PAR; SRC Veneto n. 155/2013/PAR; SRC Liguria n. 9/2013/PAR).

Analoghe considerazioni possono estendersi al caso in cui sia previsto un conguaglio a favore del comune, salvi in ogni caso i principi generali di concorsualità e trasparenza.

Si aggiunga che il comma 1-ter dell’art. 12 citato prescrive espressamente una serie di obblighi concernenti le operazioni di acquisto che prevedono l'indicazione “del soggetto alienante e del prezzo pattuito” mentre nel contratto di permuta le posizioni di alienante e di acquirente sono reciproche e predicabili con riferimenti a entrambi i contraenti. Ciò costituisce un ulteriore indizio dell’inapplicabilità della disposizione in esame ai casi di permuta “pura” (in termini Corte dei conti, SRC Lombardia, n. 193/2013/PAR).

Tuttavia, per evitare l’impoverimento patrimoniale dell’ente, anche in caso di permuta “pura”, l’operazione deve essere sostenuta da adeguata istruttoria che documenti il valore degli immobili permutandi ed eventualmente evidenzi in termini la necessità di un conguaglio e le ragioni della congruità della sua determinazione.

In definitiva, e salvi, in ogni caso, i vincoli che comunque discendono dalla applicabilità delle norme del Codice dei beni culturali, anche la permuta, come atto di disposizione del patrimonio immobiliare pubblico, incontra tutti i limiti cui soggiacciono le alienazioni che interessano beni immobili di interesse religioso, destinati al culto ed eventualmente a carattere culturale. Inoltre, poiché il valore storico-artistico corrisponde inevitabilmente ad un elevato valore patrimoniale, la permuta con beni di solo “valore sociale” o ordinario valore di mercato, rischia di costituire una grave occasione di impoverimento dell’ente. Ciò spiega la necessità che, anche in caso di permuta, l’operazione sia preceduta da adeguata istruttoria che documenti il valore degli immobili permutandi, l’eventuale necessità di un conguaglio in denaro e le ragioni della congruità della sua determinazione. Tali operazioni devono essere adeguatamente presidiate dal punto di vista procedimentale e motivazionale, al fine di non integrare occasioni di responsabilità amministrativo-contabile.

6. In conclusione,
6a) gli enti locali sono chiamati in primo luogo osservare la disciplina del demanio culturale sopra ricostruita, specie sotto il profilo dei vincoli di inalienabilità (art. 822, 2° comma, c.c. e D.lgs. n. 42/2004); ove il bene non vi rientri o, comunque, ne sia stato sottratto secondo legittime procedure, in base alle sue caratteristiche concrete, gli atti di disposizione di tali beni devono rispettare i limiti sopra richiamati, sotto il profilo procedurale e sostanziale, in particolare sotto il profilo dei vincoli di destinazione.

6b) Sul piano negoziale astrattamente considerato, per i medesimi enti, è presunta l’incompatibilità degli atti a titolo gratuito con la disciplina legale a presidio dell’esercizio della discrezionalità di spesa e negoziale degli enti pubblici.

6c) Per quanto attiene alla permuta, oltre al rispetto delle norme in materia di alienazioni, l’ente, onde evitare un surrettizio depauperamento del patrimonio pubblico, dovrà far precedere la stessa da un’adeguata stima degli immobili permutandi e da una rigorosa verifica della destinabilità dell’immobile sostitutivo alla pubblica utilità.

P.Q.M.

fermo restando quanto precisato sulla parziale inammissibilità oggettiva, nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione.


»»»»»»»»»»  »»»»»»»»»»»»  »»»»»