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La decisione della controversia

1. Profili generali

La decisione della controversia è disciplinata dai seguenti articoli del D.Lgs. 546/1992 concernenti:

-         le “deliberazioni del collegio giudicante” (art.35).

-         il contenuto della sentenza (art. 36);

-         la pubblicazione e la comunicazione della sentenza (art. 37);

-         la richiesta di copie e la notificazione della sentenza (art.38).

 

2. Decisione in camera di consiglio

Il collegio giudicante, dopo la trattazione della controversia in camera di consiglio o in pubblica udienza, decide in camera di consiglio. Ove ne ricorrano i motivi, la deliberazione può esser rinviata di 30 giorni (termine ordinatorio) dalla data di trattazione della controversia.

Alle deliberazioni del collegio si applica l'art. 276 del c.p.c. (regolante l'ordine in cui  le  questioni  dibattute  debbano essere  risolte), tra cui il principio che alle deliberazioni in camera di consiglio  possono  partecipare  soltanto  i  giudici  che   abbiano assistito alla discussione[1], pertanto durante la fase deliberativa il segretario non può trattenersi nella camera di consiglio[2]. Il collegio delibera a maggioranza dei componenti, il cui ordine per la votazione è il seguente: prima il relatore, successivamente l’altro componente ed infine il presidente. Chiusa la votazione il dispositivo è redatto e sottoscritto dal presidente del collegio deliberante.

Di tale fase non deve né può farsi alcuna verbalizzazione, in quanto sarebbe contraria al segreto camerale.

La decisione della controversia tributaria è racchiusa nella sentenza, che in quanto tale, deve essere munita dei requisiti formali e sostanziali indicati nell’art. 36 D.Lgs. n. 546/1992, le cui previsioni riflettono sostanzialmen­te quelle dell’art. 132 del codice di rito.  Al pari di qualsiasi sentenza emessa da organi giurisdizionali, ordinari e  speciali, la sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano ed è intestata  alla Repubblica italiana: la ragione di tali requisiti formali è ben comprensi­bile quando si tiene presente che la sentenza ha la funzione di rendere traspa­rente la giurisdizione, esercitata in nome del popolo italiano (art. 101, c. 1, Cost.). Peraltro, la carenza di tali requisiti non è causa di nullità ma dà ori­gine a mera irregolarità suscettibile di eliminazione mediante la procedura di correzione degli errori materiali a norma dell’art. 287 c.p.c..

E’ esclusa la possibilità di  sentenze non definitive o limitate solo ad alcune delle domande proposte dal ricorrente, per evitare gli inconvenienti derivanti dal frazionamento dei giudizi. Tale previsione costituisce una norma di carattere eccezionale che introduce una deroga rispetto al regime previsto dall’art. 279 c.p.c., in considerazione della peculiare struttura del processo tributario e del sistema di riscossione frazionata dei tributi contro cui verrebbe a configgere l’istituto della sentenza non definitiva[3].

L’art. 131 c.1 c.p.c. dispone che la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto, ed i successivi artt. 132 , 134 e 135 dettano le relative specificazioni.

E’ utile, peraltro, ricordare che la giurisprudenza di legittimità è univocamente orientata nell’affermare il principio della prevalenza  della sostanza sulla forma, onde l’ordinanza che abbia il contenuto decisorio  di una sentenza va qualificata come  tale, con tutte le conseguenze che ne derivano[4].

A) L’ordinanza è un provvedimento ordinatorio, modificabile o revocabile ad opera dello stesso giudice che l’ha pronunciato, e deve essere succintamente motivato. E’ adottata nei casi previsti dagli artt. 7, 14, 34 c. 3, 39 ss., 47 c. 4 e 70 c. 8 D.Lgs. n. 546/1992. Inoltre, vengono disposti dal giudice tributario con ordinanza  i provvedimenti con i quali il giudice tributario solleva una questione di legittimità costituzionale (art. 23 L. 11 marzo 1953 n. 87), rimette gli atti alla Corte di giustizia a norma dell’art. 234 (ex, 177) del Trattato CE.

B) Il decreto è il provvedimento, che non necessita invece di motivazione, emesso dal presidente della commissione, o della sezione. E’ adottata nei casi previsti dagli artt. 27 c. 1 e 2,  29, 30, 41 c. 1  e 47 c. 2 e 3 D.Lgs. n. 546/1992.

C) la sentenza è il provvedimento di natura giurisdizionale, emesso nel contraddittorio delle parti, di contenuto decisorio, non modificabile né revocabile da parte del giudice che lo ha emesso (salva, tuttavia, la correzione di eventuali omissioni od errori materiali o di calcolo a norma dell’art. 287 c.p.c.).

 

3. Tempi di emissione della sentenza

L’art. 35 D.Lgs. 546/1992, nel disciplinare  la  deliberazione  del  collegio giudicante dispone che la stessa debba intervenire:

-         in segreto  in camera  di  consiglio subito dopo la discussione in pubblica udienza;

-         ovvero subito dopo l'esposizione del relatore (qualora non vi sia la pubblica udienza). 

La deliberazione in camera di consiglio, sussistendone i motivi,  può esser rinviata,  di non oltre 30 giorni  dalla trattazione della controversia. 

 

4. Contenuto della sentenza

Il contenuto della sentenza è disciplinato dall’art. 36 D.Lgs 546/1992, che ricalca l’art. 132 c.p.c., infatti la sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano ed è intestata  alla Repubblica italiana. La carenza di tali requisiti non è causa di nullità ma dà origine a mera irregolarità suscettibile di eliminazione mediante la procedura di  correzione degli errori materiali a norma dell’art. 287 c.p.c.

Inoltre, in base all’art.36 c.2 la sentenza deve contenere:

a)      l'indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori se vi sono;

b)      la concisa esposizione dello svolgimento del processo;

c)      le richieste delle parti. Ciò consente l’esame in merito all’attinenza del giudicato al thema dedidendum;

d)      la succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto;

e)      il dispositivo, cioè la decisione vincolante per le parti;

f)        la data della deliberazione;

g)      la sottoscrizione del presidente e dell'estensore o del solo presidente quando sia anche l’estensore.

 

5. Motivi di nullità della sentenza

Costituiscono causa di nullità assoluta ed insanabile del provvedimento per mancanza di un requisito formale essenziale:

-         l’omessa sottoscrizione della sentenza da parte del Presidente del collegio[5] e dal relatore estensore[6];

-         la mancata indicazione dei componenti il Collegio e l’impossibilità di desumerne l’identità sia       dall’epigrafe della sentenza sia soprattutto dal processo verbale dell’udienza[7];

-         la sentenza emessa da un magistrato diverso da quello che, a seguito della precisazione delle        conclusioni, ha trattenuto la causa in decisione, perché deliberata da un soggetto che è rimasto estraneo alla trattazione della causa[8].

Dette omissioni, seppur,  involontarie, non sono emendabili con la procedura di correzione degli errori materiali, di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., ma comportano il rinvio della sentenza all’Autorità giudiziaria che l’ha emessa.

E’, altresì, affetta da nullità la sentenza:

-         priva della esposizione dello svolgimento del processo e dei   fatti   rilevanti  della  causa  e  con  una  motivazione  in  diritto estremamente succinta e di per sè sola sostanzialmente inintelligibile[9];

-         insufficientemente motivata. E’ costante giurisprudenza della Corte di Cassazione che ricorre tale vizio ove il Giudice non indichi gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento ovvero il criterio logico e la ratio decidendi che lo ha guidato. Il Giudice deve delineare il percorso logico seguito, descrivendo il legame tra gli elementi interni determinanti che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata; mentre deve escludersi, attraverso adeguata critica, la rilevanza di ogni elemento esterno al percorso logico seguito, di natura materiale, logica o processuale, ed astrattamente idoneo a delineare conseguenze divergenti dall'adottata decisione[10]. E' insufficientemente  motivata  la  sentenza che fa acritico riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione[11];

-         la mancanza o estrema coincisione della motivazione in diritto della sentenza, allorquando rendano impossibile individuare il thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo[12]. (Per effetto del rinvio dell’art. 1 c. 2 D.Lgs. 546/1992 risultano applicabili i principi desumibili dagli art. 132, c. 2, n.4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.);

-         la sentenza motivata con un mero rinvio ad altra decisione, senza alcuna, sia pur sintetica, autonoma valutazione delle circostanze[13] (art.132, c. 1, n. 4 ed art. 360, c. 1 n. 4 del c.p.c).  Infatti, la motivazione di una sentenza per relationem ad altra sentenza è legittima quando il giudice riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione[14];

-         la sentenza che decida la controversia attraverso il rinvio al dispositivo di altra sentenza che dovrà essere successivamente emanata, in quanto priva di contenuto decisorio[15];

-         l’insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo, tale da non rendere identificabile la reale portata del provvedimento[16];

-         l’indecifrabilità della sentenza, che, si traduce in impossibilità per la parte di individuare i motivi di fatto e di diritto su cui si basa la decisione. Ques’ultima ai sensi dell’art. 546 c. 1 lett. e) c.p.p. deve essere, sia pur concisamente, esposti - ossia resi visibili - con le modalità ivi indicate. Pertanto, la sentenza scritta con grafia incomprensibile è da ritenersi priva di motivazione e sanzionata con nullità ex artt. 180 ss. c.p.p.. La non agevole lettura della sentenza pregiudica inoltre il contraddittorio poichè non può “farsi carico alla parte” di chiedere la trascrizione in forma comprensibile della sentenza con vanificazione dei termini per impugnare[17];

-         la sentenza emessa in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

I vizi che determinano la nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione e possono esser fatti valere esclusivamente con il mezzo dell’impugnazione previsto dall’ordinamento. Conseguentemente con la decadenza dell’impugnazione, in base all’art. 161 c.p.c. non possono esser più dedotti e quindi la sentenza viziata per  nullità produce effetti al passaggio in giudicato.

 

6. Motivi che non danno luogo a nullità

Risultano invece emendabiliin base alla procedura di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., le omissioni che comportano solo difficoltà nella eseguibilità o nella interpretazione o nell’esattezza formale della sentenza, in quanto per consolidato orientamento della Corte di Cassazione le prescrizioni del cosi detto contenuto della sentenza di cui all’art. 132, c. 2, c.p.c. devono essere interpretate in senso sostanziale[18].

Tale situazione si riscontra nelle seguenti fattispecie:

-         sentenza in  cui vi sia un errore materiale, che si risolve in una fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza, e che, come tale, può essere percepito e rilevato ictu oculi, senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza[19];

-         mancata indicazione di alcune parti[20];

-         mancata indicazione delle conclusioni del pubblico ministero e delle parti[21];

-         mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilavanti di causa[22];

-         l’omessa o inesatta indicazione nell’intestazione della sentenza del nome del difensore di una delle parti, semprechè il contraddittorio si sia regolarmente costituito a norma dell’art. 101 c.p.c.. In caso contrario di verterà in una ipotesi di nullità della sentenza[23];

-         contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza chiaramente riconducibile a semplice errore materiale[24].

 

7. Correzione della sentenza

Nei casi sopra elencati, la sentenza emessa è inesatta e pertanto va corretta, e quindi in virtù del rinvio operato dall’art.1, c. 2 D.Lgs. 546/1992, si applica l’art. 287 del c.p.c. che consente la correzione delle sentenze da parte dello stesso giudice che le ha pronunciate, su ricorso della parte interessata ed a condizione che il giudice sia incorso in omissioni o in errori materiali o di calcolo. La correzione avviene con un procedimento di natura amministrativa e non giurisdizionale, pertanto l’ordinanza che lo conclude non è soggetta ad impugnazione, neppure con ricorso[25], mentre resta impugnabile la sentenza corretta con lo specifico mezzo di impugnazione per essa previsto, il cui termine decorre dalla notifica del provvedimento di correzione, al fine di verificare se sia stato violato il giudicato ormai formatosi, nel caso in cui il procedimento sia stato utilizzato per incidere su errori di giudizio[26].

In merito ai tempi di impugnazione della sentenza corretta: la parte immune da vizi di erroneità va impugnata negli ordinari termini di impugnazione; mentre la sezione successivamente corretta va impugnata nei termini di impugnativa decorrenti dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione (art.288, c.4 ed uc. c.p.c.).

 

8. Pubblicazione e comunicazione della sentenza

La sentenza è resa pubblica mediante deposito del testo integrale originale nella segreteria della commissione tributaria entro 30 giorni (termine ordinatorio) dalla data della deliberazione. Il segretario fa risultare l'avvenuto deposito apponendo sulla sentenza la propria firma e la data (ex art. 37, c. 1 D.Lgs. 546/97). L’attestazione  del deposito della sentenza da parte del segretario, ha funzione certificativa della data del deposito la quale è peraltro rilevante ai fini della decorrenza dei termini di impugnazione.

Qualora  su  una  sentenza  risultino  apposte  due  date  di pubblicazione, si deve, in applicazione del principio  dell'affidamento  ed al fine di valutare l'ammissibilità del ricorso, fare riferimento alla data più recente.

Dell’avvenuta pubblicazione della sentenza la segreteria della Commissione dà notizia alle parti “costituite” entro 10 giorni dal deposito, mediante comunicazione del dispositivo, con il rispetto delle forme di cui agli artt. 16 e 17 D.Lgs. 546/1992 (ex art. 37, c. 2 D.Lgs. 546/97). La comunicazione del dispositivo contiene la data dell’avvenuto deposito.

 

9. Notifica della sentenza

L'art. 38 D.Lgs 546/1992 disciplina l'onere (quindi non più facoltà)  delle   parti  di  provvedere  direttamente  alla notifica della sentenza, anche nei confronti della parte non costituita, ed al deposito nei successivi 30 giorni, dell’originale o copia autentica dell’originale notificato, nella segreteria. Quest’ultima rilascia ricevuta e inserisce la sentenza nel fascicolo d’ufficio.

Per espletare tale attività la parte interessata deve chiedere alla  segreteria della Commissione tante copie autenticate della pronuncia quante sono le parti processuali cui la notificazione deve essere effettuata. Dette copie, che devono essere rilasciate entro 5 giorni dalla richiesta, devono essere notificate ad istanza della parte, nelle forme di cui agli artt. 137 e ss. c.p.c., tramite ufficiale giudiziario. Non è ammessa la possibilità di adottare per la notificazione, il servizio postale o la consegna diretta[27], oppure il mezzo fax[28].

In caso di notifica a mezzo ufficiale giudiziario la relata va apposta in calce all’originale ed alla copia dell’atto. Qualora venga apposta sul frontespizio dell’originale non trova applicazione il principio secondo cui si presume, fino a querela di falso, che l’atto sia stato consegnato nella sua integrità e, di conseguenza, la notificazione eseguita è nulla ai sensi dell’art. 156, c. 2, c.p.c. perché l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo.[29] 

L’originale della sentenza notificata (o copia autentica dell’originale notificato) deve essere depositata, a cura della parte che ha provveduto alla notifica stessa, presso la segreteria della Commissione tributaria che ha emesso la sentenza, entro 30 giorni dalla notifica.

Se nessuna delle parti provvede alla notificazione della sentenza, non possono essere proposti, dopo decorso il termine lungo dalla pubblicazione della sentenza:

-         l'appello;

-         il ricorso per cassazione;

-         la revocazione per errore di fatto risultante da atti o documenti di causa;

-         la revocazione per contrasto con precedente sentenza avente tra le parti autorità di cosa giudicata.

 

10. Termine di impugnazione della sentenza 

Dalla data di notificazione della sentenza decorre il termine di 60 giorni (termine breve) per l’impugnazione della stessa. Ai fini della decorrenza del termine è necessario la notificazione anche nei confronti della parte non costituita.

Qualora la sentenza non viene notificata è possibile l’impugnazione entro il termine lungo dalla pubblicazione della stessa[30]. Decorso il termine lungo, l'inoperatività della decadenza dalla  impugnazione  è  ammessa  solo  se la parte "non costituita" dimostri di non aver avuto  conoscenza  del  processo  per  nullità della  notificazione  del ricorso e per nullità della comunicazione dell'avviso di trattazione della controversia.

Ancorché la segreteria ha l’obbligo di comunicare il dispositivo della sentenza l’omissione di tale adempimento non produce alcun effetto processuale per cui le parti devono diligentemente controllare quando è stata depositata la sentenza per evitare il rischio di decadere dal diritto di impugnarla, infatti, il termine lungo per l’impugnazione inizia a decorrere dalla data di deposito della sentenza, a nulla rilevando l’eventuale mancata comunicazione[31].

 

11. Sentenza passata in giudicato

Qualora nei confronti della sentenza non sono più esperibili i mezzi di impugnazione previsti dal capo III del titolo II del D.Lgs. 546/1992,  si può affermare che si è formato il giudicato formale (ex art. 324 c.p.c.), che si distingue dal giudicato sostanziale in quanto quest’ultimo individua l’obbligazione da tenere nei confronti della controparte. L’effetto del giudicato è quello di vincolare le parti e costituisce un precedente.

 

12. Effetti del giudicato nel rapporto tra ente locale e concessionario

In merito agli effetti del giudicato nel rapporto tra Ente locale e l’Agente della riscossione, quest’ultimo è "persona indicata dal creditore" e, perciò, ex art. 1188 c.c., "fatto il pagamento", subisce automaticamente gli effetti riflessi del giudicato formatosi nei confronti del creditore medesimo (anche se non intervenuto nel giudizio). Quindi, ove il giudice riduca la pretesa tributaria dell'Ente impositore, l’Agente può direttamente procedere alla riduzione della "maggiore" richiesta contenuta nel ruolo e non è tenuto a chiedere all'Ente impositore la riduzione del ruolo stesso[32].

 

13 Giudicato esterno

Il giudicato esterno, la cui ratio è la stabilità dei rapporti e la risoluzione o prevenzione delle liti, consiste nell'autorità di giudicato che una sentenza produce in un altro processo ex art. 2909 c.c.[33], in base al quale “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Si distingue dal giudicato interno, poiché quest’ultimo ha luogo all’interno di un processo, laddove questioni già giudicate non possono essere oggetto di un nuovo giudizio nell’ambito dello stesso procedimento.

In  materia tributaria, la Corte di cassazione è restata a lungo ancorata al  cosiddetto principio  della  frammentazione  dei  giudicati,  in  base  al  quale  ogni annualità fiscale conserva  la  propria  autonomia  rispetto  alle  altre  e comporta la costituzione, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi alle annualità precedenti e  successive. Ne consegue che, qualora le  controversie  vertano  su  annualità  d’imposta diverse, esse vengono decise separatamente con più  sentenze  - anziché  con una sola, previa riunione dei relativi giudizi -,  anche  nel  caso  in  cui riguardino il medesimo tributo e questioni in tutto o in parte analoghe. Ciò significa  che  nessuna  delle  sentenze  pronunciate  è   suscettibile   di costituire cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità. Tuttavia,  il  principio   della frammentazione dei giudicati  è  stato  superato  dalla  giurisprudenza  più recente della Corte  di  cassazione,  secondo  cui  l’oggetto  del  giudizio tributario non resta necessariamente  circoscritto  all’atto  impugnato,  ma coinvolge anche il merito della pretesa tributaria dell’amministrazione e il contesto normativo che sottende tale pretesa[34]. Si è quindi voluto valorizzare l’unitarietà  del  tributo,  anche  laddove   riguardi   periodi   d’imposta successivi e separati. Pertanto, un giudicato può attualmente invocarsi nell’ambito  di  un giudizio tributario anche laddove  formatosi  in  relazione  ad  un  periodo d’imposta diverso da quello oggetto  del  giudizio,  sempreché  riguardi  un punto fondamentale comune ad entrambe le cause.  Ciò  discende,  dal fatto che il principio  dell’autonomia  dei  periodi d’imposta non impedisce che il giudicato relativo ad  un  periodo  d’imposta faccia stato anche per altri, quando incida su elementi che siano  rilevanti per più periodi.

Sull’argomento, è intervenuta la  Corte  di  giustizia in merito ad  una domanda di  pronuncia  pregiudiziale  sottoposta  ai  sensi  dell’art. 234 CE,  dalla Suprema Corte di cassazione, e tesa a verificare se il diritto  comunitario  imponga  di disapplicare  una  disposizione  nazionale   che   sancisce   il   principio dell’autorità di cosa giudicata (giudicato esterno). Con le conclusioni del 24 marzo 2009, causa C-2/08 l’Avvocato Generale Ján Mazák ha ribadito che “il diritto comunitario osta all’applicazione di  una  disposizione  del diritto nazionale, quale l’art. 2909 del codice civile italiano,  diretta  a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, ove l’applicazione  di detta disposizione, come interpretata dai giudici nazionali, impedisca a  un giudice nazionale, in una controversia come quella principale, vertente  sul pagamento dell’IVA, di accertare correttamente e  conformemente  al  diritto comunitario l’esistenza di pratiche abusive,  qualora  una  decisione  sullo stesso oggetto sia già contenuta in una sentenza definitiva  pronunciata  da un giudice diverso (giudicato esterno) in relazione  a  un  diverso  periodo d’imposta”.

Il giudicato non si forma sulle questioni esaminate incidenter tantum e non si forma sugli obiter dicta; in altri termini, il giudicato non si forma sulle enunciazioni incidentali e sulle considerazioni estranee alla controversia[35].

Il giudicato esterno è rilevabile in sede di legittimità a condizione che risulti da atti che siano stati acquisiti nel corso del giudizio di merito, non essendo ammissibile la loro produzione per la prima volta in cassazione, data la preclusione posta dall'art. 372 c.p.c., il quale consente nuove produzioni documentali nel giudizio di legittimità solo ove riguardino la nullità della sentenza impugnata o l'ammissibilità (o improcedibilità) del ricorso e del controricorso. Tale preclusione opera anche nel caso di sopravvenienza del giudicato esterno dopo la proposizione del ricorso o del controricorso, tenuto conto della peculiare struttura del giudizio di cassazione, incompatibile con l'attività d'istruzione probatoria[36].

Il  giudicato  esterno deve essere rilevato d'ufficio e anche per  la  prima  volta nel giudizio di legittimità, purchè la parte che lo invoca  produca  copia  autentica  della sentenza, recante attestazione del passaggio in  giudicato.  Tale  principio,  si ritiene operante anche nel processo tributario, in relazione ad altro anno d'imposta[37].

Il giudicato,  oltre ad  avere  (ex  art.  2909  c.c.)  un'efficacia diretta nei confronti delle parti,   degli  eredi  e  degli  aventi  causa,  è  dotato, comunque, anche  di  un'efficacia  riflessa,  nel   senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce  conseguenze  giuridiche  nei confronti di  soggetti  rimasti  estranei  al processo in cui è stata emessa, allorquando questi   siano   titolari   di   un   diritto   dipendente dalla situazione  definita  in  quel  processo  o, in ogni caso, di un diritto subordinato a tale situazione[38].

L’accertamento del giudicato esterno non costituisce patrimonio esclusivo delle parti ma, è finalizzato ad evitare la formazione di giudicati contrastanti ed eliminare l’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione.

Il giudice ha il dovere di conformarsi alla regula iuris già formatasi sulla res iudicanda, quand’anche essa risulti da diverso giudizio intercorso tra le stesse parti o tra parti parzialmente diverse, purchè risulti certo o presumibile in misura assimilabile al certo la conoscenza del diverso giudizio avente carattere pregiudicante rispetto a quello in atto[39].

 

14. Esecuzione della sentenza

In merito all’esecutività delle sentenze pronunciate dalle commissioni tributarie, l’art. 68 D.Lgs. 546/1992 distingue due ipotesi:

a)      sentenza favorevole all’Ente impositore oppure all’Agente della riscossione;

b)      sentenza favorevole al contribuente.

Le pronunce giurisdizionali vanno esaminate dall’Ufficio dopo il  loro deposito, al fine di  garantire la tempestiva esecuzione dei conseguenti adempimenti. In particolare, va garantita:

-         la  tempestiva  esecuzione  dei  provvedimenti  giurisdizionali,  per evitare decadenze  in  materia  di  riscossione,  giudizi  di  ottemperanza, esecuzioni forzate, ulteriori aggravi, anche per quanto riguarda le  spese di giudizio;

-         la  tempestiva   impugnazione   dei   provvedimenti   giurisdizionali sfavorevoli  ovvero  la  tempestiva  e   motivata   acquiescenza.

 

14.1 Esecuzione della sentenza favorevole all’Ente impositore

L’art. 68 del D.Lgs. 546/1992 prevede la provvisoria esecuzione della sentenza, a seguito del deposito della stessa,  prescrivendo le modalità di versamento dei tributi pretesi e relativi interessi, mediante una graduazione degli importi  da  versare  in relazione ai vari gradi di giudizio nonché la relativa procedura di restituzione.

In particolare, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo (Imposte sui redditi, IVA, IRAP), oggetto di giudizio davanti alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi e sanzioni diminuiti di quanto già corrisposto deve essere pagato:

a)      per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso;

b)      per l'ammontare risultante dalla sentenza della commissione tributaria provinciale, e comunque non oltre i due terzi, se la stessa accoglie parzialmente il ricorso;

c)      per il residuo ammontare determinato nella sentenza della commissione tributaria regionale.  

Gli importi da versare vanno diminuiti di quanto già corrisposto.

Le sanzioni seguono i principi della riscossione frazionata, in considerazione che la riforma del sistema sanzionatorio tributario ha esteso le norme della riscossione frazionata in pendenza di giudizio anche alle sanzioni amministrative (D.Lgs. 472/97).

Con l’art. 68 D.Lgs. 546/1992 viene portato ad unità il sistema della graduazione della riscossione precedentemente contemplata nelle singole leggi d’imposta.

Rimangono tuttavia operanti le disposizione relative alla riscossione parziale e provvisoria dei tributi dopo la notifica dell’avviso di accertamento e prima della pubblicazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale, previste nelle singole leggi d’imposta:

-       per le imposte sui redditi: della metà dell’imposta accertata più i relativi interessi (art. 15 DPR 602/1973);

-       per l’IVA: della metà dell’imposta accertata più i relativi interessi (art. 60 del D.P.R. 633/1972);

-       per l’imposta complementare di registro: di un terzo della maggiore imposta sul maggiore valore accertato più i relativi interessi (art. 56 DPR 131/1986).

La disciplina in esame non è applicabile ai tributi che per legge non sono riscuotibili frazionatamene (tributi locali) e per quelli iscritti a ruolo definitivamente. L’art. 68 del D.Lgs. 546/1992 non opera nei casi in cui non è prevista la riscossione frazionata del tributo, pertanto la riscossione può proseguire, nonostante l’atto sia stato annullato in sede giudiziale e finchè non si sia formato il giudicato[40]. A tal proposito la Corte di Cassazione sez. trib. con sent. 25 giugno – 9 gennaio 2004, n.141, in materia di tassa smaltimento rifiuti solidi urbani, ha esaminato la legittimità dell’iscrizione a ruolo della tassa, e dei relativi interessi, per l’intero ammontare nonostante la non definitività dell’accertamento tributario comunale. La Corte ha così ritenuto che l’articolo 72 del D.Lgs. n. 507/1993 - non includendo tra le disposizioni espressamente richiamate l’articolo 15 del D.P.R. n. 602/1973 – consente l’immediata iscrizione integrale a ruolo, con soprattasse ed interessi, della tassa pur se non definitivamente accertata; tale disciplina, peraltro, è stata ritenuta non contrastare con l’art. 3 della Costituzione dalla Corte costituzionale[41], avuto riguardo alla particolare natura dell’entrata, al soggetto impositore, alle modalità di commisurazione ed al necessario rapporto fra gettito e costo del servizio di gestione rifiuti. Nella pronuncia, la Corte fa inoltre notare come l’articolo 19 D.Lgs. n.46/1999, avendo limitato espressamente l’applicazione della medesima disposizione alle sole imposte sui redditi, escluda la possibilità di un’interpretazione estensiva della relativa disciplina ai tributi locali. 

 

14.2 Esecuzione della sentenza favorevole al contribuente

La  sentenza  che  accoglie  il  ricorso  del contribuente e  annulla  l’atto  impositivo  priva,  sia  pure  non  in  via definitiva (non essendosi ancora formato il giudicato) del  supporto  di  un atto amministrativo legittimante la pretesa  tributaria,  che  non  può  più formare oggetto di alcuna forma di riscossione provvisoria. In sostanza viene meno il titolo su cui si fonda la "ragione di credito". L’art. 68 c. 2 del D.Lgs. 546/1992, stabilisce addirittura che se il  ricorso  viene accolto, il tributo eventualmente corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria provinciale (ma  sembra logico che a maggior ragione il rimborso sia dovuto ove sia  intervenuta  la sentenza d’appello) deve essere rimborsato d’ufficio  entro  90 giorni dalla notificazione della sentenza (non ancora passata in giudicato), con  i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali. Dunque la legge  vuole  che la situazione patrimoniale del contribuente non sia pregiudicata da un  atto amministrativo che il giudice competente ha valutato  illegittimo[42]. Quindi, le somme eventualmente conseguite a titolo cautelare in fase di iscrizione a ruolo provvisoria devono essere rimborsate, dovendo le parti, in ossequio al principio di cui all’art. 111 Cost., essere poste in condizioni di parità, e non potendosi, pertanto, consentire all’Amministrazione – come avviene nella fase amministrativa dell’accertamento e della riscossione dei crediti tributari - di godere di una garanzia ormai dichiarata illegittima[43].

In ogni caso, l’azione del ricorrente è fortemente limitata, in quanto soltanto l’apposizione di formula esecutiva[44] al passaggio in giudicato della sentenza, consentirebbe al contribuente di avvalersi dell’art. 69 D.Lgs 546/92 relativo alla condanna dell’ufficio al rimborso oppure dell’art. 70 relativo al giudizio di ottemperanza. 

Nei confronti dello stesso ricorrente, infatti, l’art. 49 D.Lgs. 546/1992, disponendo che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano “le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337”, priva il giudice tributario d’appello del potere di sospendere l’efficacia esecutiva sia della sentenza di primo grado in pendenza dell’appello (art. 283 c.p.c.), sia della sua stessa sentenza di secondo grado in pendenza del ricorso per cassazione (art. 373 c.p.c.). Ciò è confermato tanto dall’art. 47, c. 4, D.Lgs. 546/1992 (che dichiara non impugnabile l’ordinanza con cui la commissione tributaria provinciale provvede sull’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato), quanto dall’inapplicabilità al procedimento di appello delle disposizioni relative alla tutela cautelare dettate per il procedimento di primo grado, in quanto non compatibili con la disciplina del gravame (art. 61 D.Lgs. 546/1992)[45].



[1] Cass. sez. III 26 luglio 2005 n. 15629 per la quale “la decisione di primo grado deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso, in uno o più membri, da quello che ha assistito alla discussione della causa, in violazione dell'art. 276, c.1, c.p.c. , è causa di nullità della sentenza, riconducibile al vizio di costituzione del giudice ai sensi dell'art. 158 c.p.c. ed è soggetta al relativo regime, con la conseguenza che il giudice d'appello che rilevi anche d'ufficio detta nullità, è tenuto a trattenere la causa e a deciderla nel merito, provvedendo alla rinnovazione della decisione come naturale rimedio contro la rilevazione della nullità (salvo dar corso anche ad eventuali attività cui sia stato sollecitato nell'ambito del regime dei "nova" in appello), e non deve, invece, rimettere la causa al primo giudice che ha pronunciato la sentenza affetta da nullità, in quanto non ricorre nella specie alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c., dovendosi in particolare escludere che il vizio in questione sia assimilabile al difetto assoluto di sottoscrizione della sentenza, contemplato dall'art. 161, secondo comma, del codice di rito, per il quale, invece, detta rimessione è imposta dallo stesso art. 354. Allorquando il vizio venga rilevato (anche d'ufficio) dalla Corte di cassazione, la causa va rimessa al giudice d'appello ovvero al giudice che ha pronunciato in unico grado per la rinnovazione della decisione, non potendo la rinnovazione della decisione essere effettuata nel giudizio di legittimità”.

[2] Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria con Ris. n.2/2002 del 15 gennaio 2002 ha evidenziato che a carico dei Presidenti inadempienti possono configurarsi ipotesi di applicazione di sanzioni di indole penale per violazione del segreto.

[3] Cass. sez. trib. 21 febbraio 2007  n. 7909 che ha annullato la sentenza di merito che aveva soprasseduto ad una delle domande giudiziali proposte.

[4] Cass. sez. lav. 10 gennaio 2001 n. 260.

[5] Cass. sez. trib. 29 maggio 2001 n. 7275; Cass. sez. trib. 13 maggio 2004  n. 9113 per la quale “l'omessa sottoscrizione della sentenza da parte del Presidente del collegio ne determina la nullità assoluta ed insanabile per mancanza di un requisito formale essenziale, equiparabile all'inesistenza del provvedimento, che pertanto, anche se l'omissione è involontaria, non è emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali”. Cass. sez. lav. 22 aprile 1995 n. 4564.

[6] Cass. sez. trib. 20 ottobre 2006 n. 22586 per la quale “la sentenza del giudice collegiale che contenga solo la firma del Presidente a cui non sia aggiunta anche la qualifica di relatore, nell'intestazione, ma non anche quella dell'estensore del provvedimento va dichiarata nulla d'ufficio dal momento che la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice (Presidente ed estensore secondo quanto dispone l'art. 132, c. 3 c.p.c.) costituisce requisito essenziale per l'esistenza del provvedimento la cui mancanza determina nullità assoluta e insanabile, senza che rilevi che il magistrato che non abbia sottoscritto il provvedimento abbia partecipato alla deliberazione di esso. Il presidente potrebbe provvedere personalmente alla materiale redazione ovvero di affidare l’incarico ad altro giudice del collegio (la qual cosa accade nei casi in cui il relatore abbia espresso, in sede di decisione, un voto difforme rispetto a quello del Presidente): di tale decisione, come del sopravvenuto impedimento del relatore-estensore già nominato, deve risultare traccia all’interno della sentenza”.

[7] Cass. sez. trib.  27 agosto 2001 n. 11269; Cass. sez. trib.  25 luglio 2001 n. 10147.

[8] Cass. Sez. III 24 marzo 2004  n. 5854 per la quale “qualora si renda necessario procedere alla sostituzione del magistrato che ha già trattenuto la causa in decisione, non sarà sufficiente un decreto del capo dell'ufficio che dispone la sostituzione, ma il nuovo giudice nominato dovrà convocare le parti dinanzi a sé perché precisino nuovamente le conclusioni”. Conforme Cass.sez. lav. 8 gennaio 2003 n. 82 per la quale “il principio della immutabilità del giudice deve intendersi nel senso che è necessaria, ai fini della validità della sentenza, l'identità tra il giudice dinanzi al quale si è svolta la discussione e quello che ha pronunciato la sentenza, rimanendo ininfluente la modifica del collegio giudicante per la decisione sull'inibitoria e in quella per la decisione del merito, attesa la netta diversità dell'oggetto della decisione nei due casi”; Cass. sez. trib. 5 dicembre 2001  n. 15374 per la quale “anche nel processo tributario il principio dell'immutabilità del giudice, volto ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa, è rispettato quando il collegio, dopo una prima udienza di discussione, partecipi, in diversa composizione, ad una nuova discussione, assumendo definitivamente la causa in decisione”.

[9] Cass. sez. trib. 10 giugno 2005 n. 12354; Cass. sez. trib. 28 novembre 2005 n.  25138.

[10] Cass. sez. trib. 09 agosto 2006 n. 17986; Cass. sez. trib. 24 gennaio 2006  n. 1360 per la quale “in forza  del  generale  rinvio  materiale  alle norme del codice di procedura  civile compatibili,  contenuto  nell'  art.  1,  c. 2,  del  D.Lgs.  546/1992, e' applicabile al nuovo contenzioso tributario, così come disciplinato  dal  citato decreto, il principio desumibile dalle norme di cui agli  artt.  132,  c.  2,  n.  4  c.p.c., e 118 disp. att. dello stesso codice, secondo   il  quale  la  mancata  esposizione  dello  svolgimento  del processo e  dei  fatti  rilevanti  della causa, ovvero la mancanza o l'estrema concisione della   motivazione   in  diritto  determinano  la  nullità  della sentenza, allorquando   rendano   impossibile   l'individuazione   del  thema decidendum  e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo”.    Cass. sez. trib.  14 aprile 2006  n. 8865 per la quale “il difetto di motivazione rileva autonomamente come vizio della  sentenza  solo  quando  riguardi  punti  di fatto decisivi, e non questioni di  solo  diritto”. Conforme: Cass. sez. trib. 2 febbraio 2002  n.  1374;  Cass. sez. trib. 9  gennaio  2002 n. 194; Cass. 20 febbraio 1999 n.  1430;  Cass.  sez. lav. 12 novembre 1997 n. 11198.

[11] Cass. sez. trib.  9 marzo 2005 n. 12354.

[12] Cass. sez. trib. 6 febbraio 2006  n. 6660 che ha rilevato la nullità della sentenza allorquando la mancata esposizione  dei fatti di causa, dei fatti rilevanti ai fini del decidere e l’estrema coincisione della motivazione in diritto rendono impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo;   Cass. sez. trib. 9 marzo 2005  n. 12354 che ha rilevato la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., con conseguente nullità assoluta della sentenza che acriticamente richiama apposita decisione della Corte senza approfondire i riferimenti applicativi alla specie concreta.  Conforme:  Cass. sez. trib 29 settembre 2005 n. 19110 del  per la quale “è priva di motivazione la sentenza d’appello con la quale i Giudici si limitano ad affermare che la decisione dei primi Giudici, relativa ai soci, deve essere confermata perché è stata confermata la decisione relativa alla  società partecipata. Così facendo, infatti, i Giudici rinviano ad una decisione esterna della quale non si conosce il contenuto sostanziale (e quindi le parti in causa non hanno la possibilità di verificare se siano state fornite risposte convincenti e legittime alle censure proposte con i motivi di appello) e non si sa se abbia acquistato la forza del giudicato formale”; Cass. sez. trib. 20 ottobre 2003 n. 7937 ; Cass. sez. trib. 13 dicembre 2001 n. 15733; Cass. sez. trib. 15 ottobre 2001 n. 12542; Cass. sez. trib. 29 novembre 2000 n. 15318; Cass. sez. trib. 21 novembre 2000 n. 15050; Cass. sez. trib. 17 maggio 2005 n. 16331.

[13] Cass. sez. trib. 12 giugno 2006 n. 15833; Cass. sez. trib. 6 giugno 2005 n. 16951; Cass. sez. trib.  5 maggio 1992 n. 5314.

[14] Cass. sez. trib. 18 maggio 2005  n. 18419; Cass. sez. trib.  3 febbraio 2003 n. 1539;  Cass. sez. II 28 gennaio 2000 n. 985;  Cass. SS.UU. 8 giugno 1998 n. 5612; Cass. sez. trib. 8 giugno 2006  n. 19450 per la quale “è nulla la sentenza di appello che confermi la pronuncia di primo grado senza prendere in esame i motivi di impugnazione e non dando contezza delle ragioni della conferma”. Conforme Cass. sez. I 27 gennaio 2006 n. 1756; Cass. sez. I 18 gennaio 2006 n. 890; Cass. sez. I 14 febbraio 2003 n. 2196; Cass. SS.UU. 4 giugno 2008 n. 14814.

[15] Cass. sez. trib.  6 ottobre 2000 n. 13353.

[16] Cass. sez. trib.  19 luglio 2007 n. 16488; Cass. sez. trib.  28 luglio 2006 n. 17224; Cass. sez. trib.  15 febbraio 2006 n. 6664.

[17] Cass. sez. trib.  28 novembre 2006 n. 42363.

[18] Cass. sez. trib. 5 dicembre 2003 n. 9113. L’art. 132 c.p.c. prevede per la sottoscrizione, la firma apposta in calce al documento da parte del magistrato.

[19] Cass. sez. II 30 agosto 2004 n. 17392.

[20] Cass. sez. trib.  23 luglio 2002 n. 10793; Cass. sez. trib.  4 giugno 2002 n. 8094; Cass. sez. trib.  21 maggio 2002 n. 7451; Cass. sez. trib. 22 aprile 2002  n. 5850; Cass. sez. trib. 5 luglio 2001 n. 9077; Cass. sez. trib.  28 maggio 2001 n. 7242.

[21] Cass. sez. trib. 8 aprile 2002  n. 5024.

[22] Cass. sez. trib. 4 marzo 2002 n. 3066; Cass. sez. trib. 6 aprile 2001 n. 5146.

[23] Cass. sez. trib.  6 giugno 2003 n. 16989.

[24] Cass. sez. trib.  24 gennaio 2006 n. 16488.

[25] Cass. sez. trib.  2 dicembre 2004 n. 22658.

[26] Cass. SS.UU. 6 febbraio 1984, n. 80; Cass. sez. trib.  9 settembre 2002 n. 13075.

 

[27] Cass. sez. trib.  2 maggio 2001 n. 6166.

[28] Cass. sez. trib. 25 marzo 2003 n. 4319.

[29] Cass. sez. trib. 1 marzo 2007 n. 6749; Cass. sez. trib. 21 marzo 2007 n. 6750.

[30] Cass. sez. trib.  3 aprile 2003  n. 5201 per la quale “il termine lungo per l’impugnazione decorre dalla data del deposito della sentenza anche laddove fosse  prevista la lettura in udienza del dispositivo”.

[31] Cass. sez. trib.   9 dicembre 2002 n. 17498.

[32] Cass. sez. trib.  6 aprile 2006 n. 21222.

[33] In merito alla possibilità della capacità espansiva del giudicato esterno nel processo tributario in altre controversie si veda Cass. SS.UU.  16 giugno 2006 n. 13916, la quale afferma che “la rilevanza del giudicato esterno costituisce espressione delle esigenze di “certezza” proprie del giudicato, quindi, del principio del ne bis in idem, e che sarebbe contrario ai criteri di logicità ed economia dei giudizi imporre al giudice di non tenere conto di un giudicato di cui sia a conoscenza”. Conforme Cass. sez . trib. 13 ottobre 2006  n. 22036 per la quale “deve essere rigettato il ricorso nei confronti della sentenza di merito che abbia accolto il ricorso del contribuente avverso l’avviso di accertamento relativo ad un anno di imposta in applicazione del giudicato formatosi in relazione ad altra annualità”. In senso limitativo all’applicazione del giudicato esterno si veda Cass. sez. trib.  5 febbraio 2007  n. 2438 che  ritiene inapplicabile il giudicato esterno  nei procedimenti aventi a oggetto imposte diverse, poiché ogni imposta ha una propria e diversa struttura. Cass. sez. trib. 25 maggio 2006  n. 24065 per la quale “deve essere accolto il ricorso avverso la sentenza di merito che non abbia valutato l’incidenza del giudicato relativo ad un anno di imposta  sulla controversia relativa ad altra annualità”. Cass. sez. trib. 25 giugno 2001  n.  8658 secondo cui “neppure il riferimento  al principio dell'autonomia dei periodi d'imposta può consentire  un'ulteriore disamina tra le medesime parti della qualificazione giuridica del  rapporto stesso contenuta in una decisione della commissione tributaria  passata  in giudicato". In senso contrario”; Cass. sez. trib.  30 maggio 2003 n. 8709,  secondo  la   quale   "nel   sistema tributario, ogni anno fiscale mantiene la propria autonomia, da ciò ne consegue che, qualora le  controversie  vertano  su  annualità  d’imposta diverse, esse vengono decise separatamente con più  sentenze  - anziché  con una sola, previa riunione dei relativi giudizi -,  anche  nel  caso  in  cui riguardino il medesimo tributo e questioni in tutto o in parte analoghe. Ciò significa  che  nessuna  delle  sentenze  pronunciate  è   suscettibile   di costituire cosa giudicata rispetto ai giudizi relativi alle altre annualità”. 

[34]  Cass. sez. trib. 23 luglio 2007 n. 16258.

[35] Cass. SS.UU. 25 maggio 2001 n. 226.

[36] Cass. sez. trib. 23 luglio 2004 n.  13854.

[37] Cass. sez. trib.  10 novembre 2006 n. 24067.

[38] Cass. sez. trib. 29 settembre 2006 n. 21222 per la quale “il   diritto  dell'incaricato, nel caso in esame  il concessionario della riscossione,  di  richiedere  il  pagamento  del  credito subisce direttamente  gli  eventi  delle  vicende (modificative e/o estintive) che possano  interessare  il  rapporto  obbligatorio  del  mandante.  La  mera riduzione quantitativa   del   credito  dell'ente  impositore,  da  parte  del giudice tributario,   non  importa  la  necessità  per  l'ente  di  rinnovare l'iscrizione a  ruolo  perchè  la  minor   somma  sicuramente  spettante  allo stesso per  effetto  della decisione di quel giudice e' comunque già compresa nel ruolo  formato  per  cui  il concessionario della riscossione, legittimato dal maggior  importo  del  ruolo ricevuto, tenuto conto dei richiamati effetti riflessi nei   suoi   confronti  del  giudicato  intervenuto  tra  debitore  e creditore in  ordine  al credito iscritto a ruolo, ben può - per logica prima e per   intuitive   ragioni   di  economia  del  complessivo  procedimento  di riscossione -  adeguare  sua  sponte  la  richiesta di pagamento conformemente alla situazione  stabilita  dal  giudice  tra  le parti sostanziali essendo la minore pretesa  confermata  dal   giudice  compresa  in quella maggiore portata dal ruolo  e,  quindi,  già  parte  di questo titolo: sempre che tanto non si    risolva, nella sostanza, in un atto di nuova diversa complessiva imposizione”. Si veda anche Cass. sez. lav. 9 gennaio 2003  n. 134 per la quale “in tema  di  solidarietà  tributaria,  il  principio  del giudicato riflesso, ovvero il  principio  per  cui  un  coobbligato  può  avvalersi del giudicato favorevole emesso  in  un  giudizio  promosso da un altro coobbligato anche se non vi  ha  partecipato, può essere invocato solamente da un soggetto che non sia diretto  destinatario  di  un  diverso e contrario giudicato formatosi nel frattempo” (nel  caso  di  specie,  la  Suprema  Corte  ha  escluso  che  il ricorrente Servizio  Riscossione  Tributi  potesse  giovarsi  di una pronuncia resa in  favore  della  Amministrazione  regionale, coobbligata, in quanto con quella stessa  sentenza  era  anche  stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal  Servizio  riscossione  tributi e, per effetto della pronuncia di inammissibilità, era  passato  in  giudicato  il punto della sentenza con cui il giudice  di  appello  confermava  la   pronuncia di primo grado, di condanna nei confronti del ricorrente).

[39] Cass. sez. trib.  7 maggio 2007 n. 14012.

[40] CTR di Torino 10 novembre 2009 n. 67.

[41] Corte Cost. 30 dicembre 1999 n. 464.

[42] Cass. sez. trib. 10 luglio 2008 n. 19078.

[43] Cass. sez. trib.  22 settembre 2006 n. 20526 per la quale “nella fase amministrativa dell'accertamento e della  riscossione dei crediti tributari,  la  legge  riconosce  all'Amministrazione  Pubblica poteri sopraordinati rispetto alle controparti;  ed  in  questo  quadro  si collocano i vari istituti che consentono all'Amministrazione di tutelare  i propri crediti adottando direttamente misure cautelari che invece i privati debbono richiedere al giudice.  Quando però si entra nell'ambito del processo, le parti debbono  essere collocate in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e  imparziale. E questa parità sarebbe lesa ove l'Amministrazione potesse  continuare  a godere di una garanzia che, lungi dall'essere  avallata  dal  giudice,  sia stata da questo disattesa e dichiarata illegittima”.

[44] Ai sensi dell’art. 475 c.p.c., le sentenze per valere come titolo devono essere munite della formula esecutiva. La spedizione del titolo in forma esecutiva può farsi soltanto alla parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l'obbligazione, o ai suoi successori, con indicazione in calce della persona alla quale è spedita. La spedizione in forma esecutiva consiste nell'intestazione «Repubblica italiana - In nome della legge» e nell'apposizione da parte del cancelliere o notaio o altro pubblico ufficiale, sull'originale o sulla copia, della seguente formula: «Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti».

[45] Corte Cost. ord.  5 aprile 2007  n. 119 che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 D.Lgs. 546/1992 sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Cost., dalla CTR Veneto. Conforme corte Cost. n. 165 del 2000; ord. n. 325 del 2001;   ord. n. 217 del 2000 con le quali la Corte rileva “come la garanzia costituzionale della tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga, nel processo, una pronuncia di merito che accolga - con efficacia esecutiva - la domanda, rendendo superflua l’adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela. Con la conseguenza che la previsione di mezzi di tutela cautelare nelle fasi di giudizio successive a siffatta pronuncia, in favore della parte soccombente nel merito, deve ritenersi rimessa alla discrezionalità del legislatore”. Inoltre, la Corte evidenzia che la censura riferita alla violazione del principio di eguaglianza ed incentrata sulla differente latitudine dei poteri del giudice nel processo civile e nel processo tributario è stata del pari disattesa in quanto in aperta contraddizione con la giurisprudenza di questa Corte che ha costantemente escluso l’esistenza di un principio (costituzionalmente rilevante) di necessaria uniformità tra i vari tipi di processo.

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