C cost. 251/2016
circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015

 

Per la prima volta il Giudice delle leggi ha fatto discendere dal principio costituzionale di leale collaborazione l’obbligo di un pieno coinvolgimento delle Regioni (per il tramite della Conferenza Stato- Regioni e della Conferenza unificata) nell’esercizio della funzione legislativa delegata (se non di quella legislativa tout court) in materie che interferiscono con le competenze regionali. Pertanto, nella situazione di “stretto intreccio” fra competenze statali e regionali che connota alcune delle materie oggetto della L. n. 124, l’obbligo di cercare in Conferenza una previa intesa sul decreto costituisce un “limite ulte- riore” della delega.

 

la forma prescelta per il raccordo, quella del parere, è inidonea ad assicurare un'adeguata ponderazione degli interessi e delle competenze delle autonomie.

Al punto 9 del Considerato in Dirittola Corte costituzionale siè poi attivamente preoccupata di circoscrivere gli effetti giuridici della declaratoria di incostituzionalità, stabilendo che «le pronunce di illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l'effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione».Per evitare una eccessiva compressione del potere normativo delegato del Governo, la Corte si è limitata a dichiarare incostituzionale legià citate disposizioni della legge di delegazione, senza pronunciare l'illegittimità costituzionale consequenziale exart. 27, secondo periodo della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)dei decreti legislativi attuativi della delega già entrati in vigore, nonostante l'inscindibile e funzionale connessione delle norme di questi rispetto alle disposizioni dichiarate incostituzionali in accoglimento del ricorso. Da un lato, ciò ha quantomeno avuto l'effetto di provocare il ritiro da parte del Governo dei due decreti legislativi sulla dirigenza pubblica e sui servizi pubblici locali, già licenziati dal Consiglio dei Ministri e ormai in procinto di essere promulgati da parte del Presidente della Repubblica, oltreché uno stallo politico sullo schema di decreto legislativo in materia di pubblico impiego, da adottare entro il 28 febbraio 2017; dall'altro lato, invece, il "prudente" dispositivo della Corte ha evitato di privare di efficacia tre decretilegislativi attuativi della delega già entrati in vigore, tra cui il decreto legislativo sulle società partecipate (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, in vigore dal 23 settembre), il decreto legislativo di modifica della disciplina sui cd. licenziamenti disciplinari nella p.a. (d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116, in vigore dal 13 luglio) e il decreto legislativo in materia di dirigenza medica e sanitaria (d.lgs. 4 agosto 2016, n. 171, in vigore dal 18 settembre), ciascuno dei quali non potrà più essere censurato dalle Regioni di fronte alla Corte costituzionale per un nuovo giudizio in via principale, essendo ormai decorso il termine per l'impugnazione, ma che potrà essere eventualmente soggetto a sindacato per via incidentale con ordinanza di rimessione.

il parere obbligatorio è infatti meramente consultivo, mentre l'intesa ha pur sempre funzione di co-decisione paritaria, ancorché dotata di un dispositivo che la rende superabile in caso di esito negativo delle trattative. Quanto all'iterprocedurale, mentre il parere obbligatorio è adottato a maggioranza dalla Conferenza unificata o dalla Conferenza Stato-Regioni e può essere superato con una semplice deliberazione del Consiglio dei Ministri, l'intesa in senso debole è un atto per il quale è richiesta l'unanimità di tutti i partecipanti alle sedute e che comporta l'apertura ed eventualmente la reiterazione di trattative utili alla conclusione di un accordo, la conduzione delle quali è a sua volta suscettibile di sindacato in sede di conflitto di attribuzioni sotto il duplice profilo della congruità del termine e della lealtà dei comportamenti e il superamento delle quali impone una deliberazione motivata da parte del Consiglio dei Ministri.

A - dirigenza regionale.
Le disposizioni contenute nell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, sono impugnate perché ritenute lesive della competenza legislativa regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, nella parte in cui dettano principi e criteri direttivi della delega al Governo anche in tema di dirigenza regionale, nonché del principio di leale collaborazione, per la previsione dell’adozione dei decreti legislativi attuativi, previo parere in Conferenza unificata.

 

4.2.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Si tratta di disposizioni che contribuiscono a definire una serie di principi e criteri direttivi molto puntuali, relativi alla delega al Governo in tema di riorganizzazione di tutta la dirigenza pubblica. La delega intende innovare profondamente la disciplina previgente, mediante l’istituzione del sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati dei dirigenti dello Stato, dei dirigenti regionali e dei dirigenti degli enti locali, accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento (comma 1, lettera a), nonché mediante la previsione di regole unitarie inerenti non solo al trattamento economico e al regime di responsabilità dei dirigenti, ma anche alla formazione e al conferimento, alla durata e alla revoca degli incarichi. Le disposizioni impugnate si inseriscono nel quadro degli interventi volti a definire regole omogenee e unitarie in tema di dirigenza pubblica, in un’ottica di miglioramento del “rendimento” dei pubblici uffici e dunque di garanzia del buon andamento dell’amministrazione.

Riguardo all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali, si deve osservare che – diversamente da altre disposizioni impugnate – è espressamente prevista l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (comma 1, lettera b, numero 2). Sono poi dettate regole puntuali e dettagliate, la cui attuazione è demandata al Governo mediante decreti legislativi, inerenti all’inquadramento dei dirigenti delle Regioni nella fase di prima applicazione (comma 1, lettera b), all’accesso al ruolo (comma 1, lettera c, numeri 1 e 2), alla formazione permanente (lettera e), alla mobilità (lettera f), al conferimento e alla durata degli incarichi (lettere g e h), al trattamento e ai diritti dei dirigenti privi di incarico (lettera i), alla valutazione dei risultati (lettera l), alla responsabilità (lettera m), alla retribuzione (lettera n), al regime della dirigenza sanitaria (lettera p), alla revoca degli incarichi (lettera q).

È innegabile che tali disposizioni incidano su ambiti riconducibili alla competenza del legislatore statale in materia di «ordinamento civile», nella parte in cui attengono a profili inerenti al trattamento economico (fra le tante, sentenze n. 211 e n. 61 del 2014) o al regime di responsabilità (sentenza n. 345 del 2004), o comunque a profili relativi al rapporto di lavoro privatizzato, o a competenze statali concorrenti, come quella, relativa alla disciplina della dirigenza sanitaria, costituita dalla determinazione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute.

Altrettanto innegabile è che le disposizioni in esame siano in parte riconducibili alla competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, entro cui si collocano le procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al ruolo (così come a tutto il pubblico impiego: sentenze n. 310 del 2011 e n. 324 del 2010), il conferimento degli incarichi (sentenza n. 105 del 2013) e la durata degli stessi.

Questa Corte ha ritenuto tali aspetti inerenti ai profili pubblicistico-organizzativi della dirigenza pubblica, così come di tutto il lavoro pubblico (fra le tante, sentenza n. 149 del 2012). Il legislatore statale interviene in questi casi solo per fissare principi generali a garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (sentenza n. 105 del 2013).

Le medesime disposizioni sono anche riferite alla competenza regionale residuale in materia di formazione o a quella concorrente in materia di tutela della salute, con riguardo alla disciplina di dettaglio della dirigenza regionale (sentenze n. 124 del 2015, n. 233 e n. 181 del 2006).

È dunque palese il concorso di competenze, inestricabilmente connesse, nessuna delle quali si rivela prevalente, ma ciascuna delle quali concorre alla realizzazione dell’ampio disegno di riforma della dirigenza pubblica. Pertanto, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, se necessario a garantire l’esigenza di unitarietà sottesa alla riforma. Tuttavia, esso deve muoversi nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile anche in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 26 e n. 1 del 2016, n. 140 del 2015, n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008). Poiché le disposizioni impugnate toccano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali, il luogo idoneo di espressione della leale collaborazione deve essere individuato nella Conferenza Stato-Regioni.

Si deve osservare, infatti, che la disposizione contenuta nell’art. 11, comma 1, lettera b), numero 2), specifica che l’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali deve avvenire previa intesa nella Conferenza Stato-Regioni. Il legislatore statale svela, in questo caso, l’esigenza di procedere al coinvolgimento delle Regioni, poiché è consapevole di incidere sulle sfere di competenze regionali.

Appare dunque irragionevole non estendere il vincolo concertativo all’individuazione specifica dei requisiti di accesso al ruolo e di reclutamento e anche dei criteri di conferimento, durata e revoca degli incarichi, requisiti che attengono ai profili pubblicistico-organizzativi del lavoro pubblico, come tali riconducibili alla materia dell’organizzazione amministrativa regionale (sentenza n. 149 del 2012). La dettagliata enunciazione di principi e criteri direttivi nella legge di delegazione, pur riconducibile a apprezzabili esigenze di unitarietà, incide profondamente sulle competenze regionali e postula, per questo motivo, l’avvio di procedure collaborative nella fase di attuazione della delega.

4.2.2.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2, c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, nella parte in cui, nonostante le molteplici interferenze con le competenze regionali non risolvibili mediante il criterio della prevalenza del legislatore statale, prescrive, per l’adozione dei decreti legislativi delegati attuativi, una forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – da ritenersi lesiva del principio di leale collaborazione perché non idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali, necessario a contemperare la compressione delle loro competenze. Solo l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, contraddistinta da una procedura che consente lo svolgimento di genuine trattative, garantisce un reale coinvolgimento.

 

B -

6.1.– La questione è fondata, in conformità agli argomenti svolti con riguardo alle disposizioni di cui all’art. 11 della medesima legge n. 124 del 2015.

Ancora una volta occorre collocare le disposizioni impugnate nel quadro complessivo delineato dall’art. 17. Quest’ultimo si propone di riordinare la disciplina del lavoro alle dipendenze di tutte le pubbliche amministrazioni e di riformare la disciplina vigente in prospettiva unitaria, ma in ambiti disparati, che spaziano dal reclutamento, al rapporto di lavoro, al contenimento delle assunzioni, al lavoro flessibile, alla valutazione e alla responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici.

Le disposizioni specificamente impugnate dettano puntuali indicazioni al Governo riguardo alle procedure concorsuali per l’accesso al lavoro pubblico, sia con la previsione di requisiti di ammissione e criteri di valutazione (là dove impongono, alla lettera a, di privilegiare «l’esperienza professionale acquisita da coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche», o, alla lettera b, «l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche», o ancora là dove prescrivono, alla lettera d, la soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi per l’accesso agli impieghi, o, alla lettera e, l’accertamento della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, o, alla lettera f, la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca); sia imponendo modalità di espletamento delle prove (come alla lettera c, che prescrive l’accentramento dei concorsi per tutte le amministrazioni pubbliche e la revisione delle modalità di espletamento degli stessi).

Le disposizioni in esame assegnano inoltre al Governo il compito di attribuire all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) le competenze in tema di accertamento medico legale in caso di assenze dei dipendenti pubblici per malattia al fine di garantire l’effettività dei controlli (lettera l), di definire gli obiettivi di contenimento delle assunzioni, differenziati in relazione agli effettivi fabbisogni (lettera m), di introdurre una disciplina delle forme del lavoro flessibile (lettera o), di prevedere il «progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni [...] anche al fine di facilitare i processi di mobilità» (lettera q), di semplificare la disciplina in tema di valutazione dei dipendenti pubblici, di riconoscimento del merito e di premialità, e razionalizzare i sistemi di valutazione (lettera r), di ridefinire il regime della responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti al fine di accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare (lettera s), infine di rafforzare il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione (lettera t).

Dall’esame appena svolto emerge chiaramente che le disposizioni impugnate incidono in parte in ambiti riconducibili alla competenza dello Stato, in specie ove dettano indicazioni inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti, anche regionali e degli enti locali, ormai privatizzato e dunque soggetto alle norme dell’ordinamento civile di spettanza esclusiva del legislatore statale (fra le tante, sentenza n. 62 del 2013); ove regolano il regime di responsabilità, egualmente riconducibile all’ordinamento civile; ove impongono obiettivi di contenimento delle assunzioni delineando principi di coordinamento della finanza pubblica.
Esse, tuttavia, mettono in gioco, in misura rilevante, anche la competenza regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, in specie quando intervengono a dettare precisi criteri inerenti alle procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al lavoro pubblico regionale, ripetutamente ricondotto da questa Corte alla competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenze n. 100 del 2010, n. 95 del 2008, n. 233 del 2006 e n. 380 del 2004).

Tali competenze si pongono in un rapporto di “concorrenza”, poiché nessuna di esse prevale sulle altre, ma tutte confluiscono nella riorganizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in una prospettiva unitaria, rivelandosi inscindibili e strumentalmente connesse. Tale vincolo di strumentalità, se da un lato costituisce fondamento di validità dell’intervento del legislatore statale, dall’altro impone a quest’ultimo il rispetto del principio di leale collaborazione nell’unica forma adeguata a garantire il giusto contemperamento della compressione delle competenze regionali, che è quella dell’intesa.

Come già detto in precedenza, l’intesa consente alle Regioni di partecipare con il Governo nella definizione della disciplina finale, sfruttando gli spazi lasciati aperti dal legislatore delegante, che ha indicato principi e criteri direttivi puntuali, nell’intento di imprimere unitarietà al proprio intervento.

Anche in tal caso, tenuto conto che gli interessi e le competenze coinvolte dalle disposizioni impugnate sono solo quelle statali e regionali, deve ritenersi che sia la Conferenza Stato-Regioni il luogo idoneo per il raggiungimento dell’intesa.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.

 

C- Società a partecipazione pubblica.

Occorre ora esaminare la questione promossa nei confronti dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui delega il Governo a operare un riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e fissa una serie di principi e criteri direttivi, che eccederebbero dalle competenze statali in materia di «tutela della concorrenza» e di «coordinamento della finanza pubblica» e violerebbero l’autonomia organizzativa e finanziaria delle Regioni. Anche tale articolo è, inoltre, censurato nella parte in cui prevede, in combinato disposto con l’art. 16, comma 4, una forma di raccordo con le Regioni, quella del parere in Conferenza unificata, lesiva del principio di leale collaborazione.

7.1.– La questione è fondata in riferimento alla violazione del principio di leale collaborazione sulla base di argomentazioni analoghe a quelle già svolte con riguardo alle questioni promosse nei confronti degli artt. 11 e 17.

Le disposizioni censurate si inseriscono nel contesto delineato dall’intero art. 18. Quest’ultimo contiene specifici criteri di delega per il riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche al «fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza» (comma 1), a fronte di un quadro normativo complesso e diversificato, composto da numerose disposizioni speciali che si intrecciano con la disciplina di carattere generale.

In questa prospettiva, il “riordino” cui mira l’art. 18 si realizza assegnando al Governo, fra l’altro, il compito di
differenziare le tipologie societarie in relazione alle attività svolte, agli interessi pubblici e alla quotazione in borsa (lettera a),
di ridefinire regole, condizioni e limiti per la costituzione di società o per l’assunzione e il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche (lettera b),
di delineare un preciso regime di responsabilità degli amministratori degli enti partecipanti e degli organi di gestione e dei dipendenti delle società partecipate (lettera c),
di razionalizzare il regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive (lettera e),
di prevedere la possibilità di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento (lettera i),
di regolare i flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate (lettera l),
nonché di definire una serie di regole puntuali relative alle partecipazioni azionarie degli enti locali (lettera m), fra le quali: l’individuazione dei criteri di scelta della forma societaria più adeguata per le società che gestiscono servizi strumentali e funzioni amministrative; l’individuazione, per le società che gestiscono servizi pubblici di interesse economico generale, di un numero massimo di esercizi con perdite di bilancio che comportino obblighi di liquidazione delle società; il rafforzamento delle misure volte a garantire il raggiungimento di obiettivi di qualità, efficienza, efficacia ed economicità, anche attraverso la riduzione dell’entità e del numero delle partecipazioni e l’incentivazione dei processi di aggregazione.

Questa Corte si è più volte pronunciata sul tema delle società a partecipazione pubblica. Da un lato essa ha ricondotto le disposizioni inerenti all’attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva statale, in quanto volte a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato, nonché a quella della «tutela della concorrenza» in considerazione dello scopo di talune disposizioni di «evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali» (sentenza n. 326 del 2008).
Dall’altro ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni statali che, imponendo a tutte le amministrazioni, quindi anche a quelle regionali, di sciogliere o privatizzare proprio le società pubbliche strumentali, sottraevano alle medesime la scelta in ordine alle modalità organizzative di svolgimento delle attività di produzione di beni o servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali, violando la competenza legislativa regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa regionale (sentenza n. 229 del 2013).

Ciò dimostra che un intervento del legislatore statale, come quello operato con le disposizioni impugnate dell’art. 18, finalizzato a dettare una disciplina organica delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche, coinvolge, inevitabilmente, profili pubblicistici, che attengono alle modalità organizzative di espletamento delle funzioni amministrative e dei servizi riconducibili alla competenza residuale regionale, anche con riguardo alle partecipazioni degli enti locali che non abbiano come oggetto l’espletamento di funzioni fondamentali. Tale intervento coinvolge anche profili privatistici, inerenti alla forma delle società partecipate, che trova nel codice civile la sua radice, e aspetti connessi alla tutela della concorrenza, riconducibili alla competenza esclusiva del legislatore statale.

Da qui la “concorrenza” di competenze statali e regionali, disciplinata mediante l’applicazione del principio di leale collaborazione. Ai principi e criteri direttivi il Governo deve dare attuazione solo dopo aver svolto idonee trattative con Regioni e enti locali nella sede della Conferenza unificata. Quest’ultima è la sede, come si è già detto, più idonea a consentire l’integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze degli enti territoriali coinvolti, tutte le volte in cui siano in discussione temi comuni a tutto il sistema delle autonomie, inclusi gli enti locali.

È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata.

 

D - Servizi pubblici locali di interesse economico

Si deve, infine, procedere all’esame delle questioni promosse nei confronti dell’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), in riferimento agli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. e al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.T ali disposizioni sono impugnate nella parte in cui stabiliscono una serie di principi e criteri direttivi relativi alla delega al Governo per il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali d’interesse economico generale che inciderebbero su materie di competenza regionale, la cui attuazione è peraltro demandata a decreti legislativi del Governo da adottarsi previo parere in Conferenza unificata

 

8.1.– La questione è fondata, in riferimento al principio di leale collaborazione, secondo le argomentazioni già prima svolte.

Si tratta di una disciplina oggetto di numerosi interventi del legislatore statale, spesso frammentari e in via d’urgenza, su cui questa Corte si è più volte pronunciata, ravvisando una competenza legislativa statale esclusiva a disciplinare il regime dei servizi pubblici locali di interesse economico «per gli aspetti che hanno una diretta incidenza sul mercato» (sentenze n. 160 del 2016 e n. 325 del 2010) e che siano volti, «in via primaria, alla tutela e alla promozione della concorrenza» (sentenza n. 325 del 2010), nel limite della proporzionalità e adeguatezza dell’intervento (sentenze n. 160 del 2016, n. 443 del 2007, n. 272 del 2004). Ha anche ravvisato una competenza legislativa regionale residuale (che si accompagna alla competenza regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.) a disciplinare tutti quei profili (ivi compreso il trasporto pubblico locale) che non siano strumentali a garantire la concorrenza (sentenza n. 325 del 2010, n. 307 del 2009, n. 272 del 2004).

Da questi riferimenti emerge con chiarezza che le impugnate disposizioni dell’art. 19 contengono principi e criteri direttivi entro cui si intrecciano previsioni strettamente finalizzate alla tutela della concorrenza (lettera b, che attiene alla soppressione dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi generali in materia di concorrenza; lettera g, inerente alla definizione dei regimi tariffari), riconducibili alla competenza statale, e previsioni palesemente eccedenti tale finalità, inerenti alla gestione e organizzazione dei medesimi servizi (lettera b, che prescrive la soppressione dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio; lettera d, relativa alla definizione dei criteri per l’organizzazione territoriale ottimale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica; lettera h, che impone la definizione delle modalità di tutela degli utenti; lettera p, che dispone l’introduzione e il potenziamento di forme di consultazione dei cittadini e della partecipazione diretta alla formulazione di direttive alle amministrazioni pubbliche e alle società di servizi sulla qualità e sui costi degli stessi), espressione della competenza legislativa regionale residuale, insieme a previsioni incidenti in ambiti ancora diversi, come quelle inerenti alla disciplina dei rapporti di lavoro (lettera t).

Queste disposizioni sono tenute insieme da forti connessioni, proprio perché funzionali al progetto di riordino dell’intero settore dei servizi pubblici locali di interesse economico generale. Sebbene costituiscano espressione di interessi distinti, che corrispondono alle diverse competenze legislative dello Stato e delle Regioni, esse risultano inscindibili l’una dall’altra, inserite come sono in un unico progetto. Nel dare attuazione a principi e criteri direttivi in esse contenuti, il Governo supera lo scrutinio di legittimità costituzionale se rispetta il principio di leale collaborazione, avviando le procedure inerenti all’intesa con Regioni e enti locali nella sede della Conferenza unificata.

È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata.

In proposito, la commissione speciale con parere n. 83/2017 su chiesta della Presidenza del Consiglio dei ministri , chiamata a redigere il parere, ritiene, in via preliminare, che non siano necessari interventi sulla legge delega, confermando la lettura data dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Parere 83/2017 del consiglio di Stato su richiesta della Presidenza del consiglio dei Ministri

il Consiglio evidenzia:

1) la natura autoapplicativa” della sent. n. 251/2016, che non richiede un intervento del legislatore, trattandosi di una pronuncia “manipolativa del tipo sostitutivo di proceduraa. Nel caso di specie la Corte ha sostituito la previsione di un parere (da acquisire prima dell’approvazione del decreto legislativo) con quella di un’intesa, rafforzando quindi il vincolo procedurale

2) l’utilizzabilità dei decreti correttivi al fine di “sanare” il vizio di cui risultano affetti i decreti originari . La Corte costituzionale -Corte cost., sent. n. 206/2001.- , a sua volta, ha precisato che il ricorso ai decreti integrativi e correttivi è necessario "soprattutto in occasione di deleghe complesse, il cui esercizio può postulare un periodo di verifica, dopo la prima attuazione, e dunque la possibilità di apportare modifiche di dettaglio al corpo delle norme delegate, sulla base anche dell'esperienza o di rilievi ed esigenze avan- zate dopo la loro emanazione, senza la necessità di far ricorso ad un nuovo procedimento legislativo parlamentare, quale si renderebbe necessario se la delega fosse ormai completamente esaurita e il relativo termine scaduto".Gli unici limiti, individuati dal Giudice delle leggi, risiedono nella necessità di impedire che, con i decreti integrativi e correttivi, il Governo stravolga il contenuto dei decreti principali

3) la commissione speciale ribadisce la necessità che l’intesa abbia ad oggetto i decreti nel loro complesso e non le sole norme lesive delle competenze regionali.

4) Quanto alla sorte di questi decreti nel periodo della loro vigenza, la commissione speciale risponde soste- nendo che, nel caso in esame, la natura procedimen- tale del vizio accertato dalla Corte è “compatibile con una valenza retroattiva degli effetti correttivi”. In proposito è richiamata una pronuncia della Corte di cassazione che ha definito come “un non senso” la correzione di un decreto legislativo lasciando la disposizione originaria in vigore per le situazioni non ancora esaurite (SS.UU., 7 febbraio 1989, n. 733). Il problema si pone, in partico- lare, nei casi in cui i decreti originari (già impugnati) abbiano trovato applicazione producendo effetti irre- versibili, che quindi non possono essere "cancellati" dalla mera previsione di un'efficacia retroattiva del nuovo decreto.

5) La sorte dei decreti legislativi già emanati.

6) I “suggerimenti” del Consiglio di Stato sui decreti non emanati per i quali è scaduta la delega ( servizi pubblici locali e alla diri- genza pubblica. )  nuova legge delega che, ovviamente, rispetti i criteri procedimentali stabiliti dalla sent. n. 251/ 2016. La commissione speciale, invero, individua anche un'altra soluzione, quella di un disegno di legge governativo che riproduca il contenuto del decreto in questione.

 

la pubblicazione della sent. n. 251/2016 ha aperto nuovi scenari anche nei confronti delle norme di delega non censurate in quel giudizio.

le Regioni Puglia, Toscana, Liguria e Lombardia hanno impugnato il D.Lgs. n. 219/2016 , recante norme sul riordino delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, lamentando, fra l’altro, la violazione della sfera di competenza legislativa regionale, a causa dell’adozione del decreto previa acquisizione di un parere in Conferenza unificata e non di un’intesa.

Nel caso di specie è evidente che le Regioni si siano determinate a impugnare il D.Lgs. n. 219 solo dopo la sent. n. 251/2016. Si tratta, però, di verificare se quello lamentato dalle odierne ricorrenti (38) costi- tuisca un vizio autonomo del decreto o se non si tratti piuttosto del “riflesso” di un vizio originario della delega. Se così è, le impugnative regionali - limitatamente alla parte in cui contestano la mancata ricerca dell’intesa - rischiano di risultare inammissi- bili, in quanto indebitamente volte a far valere un vizio della legge di delega, ormai non più censurabile in via principale. Ciò non toglie, ovviamente, che in via incidentale una questione di tal fatta possa essere sollevata e portata all’attenzione della Corte.

Se il Giudice delle leggi non dovesse optare per l’inammissibilità della questione, più lineare appare la soluzione dell’illegittimità conseguenziale della norma di delega, piuttosto che quella dell’autorimessione. Quest’ultima presuppone, infatti, un nuovo giudizio di legittimità costituzionale, che, però, avrebbe un esito scontato, non potendosi ipotizzare che il decreto sia illegittimo, perché approvato senza la previa ricerca dell’intesa, e non lo sia la delega che non impone questa intesa. Più coerente sarebbe, pertanto, la soluzione dell’illegittimità conseguenziale, sebbene in questo caso si abbia una singolare conseguenzialità che dall’illegittimità del decreto determinerebbe quella, a ritroso, della legge di delega. Si aggiungano, poi, le comprensibili perplessità della Corte, di cui si è detto nei paragrafi precedenti, ad impiegare lo strumento dell’illegittimità conseguenziale nel giudizio in via d’azione.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo GROSSI Presidente

- Alessandro CRISCUOLO Giudice

- Giorgio LATTANZI ”

- Aldo CAROSI ”

- Marta CARTABIA ”

- Mario Rosario MORELLI ”

- Giancarlo CORAGGIO ”

- Giuliano AMATO ”

- Silvana SCIARRA ”

- Daria de PRETIS ”

- Nicolò ZANON ”

- Franco MODUGNO ”

- Augusto Antonio BARBERA ”

- Giulio PROSPERETTI ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2, dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, dell’art. 16, commi 1 e 4, dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), dell’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), e dell’art. 23, comma 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 12 ottobre 2015, depositato in cancelleria il 19 ottobre 2015 ed iscritto al n. 94 del registro ricorsi 2015.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2016 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Luca Antonini e Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Paolo Grasso per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2015, depositato il successivo 19 ottobre, la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 81, 97, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., di alcune disposizioni della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), e, in particolare: dell’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2; dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2; dell’art. 16, commi 1 e 4; dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t); dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7); dell’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u); dell’art. 23, comma 1.

1.1.– In primo luogo la Regione impugna l’art. 1, comma 1, della citata legge, nella parte in cui delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi volti a modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione, il codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), e fissa alcuni criteri e principi direttivi.

In particolare, la ricorrente impugna: 1) la lettera b) del comma 1 dell’art. 1, nella parte in cui indica, fra i principi e criteri direttivi ai quali il Governo dovrebbe attenersi, quello di «ridefinire e semplificare i procedimenti amministrativi, in relazione alle esigenze di celerità, certezza dei tempi e trasparenza nei confronti dei cittadini e delle imprese, mediante una disciplina basata sulla loro digitalizzazione e per la piena realizzazione del principio “innanzitutto digitale” (digital first), nonché l’organizzazione e le procedure interne a ciascuna amministrazione»; 2) la lettera c) del medesimo comma 1, là dove impone di «garantire, in linea con gli obiettivi dell’Agenda digitale europea, la disponibilità di connettività a banda larga e ultralarga e l’accesso alla rete internet presso gli uffici pubblici e altri luoghi che, per la loro funzione, richiedono le suddette dotazioni, anche attribuendo carattere prioritario, nei bandi per accedere ai finanziamenti pubblici per la realizzazione della strategia italiana per la banda ultralarga, all’infrastrutturazione con reti a banda ultralarga nei settori scolastico, sanitario e turistico, agevolando in quest’ultimo settore la realizzazione di un’unica rete wi-fi ad accesso libero, con autenticazione tramite Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale (SPID), presente in tutti i luoghi di particolare interesse turistico, e prevedendo la possibilità di estendere il servizio anche ai non residenti in Italia, nonché prevedendo che la porzione di banda non utilizzata dagli uffici pubblici sia messa a disposizione degli utenti, anche non residenti, attraverso un sistema di autenticazione tramite SPID; garantire l’accesso e il riuso gratuiti di tutte le informazioni prodotte e detenute dalle amministrazioni pubbliche in formato aperto, l’alfabetizzazione digitale, la partecipazione con modalità telematiche ai processi decisionali delle istituzioni pubbliche, la piena disponibilità dei sistemi di pagamento elettronico nonché la riduzione del divario digitale sviluppando le competenze digitali di base»; la lettera g) del medesimo comma 1, nella parte in cui individua, fra i principi direttivi, quello di «favorire l’elezione di un domicilio digitale da parte di cittadini e imprese ai fini dell’interazione con le amministrazioni, anche mediante sistemi di comunicazione non ripudiabili, garantendo l’adozione di soluzioni idonee a consentirne l’uso anche in caso di indisponibilità di adeguate infrastrutture e dispositivi di comunicazione o di un inadeguato livello di alfabetizzazione informatica, in modo da assicurare, altresì, la piena accessibilità mediante l’introduzione, compatibilmente con i vincoli di bilancio, di modalità specifiche e peculiari, quali, tra le altre, quelle relative alla lingua italiana dei segni».

Tali disposizioni violerebbero l’art. 117, secondo, terzo e quarto comma, Cost. in quanto, stabilendo una serie di prescrizioni innovative destinate a interessare tutti i procedimenti amministrativi con cui l’amministrazione regionale e locale si rapporta con cittadini e imprese, trascenderebbero la mera funzione del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale», assegnata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato dal secondo comma, lettera r), dell’art. 117 Cost., e invaderebbero vari ambiti di competenza regionale quali la sanità, il turismo, l’attività d’impresa e l’organizzazione amministrativa regionale.

Esse, inoltre, sarebbero lesive del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., considerato che al comma 2 del medesimo art. 1 è stabilito che i relativi decreti legislativi delegati siano adottati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», da rendere «nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere». La previsione del mero parere della Conferenza unificata sarebbe, infatti, inidonea ad assicurare un’adeguata ponderazione degli interessi e delle competenze delle autonomie coinvolte dal decreto e lesiva del principio di bilateralità, poiché il mancato raggiungimento dell’accordo, il cui termine peraltro sarebbe troppo breve, legittimerebbe l’assunzione unilaterale di atti normativi da parte del Governo, in contrasto con la giurisprudenza costituzionale.

1.1.1.– La Regione Veneto formula particolari censure nei confronti degli artt. 1, comma 1, e 23, comma 1, nella parte in cui stabiliscono che dall’attuazione della legge in oggetto e dai decreti legislativi da essa previsti (volti a modificare e integrare il codice dell’amministrazione digitale) non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale.

Tali disposizioni sono impugnate in riferimento agli artt. 81 e 119 Cost., in quanto imporrebbero un nuovo e improprio onere di finanziamento della riforma in capo alle Regioni. La Regione ricorrente deduce che l’assunzione di nuovi modelli tecnologici imposta dalla normativa statale comporterebbe inevitabilmente costi a suo carico, rispetto ai quali lo Stato ometterebbe di destinare le risorse aggiuntive necessarie a coprire gli oneri conseguenti all’espletamento delle azioni necessarie.

1.2.– Sono, poi, impugnati il comma 1 dell’art. 11, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui detta principi e criteri direttivi relativi alla delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di dirigenza pubblica, e il comma 2 del medesimo art. 11, là dove stabilisce che i decreti legislativi delegati siano adottati «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», che deve essere reso «nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere».

La Regione Veneto, in particolare, censura: 1) la lettera a), nella parte in cui prescrive l’istituzione del sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati, aventi requisiti omogenei di accesso e procedure analoghe di reclutamento; 2) la lettera b), numero 2), che, con riferimento all’inquadramento dei dirigenti delle Regioni, dopo aver stabilito che sia istituito, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, un ruolo unico dei dirigenti regionali, prescrive, in sede di prima applicazione, la «confluenza nel suddetto ruolo dei dirigenti di ruolo nelle regioni, negli enti pubblici non economici regionali e nelle agenzie regionali», nonché la «attribuzione della gestione del ruolo unico a una Commissione per la dirigenza regionale», la «inclusione nel suddetto ruolo unico della dirigenza delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e della dirigenza amministrativa, professionale e tecnica del Servizio sanitario nazionale ed esclusione dallo stesso [...] della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria del Servizio sanitario nazionale»; 3) la lettera c), nella parte in cui stabilisce anche per i dirigenti regionali criteri e principi direttivi relativi all’accesso alla dirigenza nelle forme del corso-concorso (numero 1) e del concorso (numero 2); 4) la lettera e), che prescrive la formazione permanente dei dirigenti; 5) la lettera f), che amplia la previsione della mobilità della dirigenza, nella parte in cui non è richiesto il previo assenso delle amministrazioni di appartenenza per la mobilità della dirigenza medica e sanitaria; 6) la lettera g), nella parte in cui indica una serie di criteri direttivi per il conferimento di incarichi dirigenziali; 7) la lettera h), che detta criteri in ordine alla durata degli incarichi predetti; 8) la lettera i), nella parte in cui stabilisce criteri e principi direttivi della delega in ordine ai dirigenti privi di incarico; 9) la lettera l), ove indica criteri e principi direttivi per la disciplina della valutazione dei risultati; 10) la lettera m), che individua i principi e criteri direttivi della delega in relazione alla disciplina della responsabilità dei dirigenti; 11) la lettera n), che definisce principi e criteri in tema di retribuzione; 12) la lettera o), nella parte in cui indica principi e criteri per la disciplina transitoria; 13) la lettera p), nella parte in cui detta principi e criteri direttivi con riferimento «al conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario, nonché, ove previsto dalla legislazione regionale, di direttore dei servizi socio-sanitari, delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale» e nella parte in cui impone «selezione unica, per titoli, previo avviso pubblico, dei direttori generali in possesso di specifici titoli formativi e professionali e di comprovata esperienza dirigenziale, effettuata da parte di una commissione nazionale composta pariteticamente da rappresentanti dello Stato e delle regioni, per l’inserimento in un elenco nazionale degli idonei istituito presso il Ministero della salute, aggiornato con cadenza biennale, da cui le regioni e le province autonome devono attingere per il conferimento dei relativi incarichi da effettuare nell’ambito di una rosa di candidati costituita da coloro che, iscritti nell’elenco nazionale, manifestano l’interesse all’incarico da ricoprire, previo avviso della singola regione o provincia autonoma [...]; sistema di verifica e di valutazione dell’attività dei direttori generali che tenga conto del raggiungimento degli obiettivi sanitari e dell’equilibrio economico dell’azienda, anche in relazione alla garanzia dei livelli essenziali di assistenza e dei risultati del programma nazionale valutazione esiti dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali; decadenza dall’incarico e possibilità di reinserimento soltanto all’esito di una nuova selezione nel caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, accertato decorsi ventiquattro mesi dalla nomina, o nel caso di gravi o comprovati motivi, o di grave disavanzo o di manifesta violazione di leggi o regolamenti o del principio di buon andamento e imparzialità; selezione per titoli e colloquio, previo avviso pubblico, dei direttori amministrativi e dei direttori sanitari, nonché, ove previsti dalla legislazione regionale, dei direttori dei servizi socio-sanitari, in possesso di specifici titoli professionali, scientifici e di carriera, effettuata da parte di commissioni regionali composte da esperti di qualificate istituzioni scientifiche, per l’inserimento in appositi elenchi regionali degli idonei, aggiornati con cadenza biennale, da cui i direttori generali devono obbligatoriamente attingere per le relative nomine; decadenza dall’incarico nel caso di manifesta violazione di leggi o regolamenti o del principio di buon andamento e imparzialità; definizione delle modalità per l’applicazione delle norme adottate in attuazione della presente lettera alle aziende ospedaliero-universitarie»; 14) la lettera q), nella parte in cui stabilisce la «previsione di ipotesi di revoca dell’incarico e di divieto di rinnovo di conferimento di incarichi in settori sensibili ed esposti al rischio di corruzione, in presenza di condanna anche non definitiva, da parte della Corte dei conti, al risarcimento del danno erariale per condotte dolose».

Le citate disposizioni violerebbero gli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., poiché detterebbero principi e criteri direttivi volti a disciplinare in maniera puntuale anche la dirigenza regionale, che sarebbe invece riconducibile alla potestà legislativa regionale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale. Tali principi e criteri non sarebbero, pertanto, configurabili come “principi generali dell’ordinamento”, che soli sarebbero idonei a vincolare la predetta competenza legislativa regionale residuale.

Le medesime disposizioni violerebbero, inoltre, il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., in quanto, pur incidendo su ambiti di competenza regionale (ordinamento e organizzazione amministrativa regionale), si limiterebbero a prevedere che i decreti legislativi siano adottati previa intesa solo con riferimento all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali (art. 11, comma 1, lettera a, numero 2), disponendo, invece, al comma 2 dell’art. 11, con riguardo a tutte le altre previsioni, che i medesimi decreti legislativi siano adottati previa acquisizione del mero parere della Conferenza unificata nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione. Anche in tal caso la ricorrente lamenta che la forma prescelta per il raccordo con le Regioni, quella del parere, sia inidonea ad assicurare un’adeguata ponderazione degli interessi e delle competenze delle autonomie e lesiva del principio di bilateralità. Il mancato raggiungimento dell’accordo, entro un termine peraltro molto breve, legittimerebbe l’assunzione unilaterale di atti normativi da parte del Governo in contrasto con la giurisprudenza costituzionale.

1.2.1.– La Regione Veneto propone, poi, specifiche censure in relazione ad alcune disposizioni della delega sulla dirigenza pubblica.

In particolare, denuncia l’art. 11, comma 1, lettera f), della citata legge n. 124 del 2015, che prescrive al Governo di indicare casi e condizioni in cui non è richiesto il previo assenso delle amministrazioni di appartenenza per la mobilità della dirigenza medica e sanitaria. Tale disposizione sarebbe lesiva degli artt. 3 e 97 Cost., poiché stabilirebbe un principio generale di ampliamento delle ipotesi di mobilità, senza considerare che la selezione dei dirigenti in servizio è avvenuta sulla base dell’accertamento di specifiche competenze tecniche da parte dell’ente che ha bandito il concorso, in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento dell’amministrazione, la cui lesione ridonderebbe sulle competenze regionali.

Anche l’art. 11, comma 1, lettera i), della citata legge n. 124 del 2015, nella parte in cui prescrive che il Governo preveda la decadenza dal ruolo unico dei dirigenti privi di incarico, violerebbe gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto determinerebbe una reformatio in peius del regime vigente, con conseguente violazione dei principi del legittimo affidamento e del buon andamento dell’amministrazione, che ridonderebbe in una lesione delle competenze regionali.

Infine, l’art. 11, comma 1, lettera p), della legge n. 124 del 2015, là dove detta principi e criteri direttivi con riferimento «al conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario, nonché, ove previsto dalla legislazione regionale, di direttore dei servizi socio-sanitari, delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale», recherebbe norme di dettaglio, atte a comprimere indebitamente competenze regionali, in ragione dell’attinenza della materia alla tutela della salute e all’organizzazione amministrativa regionale e tali da configurare una disciplina irragionevole e contraria al principio del buon andamento della pubblica amministrazione, in violazione degli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.

1.3.– La Regione impugna altresì l’art. 16 della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui prevede, al comma 1, l’elaborazione di distinti testi unici diretti alla semplificazione dei settori del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, nonché dei servizi pubblici di interesse economico generale e stabilisce, al comma 4, che i relativi decreti siano adottati previo parere della Conferenza unificata reso nel termine di quarantacinque giorni, decorso il quale il Governo può comunque procedere.

Le citate disposizioni violerebbero gli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. e il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost. Esse, infatti, conterrebbero una delega non alla mera semplificazione, ma anche alla riorganizzazione, incidendo su competenze regionali di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., come l’organizzazione amministrativa regionale, il trasporto pubblico locale e i servizi pubblici, e di cui all’art. 119 Cost., e, nonostante ciò, prescriverebbero, per l’adozione dei relativi decreti legislativi, una forma di raccordo con le Regioni insufficiente. Tale è ritenuto il parere in Conferenza unificata, lesivo del principio di leale collaborazione.

1.4.– Viene, inoltre, impugnato l’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), della medesima legge n. 124 del 2015, nella parte in cui definisce i principi e i criteri direttivi della delega al Governo per il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, per violazione degli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

In particolare sono censurate: 1) la lettera a), nella parte in cui fissa, fra i predetti principi e criteri, il riconoscimento nei concorsi pubblici della professionalità acquisita da coloro che abbiano avuto rapporti di lavoro flessibile con amministrazioni pubbliche; 2) la lettera b), là dove impone l’adozione di un disciplina delle prove concorsuali tale da privilegiare l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche; 3) la lettera c), che prescrive l’accentramento dei concorsi per tutte le amministrazioni pubbliche e la revisione delle modalità di espletamento degli stessi; 4) la lettera d), che impone la soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni; 5) la lettera e), che prescrive l’accertamento della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, quale requisito di partecipazione al concorso o titolo di merito valutabile dalle commissioni giudicatrici, secondo modalità definite dal bando anche in relazione ai posti da coprire; 6) la lettera f), che indica quale ulteriore principio direttivo la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca; 7) la lettera l), che prescrive l’attribuzione all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) delle competenze in tema di accertamento medico legale in caso di assenze dei dipendenti pubblici per malattia al fine di garantire l’effettività dei controlli; 8) la lettera m), che, fra i principi direttivi, annovera la definizione di obiettivi di contenimento delle assunzioni, differenziati in relazione agli effettivi fabbisogni; 9) la lettera o), che prescrive l’introduzione di una disciplina delle forme del lavoro flessibile, con individuazione di limitate e tassative fattispecie, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato; 10) la lettera q), che prevede il progressivo superamento della dotazione organica come limite per le assunzioni, anche al fine di facilitare i processi di mobilità; 11) la lettera r), nella parte in cui impone la semplificazione delle norme in materia di valutazione dei dipendenti pubblici, di riconoscimento del merito e di premialità, la razionalizzazione e l’integrazione dei sistemi di valutazione, anche al fine della migliore valutazione delle politiche, lo sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall’organizzazione e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti, nonché il potenziamento dei processi di valutazione indipendente del livello di efficienza e qualità dei servizi e delle attività delle amministrazioni pubbliche e degli impatti da queste prodotti, anche mediante il ricorso a standard di riferimento e confronti; 12) la lettera s), che prevede l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare; 13) la lettera t), che impone il rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione.

La ricorrente sostiene che le richiamate disposizioni stabiliscono principi e criteri direttivi volti a disciplinare direttamente anche il pubblico impiego regionale, senza che intervenga alcuna distinzione e qualificazione di quei “principi generali dell’ordinamento” che soli sarebbero idonei a vincolare la potestà legislativa regionale in materia. Anche con riferimento a tali disposizioni, lette in combinato disposto con il comma 4 dell’art. 16, la Regione denuncia la violazione del principio di leale collaborazione. Nonostante le molteplici interferenze dei principi e dei criteri direttivi previsti dall’art. 17 con le competenze regionali, non risolvibili con il mero criterio della prevalenza del legislatore statale, la forma di raccordo con le Regioni che esse prescrivono – il parere in Conferenza unificata – sarebbe lesiva del principio di bilateralità, sulla base degli stessi argomenti svolti con riguardo alle disposizioni prima indicate.

1.5.– La Regione Veneto promuove questione di legittimità costituzionale anche nei confronti dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), della legge n. 124 del 2015, là dove delega il Governo ad operare un riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e stabilisce, fra i principi e criteri direttivi: la previsione del ricorso ad una varietà di tipologie societarie in relazione alle attività svolte e agli interessi pubblici di riferimento, con applicazione di distinte discipline, derogando proporzionalmente alla disciplina privatistica (lettera a); l’individuazione delle regole, delle condizioni e dei limiti per la costituzione di società o per l’assunzione o il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche (lettera b); la definizione di un preciso regime di responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti e degli organi delle società partecipate (lettera c); la razionalizzazione del regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive (lettera e); la previsione di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento (lettera i); la regolazione dei flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate secondo i criteri di parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e operatore di mercato (lettera l); la puntuale individuazione di regole inerenti al riordino delle società partecipate dagli enti locali (lettera m, numeri da 1 a 7).

Le citate disposizioni violerebbero gli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., poiché la fissazione di tali principi e criteri eccederebbe dalle competenze statali in materia di «tutela della concorrenza» e di «coordinamento della finanza pubblica», invadendo sfere di competenza regionali. Inoltre, esse violerebbero il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., poiché prescriverebbero, in combinato disposto con il comma 4 dell’art. 16, per l’attuazione della delega, una forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – da ritenersi insufficiente, tenuto conto delle molteplici interferenze con le attribuzioni regionali.

In particolare, la Regione ritiene che l’art. 18, nella parte in cui vieta (alle lettere a e b) alle Regioni di assumere o mantenere partecipazioni in società, sottrarrebbe alle medesime la scelta delle modalità organizzative di svolgimento delle attività di produzione di beni e servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali, con conseguente lesione della competenza regionale residuale in materia di organizzazione e funzionamento della Regione. Lo stesso art. 18, nella parte in cui delega al Governo la definizione della responsabilità non solo degli organi delle società partecipate, ma anche degli amministratori delle amministrazioni partecipanti (lettera c), inciderebbe nell’ambito della responsabilità amministrativa del personale regionale, che esula dalla competenza statale. Inoltre, là dove prevede la razionalizzazione del regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive (lettera e), l’art. 18 inciderebbe sulle competenze regionali in materia di organizzazione e funzionamento della Regione, di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. Quanto alla delega al Governo a prevedere la possibilità di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento (lettera i), la Regione ne deduce l’illegittimità costituzionale, ritenendo che sia di sua competenza regolare dettagliatamente modalità e termini di esercizio del proprio potere sostitutivo nell’ambito delle materie di potestà legislativa regionale. Infine, l’attribuzione al Governo del compito di regolare i flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate (lettera l), determinerebbe una lesione dell’autonomia finanziaria della Regione di cui all’art. 119 Cost.

Con riguardo ai principi e criteri direttivi relativi al riordino delle società partecipate dagli enti locali, definiti dall’art. 18, lettera m), numeri da 1) a 7), della legge n. 124 del 2015, la ricorrente ne argomenta l’illegittimità costituzionale, poiché imporrebbero al Governo: l’individuazione dei criteri di scelta della forma societaria più adeguata per le società che gestiscono servizi strumentali e funzioni amministrative; l’individuazione, per le società che gestiscono servizi pubblici di interesse economico generale, di un numero massimo di esercizi con perdite di bilancio che comportino obblighi di liquidazione delle società; il rafforzamento delle misure volte a garantire il raggiungimento di obiettivi di qualità, efficienza, efficacia ed economicità, anche attraverso la riduzione dell’entità e del numero delle partecipazioni e l’incentivazione dei processi di aggregazione, intervenendo sulla disciplina dei rapporti finanziari fra ente locale e società partecipate nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica e al fine di una maggiore trasparenza; la promozione della trasparenza; l’introduzione di un sistema sanzionatorio per la mancata attuazione dei principi di razionalizzazione e riduzione di cui allo stesso art. 18, basato anche sulla riduzione dei trasferimenti dello Stato alle amministrazioni che non ottemperano alle disposizioni in materia; l’introduzione di strumenti, anche contrattuali, volti a favorire la tutela dei livelli occupazionali nei processi di ristrutturazione e privatizzazione relativi alle società partecipate; la revisione degli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle società partecipate nei confronti degli enti locali soci.

In tal modo, essi non lascerebbero alcuno spazio per l’intervento regolativo della Regione e sarebbero in contrasto con il principio di proporzionalità, giacché non si configurerebbero come il mezzo meno invasivo per disciplinare la concorrenza e il coordinamento della finanza pubblica, con ridondanza sulle competenze regionali.

1.6.– Viene, infine, impugnato dalla Regione Veneto l’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui delega il Governo a operare il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali d’interesse economico generale e a tale scopo fissa una serie di principi e criteri direttivi che andrebbero ben al di là dei limiti entro cui deve attenersi la trasversalità della materia «tutela della concorrenza», incidendo su una pluralità di altri ambiti, rientranti nella sfera di competenza regionale residuale o concorrente (quali, per esempio, quello del trasporto pubblico locale e dell’organizzazione amministrativa regionale e degli enti locali), in violazione del criterio di proporzionalità.

In particolare, l’art. 19 determinerebbe la violazione degli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. nella parte in cui, fra i principi e criteri direttivi della delega, prevede: 1) alla lettera b), la soppressione, previa ricognizione, dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi generali in materia di concorrenza e comunque non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio; 2) alla lettera c), l’individuazione della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di interesse economico generale di ambito locale, compresa la definizione dei criteri per l’attribuzione dei diritti speciali o esclusivi; 3) alla lettera d), la definizione, anche mediante rinvio alle normative di settore e armonizzazione delle stesse, dei criteri per l’organizzazione territoriale ottimale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica; 4) alla lettera g), l’individuazione dei criteri per la definizione dei regimi tariffari che tengano conto degli incrementi di produttività al fine di ridurre l’aggravio sui cittadini e sulle imprese; 5) alla lettera h), la definizione delle modalità di tutela degli utenti dei servizi pubblici locali; 6) alla lettera l), la previsione di una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e controllo e le funzioni di gestione dei servizi, anche attraverso la modifica della disciplina sulle incompatibilità o sull’inconferibilità di incarichi o cariche; 7) alla lettera m), la revisione della disciplina dei regimi di proprietà e gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, in base a principi di tutela e valorizzazione della proprietà pubblica, di efficienza, di promozione della concorrenza, di contenimento dei costi di gestione, di semplificazione; 8) alla lettera n), l’individuazione e l’allocazione dei poteri di regolazione e controllo tra i diversi livelli di governo e le autorità indipendenti, al fine di assicurare la trasparenza nella gestione e nell’erogazione dei servizi, di garantire l’eliminazione degli sprechi, di tendere al continuo contenimento dei costi, aumentando nel contempo gli standard qualitativi dei servizi; 9) alla lettera o), la previsione di adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale per gli utenti dei servizi; 10) alla lettera p), l’introduzione e il potenziamento di forme di consultazione dei cittadini e di partecipazione diretta alla formulazione di direttive alle amministrazioni pubbliche e alle società di servizi sulla qualità e sui costi degli stessi; 11) alla lettera s), la definizione del regime delle sanzioni e degli interventi sostitutivi, in caso di violazione della disciplina in materia; 12) alla lettera t), l’armonizzazione con la disciplina generale delle disposizioni speciali vigenti nei servizi pubblici locali, relative alla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro; 13) alla lettera u), la definizione degli strumenti per la trasparenza e la pubblicizzazione dei contratti di servizio, relativi a servizi pubblici locali di interesse economico generale, da parte degli enti affidanti anche attraverso la definizione di contratti di servizio tipo per ciascun servizio pubblico locale di interesse economico generale.

Le citate disposizioni violerebbero, inoltre, il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., poiché, pur incidendo su ambiti di competenza regionale e sacrificando la possibilità per la Regione di adottare proprie scelte organizzative, prescriverebbero una forma di raccordo con la Regione inadeguata, considerato che, per effetto del combinato disposto tra l’art. 19 e l’art. 16, è stabilito che i relativi decreti legislativi di riordino siano adottati previa acquisizione del mero parere della Conferenza unificata, peraltro entro il breve termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale il Governo può comunque procedere.

2.– Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che il ricorso promosso dalla Regione Veneto sia dichiarato infondato.

2.1.– In linea preliminare, la difesa statale sostiene che le censure rivolte in particolare all’art. 11, comma 1, lettere f) e i), della legge n. 124 del 2015, in riferimento al principio di ragionevolezza e buon andamento, siano inammissibili, considerato che si assume violato un precetto costituzionale diverso da quelli attinenti al riparto di competenza fra Stato e Regioni, che non ridonderebbe nella compressione di sfere di attribuzione costituzionalmente garantite alle Regioni.

Quanto, poi, alle censure promosse nei confronti dell’art. 16, commi 1 e 4, l’Avvocatura generale dello Stato ne segnala la genericità e rileva che non è stata impugnata la disposizione (il comma 2) nella quale sarebbero indicati i principi e criteri direttivi cui deve attenersi il Governo nell’esercizio della delega.

2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero prive di fondamento in quanto tutte le disposizioni impugnate sarebbero riconducibili ad ambiti di competenza statale, quali, quello dell’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, dell’ordinamento civile, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire sul territorio nazionale, della tutela della concorrenza.

2.2.1.– In particolare, la difesa statale ritiene che l’oggetto della disciplina contenuta nell’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2, della legge n. 124 del 2015, debba essere ricondotto alla materia «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» di competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera r), Cost.

La disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate, volta a promuovere progetti strategici in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, atterrebbe unicamente al coordinamento sul piano tecnico delle varie iniziative di innovazione tecnologica, allo scopo di consentire la condivisione di linguaggio, procedure e standard omogenei, in un ambito unitario, in modo da permettere la più efficace comunicabilità tra i sistemi informatici delle varie amministrazioni.

La previsione del mero parere della Conferenza unificata sarebbe del tutto idonea ad assicurare il necessario coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, in considerazione del rilievo eminentemente tecnico delle operazioni regolate dalla fonte statale.

Anche le censure promosse nei confronti dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2, c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, della legge n. 124 del 2015 sarebbero prive di fondamento. Queste disposizioni, infatti, inciderebbero in un ambito, quello del pubblico impiego, nel quale si intrecciano aspetti relativi alla competenza esclusiva dello Stato con altri che eccedono dalle competenze statali, in modo che non sarebbe possibile determinare in via preventiva e astratta quali dovranno essere ritenute vincolanti e lesive per le Regioni. D’altro canto, la difesa statale ricorda che la giurisprudenza costituzionale ha ricondotto alla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva statale, numerosi ambiti del lavoro pubblico, fra cui non solo la disciplina della fase costitutiva, le vicende del rapporto inerenti alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e quelle del recesso dal rapporto di lavoro propriamente subordinato, ma anche differenti ipotesi rientranti nella cosiddetta parasubordinazione (quali le collaborazioni coordinate e continuative a progetto), la trasformazione dei contratti di lavoro (da tempo parziale a tempo pieno), la disciplina delle libertà e dei diritti sindacali, i contratti a contenuto formativo, la disciplina dell’orario di lavoro e dei trattamenti economici, ordinari e accessori, la disciplina dei rimborsi spese e dell’indennità di trasferta, quali componenti del trattamento economico del dipendente pubblico regionale.

Il resistente precisa che la previsione di un ruolo unico della dirigenza pubblica, caratterizzata dalla piena mobilità tra i ruoli, configurerebbe una modalità per rendere effettivo il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost. e rimuovere gli ostacoli all’esercizio di tale diritto in qualunque parte del territorio nazionale (art. 120 Cost.).

Egualmente prive di fondamento sarebbero le censure promosse nei confronti dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), della legge n. 124 del 2015. Alcune delle disposizioni citate sarebbero, infatti, riconducibili, come per la dirigenza pubblica, alla materia «ordinamento civile». Altre conterrebbero principi direttivi (come quello della centralizzazione delle procedure concorsuali, dell’introduzione del sistema informativo nazionale per orientare la programmazione delle assunzioni, della rilevazione delle competenze dei lavoratori) volti a perseguire l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica e dell’equilibrio dei conti consolidati degli enti pubblici e quindi configurabili quali principi di coordinamento della finanza pubblica.

Anche le censure promosse nei confronti delle disposizioni dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), della legge n. 124 del 2015, che recano la delega per la riorganizzazione, semplificazione e tutela della concorrenza nella materia delle partecipazioni azionarie delle pubbliche amministrazioni, sarebbero prive di fondamento.

Le disposizioni impugnate non rientrerebbero nella materia dell’organizzazione amministrativa perché non sarebbero volte a regolare una modalità di svolgimento dell’attività amministrativa, bensì dell’«ordinamento civile», in quanto mirerebbero a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private. Tali disposizioni, inoltre, volte ad evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali, quindi ad impedire che le società con partecipazione pubblica costituiscano fattori di distorsione della concorrenza, sarebbero riconducibili anche alla materia «tutela della concorrenza» di competenza legislativa esclusiva statale.

Quanto alle censure rivolte all’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), della legge n. 124 del 2015, la difesa statale ne sostiene l’infondatezza, sull’assunto che esse, volte a definire criteri e principi direttivi di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale, siano riferibili alla materia «tutela della concorrenza», oltre che a quella inerente alle «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», entrambe di competenza legislativa statale esclusiva. Peraltro, in considerazione del fatto che, attraverso la prestazione dei servizi pubblici locali si concretizzano molteplici ed importanti diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, si delineerebbe anche la competenza del legislatore statale in ordine alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».

Le disposizioni di cui all’art. 19, infine, finalizzate al contenimento ed alla razionalizzazione della spesa pubblica, rientrerebbero nel novero dei principi di «coordinamento della finanza pubblica» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

In ogni caso, non sarebbe leso neanche il principio di leale collaborazione, poiché il parere della Conferenza unificata sarebbe idoneo ad assicurare tutte le necessarie fasi dialogiche per l’adozione dei relativi decreti attuativi che incidano su materie in cui sussistano forme di interferenza tra le relative competenze.

3.– La Regione Veneto, con memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, ha ribadito gli argomenti già svolti nell’atto introduttivo a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni censurate. La ricorrente ha inoltre rilevato che alcune delle medesime disposizioni si sono già tradotte in decreti legislativi e precisamente nel decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179 (Modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), nel decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) e nel decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171 (Attuazione della delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p, della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria). A tal proposito la Regione si riserva la valutazione sull’impugnazione di tali decreti.

4.– All’udienza pubblica le parti hanno ribadito le conclusioni svolte nelle memorie scritte.

Considerato in diritto

1.– La Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, di alcune disposizioni contenute negli artt. 1, 11, 16, 17, 18, 19 e 23 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), in riferimento agli artt. 3, 81, 97, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

In particolare, la Regione ricorrente censura:

– l’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2, nella parte in cui detta principi e criteri direttivi in ordine alla delega al Governo all’adozione di uno o più decreti legislativi volti a modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione, il codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (comma 1), e nella parte in cui stabilisce che i decreti legislativi delegati siano deliberati su proposta del Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», da rendere «nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto legislativo, decorso il quale il Governo può comunque procedere» (comma 2);

– l’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, nella parte in cui detta principi e criteri direttivi in ordine alla delega al Governo all’adozione di uno o più decreti legislativi in materia di dirigenza pubblica, prevedendo l’istituzione del sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati, aventi requisiti omogenei di accesso e procedure analoghe di reclutamento e fondati sui principi del merito, dell’aggiornamento e della formazione continua (comma 1), e nella parte in cui stabilisce che i decreti legislativi delegati siano deliberati «previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», che deve essere reso «nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione», «decorso il quale il Governo può comunque procedere» (comma 2);

– l’art. 16, commi 1 e 4, nella parte in cui prevede l’elaborazione di distinti testi unici diretti alla semplificazione nei settori del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, nonché dei servizi pubblici di interesse economico generale (comma 1), e nella parte in cui stabilisce che i decreti legislativi siano adottati previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, che deve essere reso nel termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione di ciascuno schema di decreto, decorso il quale il Governo può comunque procedere (comma 4);

– l’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), nella parte in cui definisce i principi e i criteri direttivi della delega al Governo per il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche;

– l’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui delega il Governo ad operare un riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e fissa una serie di principi e criteri direttivi;

– l’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), nella parte in cui reca una delega legislativa al Governo per il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali d’interesse economico generale, che mira alla definizione della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di interesse economico generale di ambito locale.

Tutte le citate disposizioni sono impugnate sotto un duplice profilo.

Anzitutto esse andrebbero al di là delle sfere di competenza legislativa statale esclusiva e invaderebbero vari ambiti di competenza legislativa regionale residuale (organizzazione amministrativa regionale, turismo, servizi pubblici locali, trasporto pubblico locale) o concorrente (tutela della salute, coordinamento della finanza pubblica), in quest’ultimo caso in quanto, recando una disciplina di dettaglio, eliminerebbero ogni spazio di intervento della Regione.

Inoltre, nonostante le molteplici interferenze con le competenze regionali, non risolvibili mediante il criterio della prevalenza del legislatore statale, esse prescriverebbero, per l’adozione dei decreti legislativi delegati, una insufficiente forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – ritenuto lesivo del principio di leale collaborazione. Il mancato raggiungimento dell’accordo, entro il breve termine di quarantacinque giorni, legittimerebbe, infatti, l’assunzione unilaterale di un provvedimento da parte del Governo.

Più specificamente, poi, la Regione impugna:

– l’art. 11, comma 1, lettera f), nella parte in cui, con riferimento alla mobilità della dirigenza, prescrivendo che il Governo preveda i casi e le condizioni in cui non è richiesto il previo assenso delle amministrazioni di appartenenza per la mobilità della dirigenza medica e sanitaria, porrebbe un principio generale di ampliamento delle ipotesi di mobilità dei dirigenti, senza considerare che la selezione dei dirigenti in servizio è avvenuta sulla base dell’accertamento di specifiche competenze tecniche da parte dell’ente che ha bandito il concorso, in contrasto con il principio di ragionevolezza e buon andamento dell’amministrazione (artt. 3 e 97 Cost.), e conseguentemente delle relative competenze regionali;

– l’art. 11, comma 1, lettera i), nella parte in cui, stabilendo criteri e principi direttivi in ordine ai dirigenti privi di incarico e in specie prevedendo la decadenza dal ruolo unico, entrerebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. in quanto determinerebbe una reformatio in peius del regime vigente con una violazione del principio del legittimo affidamento e del buon andamento dell’amministrazione, che, incidendo sul principio di autonomia dell’amministrazione dalla politica, ridonderebbe in una lesione delle competenze regionali;

– l’art. 11, comma 1, lettera p), là dove, dettando principi e criteri direttivi con riferimento «al conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario, nonché, ove previsto dalla legislazione regionale, di direttore dei servizi socio-sanitari, delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale», recherebbe norme di dettaglio, atte a comprimere indebitamente competenze regionali, in ragione dell’attinenza della materia alla tutela della salute e all’organizzazione amministrativa regionale e tali da configurare una disciplina irragionevole e contraria al principio del buon andamento della pubblica amministrazione, in violazione degli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.;

– gli artt. 1, comma 1, e 23, nella parte in cui stabiliscono che dall’attuazione della legge in oggetto e dai decreti legislativi da essa previsti (volti a modificare e integrare il codice dell’amministrazione digitale) non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale. Tali disposizioni sono impugnate in riferimento agli artt. 81 e 119 Cost. in quanto imporrebbero un nuovo e improprio onere di finanziamento della riforma in capo alle Regioni.

2. – In via preliminare, non si riscontrano ostacoli all’esame nel merito delle censure promosse, per il sol fatto che esse sono contenute in una legge delega.

Questa Corte ha, già da tempo, riconosciuto che la legge di delegazione, in quanto atto avente forza di legge, non si sottrae, ai sensi dell’art. 134 Cost., al controllo di costituzionalità in via principale, di cui può divenire oggetto, quando sia possibile riscontrare una lesione dell’autonomia regionale (sentenza n. 224 del 1990; e, fra le altre, sentenze n. 205 del 2005, n. 50 del 2005 e n. 359 del 1993). In tali casi, l’attenzione deve cadere non tanto «sulla natura dell’atto impugnato, di per sé inequivocabilmente capace di integrare l’ordinamento giuridico con norme primarie», quanto piuttosto «sulla ricorrenza dell’interesse regionale ad impugnarlo» (sentenza n. 278 del 2010).

Nella specie, il carattere puntuale delle disposizioni oggetto delle censure della legge n. 124 del 2015, contenenti deleghe, è sufficiente a dimostrare l’attitudine lesiva delle medesime, ritenute dalla ricorrente invasive delle sfere di competenza legislativa regionale concorrente e residuale, indicate nel ricorso. Quest’ultimo è dunque ammissibile.

2.1.– Ancora preliminarmente, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, nei confronti delle censure concernenti l’art. 11, comma 1, lettere f) e i), in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.

La difesa statale sostiene che tali censure siano inammissibili, poiché si assume violato un precetto costituzionale diverso da quelli attinenti al riparto di competenza fra Stato e Regioni, che non ridonderebbe nella compressione di sfere di attribuzione costituzionalmente garantite alle Regioni.

Tali eccezioni sono prive di fondamento.

Questa Corte ha più volte affermato che «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni (sentenze n. 8 del 2013 e n. 199 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale lesione (nello stesso senso, le sentenze n. 29 del 2016, n. 251, n. 189, n. 153, n. 140, n. 89 e n. 13 del 2015)» (sentenza n. 65 del 2016).

Nella specie le richiamate condizioni sono soddisfatte, considerato che la Regione censura le disposizioni citate congiuntamente alle altre di cui all’art. 11, comma 1, perché, dettando principi direttivi puntuali, volti a disciplinare anche la dirigenza regionale, invaderebbero la sfera di competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale. Tale invasione, con particolare riguardo alla disciplina recata dalla lettera f), si rivelerebbe anche irragionevole e lesiva del buon andamento dell’amministrazione, posto che priverebbe l’amministrazione (regionale), che ha bandito il concorso e selezionato i dirigenti sulla base dell’accertamento di specifiche competenze tecniche, della possibilità di interloquire (e quindi eventualmente assentire) in ordine alla mobilità della dirigenza medica e sanitaria. Con riguardo alla lettera i), l’invasione sarebbe del pari irragionevole e lesiva del buon andamento, nella parte in cui prevede la decadenza dal ruolo unico dei dirigenti privi di incarico, comprimendo l’autonomia amministrativa regionale.

Sono, pertanto, chiaramente individuati gli specifici ambiti di competenza regionale incisi dalla norma statale, così come è soddisfatto l’onere di motivazione gravante sulla Regione.

2.2.– Sulla base dei medesimi argomenti appena svolti devono ritenersi ammissibili le censure di violazione degli artt. 3 e 97 Cost. nei confronti dell’art. 11, comma 1, lettera p), in tema di disciplina della dirigenza sanitaria. Anche in tal caso, infatti, le predette censure sono meramente strumentali a quelle di invasione delle competenze legislative regionali residuali in materia di organizzazione amministrativa regionale e di quelle concorrenti in materia di tutela della salute.

2.3.– Del pari priva di fondamento è l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri per genericità delle censure svolte nei confronti dell’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015.

La disposizione è censurata perché non conterrebbe solo la delega alla semplificazione, cui fanno riferimento i principi e criteri direttivi indicati al comma 2, non impugnati, ma anche alla riorganizzazione dei settori del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, nonché dei servizi pubblici di interesse economico generale, secondo i principi indicati agli artt. 17, 18 e 19, oggetto delle censure. La delega invaderebbe, pertanto, sfere di competenze regionali di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. (organizzazione amministrativa regionale, trasporto pubblico locale e servizi pubblici). Essa violerebbe anche il principio di leale collaborazione, nella parte in cui prevede, al comma 4, che i decreti legislativi attuativi, nonostante l’incidenza sulle richiamate materie di competenza regionale, siano adottati previo parere della Conferenza unificata, forma di raccordo con le Regioni ritenuta insufficiente e lesiva del principio di bilateralità, poiché il mancato raggiungimento dell’accordo entro il termine di quarantacinque giorni legittimerebbe, di per sé, l’assunzione unilaterale di atti normativi da parte del Governo.

Le censure sono, pertanto, chiaramente proposte, in quanto sono state identificate le materie di competenza regionale sulle quali interferirebbe la normativa impugnata e conseguentemente è stata denunciata la violazione del principio di leale collaborazione.

2.4.– Ancora preliminarmente, deve essere dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale promossa nei confronti degli artt. 1, comma 1, e 23, nella parte in cui stabilisce che dall’attuazione della legge in oggetto e dai decreti legislativi da essa previsti non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale.

Tali disposizioni sono impugnate in riferimento agli artt. 81 e 119 Cost., poiché imporrebbero un nuovo e improprio onere di finanziamento della riforma in capo alle Regioni, di cui, tuttavia, non è fornita alcuna dimostrazione. La ricorrente, infatti, denuncia la violazione dell’art. 81 Cost. senza fornirne le ragioni e senza considerare che al successivo comma 2 è espressamente stabilito che «[i] decreti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nella presente legge sono corredati di relazione tecnica che dia conto della neutralità finanziaria dei medesimi ovvero dei nuovi o maggiori oneri da essi derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura». Essa omette, altresì, di spiegare in che modo dalla pretesa lesione dell’art. 81 Cost. deriverebbe una violazione della propria autonomia finanziaria, corrispondente all’imposizione di un nuovo onere di finanziamento della riforma a proprio carico, considerato che il comma 1 dell’art. 23 espressamente dispone che dall’attuazione della legge in oggetto e dai decreti legislativi da essa previsti (volti a modificare e integrare il codice dell’amministrazione digitale) non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico, in generale, della finanza pubblica e quindi anche di quella regionale.

3.– Nel passare, per ciascuna delle questioni promosse, all’esame del merito, occorre svolgere preliminarmente alcune considerazioni generali.

Tutte le disposizioni impugnate riflettono l’intento del legislatore delegante di incidere sulla «riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», secondo un criterio di diversificazione delle misure da adottare nei singoli decreti legislativi. Esse spaziano dalla cittadinanza digitale (art. 1), alla dirigenza pubblica (art. 11), dal lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (art. 17), alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18), ai servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19) e, proprio per questo, influiscono su molteplici sfere di competenza legislativa anche regionale. Nella complessa struttura delle norme contenenti le deleghe riguardanti i settori indicati, occorre verificare se vi sia una prevalente competenza statale, cui ricondurre il disegno riformatore nella sua interezza.

Un simile intervento del legislatore statale rientra, infatti, nel novero di quelli, già sottoposti all’attenzione di questa Corte, volti a disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi, rispetto ai quali si delinea una «fitta trama di relazioni, nella quale ben difficilmente sarà possibile isolare un singolo interesse», quanto piuttosto interessi distinti «che ben possono ripartirsi diversamente lungo l’asse delle competenze normative di Stato e Regioni» (sentenza n. 278 del 2010), corrispondenti alle diverse materie coinvolte.

In tali casi occorre valutare se una materia si imponga sulle altre, al fine di individuare la titolarità della competenza.

Talvolta la valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte le altre può rivelarsi impossibile e avallare l’ipotesi, diversa da quella in precedenza considerata, di concorrenza di competenze, che apre la strada all’applicazione del principio di leale collaborazione. In ossequio a tale principio il legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze. L’obiettivo è contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle stesse con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie (sentenze n. 65 del 2016, n. 88 del 2014 e n. 139 del 2012).

Il parere come strumento di coinvolgimento delle autonomie regionali e locali non può non misurarsi con la giurisprudenza di questa Corte che, nel corso degli anni, ha sempre più valorizzato la leale collaborazione quale principio guida nell’evenienza, rivelatasi molto frequente, di uno stretto intreccio fra materie e competenze e ha ravvisato nell’intesa la soluzione che meglio incarna la collaborazione (di recente, sentenze n. 21 e n. 1 del 2016). Quel principio è tanto più apprezzabile se si considera la «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi» (sentenza n. 278 del 2010) e diviene dirimente nella considerazione di interessi sempre più complessi, di cui gli enti territoriali si fanno portatori.

Un’analoga esigenza di coinvolgere adeguatamente le Regioni e gli enti locali nella forma dell’intesa è stata riconosciuta anche nella diversa ipotesi della attrazione in sussidiarietà della funzione legislativa allo Stato, in vista dell’urgenza di soddisfare esigenze unitarie, economicamente rilevanti, oltre che connesse all’esercizio della funzione amministrativa. In tal caso, l’esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale – e giustificare la deroga al riparto di competenze contenuto nel Titolo V – «solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003; di recente, sentenza n. 7 del 2016).

Questa Corte ha individuato nel sistema delle conferenze «il principale strumento che consente alle Regioni di avere un ruolo nella determinazione del contenuto di taluni atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale» (sentenza n. 401 del 2007) e «[u]na delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il parametro della leale collaborazione» (sentenza n. 31 del 2006). In armonia con tali indicazioni, l’evoluzione impressa al sistema delle conferenze finisce con il rivelare una fisiologica attitudine dello Stato alla consultazione delle Regioni e si coniuga con il riconoscimento, ripetutamente operato da questa Corte, dell’intesa in sede di Conferenza unificata, quale strumento idoneo a realizzare la leale collaborazione tra lo Stato e le autonomie (ex plurimis, sentenze n. 88 del 2014, n. 297 e n. 163 del 2012), «qualora non siano coinvolti interessi esclusivamente e individualmente imputabili al singolo ente autonomo» (sentenza n. 1 del 2016).

Inserite in questo quadro evolutivo, le procedure di consultazione devono «prevedere meccanismi per il superamento delle divergenze, basati sulla reiterazione delle trattative o su specifici strumenti di mediazione» (sentenza n. 1 del 2016; nello stesso senso, sentenza n. 121 del 2010). Non si prefigura una «drastica previsione, in caso di mancata intesa, della decisività della volontà di una sola delle parti, la quale riduce all’espressione di un parere il ruolo dell’altra» (sentenza n. 24 del 2007). La reiterazione delle trattative, al fine di raggiungere un esito consensuale (ex plurimis, sentenze n. 121 del 2010, n. 24 del 2007, n. 339 del 2005), non comporta in alcun modo che lo Stato abdichi al suo ruolo di decisore, nell’ipotesi in cui le strategie concertative abbiano esito negativo e non conducano a un accordo (sentenze n. 7 del 2016, n. 179 del 2012, n. 165 del 2011; in generale, con riferimento al «principio dell’accordo», sentenza n. 19 del 2015).

È pur vero che questa Corte ha più volte affermato che il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo. Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa.

Quest’ultima si impone, dunque, quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi delegati, adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost.

Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi, condizionati quanto alla validità a tutte le indicazioni contenute non solo nella Costituzione, ma anche, per volontà di quest’ultima, nella legge di delegazione, finiscono, infatti, con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze.

Nel seguire le cadenze temporali entro cui esercita la delega, riferita a «oggetti distinti suscettibili di separata disciplina» (art. 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400, recante «Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri»), il Governo può fare ricorso a tutti gli strumenti che reputa, di volta in volta, idonei al raggiungimento dell’obiettivo finale. Tale obiettivo consiste nel vagliare la coerenza dell’intero procedimento di attuazione della delega, senza sottrarlo alla collaborazione con le Regioni.

4.– Poste tali premesse, si può passare all’esame delle questioni promosse nei confronti delle disposizioni impugnate che recano le deleghe inerenti a singoli settori.

4.1.– Si devono, anzitutto, scrutinare le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2, nella parte in cui dettano principi e criteri direttivi in ordine alla delega al Governo all’adozione di «uno o più decreti legislativi volti a modificare e integrare, anche disponendone la delegificazione, il codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82», previo parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), censurate in riferimento agli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

4.1.1.– La questione non è fondata.

Le disposizioni impugnate si prefiggono l’obiettivo di agevolare la realizzazione, da parte di tutte le amministrazioni, della Agenda digitale italiana, già attuata in ambito nazionale con il decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 dicembre 2012, n. 221, «nel quadro delle indicazioni sancite a livello europeo» (art. 1).

Esse indicano al Governo di: «ridefinire e semplificare», non solo «i procedimenti amministrativi, in relazione alle esigenze di celerità, certezza dei tempi e trasparenza nei confronti dei cittadini e delle imprese, mediante una disciplina basata sulla loro digitalizzazione e per la piena realizzazione del principio “innanzitutto digitale”», ma anche «l’organizzazione e le procedure interne a ciascuna amministrazione» (comma 1, lettera b). Dettano anche previsioni puntuali inerenti all’adozione di specifiche e peculiari modalità di espletamento dei servizi e di impiego della banda ultralarga in vari settori, fra i quali quello scolastico, quello sanitario e quello turistico, e vincolano il Governo all’introduzione di modalità telematiche per garantire la partecipazione ai «processi decisionali delle istituzioni pubbliche» (comma 1, lettera c). Prescrivono, inoltre, di «favorire l’elezione di un domicilio digitale da parte di cittadini e imprese ai fini dell’interazione con le amministrazioni» (comma 1, lettera g).

Le disposizioni impugnate, che pure intersecano sfere di attribuzione regionale come il turismo e l’organizzazione amministrativa regionale, costituiscono, in via prevalente, espressione della competenza statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.). Esse sono anzitutto strumentali per «assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione» (sentenza n. 17 del 2004; nello stesso senso, fra le altre, sentenze n. 23 del 2014 e n. 46 del 2013). Assolvono, inoltre, all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale, nell’accesso ai dati personali, come pure ai servizi, esigenza che confina anche con la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni. Tanto basta per confermare la piena competenza dello Stato, coerente con l’impegno, dallo stesso assunto, di uniformarsi alle indicazioni provenienti dall’Unione europea.

La riconduzione alla competenza legislativa statale della normativa impugnata esclude anche ogni profilo di violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., in particolare con riguardo alla procedura di adozione dei decreti legislativi, subordinata, ai sensi del comma 2, all’acquisizione del parere in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo n. 281 del 1997.

4.2.– Le disposizioni contenute nell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, sono impugnate perché ritenute lesive della competenza legislativa regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, nella parte in cui dettano principi e criteri direttivi della delega al Governo anche in tema di dirigenza regionale, nonché del principio di leale collaborazione, per la previsione dell’adozione dei decreti legislativi attuativi, previo parere in Conferenza unificata.

4.2.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Si tratta di disposizioni che contribuiscono a definire una serie di principi e criteri direttivi molto puntuali, relativi alla delega al Governo in tema di riorganizzazione di tutta la dirigenza pubblica. La delega intende innovare profondamente la disciplina previgente, mediante l’istituzione del sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati e coordinati dei dirigenti dello Stato, dei dirigenti regionali e dei dirigenti degli enti locali, accomunati da requisiti omogenei di accesso e da procedure analoghe di reclutamento (comma 1, lettera a), nonché mediante la previsione di regole unitarie inerenti non solo al trattamento economico e al regime di responsabilità dei dirigenti, ma anche alla formazione e al conferimento, alla durata e alla revoca degli incarichi. Le disposizioni impugnate si inseriscono nel quadro degli interventi volti a definire regole omogenee e unitarie in tema di dirigenza pubblica, in un’ottica di miglioramento del “rendimento” dei pubblici uffici e dunque di garanzia del buon andamento dell’amministrazione.

Riguardo all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali, si deve osservare che – diversamente da altre disposizioni impugnate – è espressamente prevista l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (comma 1, lettera b, numero 2). Sono poi dettate regole puntuali e dettagliate, la cui attuazione è demandata al Governo mediante decreti legislativi, inerenti all’inquadramento dei dirigenti delle Regioni nella fase di prima applicazione (comma 1, lettera b), all’accesso al ruolo (comma 1, lettera c, numeri 1 e 2), alla formazione permanente (lettera e), alla mobilità (lettera f), al conferimento e alla durata degli incarichi (lettere g e h), al trattamento e ai diritti dei dirigenti privi di incarico (lettera i), alla valutazione dei risultati (lettera l), alla responsabilità (lettera m), alla retribuzione (lettera n), al regime della dirigenza sanitaria (lettera p), alla revoca degli incarichi (lettera q).

È innegabile che tali disposizioni incidano su ambiti riconducibili alla competenza del legislatore statale in materia di «ordinamento civile», nella parte in cui attengono a profili inerenti al trattamento economico (fra le tante, sentenze n. 211 e n. 61 del 2014) o al regime di responsabilità (sentenza n. 345 del 2004), o comunque a profili relativi al rapporto di lavoro privatizzato, o a competenze statali concorrenti, come quella, relativa alla disciplina della dirigenza sanitaria, costituita dalla determinazione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute.

Altrettanto innegabile è che le disposizioni in esame siano in parte riconducibili alla competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, entro cui si collocano le procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al ruolo (così come a tutto il pubblico impiego: sentenze n. 310 del 2011 e n. 324 del 2010), il conferimento degli incarichi (sentenza n. 105 del 2013) e la durata degli stessi.

Questa Corte ha ritenuto tali aspetti inerenti ai profili pubblicistico-organizzativi della dirigenza pubblica, così come di tutto il lavoro pubblico (fra le tante, sentenza n. 149 del 2012). Il legislatore statale interviene in questi casi solo per fissare principi generali a garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (sentenza n. 105 del 2013).

Le medesime disposizioni sono anche riferite alla competenza regionale residuale in materia di formazione o a quella concorrente in materia di tutela della salute, con riguardo alla disciplina di dettaglio della dirigenza regionale (sentenze n. 124 del 2015, n. 233 e n. 181 del 2006).

È dunque palese il concorso di competenze, inestricabilmente connesse, nessuna delle quali si rivela prevalente, ma ciascuna delle quali concorre alla realizzazione dell’ampio disegno di riforma della dirigenza pubblica. Pertanto, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, se necessario a garantire l’esigenza di unitarietà sottesa alla riforma. Tuttavia, esso deve muoversi nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile anche in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 26 e n. 1 del 2016, n. 140 del 2015, n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008). Poiché le disposizioni impugnate toccano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali, il luogo idoneo di espressione della leale collaborazione deve essere individuato nella Conferenza Stato-Regioni.

Si deve osservare, infatti, che la disposizione contenuta nell’art. 11, comma 1, lettera b), numero 2), specifica che l’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali deve avvenire previa intesa nella Conferenza Stato-Regioni. Il legislatore statale svela, in questo caso, l’esigenza di procedere al coinvolgimento delle Regioni, poiché è consapevole di incidere sulle sfere di competenze regionali.

Appare dunque irragionevole non estendere il vincolo concertativo all’individuazione specifica dei requisiti di accesso al ruolo e di reclutamento e anche dei criteri di conferimento, durata e revoca degli incarichi, requisiti che attengono ai profili pubblicistico-organizzativi del lavoro pubblico, come tali riconducibili alla materia dell’organizzazione amministrativa regionale (sentenza n. 149 del 2012). La dettagliata enunciazione di principi e criteri direttivi nella legge di delegazione, pur riconducibile a apprezzabili esigenze di unitarietà, incide profondamente sulle competenze regionali e postula, per questo motivo, l’avvio di procedure collaborative nella fase di attuazione della delega.

4.2.2.– Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2, c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, nella parte in cui, nonostante le molteplici interferenze con le competenze regionali non risolvibili mediante il criterio della prevalenza del legislatore statale, prescrive, per l’adozione dei decreti legislativi delegati attuativi, una forma di raccordo con le Regioni – il parere in Conferenza unificata – da ritenersi lesiva del principio di leale collaborazione perché non idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali, necessario a contemperare la compressione delle loro competenze. Solo l’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, contraddistinta da una procedura che consente lo svolgimento di genuine trattative, garantisce un reale coinvolgimento.

4.2.3.– Restano assorbite le specifiche questioni promosse nei confronti dell’art. 11, comma 1, lettere f), i) e p), in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.

5.– Le questioni promosse nei confronti dei commi 1 e 4 dell’art. 16 sono strettamente connesse a quelle riferite agli artt. 17, 18 e 19 della medesima legge.

Infatti, l’art. 16 è censurato nel suo comma 1, poiché conterrebbe una delega alla “riorganizzazione” della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, di partecipazione azionaria delle amministrazioni pubbliche e di servizi pubblici locali di interesse economico generale, i cui principi e criteri direttivi sono indicati, rispettivamente, all’art. 17, all’art. 18 e all’art. 19. Il comma 4 del medesimo art. 16 è censurato nella parte in cui stabilisce le modalità procedurali dell’attuazione delle deleghe, relative alle richiamate materie, e in particolare subordina l’adozione dei relativi decreti legislativi al mero parere della Conferenza unificata, nonostante le molteplici interferenze delle deleghe in ambiti di competenza regionale, in violazione del principio di leale collaborazione.

L’esame di tali questioni deve, pertanto, essere svolto congiuntamente a quello delle questioni inerenti agli artt. 17, 18 e 19.

6.– Anche le disposizioni di cui all’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), sono impugnate nella parte in cui, definendo i principi e i criteri direttivi della delega al Governo per il riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, sono riferite anche al lavoro pubblico regionale, con conseguente violazione della competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di organizzazione amministrativa regionale. Esse inoltre demandano l’attuazione di tali principi e criteri a decreti legislativi delegati, da adottarsi previo parere in sede di Conferenza unificata (ai sensi dell’art. 16, comma 4), in violazione del principio di leale collaborazione.

6.1.– La questione è fondata, in conformità agli argomenti svolti con riguardo alle disposizioni di cui all’art. 11 della medesima legge n. 124 del 2015.

Ancora una volta occorre collocare le disposizioni impugnate nel quadro complessivo delineato dall’art. 17. Quest’ultimo si propone di riordinare la disciplina del lavoro alle dipendenze di tutte le pubbliche amministrazioni e di riformare la disciplina vigente in prospettiva unitaria, ma in ambiti disparati, che spaziano dal reclutamento, al rapporto di lavoro, al contenimento delle assunzioni, al lavoro flessibile, alla valutazione e alla responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici.

Le disposizioni specificamente impugnate dettano puntuali indicazioni al Governo riguardo alle procedure concorsuali per l’accesso al lavoro pubblico, sia con la previsione di requisiti di ammissione e criteri di valutazione (là dove impongono, alla lettera a, di privilegiare «l’esperienza professionale acquisita da coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche», o, alla lettera b, «l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche», o ancora là dove prescrivono, alla lettera d, la soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi per l’accesso agli impieghi, o, alla lettera e, l’accertamento della conoscenza della lingua inglese e di altre lingue, o, alla lettera f, la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca); sia imponendo modalità di espletamento delle prove (come alla lettera c, che prescrive l’accentramento dei concorsi per tutte le amministrazioni pubbliche e la revisione delle modalità di espletamento degli stessi).

Le disposizioni in esame assegnano inoltre al Governo il compito di attribuire all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) le competenze in tema di accertamento medico legale in caso di assenze dei dipendenti pubblici per malattia al fine di garantire l’effettività dei controlli (lettera l), di definire gli obiettivi di contenimento delle assunzioni, differenziati in relazione agli effettivi fabbisogni (lettera m), di introdurre una disciplina delle forme del lavoro flessibile (lettera o), di prevedere il «progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni [...] anche al fine di facilitare i processi di mobilità» (lettera q), di semplificare la disciplina in tema di valutazione dei dipendenti pubblici, di riconoscimento del merito e di premialità, e razionalizzare i sistemi di valutazione (lettera r), di ridefinire il regime della responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti al fine di accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare (lettera s), infine di rafforzare il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione (lettera t).

Dall’esame appena svolto emerge chiaramente che le disposizioni impugnate incidono in parte in ambiti riconducibili alla competenza dello Stato, in specie ove dettano indicazioni inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti, anche regionali e degli enti locali, ormai privatizzato e dunque soggetto alle norme dell’ordinamento civile di spettanza esclusiva del legislatore statale (fra le tante, sentenza n. 62 del 2013); ove regolano il regime di responsabilità, egualmente riconducibile all’ordinamento civile; ove impongono obiettivi di contenimento delle assunzioni delineando principi di coordinamento della finanza pubblica. Esse, tuttavia, mettono in gioco, in misura rilevante, anche la competenza regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, in specie quando intervengono a dettare precisi criteri inerenti alle procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al lavoro pubblico regionale, ripetutamente ricondotto da questa Corte alla competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenze n. 100 del 2010, n. 95 del 2008, n. 233 del 2006 e n. 380 del 2004).

Tali competenze si pongono in un rapporto di “concorrenza”, poiché nessuna di esse prevale sulle altre, ma tutte confluiscono nella riorganizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in una prospettiva unitaria, rivelandosi inscindibili e strumentalmente connesse. Tale vincolo di strumentalità, se da un lato costituisce fondamento di validità dell’intervento del legislatore statale, dall’altro impone a quest’ultimo il rispetto del principio di leale collaborazione nell’unica forma adeguata a garantire il giusto contemperamento della compressione delle competenze regionali, che è quella dell’intesa.

Come già detto in precedenza, l’intesa consente alle Regioni di partecipare con il Governo nella definizione della disciplina finale, sfruttando gli spazi lasciati aperti dal legislatore delegante, che ha indicato principi e criteri direttivi puntuali, nell’intento di imprimere unitarietà al proprio intervento.

Anche in tal caso, tenuto conto che gli interessi e le competenze coinvolte dalle disposizioni impugnate sono solo quelle statali e regionali, deve ritenersi che sia la Conferenza Stato-Regioni il luogo idoneo per il raggiungimento dell’intesa.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.

7.– Occorre ora esaminare la questione promossa nei confronti dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui delega il Governo a operare un riordino della disciplina delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e fissa una serie di principi e criteri direttivi, che eccederebbero dalle competenze statali in materia di «tutela della concorrenza» e di «coordinamento della finanza pubblica» e violerebbero l’autonomia organizzativa e finanziaria delle Regioni. Anche tale articolo è, inoltre, censurato nella parte in cui prevede, in combinato disposto con l’art. 16, comma 4, una forma di raccordo con le Regioni, quella del parere in Conferenza unificata, lesiva del principio di leale collaborazione.

7.1.– La questione è fondata in riferimento alla violazione del principio di leale collaborazione sulla base di argomentazioni analoghe a quelle già svolte con riguardo alle questioni promosse nei confronti degli artt. 11 e 17.

Le disposizioni censurate si inseriscono nel contesto delineato dall’intero art. 18. Quest’ultimo contiene specifici criteri di delega per il riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche al «fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza» (comma 1), a fronte di un quadro normativo complesso e diversificato, composto da numerose disposizioni speciali che si intrecciano con la disciplina di carattere generale.

In questa prospettiva, il “riordino” cui mira l’art. 18 si realizza assegnando al Governo, fra l’altro, il compito di differenziare le tipologie societarie in relazione alle attività svolte, agli interessi pubblici e alla quotazione in borsa (lettera a), di ridefinire regole, condizioni e limiti per la costituzione di società o per l’assunzione e il mantenimento di partecipazioni societarie da parte di amministrazioni pubbliche (lettera b), di delineare un preciso regime di responsabilità degli amministratori degli enti partecipanti e degli organi di gestione e dei dipendenti delle società partecipate (lettera c), di razionalizzare il regime pubblicistico per gli acquisti e il reclutamento del personale, per i vincoli alle assunzioni e le politiche retributive (lettera e), di prevedere la possibilità di piani di rientro per le società con bilanci in disavanzo con eventuale commissariamento (lettera i), di regolare i flussi finanziari, sotto qualsiasi forma, tra amministrazione pubblica e società partecipate (lettera l), nonché di definire una serie di regole puntuali relative alle partecipazioni azionarie degli enti locali (lettera m), fra le quali: l’individuazione dei criteri di scelta della forma societaria più adeguata per le società che gestiscono servizi strumentali e funzioni amministrative; l’individuazione, per le società che gestiscono servizi pubblici di interesse economico generale, di un numero massimo di esercizi con perdite di bilancio che comportino obblighi di liquidazione delle società; il rafforzamento delle misure volte a garantire il raggiungimento di obiettivi di qualità, efficienza, efficacia ed economicità, anche attraverso la riduzione dell’entità e del numero delle partecipazioni e l’incentivazione dei processi di aggregazione.

Questa Corte si è più volte pronunciata sul tema delle società a partecipazione pubblica. Da un lato essa ha ricondotto le disposizioni inerenti all’attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali alla materia dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva statale, in quanto volte a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato, nonché a quella della «tutela della concorrenza» in considerazione dello scopo di talune disposizioni di «evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali» (sentenza n. 326 del 2008). Dall’altro ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni statali che, imponendo a tutte le amministrazioni, quindi anche a quelle regionali, di sciogliere o privatizzare proprio le società pubbliche strumentali, sottraevano alle medesime la scelta in ordine alle modalità organizzative di svolgimento delle attività di produzione di beni o servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali, violando la competenza legislativa regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa regionale (sentenza n. 229 del 2013).

Ciò dimostra che un intervento del legislatore statale, come quello operato con le disposizioni impugnate dell’art. 18, finalizzato a dettare una disciplina organica delle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche, coinvolge, inevitabilmente, profili pubblicistici, che attengono alle modalità organizzative di espletamento delle funzioni amministrative e dei servizi riconducibili alla competenza residuale regionale, anche con riguardo alle partecipazioni degli enti locali che non abbiano come oggetto l’espletamento di funzioni fondamentali. Tale intervento coinvolge anche profili privatistici, inerenti alla forma delle società partecipate, che trova nel codice civile la sua radice, e aspetti connessi alla tutela della concorrenza, riconducibili alla competenza esclusiva del legislatore statale.

Da qui la “concorrenza” di competenze statali e regionali, disciplinata mediante l’applicazione del principio di leale collaborazione. Ai principi e criteri direttivi il Governo deve dare attuazione solo dopo aver svolto idonee trattative con Regioni e enti locali nella sede della Conferenza unificata. Quest’ultima è la sede, come si è già detto, più idonea a consentire l’integrazione dei diversi punti di vista e delle diverse esigenze degli enti territoriali coinvolti, tutte le volte in cui siano in discussione temi comuni a tutto il sistema delle autonomie, inclusi gli enti locali.

È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata.

8.– Si deve, infine, procedere all’esame delle questioni promosse nei confronti dell’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), in riferimento agli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost. e al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

Tali disposizioni sono impugnate nella parte in cui stabiliscono una serie di principi e criteri direttivi relativi alla delega al Governo per il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali d’interesse economico generale che inciderebbero su materie di competenza regionale, la cui attuazione è peraltro demandata a decreti legislativi del Governo da adottarsi previo parere in Conferenza unificata.

8.1.– La questione è fondata, in riferimento al principio di leale collaborazione, secondo le argomentazioni già prima svolte.

Si tratta di una disciplina oggetto di numerosi interventi del legislatore statale, spesso frammentari e in via d’urgenza, su cui questa Corte si è più volte pronunciata, ravvisando una competenza legislativa statale esclusiva a disciplinare il regime dei servizi pubblici locali di interesse economico «per gli aspetti che hanno una diretta incidenza sul mercato» (sentenze n. 160 del 2016 e n. 325 del 2010) e che siano volti, «in via primaria, alla tutela e alla promozione della concorrenza» (sentenza n. 325 del 2010), nel limite della proporzionalità e adeguatezza dell’intervento (sentenze n. 160 del 2016, n. 443 del 2007, n. 272 del 2004). Ha anche ravvisato una competenza legislativa regionale residuale (che si accompagna alla competenza regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.) a disciplinare tutti quei profili (ivi compreso il trasporto pubblico locale) che non siano strumentali a garantire la concorrenza (sentenza n. 325 del 2010, n. 307 del 2009, n. 272 del 2004).

Da questi riferimenti emerge con chiarezza che le impugnate disposizioni dell’art. 19 contengono principi e criteri direttivi entro cui si intrecciano previsioni strettamente finalizzate alla tutela della concorrenza (lettera b, che attiene alla soppressione dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi generali in materia di concorrenza; lettera g, inerente alla definizione dei regimi tariffari), riconducibili alla competenza statale, e previsioni palesemente eccedenti tale finalità, inerenti alla gestione e organizzazione dei medesimi servizi (lettera b, che prescrive la soppressione dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio; lettera d, relativa alla definizione dei criteri per l’organizzazione territoriale ottimale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica; lettera h, che impone la definizione delle modalità di tutela degli utenti; lettera p, che dispone l’introduzione e il potenziamento di forme di consultazione dei cittadini e della partecipazione diretta alla formulazione di direttive alle amministrazioni pubbliche e alle società di servizi sulla qualità e sui costi degli stessi), espressione della competenza legislativa regionale residuale, insieme a previsioni incidenti in ambiti ancora diversi, come quelle inerenti alla disciplina dei rapporti di lavoro (lettera t).

Queste disposizioni sono tenute insieme da forti connessioni, proprio perché funzionali al progetto di riordino dell’intero settore dei servizi pubblici locali di interesse economico generale. Sebbene costituiscano espressione di interessi distinti, che corrispondono alle diverse competenze legislative dello Stato e delle Regioni, esse risultano inscindibili l’una dall’altra, inserite come sono in un unico progetto. Nel dare attuazione a principi e criteri direttivi in esse contenuti, il Governo supera lo scrutinio di legittimità costituzionale se rispetta il principio di leale collaborazione, avviando le procedure inerenti all’intesa con Regioni e enti locali nella sede della Conferenza unificata.

È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata.

9.– Le pronunce di illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara:

1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni;

2) l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni;

3) l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata;

4) l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u), della legge n. 124 del 2015, nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata;

5) inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 23, comma 1, della legge n. 124 del 2015, promossa, in riferimento agli artt. 81 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;

6) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2, della legge n. 124 del 2015, promossa, in riferimento agli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2016.

 

 

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