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Le spese del giudizio

1. Profili generali

L’art. 15 D.lgs. 546/1992, applica un principio generale di responsabilità per le spese di giudizio, comune anche al processo civile (art.91, c. 1, c.p.c.) e al processo amministrativo, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione da parte del giudice tributario (a norma dell’art. 92, c. 2 c.p.c.).

E’ quindi necessario formulare la richiesta di condanna della controparte alle spese di lite.

Il c. 2 dell’art. 15 dispone che  i compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base delle rispettive tariffe professionali, che sono disciplinate:

-         per gli avvocati dal D.M. n. 127 del  08 aprile 04;

-         per i dottori commercialisti dal D.P.R. n. 645 del 10 ottobre 1994;

-         per i ragionieri e periti commerciali dal D.P.R. n. 100 del 06 marzo 1997.

Le spese sono liquidate con  la  sentenza[1],  tenendo  anche  conto  di  quelle anticipate per eventuali consulenze tecniche disposte nel corso del processo, sulla base della presentazione,  da parte del difensore,  della nota spese di  cui  all'articolo  75 disp. att. c.p.c.,  con distinta indicazione di onorari  e  spese  in relazione   agli   articoli  della  tariffa,   tenendo  conto  della complessità della lite e del suo valore economico.  La liquidazione, va comunque effettuata dal giudice anche quando il difensore abbia omesso di presentare la nota spese.

Il termine ultimo per la produzione della nota spese:

-         coincide con quello previsto per il deposito delle brevi repliche, quindi, sino a cinque giorni prima dell’udienza se la controversia è trattata in camera di consiglio;

-         ovvero, entro la fine dell’udienza se la controversia è trattata in pubblica udienza.

La nota spese dovrà indicare in modo distinto:

-         gli onorari e i diritti, determinati in base alla tariffa professionale;

-         le spese vive sostenute dal difensore (bolli, spese di notifica, …);

-         le spese anticipate dal difensore o dalla parte per eventuali consulenze tecniche.

Anche laddove il contribuente si difenda personalmente e quindi non abbia richiesto l’assistenza di un difensore tecnico, l’ufficio può essere condannato alla rifusione delle spese[2] , qualora a causa di un atto illegittimo abbia instaurato il processo e non abbia in presenza di fondati motivi annullato in autotutela l’atto.

In caso di assenza di statuizione sulle spese, quest’ultima si intende effettuata per quote uguali  (art. 97 c.p.c.).

 

2. Spese di giudizio a favore dell’Ufficio del Ministero delle finanze e dell’Ente locale

Nella liquidazione delle spese a favore dell'ufficio tributario, se assistito da funzionari dell'amministrazione, e a favore dell'Ente locale, se assistito da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato.

Lo specifico riferimento  alle  spese  processuali  ed  alla  riduzione percentuale dei soli onorari di avvocato  chiarisce  il  diritto  dell'Ente alla rifusione sia dei costi affrontati e sia dei  compensi  spettanti  per l'assistenza tecnica fornita in giudizio dai propri dipendenti, tra i quali la tariffa forense comprende oltre che  gli  onorari  anche  i  diritti  di procuratore,  che  rappresentano  il  compenso  analitico  per   l'attività eminentemente formale che il professionista è, legittimato a  svolgere  nel processo, e, ai sensi dell'art. 15, un  rimborso  forfettario  delle  spese generali in ragione del 10% sull'importo degli  onorari  e  dei diritti[3].

La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

 

3. Condanna dell’Ufficio del Ministero delle finanze e dell’Ente locale al pagamento delle spese di giudizio

La  condanna  al pagamento delle spese del giudizio pronunciata nei confronti dell'ufficio impositore può seguire due strade:

a)      sentenza di condanna al rimborso delle spese legali sostenute dalla controparte (art. 91 c. 1 c.p.c.), comprensive di quelle anticipate dal cliente in corso di causa (art. 90 c.p.c.);

b)      sentenza di condanna con distrazione[4] delle spese legali  in favore del difensore della controparte (art. 93 c.  1 c.p.c.), laddove quest’ultimo ne abbia fatto espressa richiesta.

In entrambi i casi, la somma che l’Ente dovrà liquidare include sia l’IVA[5], ancorché la parte vittoriosa possa detrarsi l’IVA dovuta al proprio difensore[6] e sia il contributo Cassa previdenza avvocati[7]. Si tratta, infatti, di oneri accessori che conseguono, in  via generale, al pagamento dei diritti ed onorari ; inoltre nella seconda fattispecie sub b) l’Ente dovrà assolvere agli adempimenti previsti per il sostituto d’imposta[8].

Il contribuente, in caso di omesso pagamento delle spese di giudizio tributario liquidate a proprio favore con sentenza passata in giudicato può ricorrere al giudizio di ottemperanza (ex art. 70 del D.lgs. 546/1992) oppure alla procedura esecutiva ordinaria.

 

4. Differenze con il processo civile

Nel processo tributario a differenza del processo civile:

-         le spese di giudizio possono essere liquidate solo quando la sentenza è passata in giudicato (art. 69 D.Lgs. 546/1992). La sentenza di condanna dell’Ente impositore al pagamento di somme dovute, sia essa emessa dalla Commissione tributaria provinciale, o in grado di appello dalla Commissione tributaria regionale, non è immediatamente esecutiva, essa può essere eseguita solo con il passaggio in giudicato, cioè quando si siano esauriti tutti i gradi del giudizio, o quando per scadenza dei termini non è impugnabile;

-         l’Ente impositore può recuperare le suddette spese con la procedura dell’iscrizione a ruolo  a titolo definitivo (art. 15 c. 2-bis D.Lgs. 546/1992), mentre il contribuente deve, prima farsi rilasciare dalla segreteria la copia spedita in forma esecutiva, a norma dell’art. 475 c.p.c. pagando le relative spese (art. 69) ed eventualmente agire in sede civile in caso di mancato pagamento.

 

5. Compensazione delle spese. Le novità introdotte dalla L. 18 giugno 2009, n. 69.

Originariamente, il testo del c. 2. dell’art. 92 c.p.c., in vigore prima della modifica disposta dalla citata legge n. 263 del 2005 disponeva che: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». La giurisprudenza prevalente riteneva che la valutazione circa l'opportunità della  compensazione  totale  o parziale rientrava nei poteri discrezionali del giudice[9], sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quello della  «sussistenza di giusti motivi» e, pertanto, esulava dal sindacato di legittimità, salva  la possibilità di censurarne la motivazione  basata  su  ragioni  illogiche  o  contraddittorie, tali da inficiare, per la loro inconsistenza o palese erroneità, il processo formativo della volontà decisionale espressa dal giudice riguardo alla disposta compensazione[10].

A seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 263 del 28 dicembre 2005 al c. 2 dell’art. 92,  veniva richiesto quale requisito per la compensazione l’indicazione esplicita nella motivazione dei giusti motivi che avevano indotto il giudice alla compensazione delle spese. Ha trovato, pertanto, applicazione, in tema di compensazione  per  giusti  motivi,  il  principio sancito dall'art. 111, c. 6, Cost. (a seguito  dell'entrata in vigore dell'art. 1 della L. Cost. n.  2  del  1999),  secondo  cui  ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato. Nel contempo in giurisprudenza veniva affermato il seguente principio: “Il potere del giudice di pronunciare la compensazione fra le parti dell’onere circa il sostenimento delle spese del giudizio non è  arbitrario, discrezionale o svincolato dalla correlativa disposizione che  impone  -  in conformità ai canoni del giusto  processo  ed  effettività  del  diritto  di difesa  -  di  gravare  il  soccombente  del  costo  economico  della  lite. Conseguentemente, laddove il giudice ritenga di derogare  a  tale  principio devono essere manifestate in modo intellegibile le ragioni che  conducono  a detta  conclusione  desumibili  anche  dalle  statuizioni  contenute   nella motivazione della  decisione.  Ragioni  che  possono  essere  costituite  da oscillazioni giurisprudenziali sul thema decidendum, oggettive difficoltà di accertamento dei fatti dedotti in  causa,  ovvero  palese  sproporzione  fra l’interesse realizzato dalla parte vittoriosa ed  il  costo  delle  attività processuali richieste”[11].

La possibilità di compensazione delle spese di giudizio, quale eccezione al criterio della soccombenza previsto dall’art. 92, c.1 c.p.c., è stata ulteriormente ristretta dalla modifica all’art. 92 c. 2 c.p.c., apportata dal c. 11 dell’art. 45, L. 18 giugno 2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti dalle disposizioni transitorie di cui all’art. 58 della medesima legge. In base alla citata modifica, il cui scopo è quello scoraggiare ricorsi infondati e dilatori, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti allorquando:

-         vi è soccombenza reciproca[12] (cioè quando le domande delle parti siano state parzialmente accolte e parzialmente respinte);

-         concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicati nella motivazione.

Viene quindi introdotto il presupposto della “gravità ed eccezionalità delle ragioni” al fine di procedere alla compensazione, mentre la previgente formulazione faceva riferimento a “giusti motivi”. Alla luce di quanto sopra descritto la compensazione è divenuta un ipotesi marginale, in quanto in generale le spese di giudizio dovranno seguire la soccombenza.

Risultano, quindi, sindacabili in sede  di  legittimità, per violazione di legge i provvedimenti motivati con la genericità della formula “sussistono giusti motivi” ovvero laddove non siano ravvisabili le “gravi ed eccezionali ragioni”, quali potrebbero esser i forti contrasti giurisprudenziali sulla questione oggetto di giudizio.

Qualora, il giudice condanni alle spese, in carenza di domanda del ricorrente, si potrebbe eccepire l’ultrapetizione.

 

6. Spese di giudizio in caso di estinzione del processo per rinuncia al ricorso

L’art.44 D.L.gs. 546/1992 relativo all’estinzione del processo per rinuncia al ricorso, prevede che il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo fra loro. La liquidazione è fatta dal Presidente della sezione o dalla commissione con ordinanza non impugnabile, che costituisce titolo esecutivo.

 

7. Spese di giudizio in caso di estinzione del processo per inattività delle parti

L’art.45 D.L.gs. 546/1992 relativo all’estinzione del processo per inattività delle parti, prevede che le spese del processo estinto restano a carico delle parti che le hanno anticipate.

 

8. Spese di giudizio in caso di estinzione del processo per cessazione della materia del contendere

L’art. 46, c. 3 D.Lgs. 546/1992, nell’ipotesi di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, prevedeva che le spese processuali restavano a carico della parte che le aveva anticipate. Non trovava applicazione il criterio della soccombenza virtuale, invece, previsto nel processo amministrativo dall’art. 23, c.7, della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali)[13] nel caso di annullamento o riforma dell’atto, in via di autotutela, nel corso del processo amministrativo.

La Corte costituzionale, modificando un proprio precedente orientamento[14],  con sentenza del 12 luglio 2005 n. 274, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, c. 3 D.Lgs. 546/1992, nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge. La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e relativo ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio[15].

L’Ente impositore dovrà, pertanto, porre la massima attenzione nell’emettere gli atti impositivi, poiché in caso di successivo annullamento in autotutela in pendenza di giudizio dovrà sopportarne le conseguenze.

In definitiva, quindi, il compito che Corte costituzionale rimette al giudice, con sentenza n. 274/2005,  è rappresentato dalla distinzione tra ipotesi di cessazione della materia del contendere riportabili al bilanciamento di interessi sopra individuato (e facilmente individuabili nel ritiro dell’atto impugnato o nel riconoscimento del rimborso contestato, per quello che riguarda la responsabilità per le spese di giudizio dell’Amministrazione finanziaria e nell’acquiescenza alla pretesa tributaria, per quello che riguarda il contribuente) e ipotesi di cessazione della materia del contendere (“come i casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge”) non riportabili allo schema precedente e quindi non comprese nella declaratoria di incostituzionalità; solo nel primo caso, infatti, secondo la Corte, la cessazione della materia del contendere dovrebbe trovare una considerazione anche nella regolazione delle spese di giudizio.

Per quello che riguarda la problematica del riparto delle spese di giudizio, la Corte si limita ad un generico richiamo alla possibilità, per il giudice, di disporre la compensazione delle spese “qualora ne ricorrano i presupposti”.

 

9. Spese di giudizio nel caso di rifiuto della proposta di conciliazione

In forza della modifica all’art. 91 c. 1 c.p.c., apportata dal c. 10 dell’art. 45, L. 18 giugno 2009, n. 69 il giudice “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta”.

Tale fattispecie è applicabile nell’ipotesi di mancata accettazione della proposta giudiziale, allorquando consegua che l’ammontare del tributo oggetto della controversia sia stato stabilito dal giudice in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa.  

In tale ipotesi la novella legislativa prevede un obbligo in capo al giudice di condannare la parte, che non ha aderito senza giustificato motivo alla conciliazione, alle spese maturate dopo la proposta di conciliazione.

L’art. 91 c.1 fa comunque salva l’ipotesi della compensazione delle spese prevista dall’art. 92 c.2, qualora ricorrano gravi ed eccezionali ragioni.

 

10. Lite temeraria

In merito alla c.d. lite temeraria, ossia alla lite instaurata con mala fede o colpa grave con il solo fine di rinviare l’obbligo di pagamento di somme legittimamente accertate e quindi dovute, si ritiene applicabile l’art. 96 rubricato “responsabilità aggravata”, che è norma speciale rispetto alla fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c..

In base all’art. 96 c.1 c.p.c. qualora la parte soccombente ha agito o resistito  in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice “su istanza dell’altra parte”, la condanna, oltre alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida anche d’ufficio, nella sentenza[16]

Le condizioni per la condanna alle spese relative alla lite temeraria sono:

-         totale soccombenza, non necessariamente nel merito, della parte responsabile ovvero asenza di diligenza volta ad avvertire l’infondatezza o l’ingiustizia della propria pretesa;

-         l’utilizzazione del processo per fini non consentiti ovvero l’uso di strumenti fraudolenti o irrituali a fini dilatori;

-         l’esistenza di un danno effettivo e concreto imputabile al comportamento scorretto della parte soccombente;

-         malafede processuale ovvero gravi negligenze o colpe processuali comportanti irregolarità processuali.

Spesso accade che l’Amministrazione finanziaria si viene a trovare nella situazione di perdere una controversia e di sopportarne i relativi costi a seguito non di un processo incerto ma di un processo in cui la soccombenza era già certa in partenza (ad es. nel caso di appelli basati su tesi assolutamente infondate in quanto in contrasto con il dettato di norme dal significato inequivoco o con consolidati indirizzi giurisprudenziali o per mancato ritiro di atti d’accertamento emanati senza solide base giuridiche), pertanto ci si trova di fronte ad una ipotesi di danno erariale causato dalla condotta del funzionario[17].

Per effetto del c. 3 dell’art. 96 c.p.c., aggiunto dal c. 12 dell’art. 45, L. 18 giugno 2009, n. 69, il giudice, anche d’ufficio, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. La norma non prevede un limite minimo e massimo e la condanna può essere anche disposta senza che vi sia istanza di parte.

E’ importante non sottovalutare che l’esito di una vertenza che si conclude con una condanna per l’amministrazione per lite temeraria, potrebbe dar seguito da parte della Commissione tributaria, laddove emergano profili di danno erariale, alla comunicazione della sentenza alla Procura regionale competente della Corte dei conti per le valutazioni di propria competenza[18].

 



[1] Nel caso in cui il giudice abbia condannato alle spese, ma non abbia provveduto alla liquidazione incorre nel vizio di omessa denuncia, pertanto per la parte è necessario impugnare la sentenza al fine di ottenere il rimborso delle spese legali.

[2] CTR di Roma 10 marzo 2004 n. 8.

[3] Cass. sez. trib. 14 dicembre 2001  n. 15858.

[4] Col sistema delle distrazione, in caso di condanna al pagamento delle spese processuali, l'art. 93 c.p.c. prevede  che il difensore con procura, possa chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna la parte soccombente, distragga in suo favore gli onorari non riscossi e le spese da lui stesso anticipate. L'avvocato con la richiesta di distrazione delle somme in suo favore a carico della parte soccombente non libera il proprio cliente, che rimane vincolato a tale obbligazione in caso di compensazione totale o parziale delle spese processuali. l'avvocato della parte vittoriosa, detto anche "distrattario" o "antistatario" che si rivolge direttamente al soccombente.

[5] Ris. Ministeriale 24 luglio 1998 n. 91/E.

[6] Circ. n. 203/E del 6 dicembre 1994; Cass. sez. trib. 25 luglio 2000 n. 9730; Cass. sez. trib.  21 aprile 1997 n. 3412.  Secondo la Cass.SS.UU. 12 giugno 1982  n. 3544 il distrattario diviene creditore anche dell’importo corrispondente all’IVA ed è tenuto ad emettere fattura con addebito della rivalsa al cliente precisando di aver ricevuto il relativo importo dal soccombente.

[7] Cass. Sez II 17 ottobre 2002 n. 1672.

[8] Cass. sez. trib. 25 ottobre 1996 n. 9332; Cass. sez. trib.  22 giugno 1982  n. 3777; Cass. sez. trib.  16 luglio 1991  n. 7879. Ris. Min. Fin. n. 8/1619 del 8 novembre 1991.

[9] La sezione tributaria aderisce all'indirizzo che meno garantisce le legittime aspettative delle parti, ma che tenta di  frenare  il  flusso  di ricorsi in cassazione.    Cfr. Cass. sez. I 22 aprile 2005  n. 8540 per la quale “il sindacato della Corte di cassazione é limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere  poste  a carico della parte totalmente vittoriosa (Corte Cass., sentt.  nn.  5386  e  9707 del 2003 e 8889 del 2000) o che siano addotte  ragioni  palesemente  o microscopicamente illogiche e tali da inficiare, per la loro  inconsistenza o  evidente  erroneità,  lo  stesso  processo   formativo   della   volontà decisionale (Corte Cass., sent. n. 16012 del 2002 e 12744 del 2003)”;  Cass. sez. trib  12 gennaio 2004  n. 243 per la quale “la compensazione delle spese giudiziali rientra nell'esercizio  del  potere discrezionale del giudice di merito che, se congruamente motivato, come nel caso di specie, non è sindacbile in sede di legittimità (per  tutte  Cass., n. 5909/1999). I giusti  motivi  della  compensazione  devono  solo  essere enunciati senza necessità di un'esplicazione particolareggiata”.

[10] Cass. sez. trib.  17 maggio 2005  n. 13542.

[11] Cass. SS.UU. 30 luglio 2008 n. 20598.

[12] Nel processo tributario è di difficile configurazione la soccombenza reciproca, poiché presuppone una pluralità di pretese contrapposte rigettate dal giudice a svantaggio di tutte le parti.

[13] L’art. 23, c.7 L. 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), dispone infatti, in tal caso, che “il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese”, anche, ovviamente, dichiarandone la compensazione qualora ne ricorrano i presupposti”.

[14] Corte cost. 12 marzo 1998 n. 53. A negare il principio della “soccombenza virtuale” nel contenzioso tributario, anche la Corte Cass. sez. trib. 12 novembre 2003 n.  16987.

[15] Cass. 4 ottobre 2006  n. 21380.   

[16] Cass. sez. trib. 27 ottobre 1999  n. 12070;  Cass. sez. trib. 5 febbraio 1997 n. 1082 in base alla quale “costituisce colpa grave, fonte della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c., la pretesa per la seconda volta di un credito che contestualmente si afferma essere già stato pagato in precedenza, tanto più se la difesa sia svolta dall'Avvocatura dello Stato che, pur difendendo e rappresentando la P.A., ha anche un ulteriore dovere di maggiore diligenza che le deriva dall'appartenenza ad una pubblica istituzione ed è portatrice dell'esigenza generale di legalità dell'azione amministrativa”; Contra Cass. SS.UU. 15 ottobre 1999, n.  722 in base alla quale “l'attività della Pubblica Amministrazione,  anche  nel  campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma  anche dalla norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito  al  giudice ordinario  -  al  quale  è  pur  sempre  vietato  stabilire  se  il  potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato -  accertare  se vi sia stato da parte della stessa Amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia  determinato la violazione di un diritto soggettivo”;  Circ. D.R.E. Entrate Lazio n. 19 giugno 2000, n. 2/2000/37834 per la quale l’art. 96 c.p.c. non è applicabile al processo tributario, pertanto sussiste la necessità di instaurare un altro specifico processo davanti al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno processuale. Circ. Min. Fin. 23 aprile 2996, n. 98/E che nega l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. al processo tributario.

[17] Sentenza n. 253/2006 del 13 aprile 2006 – Sezione giurisdizionale Lombardia - Pensioni – Condanna alle spese di parte ricorrente per lite temeraria – Criteri di quantificazione.

[18] Cfr. CTP Roma 4 aprile 2008 n.52 in base alla quale “l'ingiustificata persistenza nel coltivare  l'incauta  vertenza  giudiziaria pur nella cosciente infondatezza della  pretesa  tributaria,  giudizialmente accertata con sentenza passata in giudicato e la  successiva  iscrizione  di ipoteca giudiziaria su immobile della  contribuente  denotano,  in  capo  al resistente  Ufficio  delle  Entrate,  una  condotta  gravemente   negligente improntata a notevole disinvoltura ed  avventatezza,  si  da  far  ritenere, invero, "temeraria"  la  coltivazione  della  lite,  nonché,  meritevole  di accoglimento la richiesta della difesa della ricorrente,  ex  art.  96  c.p.c.,   ad   una   qualificazione   di   responsabilità    aggravata dell'Amministrazione, al fine di ottenere  la  condanna  della  stessa  alle spese ed al risarcimento dei danni”.

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